sabato 23 febbraio 2008

Considerazioni tecniche (e non solo) sulla sentenza del C.S.M. su Luigi De Magistris


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di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)



Il “caso De Magistris” – suggestiva mistificazione “politica” per nascondere il “caso Calabria”, mai divenuto “caso” essendo il posto di “caso” già occupato da “De Magistris” – da quando è stato fatto nascere (ed è un caso che “parte da lontano” se si pensa che le ispezioni bipartisan del Ministro Castelli prima e Mastella poi e dei loro magistrati ispettori sono durati diversi anni) non si è mai potuto trattare “nel merito”, perché ogni volta che si provava a farlo ci si scontrava contro rifiuti categorici, fondati su sussiegose dichiarazioni di fiducia nelle autorità competenti a trattarlo istituzionalmente, che si nascondevano (le dichiarazioni) dietro il “doveroso rispetto per le istituzioni” e, addirittura, da parte di tanti che non avrebbero potuto dirlo – primi fra tutti i vertici dell’Associazione Nazionale Magistrati – dietro il “non sappiamo, non conosciamo, non abbiamo elementi” e simili (come se i magistrati più impegnati nell’associazionismo giudiziario vivessero fuori dal mondo, non leggessero i giornali, non conoscessero fatti e persone).

Dinanzi alla richiesta reiterata di assunzione di una posizione responsabile sul tema, si è risposto prima “attendiamo l’esito del procedimento” e poi, avuta la sentenza, “attendiamo la motivazione”.

L’argomento era pretestuoso fin dall’inizio, perché il “caso Calabria” non può essere ridotto alle vicende del giudizio disciplinare nei confronti di Luigi De Magistris e prima e a prescindere da quel procedimento disciplinare occorreva e occorrerebbe – se qualcuno ne avesse la voglia e ne sentisse la responsabilità – discutere di cento altre cose tutte sicuramente molto gravi e sicuramente molto molto più rilevanti per l’interesse generale e lo stato della giustizia di ciò che – a torto o a ragione – si ascrive come colpa disciplinare al collega De Magistris.

Comunque sia, il 19 febbraio la Sezione Disciplinare del C.S.M. ha depositato la sentenza nei confronti di Luigi De Magistris (che può essere letta integralmente seguendo le istruzioni a questo link), assolvendolo per alcuni addebiti e condannandolo per altri.

Dunque, ora dovrebbero essere venuti meno anche i pretesti fondati sul “non sappiamo, dobbiamo attendere la sentenza, dobbiamo attendere la motivazione”.

Ora abbiamo atteso e sappiamo.

Ora, finalmente, anche l’A.N.M., le sue correnti, i colleghi “benpensanti”, i “prudenti”, i “disinformati”, tutti insomma dovranno confrontarsi con i fatti e fra questi ora anche con la motivazione della sentenza del C.S.M..

E’ ovvio che al C.S.M. è dovuto pieno e incondizionato rispetto, che è doveroso, trattandosi di un importantissimo organo di rilievo costituzionale, e da parte mia sentito. E’ altrettanto ovvio che, in democrazia, deve essere possibile anche criticare le concrete iniziative di questo organo e dei suoi componenti, per concorrere con la critica democratica alle ricadute della sua attività sulla magistratura e sul Paese.

Evidenti sono le ragioni per le quali il “caso De Magistris” trascende la vicenda personale (pur estremamente grave) del nostro collega ed è di estrema importanza generale nel frangente in cui versa oggi l’amministrazione della giustizia, apparendo come una ineludibile cartina di tornasole della gravissima crisi che l’indipendenza dei magistrati (concetto diverso dalla indipendenza “della magistratura”: indispensabile prerogativa strumentale alla imparzialità della giurisdizione la prima, privilegio corporativo, così come intesa oggi, la seconda) patisce ad opera di nemici “esterni” e, purtroppo, anche “interni” (questi ultimi molto più pericolosi e preoccupanti per ovvie ragioni).

Nel commentare questi fatti e la sentenza, non si potrà prescindere dalla circostanza che lo schema logico scelto dai vertici dell’autogoverno (istituzionale e associativo, pericolosamente frammisti) della magistratura è stato quello del richiamo al dovere di tutti di rispettare “senza se e senza ma” la legge e le regole.

Sicché, si tratta di verificare se questo rigore incondizionato sia sincero oppure costituisca un alibi pretestuoso.

Il senso del ragionamento è stato: «Non importa se Luigi De Magistris sia o no una brava persona e un bravo servitore dello Stato. Se ha violato qualche regola, qualunque regola, è un “cattivo magistrato” e “deve essere colpito».

Le espressioni “cattivo magistrato” e “dev’essere colpito” riferite a Luigi De Magistris sono state pronunciate, insieme ad altre non meno inaccettabili, dinanzi a molti giornalisti e a nome dell’intera Prima Commissione del C.S.M., dal suo vicepresidente Letizia Vacca, che, facendo ciò, ha violato e gravemente suoi specifici doveri giuridici e deontologici (per la serie: le violazioni delle regole sono tutte gravi e inaccettabili tranne quelle commesse da chi, dovendo essere di esempio, ne pretende il rispetto dagli altri ma non da sé stesso), senza che nessuna articolazione del C.S.M. né alcuno dei suoi consiglieri esprimesse una qualche forma di biasimo per tale comportamento, che certamente non giova all’immagine dell’Istituzione.

E sempre per dare il buon esempio, il vicepresidente del C.S.M. Nicola Mancino, violando altri suoi specifici obblighi giuridici di riserbo (forse “difesi” anche dai precetti di cui all’art. 326 del codice penale, a seconda che si ritenga o no coperta da dovere di segreto d’ufficio la camera di consiglio della Sezione Disciplinare del C.S.M.), non appena pronunciata da lui stesso la sentenza in questione, ci ha tenuto a dire ai giornalisti (per la serie: i magistrati non devono rilasciare dichiarazioni inopportune alla stampa, ma i componenti della Sezione Disciplinare del C.S.M. fanno eccezione) che essa è stata adottata all’unanimità.

Comunque sia, adesso si sa che la sentenza in questione esprime l’opinione unanime dei componenti della Sezione Disciplinare ed è anche questa una ulteriore circostanza che la rende particolarmente significativa.

La sentenza tratta diversi fatti e, per esigenze di brevità e di agevole comprensione anche da parte di lettori non dotati di specifiche competenze giuridiche, mi limiterò in questa occasione a trattare uno dei capi della sentenza – quello relativo alla incolpazione indicata con la lettera “E” – perché questa parte della sentenza mi appare talmente infondata – fino alla palese illogicità – da essere davvero emblematica e da porre preoccupanti interrogativi sulle scelte compiute dal C.S.M. in questa dolorosa vicenda.

Prima di esaminare il capo in questione della sentenza, è opportuno sottolineare che essa conclude un processo dalle caratteristiche peculiari.

Esso nasce “annunciato” da più di tre anni di ispezioni, disposte da due Ministri della Giustizia. Ispezioni che, in definitiva e nonostante ciò che tanti hanno detto in danno dell'onorabilità di Luigi De Magistris,
non hanno dato alcun “frutto”, se si considera che gli addebiti poi concretamente mossi al collega sono tali che potevano essere formulati anche senza nessuna ispezione.

Fermo restando, ovviamente, che più di tre anni di ispezioni (la cui logica è stata descritta in televisione, dinanzi a spettatori stupefatti, dall’allora Sottosegretario e oggi Ministro della Giustizia Luigi Scotti nel corso della trasmissione Annozero del 4 ottobre 2007. L'intera trasmissione può essere rivista a questo link), degli effetti gravi certamente li hanno raggiunti: l’acquisizione da parte di uffici governativi di dettagliate notizie su indagini giudiziarie in corso anche nei confronti di persone vicine agli uffici governativi medesimi e un – foss’anche non voluto – monito intimidatorio su magistrati inquirenti che in futuro potessero ipotizzare di farsi emuli dello zelo di Luigi De Magistris.

A fronte degli anni di “preparazione” del processo, esso è stato poi celebrato con velocità sorprendente. Sorprendente in relazione ai tempi con i quali si procede – o addirittura neppure si procede – con riferimento alle posizioni di numerosi altri magistrati “coinvolti” nella inchieste del collega De Magistris, alcuni dei quali addirittura indagati penalmente per ipotesi di reato gravissime. E sorprendente anche in relazione alle circostanze intrinseche al procedimento: il C.S.M., per esempio, ha ritenuto di NON attendere l’esito delle indagini penali in corso a Salerno, che tanta rilevanza avrebbe potuto avere sulla ricostruzione dei fatti controversi, e il Sostituto Procuratore Generale Vito D’Ambrosio (Presidente della Regione Marche per dieci anni, dal 1995 al 2005: forse non era opportuno, anche solo per ragioni di immagine, che fosse proprio lui a rappresentare l'accusa in questo processo che riguarda anche i rapporti fra giustizia e politica) si è addirittura opposto (avendo torto dal C.S.M., che ha rigettato la sua opposizione) alla acquisizione dei verbali di audizione dei magistrati di Salerno dinanzi alla Prima Commissione dello stesso C.S.M..

Il non avere atteso l’esito delle inchieste di Salerno ha, poi, dato luogo a una peculiare situazione per la quale una parte degli atti del procedimento a carico di Luigi De Magistris sono – con controversa interpretazione del diritto sul punto – segreti.

Venendo all’esame tecnico del capo della sentenza di cui ho detto, esso riguarda l’incolpazione formulata nei seguenti termini testuali (l’intero atto di incolpazione può essere letto a questo link):

«E) della violazione degli artt. 1 e 2, 1° comma, lett. g) del D.Lgs. 109/2006, perché nell’ambito del procedimento penale n. 2350/03 R.G.N.R., con inescusabile negligenza, dopo l’emissione (in data 23 giugno 2006) ed esecuzione (in data 12 luglio 2006) nei confronti di 26 indagati di un provvedimento di fermo, ometteva di richiederne la convalida al G.I.P. di Catanzaro ai sensi dell’art. 390 c.p.p., determinando la conseguente dichiarazione di inefficacia da parte del G.I.P. in data 14.7.2006».

La difesa di Luigi De Magistris sul punto è stata la seguente (l’intera memoria difensiva può essere letta a questo link):

«In ordine alla contestazione di cui al capo E) evidenzio:
Infondatezza dell’addebito. Nell’ambito del procedimento penale nr. 2350/2003 R.G.N.R. avevo depositato nel 2005 una richiesta di misura cautelare nei confronti di decine di indagati per reati molto gravi (in particolare associazione per delinquere, traffico di droga, riciclaggio di autovetture, ed altro). Il Gip al luglio del 2006 non aveva in alcun modo evaso la richiesta ed anzi per un certo periodo il fascicolo non ha avuto nemmeno un giudice titolare del procedimento; sul punto vi è stato anche un carteggio tra la Procura ed il Tribunale, tenuto conto della gravità dei fatti contestati e della pericolosità sociale dei soggetti indagati. Addirittura risulta, da quanto segnalatomi dalla polizia giudiziaria, che ad un certo punto presso quell’Ufficio non trovavano nemmeno più i numerosi faldoni costituenti il procedimento penale»
.

Questa chiamiamola inerzia dell’ufficio G.I.P. di Catanzaro non è stata finora oggetto di alcuna iniziativa disciplinare simile a quella nei confronti di Luigi De Magistris (evidentemente il “rigore” non si esige sempre e da tutti).

«Ricordo – prosegue la difesa di De Magistris – che dopo molti mesi dal deposito della richiesta di misura cautelare, nel giugno del 2006, la polizia giudiziaria mi prospettò forte preoccupazione con riferimento alla mancata pronuncia del giudice per le indagini preliminari, tenuto conto che persone pericolose rimanevano in libertà e continuavano a reiterare condotte criminose gravi. La Squadra Mobile della Questura di Catanzaro mi depositò un’informativa suppletiva, nel maggio del 2006, in cui si evidenziava l’attualità della pericolosità di soggetti per i quali vi era stata richiesta custodiale, il pericolo di reiterazione delle condotte criminose ed anche il pericolo di fuga: mi prospettarono, ad esempio, che addirittura una delle persone per le quali avevo richiesto la custodia cautelare in carcere si era, nelle more della decisione del giudice, reso autore di un gravissimo tentato omicidio. Decisi, quindi, unitamente alla polizia giudiziaria, di procedere al fermo. Il provvedimento fu eseguito in tutto il territorio nazionale e riguardava circa 80 persone. Nel circondario di Catanzaro furono eseguiti oltre 20 provvedimenti restrittivi. Nel rispetto delle 48 ore previste per la richiesta di convalida del provvedimento chiesi al GIP di emettere la misura cautelare. Per mero errore materiale, probabilmente per l’immane lavoro che pende presso il mio Ufficio, non certo per superficialità, ho dimenticato di indicare la dicitura “richiede la convalida” indicando solo che si chiedeva la misura cautelare (ma dal corpo della motivazione era evidente la natura dell’atto emesso). Che si tratti di errore meramente materiale è evidente, come l’Ufficio prospettò in una nota inviata al GIP alle ore 11.30 del 14.7.2006. Del resto non poteva che essere una richiesta di convalida del fermo del PM, in quanto la richiesta di misura cautelare già giaceva da tempo al Gip ed entro le 48 ore il PM – la stessa persona fisica, tra l’altro, che ha emesso il fermo – non poteva che con quell’atto chiedere la convalida. La logica e il buon senso, prima ancora che il diritto lo dimostrano. Che senso aveva non chiedere la convalida nelle 48 ore ma solo la misura che già era stata richiesta? Il Gip ritenne di far caducare il provvedimento, in quanto la Procura non aveva chiesto, tempestivamente, la convalida. Fu emesso dalla Procura della Repubblica – con provvedimento ovviamente anche a firma del Procuratore della Repubblica – un nuovo provvedimento di fermo per evitare che, a causa di un “cavillo”, potessero acquistare la libertà persone indagate per fatti gravi. Fu, quindi, richiesta, la convalida e l’applicazione della misura cautelare ed il GIP del Tribunale di Catanzaro, nel merito, non accolse la richiesta di applicazione della misura, se non per pochi indagati. E’ da dire, a questo punto, che numerosi altri GIP che si erano pronunciati su tutto il territorio nazionale con riferimento a circa altri 50 indagati avevano, nella quasi totalità, emesso misura custodiale evidenziando gravità indiziaria ed esigenze cautelari. Ho fatto, quindi, appello al Tribunale del Riesame che ha accolto, quasi integralmente, le mie richieste, con motivazioni dalle quali si evince come fossero assolutamente non condivisibili, nonché illogici, i provvedimenti del GIP di Catanzaro».

E va ribadito che né la Procura generale né il C.S.M. hanno ritenuto di prendere in esame la condotta del G.I.P..

La sentenza – che può essere letta integralmente a questo link – tratta la questione alle pagg. 25-27, nei seguenti termini testuali:

«con riferimento al capo E):

- che il 23.6.06 il dott. De Magistris nel proc. n. 2350/03 ha disposto, unitamente al procuratore Lombardi, il fermo di 80 persone, depositando poi il 13.7.06 al G.I.P. del tribunale di Catanzaro richiesta di emissione di ordinanza di custodia cautelare in carcere per 26 dei fermati nel relativo territorio di competenza (cfr. doc.ti sub allegato 3 bis fascicolo faldone generale proc. n. 10/07 R.O.);
- che il 14.7.06 detto G.I.P ha rilevato che la richiesta di misura cautelare non conteneva alcuna determinazione circa il fermo citato (provvedimento di liberazione o richiesta di convalida) il quale perciò, essendo decorso il termine di 48 ore, doveva ritenersi inefficace secondo il disposto dell’artt.390 c.p.p. (cfr. doc. sub allegato 3 bis fascicolo faldone generale proc. n. 10/07 R.O.);
- che il dott. De Magistris lo stesso giorno ha risposto che la richiesta di misura cautelare conteneva implicitamente quella di convalida non indicata per mero errore materiale (cfr. doc. sub allegato 3 bis fascicolo faldone generale proc. n. 10/07 R.O.);
- che sempre il 14.7.06 il G.I.P. ha dichiarato l’inefficacia del provvedimento di fermo e ordinato la liberazione degli interessati rilevando che nella richiesta di misura cautelare non vi era alcun riferimento, neanche implicito, a determinazioni circa il fermo;
- che convalida del fermo e misura cautelare erano distinti ed autonomi nonché con finalità diverse, onde non poteva parlarsi di errore materiale, configurabile solo per gli errori e le omissioni non comportanti una modificazione essenziale dell’atto;
- che il deposito del provvedimento del fermo non comportava necessariamente la richiesta della sua convalida potendo il P.M. anche disporre l’immediata liberazione del fermato ed omettere la richiesta di convalida (cfr. doc. sub allegato 3 bis fascicolo faldone generale proc. n. 10/07 R.O.);
- che in sede dibattimentale il procuratore Lombardi ha dichiarato che il dott. De Magistris gli disse che per un errore non era stata inserita la richiesta espressa di convalida del fermo, che bisognava cercare di rimediare e che si poteva proporre al G.I.P. una istanza con la quale si faceva presente che, richiedendo l’emissione di misura cautelare, si intendeva chiedere anche la convalida (a tal proposito il dott. Lombardi nel prosieguo dice: “ne parlammo sicuramente, d’altra parte non c ‘era altra scappatoia che suggerire questa suggestiva interpretazione”)
[Lombardi la definisce “suggestiva”, ma, come si dirà appresso, non lo è per niente ed è solo “giuridica e conforme alle costanti statuizioni della Corte Suprema”];
- che a riguardo nella memoria difensiva l’incolpato, dove aver evidenziato le ragioni a sostegno della necessità ed urgenza del fermo (pendenza da molto tempo di una richiesta di misura cautelare nei confronti di persone di particolare pericolosità - allarmante informativa suppletiva della polizia del maggio 2006), ha rappresentato che per mero errore materiale, probabilmente per l’immane lavoro che pendeva presso il suo ufficio e non certo per superficialità, aveva dimenticato di indicare la dicitura “richiede la convalida” ma che comunque dal corpo della motivazione era evidente la natura dell’atto emesso anche perché la richiesta di misura cautelare giaceva già da tempo presso l’ufficio del G.I.P.;
- che ai sensi dell’art. 2 lett. g) del decreto legislativo n.109 del 2006 costituisce illecito disciplinare la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
- che la qualificazione “grave” va posta in relazione sia all’importanza della norma violata sia al carattere evidente, indiscutibile dell’errore, come tale necessariamente conseguenza di una “negligenza inescusabile”;
- che l’art.390 c.p.p. dispone che entro quarantotto ore dal fermo il pubblico ministero, se non deve ordinare l’immediata liberazione dell’arrestato, ne richiede la convalida al G.I.P.;
- che la disposizione ha evidente rilievo assoluto (sostanziale e formale) in quanto finalizzata a sottoporre al vaglio del giudice, entro tassativi limiti temporali, le ragioni per le quali il cittadino è stato privato della libertà personale;
- che lo stesso interessato ha ammesso l’errore, sia pure imputandolo al carico di lavoro;
- che dalle dichiarazioni del dott. Lombardi, credibile in quanto anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale, risulta la consapevolezza, da parte del dott. De Magistris, della rilevanza dello sbaglio, al quale lo stesso prova a porre rimedio con una nota che il procuratore in dibattimento definisce “scappatoia” e “suggestiva interpretazione”
[come si spiegherà appresso, queste e non quelle siano espressioni suggestive e pretestuose] alla quale il G.I.P.:”non ci ha creduto”;
- che nella vigenza dell’abrogato art. 18 del R.D.L.vo 31.5.1946 n. 511 questo giudice ha avuto modo di affermare che l’omessa richiesta della convalida del fermo non configura illecito disciplinare ove addebitabile a disfunzione della segreteria e non al comportamento del magistrato (cfr. sentenza del 6.6.03 n.85/02 R.G.);
- che dunque nel caso di specie l’incolpato ha posto in essere una palese, quindi inescusabile, violazione di legge da ritenersi grave in primis per il rilievo della norma non rispettata;
- che d’altra parte, anche a tener conto del carico di lavoro gravante sul magistrato e della sua laboriosità, va rilevato che proprio secondo l’assunto difensivo l’atto era ormai da ritenersi necessario ed urgente per la pericolosità degli interessati, onde la considerazione che si sarebbe dovuta porre attenzione assoluta anche per evitare qualsivoglia disguido;
- che pertanto anche per questa ragione la violazione deve ritenersi grave e la condotta negligente non scusabile;
- che di conseguenza il dott. De Magistris va ritenuto responsabile dell’incolpazione ascrittagli»
.

Pur con il dovuto rispetto all’autorevole ufficio che l’ha adottata all’unanimità, sia consentito osservare che, sotto il profilo tecnico, la motivazione appare palesemente infondata e in alcuni passaggi addirittura illogica, per le seguenti ragioni.

Lo schema logico del fermo è che il P.M. lo dispone e poi entro 48 ore dalla esecuzione può scegliere fra:

A) scarcerare i fermati (perché, per esempio, dopo l’esecuzione del fermo sono sopravvenuti elementi che lo fanno apparire non più legittimo o rendono non legittima e/o non necessaria la custodia cautelare), chiedendo o no al G.I.P. la convalida del fermo;

B) chiedere al G.I.P. la convalida del fermo e l’adozione di una misura cautelare.

Nel caso di specie, De Magistris ha scelto la seconda opzione e ha chiesto al G.I.P. l’adozione di misure cautelari. Misure cautelari richieste invano, peraltro, già da molti mesi, senza avere la fortuna di ottenere alcun provvedimento dal G.I.P. (né di accoglimento né di rigetto della sua istanza).

In questa richiesta non ha scritto le parole “chiedo la convalida del fermo”.

La mancanza di questa richiesta “letterale” è però del tutto irrilevante perché era CON TUTTA EVIDENZA implicita nella richiesta di misura cautelare.

E, infatti, altri G.I.P. di altre città, destinatari della stessa richiesta di misure cautelari (perché competente per la convalida del fermo è il G.I.P. del luogo nel quale il fermo è stato eseguito), hanno convalidato i fermi e adottato le misure cautelari.

La sentenza del C.S.M., sul punto è sorprendentemente contraddittoria.

C’è scritto, infatti, testualmente che «il deposito del provvedimento del fermo non comportava necessariamente la richiesta della sua convalida potendo il P.M. anche disporre l’immediata liberazione del fermato ed omettere la richiesta di convalida».

In teoria si. Peccato, però, che nel caso concreto questo era escluso dal fatto che De Magistris chiedeva l’adozione di misure cautelari. Dunque, era documentalmente escluso che intendesse liberare i fermati.

In sostanza, la richiesta di adozione di misure cautelari era incompatibile con l’ipotesi di una volontà del P.M. di scarcerare i fermati.

E va detto – per i non esperti di diritto, perché i consiglieri del C.S.M. e tutti gli altri giuristi lo sanno benissimo – che è principio di diritto pacifico quello per il quale «l’interpretazione della domanda [da parte del giudice al quale è rivolta] deve essere diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria» (così le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, con la sentenza 13 febbraio 2007, n. 3041, e decine e decine di altre sentenze TUTTE di identico tenore, fra le quali, a titolo solamente esemplificativo, cito Cass. Sez. Lav., 4 agosto 2006, n. 17760; Cass. Sez. III Civ., 6 aprile 2006, n. 8107; Cass. Sez. III Civ. , 14 marzo 2006, n. 5442; Cass. Sez. III Civ., 20 ottobre 2005, n. 20322, e Cass. Sez. III Civ., 28 luglio 2005, n. 15802, per la quale «nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda il giudice di merito, da un lato, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, dall’altro, ha il potere-DOVERE di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte e dalle precisazioni dalla medesima fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata»).

Dunque, il solo fatto che, nella richiesta di Luigi De Magistris non ci fossero le parole testuali “convalida dei fermi” non era decisivo, essendo DEL TUTTO OVVIO che egli intendeva ottenere anche quella (oltre alle misure cautelari) e, sotto il profilo tecnico, secondo la mia modesta opinione e ai soli fini che qui rilevano, se “errore” c'è stato l’ha commesso il G.I.P. e non il P.M..

E non si può omettere di considerare che l’ufficio che si pronunciava sulla richiesta del collega De Magistris era lo stesso che aveva omesso di esaminarne una identica nei lunghi mesi precedenti, con tutto ciò che – anche involontariamente – consegue sotto il profilo psicologico nel giudice che, giudicando quella istanza, sapeva di trovarsela davanti in conseguenza del mancato esame di altra identica non fatto da parte sua nei mesi precedenti.

Ma la sentenza del C.S.M. appare sorprendente e tecnicamente errata anche per altre ragioni.

Come spiegano gli stessi giudici, infatti, perché si possa ritenere sussistente un illecito disciplinare, occorre, ai sensi dell’art. 2 lett. g) del D.L.vo 109/2006 che ci sia stata da parte del magistrato «la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile».

E in questo caso ciò non c’è per due evidenti ordini di considerazioni.

Sotto un primo profilo, una volta richieste al G.I.P. le misure cautelari (cosa che De Magistris ha fatto, depositando anche il provvedimento di fermo) due soli esiti erano possibili:

- che il G.I.P. accogliesse la richiesta di misure cautelari

- che il G.I.P. la rigettasse.

Se l’avesse accolta, i fermati sarebbero rimasti in carcere anche se il fermo non fosse stato convalidato.

Se l’avesse rigettata, i fermati sarebbero stati scarcerati anche se il fermo fosse stato convalidato.

Dunque, anche se si volesse ritenere la mancanza delle parole testuali “chiedo la convalida dei fermi” come omessa richiesta della convalida, tale omissione non poteva in alcun modo essere considerata “grave”, perché DEL TUTTO PRIVA DI EFFETTI sullo stato di detenzione dei fermati.

E ciò senza dire che, in realtà, non è vero che le opzioni possibili per il P.M. in caso di fermo siano solo quelle che ho indicato sopra come A) e B). Ce n’è, infatti, una terza. Il P.M. può NON chiedere la convalida del fermo (perché, per esempio, si è convinto ex post della sua non convalidabilità per una delle possibili ragioni tecniche di ciò) anche quando chiede l’adozione delle misure cautelari.

Il che dovrebbe ritenersi quello che ha fatto Luigi De Magistris se si potesse condividere l’interpretazione data alla sua richiesta dal G.I.P..

E che il P.M. possa non chiedere la convalida dei fermi (impregiudicate le conseguenze - in altra sede e ad altri fini - di un fermo eventualmente illegittimo) lo afferma paradossalmente proprio lo stesso C.S.M., che scrive: «il deposito del provvedimento del fermo non comportava necessariamente la richiesta della sua convalida potendo il P.M. anche disporre l’immediata liberazione del fermato ed OMETTERE LA RICHIESTA DI CONVALIDA».

Omissione che il P.M. poteva decidere anche nel caso non intendesse liberare i fermati, ma chiedere per loro - come avvenuto - misure di custodia (ciò il P.M. fa quando per qualche ragione ritenga il fermo non convalidabile, impregiudicate, lo si ripete, le conseguenze in altra sede di un fermo eventualmente illegittimo).

Ma allora bisogna chiedersi: se la richiesta di convalida poteva legittimamente essere omessa e se la cosa non ha inciso né poteva incidere in alcun modo sulla situazione di custodia o libertà dei fermati, perchè quella omissione sarebbe colpevole? E perchè addirittura “gravemente” colpevole?

E purtroppo non sembra esserci una risposta giuridicamente accettabile a questa domanda.

Dovendosi per di più aggiungere che questa situazione di mancata richiesta di convalida del fermo con richiesta, però, di adozione di misure cautelari non è per niente rara nella pratica dei Tribunali.

Per la cronaca, come si evince dalla memoria difensiva di Luigi De Magistris riportata sopra, il G.I.P. nel caso di specie ha rigettato la richiesta di misure cautelari. Luigi ha fatto ricorso al Tribunale della Libertà che ha accolto quasi per intero le sue richieste (con ciò smentendo il G.I.P.!).

Ma c’è ancora dell’altro.

Probabilmente perché resisi conto della criticità del passaggio sulla “gravità” dell’addebito (per me, per le ragioni fin qui esposte, palesemente insussistente) mosso al collega De Magistris, i consiglieri del C.S.M. sono ricorsi a quello che appare con evidenza un inaccettabile paralogismo.

Per tentare di dare una motivazione all’elemento della “gravità” della colpa, scrivono, infatti, a pag. 27 della sentenza che «la qualificazione “grave” va posta in relazione sia all’importanza della norma violata sia al carattere evidente, indiscutibile, dell’errore, come tale necessariamente conseguenza di una “negligenza inescusabile”».

In sostanza, secondo la Sezione Disciplinare del C.S.M. sarebbe “grave” qualunque errore “evidente, indiscutibile” e/o qualunque errore relativo a una “norma importante”.

Se così fosse, se io intestando una mia sentenza anziché scrivere “il giudice Felice Lima” scrivessi per distrazione “il giudice Francesco Lima”, essendo l’errore “evidente e indiscutibile” esso sarebbe “necessariamente conseguenza di una negligenza inescusabile” e sarebbe per ciò stesso “grave”. “Importanti” essendo, peraltro, certamente le norme relative alla individuazione del giudice che adotta un provvedimento.

Dunque, secondo il C.S.M., un errore irrilevante, ma evidente sarebbe per ciò solo “grave”!

Il tutto contro ogni evidenza, sia di diritto sia ancor prima di lessico: “evidente” significa una cosa, “grave” tutt’altra. “Evidentemente” il C.S.M. non ha applicato la legge che parla di errore “grave” e non di errore “evidente”. E per farlo è ricorso a una circonlocuzione paralogica.

Certo, se è consentito alleggerire la trattazione del tema con una riflessione che può anche far sorridere, bisogna chiedersi come potrebbe essere giudicata la motivazione della sentenza del C.S.M. fin qui esaminata, se si utilizzassero i criteri recentemente applicati dalla Procura Generale in materia di sindacabilità nel merito dei provvedimenti giurisdizionali e l’ampia accezione del concetto di “provvedimento abnorme”, a cui si è fatto ricorso, per esempio, nel “caso Forleo”.

Infine, nella motivazione della sentenza, per cercare di dare una qualche consistenza a una motivazione che, sul punto, non solo non ne ha ma tradisce l’uso di argomenti pretestuosi, si dice che il Procuratore Lombardi ha detto che De Magistris avrebbe riconosciuto espressamente l’errore e, per dare consistenza a questo in realtà inconducente assunto, si dice che Lombardi è «credibile, in quanto anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale» (pag. 27).

In sostanza, poiché il provvedimento di De Magistris non appariva errato, si è ricorso a un “argomento” consistente nel rilevare che anche Lombardi ha detto che era errato.

Poi, per sostenere la “credibilità” del Lombardi – certamente molto discutibile sul punto, in relazione al suo coinvolgimento nella vicenda –, si dice che egli sarebbe credibile perché «anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale».

Ma, per un verso, se una cosa non è sbagliata, non lo diventa perché qualcuno dice che lo è e, per altro verso, se Lombardi è «anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale» (nel riportare sopra il brano della sentenza, ho evidenziato in neretto le parti in cui si sottolinea questa circostanza), allora è – INDISCUTIBILMENTE – anch’egli responsabile, al pari di De Magistris della forma e del contenuto di quegli atti.

Ma com’è, allora, che la Procura Generale ha mosso l’addebito a De Magistris e non anche a Lombardi?

Misteri del rigore “senza se e senza ma”!

Questa sentenza e l’intera vicenda meritano, anzi, impongono numerose riflessioni.

In questa sede io mi limito a quelle tecniche che ho esposto fin qui.

Aggiungo solo che abbiamo una Calabria che versa nella difficile situazione nota a tutti; l'amministrazione della giustizia che si connota in quella regione in maniera del tutto peculiare (magistrati arrestati per gravi delitti, altri coinvolti a vario titolo in inchieste inquietanti, ecc.); un giorno arriva un baldo giovane da Napoli e si mette d'impegno a fare il suo dovere e cosa accade?

Che nessuna istituzione di quelle teoricamente deputate al perseguimento della giustizia lo aiuta, ma ognuna per parte sua ostacola di fatto le sue indagini. Il Ministro della Giustizia ispeziona, il Procuratore Capo toglie l'inchiesta, i colleghi isolano, il Procuratore Generale f.f. avoca, eccetera.

E la Procura Generale della Cassazione (custode della disciplina dei magistrati) e il C.S.M. (custode della loro indipendenza) che fanno?

Perseguono immediatamente ed esemplarmente il baldo giovane, prendendosi anche la libertà di insultarlo a parolacce (“cattivo magistrato” da “colpire”).

A chi chiede conto di questa scelta di perseguire proprio lui e solo lui, la risposta è: la legge è legge e lui l'ha violata.

Alla domanda “chi dice questo?”, la risposta è (Mancino) “lo diciamo tutti all'unanimità”.

Alla domanda “perchè dite questo?”, la risposta è ... questa sentenza!

E l'A.N.M. (sedicente custode dei sacri valori della giurisdizione) che fa? In parte (Roma) tace opportunisticamente, in parte (Catanzaro) dà addosso al baldo giovane.

Certo si fa fatica a capire come si pretenda di coprire tutto questo parlando di “credibilità” delle istituzioni e della magistratura.

Auspico accoratamente che tutti i magistrati e, fra loro, in particolare quelli impegnati nell’associazionismo giudiziario e i Consiglieri del C.S.M. vogliano riflettere su quanto accaduto, perché il “caso De Magistris” ha segnato davvero e segnerà ancora uno snodo molto rilevante nella storia contemporanea della amministrazione della giustizia, del rapporto fra la giustizia e la politica, del rapporto fra la giustizia e il Popolo Italiano, del rapporto fra il C.S.M. e il Governo, del rapporto fra il C.S.M. e la stampa e di tanto altro.

9 commenti:

La Redazione ha detto...

Condivido le osservazioni del Collega Lima ed aggiungo che, a voler seguire l'impostazione rigoristica della Sezione Disciplinare del CSM, anche la Corte di Cassazione sarà a breve assoggettata a procedimento disciplinare, ogni qual volta dia ingresso all'impugnazione straordinaria prevista dall'art. 625 bis cpp che presuppone una semplice "svista" nella quale sia incorso il Supremo Collegio.
Nicola Saracino

Anonimo ha detto...

Gentile dottore Lima,
perdoni, nel “caso De Magistris” le riflessioni più profonde devono essere fatte dai calabresi. La gravità sta nel fatto che questo è il "caso Calabria". Il dottor de Magistris è soltanto un galantuomo capitato ad operare in un contesto dove l'unico "movimento culturale" conosciuto è quello del "servilismo".
bartolo iamonte

Anonimo ha detto...

Devo ringraziare il dott.Lima per aver consolidato il mio convincimento
sulla correttezza dell'operato del dott. De Magistris.
Non essendo io operatore di diritto, ma appassionato della materia ,sono arrivato per via empirica e col buon senso comune alle Sue stesse considerazioni anche se le ho volgarmente e figurativamente sintetizzate nelle esilaranti elucubrazioni delle traduzione di post- it di D'Ambrosio. Ascoltandolo si notava
l' evidente deficit di serie argomentazioni da rappresentare.
Marcatamente motivato da pretestuosi pregiudizi nei confronti di un magistrato da colpire nella sua autentica sensibilità di missionario:

De Magistris doveva essere stoppato ,a prescindere.Come da esternazioni
di Vacca e Mancino: sfidando anche
la logica delle cose.
A parte le circonlocuzioni paralogiche utilizzate da qualche rappresentante dell'organo
di autogoverno, mi viene spontaneo chiedere, dopo quanto detto:
A chi giova il rallentamento di una
indagine tanto importante, sottraendola al giudice naturale?
Perchè non si è dato priorità alle esigenze di perseguire chi ha commesso e favorito reati di quella portata?
E' possibile preconizzare il possibile rinvio delle azioni disciplinari alla conclusioni delle indagini? Dato che le motivazioni sono da post-it?
Andiamo oltre qualsiasi posizione di accettazione delle motivazioni alle incolpazioni di De Magistris
per non istituzionalizzarle.
Impegnamoci a smontarle in ogni circostanza fino a che non ci convinceranno pienamente in punto di fatto e di diritto.
Non molliamo di fronte alle circonlocuzioni paralogiche che io sarei portato a definire diversamente, ma vado oltre.
Zeit Recht

"Uguale per tutti" ha detto...

Per Catone il Censore.

Gentile Lettore,

potremmo chiederLe di inviarci al nostro indirizzo di posta elettronica una mail con un indirizzo, anche anonimo, al quale potremmo scriverLe una mail privata?

Un caro saluto.

La Redazione

Anonimo ha detto...

Mi riprometto di seguire il dott. Lima soffermandomi anch'io sulla sentenza del CSM ( controllerò prima le norme del codice penale e quelle deontologiche).
Vorrei aggiungere alcune considerazioni a quelle già, molto più compiutamente, svolte dal dott. Lima.
A tutto l'ordinamento presiede una norma che è quello della logica interpretazione delle norme di legge in modo cioè che alcune non appaioano superflue . Sulla base di tale principio cardine dell'ordinamento vorrei provare a fare il seguente ragionamento: l'art. 390 cpp và letto unitamente all'art. 122 disp. attuazione al codice di procedura penale il quale elenca gli atti che il PM deve accludere alla richiesta di convalida; è, invero, prescritto che " 121 Liberazione dell`arrestato o del fermato
1. Oltre che nei casi previsti dall`art. 389 del Codice, il pubblico ministero dispone con decreto motivato che l`arrestato o il fermato sia posto immediatamente in libertà (131 bis, 154 bis) quando ritiene di non dovere richiedere l`applicazione di misure coercitive.
2. Nel caso di liberazione prevista dal comma 1, il giudice, nel fissare l`udienza di convalida (391 c.p.p.), ne dà avviso, senza ritardo, anche alla persona liberata.
122 Trasmissione della richiesta di convalida
1. Con la richiesta di convalida prevista dall`art. 390 del Codice, il pubblico ministero trasmette al giudice il verbale di arresto o di fermo e copia della documentazione attestante che l`arrestato o il fermato è stato tempestivamente condotto nel luogo di custodia; trasmette altresì il decreto di fermo emesso a norma dell`art. 384 comma 1 del Codice. Dalla semplice lettura di tali norme si inferisce che in caso di trasmissione, nei termini di legge, al GIP della predetta documentazione il PM voglia chiedere la convalida; opinare diversamente significherebbe svuotare di significato le prescrizioni dell'art. 122 potendo il giudice allegare i predetti documenti sia in caso di richiesta di convalida di fermo sia nel caso opposto. Di contro nel caso opposto, rimessione in libertà, il PM ha l'obbligo di farlo con decreto motivato per come prescrive l'art. 121 disposizioni attuazione. Posta questa antinomia si conclude che "la liberazione dell'arrestato o del fermato, disposta dalla polizia giudiziaria o dal PM blocca il procedimento di convalida (Cfr. Nappi, Guida al nuovo codice di procedura penale). E ciò è logico sol se si considerino i poteri del GIP in sede di convalida, questi, infatti, come chiarito dalle Sezioni Unite, compie due distinte valutazioni una afferente alla misura cautelare e l'altra al provvedimento di convalida del fermo (Cass. S.U. 17.7.1999, Salzano). Visto che si sta cercando un commento tenico e non giornalistico o metagiuridico appaiono evidenti le seguenti obiezioni ( che nulla vogliono affermare sull'operato di terzi ma solo ripercorrere l'iter logico valutativo della sentenza in raffronto alle norme): io non conosco il fascicolo ma posta dalla legge la dicotomia decreto motivato di scarcerazione o richiesta di convalida di fermo corredata da una serie di documenti , oltre come nella specie richiesta di misura cautelare, ha un senso affermare che la trasmissione al GIP - quindi la richiesta di fissazione dell'udienza di cui all'art. 391 cpp - del fascicolo e degli atti indicati dall'art. 122 disp.att.c.p.p. non fossero richiesta di convalida poichè mancava la frase di rito? ha un senso affermare che per effetto della mancata richiesta di convalida del fermo il GIP ha ordinato la scarcerazione degli indagati quando la Suprema Coret S.U. hanno chiarito che le valutazioni del GIP sulla convalida e sulla misura cautelare sono due cose distinte dovendo il GIP nel primo caso valutare la sussistenza degli elementi legittimanti il fermo mentre, nel secondo, valutare i requisiti di cui agli artt. 272 e ss. cppp? può considerarsi grave e inescusabile la mancata indicazione della frase di rito quando - se sono state osservate le disposizioni di cui all'art. 122 disp. att. c.p.p. - non poteva che trattarsi di richiesta di convalida di fermo?
Credo che le Sezioni Unite della Cassazione avranno un gran da fare sul punto

Anonimo ha detto...

Sono riusciti faticosamente a partorire una sentenza deforme.
Ora si dovrà dare la corretta soluzione di diritto che dovrà condurre ad una decisione diversa da quella adottata.
Mentre, quei giudici, là in Calabria a cui De Magistris aveva tolto la serenità potranno tornare serenamente ad osservare la Calabria che muore.
che tristezza Alessandra

Besugo ha detto...

Il caso Luigi De Magistri è un evento mitologico. Crono (Csm) divora il figlio generato dall'utero sacro di Rea (Magistratura).

Dopo aver precipitato negli Inferi i fratelli Ciclopi ed Ecatonchiri, ed essersi congiunto con la sorella Rea, Crono ottenne il pieno potere; siamo nel pieno della seconda generazione di Giganti. Ben presto, però, Crono cadde nella cattiva usanza di divorare i propri figli, indotto a ciò dalla predizione dei genitori - depositari di saggezza e conoscenza - secondo cui egli era destinato a venire a sua volta deposto da un figlio: "...aveva saputo dalla Terra, da Uràno fulgente di stelle, che era per lui destino soccombere al proprio figliuolo." In tal modo, a mano a mano che Rea generava i figli, Crono"...l'inghiottiva, come ciascuno dall'utero sacro su le ginocchia della sua madre cadesse...", e questa fine fecero Estia, Demetra, Era e Ade. In una società patriarcale, quale doveva essere quella greca dell'epoca, il timore di venire spodestati dai propri figli doveva essere molto sentito, tanto da aver prodotto una mitologia incentrata proprio su tale "pratica". In tempi più recenti il tema è stato efficacemente trattato da Goya attraverso un affresco eseguito nella fase terminale della sua carriera, nella "Quinta del Sordo": mi riferisco a "Saturno che divora uno dei suoi figli"(1821 - 1823), esposto ora al museo del Prado, a Madrid. Tale affresco è stato riconosciuto dai critici quale emblema della disperazione e della più cupa bestialità del potere che non esita a compiere l'atto più vile per un genitore pur di mantenere il predominio

"Uguale per tutti" ha detto...

Grazie infinite a Besugo per il Suo bellissimo contributo.

Aggiungiamo solo che, purtroppo, la Sua bellissima metafora - del tutto adeguata - illustra solo una parte del problema.

Sembra, infatti, che la vicenda di Luigi De Magistris non sia frutto solo della paura di "essere spodestati", ma anche delle "cattive compagnie" che frequentano i vertici dell'A.N.M e del C.S.M.: il "metodo Mastella" non ha giovato all'indipendenza della magistratura.

La Redazione

Anonimo ha detto...

per Besugo, (^_^)
Erano giorni che il mito di Crono mi tornava alla mente.
Vorrei andare oltre nella storia.
Rea (la magistratura) era furibonda.Essa partorì Zeus(De Magistris) e a notte fonda di nascosto lo nascose e poi affidò Alla Madre Terra,fu cresciuto e protetto.
Rea dopo il parto , aveva avvolto una pietra nelle fasce e l'aveva data a Crono,Crono la inghiottì convinto di divorare suo figlio Zeus. Col tempo Crono iniziò a sospettare qualcosa,ed iniziò ad inseguire Zeus, ma a quel punto molti nemici si era fatto Crono
e Rea chiamata in aiuto fu ben felice di aiutare il figlio a compiere vendetta:gli fornì dunque l'emetico mescolato alle bevande di Crono, che dopo aver molto bevuto, vomitò prima la pietra, poi ad uno ad uno tutti i suoi figli che balzarono fuori illesi.
E Rea rappresenta la Metis l'astuzia dell'intelligenza.
Ora sono convinta che quella pietra è sullo stomaco di qualcuno.
e prima o poi dovrà essere fatta espellere.
Alessandra