sabato 31 maggio 2008

Il Consiglio di Stato da ancora torto a Mediaset



Riportiamo da “Repubblica.it” la notizia del rigetto, da parte del Consiglio di Stato, del ricorso di Mediaset contro Europa7.

Riportiamo in fondo i link ad alcuni articoli e documenti che consentono di ricostruire la vicenda degli abusi commessi – da vari governi succedutisi nel tempo – in danno di Europa7 e in favore di Rete4.


da Repubblica.it del 31 maggio 2008


Respinto il ricorso in appello di Mediaset contro Centro Europa7.
Per i giudici la decisione spetta al ministro delle Comunicazioni.
No del Consiglio di Stato a Rti: “Governo applichi sentenza Ue”.


ROMA - Tocca al governo decidere sull’istanza di Centro Europa7 per l’assegnazione delle frequenze televisive nazionali analogiche. Lo dice il Consiglio di Stato, che ha respinto il ricorso in appello proposto da Rti Spa (Mediaset) contro l’emittente, con il quale si chiedeva l’annullamento della sentenza del Tar del Lazio del settembre 2004.

I giudici di Palazzo Spada ritengono “la persistenza del dovere del ministero (delle Comunicazioni, ndr) di rideterminarsi motivamente sull’istanza di Centro Europa7 per l’attribuzione delle frequenze”.

Il Consiglio di Stato si richiama alla sentenza della Corte di Giustizia Ue, che lo scorso 31 gennaio aveva stabilito che le norme italiane sulle frequenze non rispettano le direttive comunitarie, non rispettano il principio della libera prestazione dei servizi e non seguono criteri di selezione obiettivi.

Come dire che il sistema italiano limita la concorrenza. E il lungo periodo transitorio di cui ha sinora beneficiato Retequattro era da ritenersi illegittimo. La sentenza Ue riconosceva quindi a Europa7 il diritto ad avere le frequenze per trasmettere.

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Sul caso di Europa7 Vi invitiamo a leggere:


A questo link un articolo di Marco Travaglio su Micromega

A questo link un articolo di Marco Travaglio sul suo blog

A questo link un’intervista a Ottavio Grandinetti, docente di Diritto dell’Informazione Università di Udine, e Roberto Mastroianni, docente di Diritto sull’Unione Europea all’Università di Napoli.

A questo link il testo integrale della sentenza della Corte di Giustizie della Comunità Europea

A questo link un sito intestato a Europa7





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Riflessioni sulla libertà di manifestazione del pensiero


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di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza.
Legale di Ammazzatecitutti)



Il diritto di cronaca, le previsioni costituzionali e gli interventi dei rappresentanti dell’esecutivo: libertà di manifestazione del pensiero limitata?

Le recenti polemiche hanno posto all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della libertà di manifestazione del pensiero – quantunque questa sia non agiografica per organi o uomini dello Stato – e, soprattutto, la garanzia di tale diritto costituzionalmente garantito all’interno della RAI che, per definizione, rappresenta la maggiore platea della vita democratica dell’Italia.

Il tema è particolarmente spinoso e controverso da fare apparire speculativo questo intervento ma, in realtà, posta l’affermazione di molte voci autorevoli circa l’inizio di una nuova fase conciliativa nella vita italiana, è importante, invece, che si sottolinei ancora una volta la primazia della Costituzione nello Stato moderno rispetto alle maggioranza parlamentari di cui è espressione l’esecutivo atteso che l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro e (NDR) la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

In altri termini il mio, come altri ben più autorevoli interventi, vuole provare ad affermare che la sovranità, in uno stato di diritto, non è della maggioranza parlamentare e governativa, ma del popolo italiano che esiste e resta a prescindere da chi governa.

Il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero si trova scandito nella Costituzione Repubblicana laddove viene individuato l’oggetto del diritto dei cittadini posto che la Corte Costituzionale già con sentenza 23 marzo 1968 n. 11, intervenendo sulla legge professionali dei giornalisti, aveva sottolineato che tale legge disciplina l’esercizio della professione giornalistica e non l’uso del giornale o di altro mezzo come espressione di libera manifestazione di pensiero in modo che essa non tocca il diritto che a tutti l’art. 21 riconosce.

L’oggetto del diritto è appunto la libertà di manifestazione del pensiero che comprende qualsiasi forma di espressione di idee, di opinioni e di notizie.

In tema poi di limiti alla libertà dopo alcune controverse prese di posizione la Corte costituzionale ha chiarito il suo pensiero affermando espressamente che limiti alle libertà fondamentali sono ammissibili solo se fondati su beni di rilievo costituzionale e previsti dalla medesima Costituzione: quindi, limiti alla libertà di manifestazione del pensiero si possono rinvenire esclusivamente in beni di rilievo costituzionale.

Ovviamente in tali limiti rientrano quelli derivanti da cosiddetti diritti della personalità (diritto alla riservatezza, all’onorabilità, alla reputazione, alla dignità sociale, nonché di natura civilistica quali il diritto d’autore e delle opere dell’ingegno) e quelli di natura pubblicistica – anche se di dubbia costituzionalità – (il prestigio del governo e della pubblica amministrazione, la sicurezza dello stato e della pubblica economia).

Rimane, infine, il limite dell’ordine pubblico che rappresenta la chiave di volta della legittimità costituzionale di talune fattispecie di reato e di alcune ipotesi di segreto.

Su tale limite, tuttavia, la tendenza della Corte è chiaramente nel senso di ritenere che per la configurabilità del limite costituito dalla necessità di preservare l’ordine pubblico da turbative violente di esso non sia sufficiente la critica anche aspra delle istituzioni, la prospettazione della necessità di mutarle, la stessa contestazione dell’assetto politico sul piano ideologico, ma occorra un incitamento all’azione e quindi un principio di azione e così di violenza contro l’ordine legalmente costituito come tale idoneo a porre questo in pericolo.

Tracciata in tal modo la liberta di manifestazione del pensiero va detto che su questa si innesta quella della liberta di cronaca per arrivare alla libertà di informazione, si badi bene, sempre intesa come espressione della libertà di manifestazione del pensiero, e all’affermazione di un vero e proprio diritto all’informazione.

Invero, la Corte Costituzionale ha più volte avuto modo di osservare che è codificato in Italia, a livello costituzionale, sia il lato attivo della libertà di manifestazione del pensiero come libertà di dare e divulgare notizie, opinioni e commenti che il lato passivo cioè dal punto di vista dei destinatari della manifestazione, come interesse generale, anch’esso indirettamente protetto dall’art. 21 alla informazione; il quale in un regime di libera democrazia, implica pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei alla circolazione delle idee e delle notizie.

Vediamo, quindi, il lato attivo e il lato passivo della libertà di informazione.

Nel lato attivo, definito come libertà di informare si sottolinea la posizione di colui il quale diffonde presso il pubblico le notizie, i fatti e le informazioni mentre dal lato passivo, definito come libertà-diritto all’informazione, libertà-diritto di essere informati, si evidenzia la condizione dei destinatari dell’attività di informazione, del pubblico cioè a cui essa è rivolta.

Iniziando dal lato attivo della libertà di espressione e di informazione si ritiene di stabilire una perfetta equivalenza tra il diritto di manifestare, il diritto di informare e il diritto di cronaca.

Non ci si trova di fronte, infatti, a distinti diritti ma ad un’unica libertà il cui oggetto e il cui contenuto è perfettamente e integralmente ricompreso nell’art. 21 in modo che la distinzione che si opera assume valore eminentemente terminologico e non sostanziale.

Si è infatti affermato nell’ambito della descrizione del contenuto del diritto in parola che la garanzia costituzionale comprende non soltanto l’espressione pensiero ma anche le notizie e in genere le informazioni. Questa è la posizione della prevalente dottrina e cito Crisafulli, Mazziotti, Barile-Grassi, Zaccaria.

La Corte costituzionale d’altra parte ha riconosciuto in varie sentenze la pari estensione della libertà di cronaca e la libertà di espressione e la questione di una maggiore o minore tutela della libertà di informazione si è posta con particolare enfasi per il diritto di cronaca nel cui caso la giurisprudenza ha ritenuto legittima la cronaca anche nel caso di un commento ingiurioso o diffamatorio in presenza dei requisiti della verità, dell’utilità sociale e della continenza.

Ma la Corte Costituzionale si è occupata di chiarire un altro concetto fondamentale se cioè che l’art. 21 Cost garantisca IL DIRITTO DI ESSERE INFORMATI.

Sul punto in dottrina si parla di risvolto passivo della libertà di espressione (Barile, Grassi) o al più in termini di diritto sociale che è una situazione chiaramente distinta dal diritto soggettivo vero e proprio.

La Corte costituzionale d’altra parte è molto prudente a questo riguardo e se è vero che ha riconosciuto, in particolare nella fondamentale sentenza 15 giugno 1972 n. 105 l’esistenza di un interesse generale all’informazione correlato ad un sistema di pluralismo di fonti informative, indirettamente protetto dall’art. 21 Cost.

In dottrina, tuttavia, sembrano avere fondamento proprio le tesi dello Zaccaria, già Presidente della RAI, secondo le quali l’art. 21 riconosce un vero e proprio diritto del destinatario delle notizie alla ricezione delle stesse autonomamente azionabile dinanzi all’autorità giudiziaria.

Dunque la nostra Costituzione, e in particolare l’art. 21, protegge in maniera diretta e quindi in forma di diritto soggettivo l’interesse del singolo a ricevere le notizie in questo senso allineandosi con i più aperti principi contenuti negli accordi internazionali.

In questo scia si pone il diritto dell’amministrato di ricevere notizie sull’attività amministrativa in cui è coinvolto.

Per concludere, infine, la parte c.d. tecnica del problema và segnalato che la Corte Costituzionale ha avuto modo di affermare che compito specifico del servizio pubblico radiotelevisivo è quello di dar voce a tutte, o almeno al maggior numero possibile di opinioni, tendenze, correnti di pensiero politiche, sociali e culturali presenti nella società onde agevolare la partecipazione dei cittadini allo sviluppo sociale e culturale del paese (sent. 826/1988).

Questo, quindi, in estrema sintesi il quadro normativo e di commento dottrinario e giurisprudenziale al problema della libertà di manifestazione del pensiero intesa come libertà di informazione e diritto del cittadino all’informazione ex art. 21 Cost.

Allo stesso modo chiara esplicitazione della Corte Costituzionale del ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo ( finanziato dai cittadini) inteso come luogo dove, appunto i cittadini, devono al massimo trovare la loro forma di espressione dovendo esso servizio pubblico non limitare in alcun modo la libera espressione di gruppi, culture correnti di pensiero.

In altri termini in nessuna norma di rango costituzionale ovvero di rango primario si trova affermato che all’interno del servizio pubblico non possa trovare spazio che critica anche aspramente gli organi dello Stato – salvo le tutele azionabili dinanzi alla Magistratura Ordinaria – né tanto meno che debbano essere rappresentate nel servizio pubblico le sole correnti di pensiero che rappresentano maggioranza o minoranza parlamentari: invero la Corte ha chiarito che compito primario del servizio pubblico è proprio quello di dare voce al maggior numero di opinioni, tendenze e correnti di pensiero non specificando partiti o coalizioni.

Se queste sono le chiare posizioni normative dello Stato Italiano appare di dubbia collocazione l’affermazione di organi di governo che bocciano come non idonee al servizio pubblico voci fuori dal coro.

Non sarebbe il caso che oltre “all’anglosassone” modello di rapporti tra maggioranza e opposizione si ricerchi un italico rispetto delle norme costituzionali e delle loro implicazioni pratiche secondo l’interpretazione datane dall’Organo preposto?



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giovedì 29 maggio 2008

Metropoli, paura e criminalità


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di Silvio Liotta
(Consulente per le politiche di sviluppo regionale)




Ciclicamente si assiste all’inseguirsi di notizie di atti di violenza che, amplificati dal tam tam mediatico, generano una paura diffusa, un senso di impotenza, uno shock ed altrettanta violenza cieca.

E come evidenziato da recenti accadimenti (Verona, Roma, Napoli e non solo), si produce un circolo vizioso alimentato da atti di violenza che si auto legittimano ed accrescono l’ansia e la paura.

Le vie più battute per attenuare il senso di insicurezza, di confusa paura, sono quelle più sbrigative, quelle che insomma possono in breve tempo lenire il senso di ansia che ci rende incapaci di vivere i luoghi delle nostre città; di quei grandi agglomerati urbani – dove vive circa l’80% degli abitanti del pianeta – spesso privi delle condizioni che garantiscono la vita di comunità in un quadro di stabilità sociale ed economica.

Le “vie sbrigative” però non possono essere risolutive né del senso di insicurezza che coinvolge molti cittadini né della violenza criminale di cui spesso le metropoli sono la ribalta. Al contrario esse alimentano il circolo vizioso della violenza.

Nelle grandi città, e in particolare nelle periferie, la mancanza di reti solidaristiche diffuse “individualizza” le paure e rende “ancora più angosciante la percezione del rischio derivante dalla criminalità urbana” (Giuseppe Roma, Direttore generale Censis, a questo link) .

E così ci si trova ad affrontare le paure (spesso alimentate dai politici alla ricerca di voti e dall’informazione televisiva) da soli, coltivando il senso dell’imprevedibilità dell’azione altrui. “L’ansia viene gestita in solitudine, mentre in passato le grandi paure (povertà, disoccupazione, malattia, etc.) erano collettive”.

Il senso di paura e disorientamento ha così il sopravvento. Insomma, non proprio L’Urlo di Munch ma lo sgomento urbano gli somiglia molto.

Le aree metropolitane, così come storicamente si sono sviluppate dal punto di vista sociale ed urbano, hanno mostrato la loro incapacità a fornire strumenti adeguati per gestire le paure e prevenire le minacce.

Le metropoli sono grandi sacche di marginalità, le loro periferie scontano un modello insediativo che concentra il disagio sociale in aree prive di infrastrutture di collegamento, servizi e opportunità di lavoro.

La povertà e la disintegrazione delle relazioni sociali diffuse che tali modelli insediativi generano, immiserisce le condizioni di vita materiale provocando da una parte violenza, dall’altra paura.

I fenomeni della migrazione, propri di tutte le Metropoli del globo ed aggravati dall’aumento delle condizioni di povertà a livello mondiale, acuiscono la percezione di questi problemi.

Tali problemi sono inoltre accresciuti dalle dinamiche della globalizzazione, attraverso il processo di concentrazione, da una parte di ricchezze e privilegi, dall’altra di povertà.

Così, in particolare nelle grandi città, il reddito tende a concentrarsi ai livelli più alti del sistema sociale, generando ai livelli più bassi povertà/miseria e dipendenza, concentrate spesso nelle periferie.

In sostanza nella metropoli si sfilacciano le reti sociali di solidarietà diffusa e si affermano sistemi clanistici chiusi, non comunicanti, con una forte identità definita in contrasto con l’esterno.

Se a ciò si aggiunge il degrado della vita materiale indotta dal processo di concentrazione/accumulazione della ricchezza, non è difficile immaginare l’aumento del senso di paura, “individualizzato” o vissuto in ristretti gruppi a solidarietà chiusa (caso Verona).

Sulla base delle statistiche più recenti (2007), la percezione di più diffusa insicurezza si avverte in città come Atene (33%dei cittadini), Lisbona (31%), Marsiglia (30%) e Napoli (29%), mentre la sicurezza si percepisce più elevata nelle città dove migliore è la qualità della vita: Stoccolma, Helsinki, Vienna, Monaco, Barcellona. Londra risulterebbe nel 2005 la megalopoli con maggior numero di vittime di reati predatori tipicamente urbani con il 32% della popolazione colpita, mentre sono più bassi i valori di Roma (17%) e Parigi (18%), dove le relazioni sociali sono relativamente più strutturate. In Italia i reati che creano maggiore allarme sociale - quali omicidi, scippi, furti d’auto - vedono ai primi posti Napoli, Catania e Bari, ossia le aree urbane a maggiore concentrazione di disagio socioeconomico.

Il 7 maggio scorso è stato presentato a Roma l’ultimo rapporto dell’Istat, “100 statistiche per il Paese”, dove si registra, in un arco temporale di otto anni, una diminuzione del numero di delitti in Italia: dal 13,1 al 10,3 per milione di abitanti. Inoltre rispetto alla media europea, l’Italia è uno dei Paesi più sicuri per numero di morti violente, collocandosi al di sotto della media europea con 14 delitti per milione di abitanti, mentre le ex repubbliche russe del Baltico, Lituania, Estonia e Lettonia, detengono il record negativo.

Nonostante però in Italia l’incidenza dei reati in genere sia minore rispetto ad altre situazioni nazionali europee, la criminalità preoccupa il 58,7% dei cittadini; più della metà degli italiani.

Le altre fonti di angoscia sono la disoccupazione, indicata dal 70,1% della popolazione e la povertà, che negli ultimi anni ha accresciuto la sua rilevanza come problema nella percezione dei cittadini: dal 17,0% nel 2000 al 29,4% al 2007, con un incremento di 12,4 punti percentuali (i dati a questo link) .

Da una prima lettura delle statistiche riportate sembrerebbe che la percezione dell’insicurezza sia maggiormente correlata al degrado delle condizioni di vita (povertà, mancanza di opportunità di crescita professionale, inefficienza delle strutture deputate al presidio della legalità, ecc.) piuttosto che all’effettiva presenza di atti di violenza criminale.

Dunque il senso di paura, di insicurezza che ci attanaglia dovrà essere indagato sotto qualche altro profilo, in quanto anche se gli atti di “violenza criminale” tendono a diminuire, come nel caso dell’Italia, le paure ed il senso di insicurezza tendono ad aumentare. Ciò induce quindi a pensare alla mancanza di correlazione significativa tra criminalità e senso di insicurezza.

Gran parte della paura, quindi potrebbe essere spiegata dal degrado e dalla minaccia alla stabilità dell’ordine sociale.

Z. Bauman nel suo saggio “Paura liquida” considera le paure derivate da tre principali tipologie di pericoli, che il modello metropolitano sembrerebbe amplificare.

Tali pericoli riguardano: “la minaccia al corpo ed agli averi”; “la minaccia alla stabilità ed affidabilità dell’ordine sociale da cui dipendono la sicurezza del proprio sostentamento (reddito, lavoro)[…]; “la minaccia alla propria collocazione nel mondo, ossia alla posizione nella gerarchia sociale, all’identità (di classe, genere, etnia, religione) che più in generale espone alla possibilità di essere umiliati ed esclusi a livello sociale”.

Tuttavia, secondo Bauman, la paura prodotta dai pericoli richiamati risulta in un certo senso da essi “sganciata”.

Chi infatti è afflitto dal senso di paura può metterlo in relazione ad uno qualsiasi dei tre tipi di pericoli a prescindere dal loro effettivo peso.

E così le reazioni difensive/aggressive volte ad attenuare la paura possono essere indirizzate verso i pericoli meno responsabili del senso di insicurezza.

Nelle metropoli, così come al livello nazionale, le elites politiche riescono difficilmente a controllare le minacce alla stabilità dell’ordine sociale (inteso come sicurezza socio-economica) ed alla identità – indotte rispettivamente dal degrado della qualità della vita e dallo sfilacciamento delle relazioni sociali – e così, con l’appoggio dei media compiacenti e grazie ad efficaci strumentalizzazioni, enfatizzano le minacce rivolte alla incolumità personale, proponendo metodi repressivi per scongiurarle.

Ed ecco che vengono continuamente “prodotte” nuove emergenze, intese come “situazioni eccezionali e abnormi destinate a suscitare paure e preoccupazione generale”.

La politica fa sempre più frequentemente ricorso alla categoria dell’emergenza in quanto quest’ultima rappresenta l’unico mezzo per conquistare spazio e legittimazione, a fronte di una crescente incapacità ad affrontare i nodi strutturali delle società del XXI secolo.

Le forze di destra, cavalcando l’emergenza auto-prodotta, amplificano i pericoli relativi alle minacce alla persona ed agli averi e propongono approcci del tipo “tolleranza zero” à la Rudolph Giuliani.

Questo approccio ha la funzione di permettere “agli aspiranti leader o ai dirigenti in carica di riaffermare la capacità d’azione dello Stato, nel momento in cui dichiarano unanimemente la sua impotenza in materia economica e sociale (cfr questo link). La canonizzazione del «diritto alla sicurezza» è in correlazione diretta con l’accantonamento del diritto al lavoro, iscritto nella Costituzione ma vanificato dal perpetuarsi della disoccupazione di massa e dalla crescente diffusione del precariato, cioè dalla negazione di ogni sicurezza di vita a un numero sempre maggiore di persone”.

Per i media – e in particolare per i politici di destra – la percezione dell’insicurezza deriva sempre dalla violenza urbana, quasi mai dalla precarietà, dall’educazione, dal salario.

E così si propongono spropositati aumenti della spesa per il mantenimento dell’ordine sociale mediante la forza, con la conseguente diminuzione di risorse assegnate alle politiche di carattere sociale.

Le forze di sinistra, pur sembrando più coscienti della complessità dei fenomeni che generano le “paure metropolitane” e la conseguente escalation di violenza e criminalità, sono incapaci di affrontare questi problemi attraverso politiche finalizzate a generare condivisione di valori civici, perequazione economica e sviluppo sociale.

Nel caso italiano, provvedimenti come l’indulto che ha prodotto un’impennata di alcune tipologie di crimine – tra cui per esempio le rapine in banca (cfr questo link) – dimostrano la profonda incoerenza con cui si approccia il problema della criminalità.

Questa incoerenza appare ancora più stridente se si mettono a confronto i messaggi elettoralistici proposti dalle forze di destra, divenute paladine della sicurezza e della legalità, con gli interventi concreti e con l’entusiasmo parlamentare nel votare leggi, come appunto l’indulto, che in ultima analisi determinano maggiore insicurezza ed ostacoli al normale corso dell’attività giudiziaria (a questo link è possibile prende visione dei parlamentari che hanno espresso il proprio voto favorevole all’indulto) .

Con tutto questo non si vuole sminuire l’importanza del fatto che la criminalità urbana sia diventata un punto dell’agenda politica, in quanto la vivibilità delle città è condizione dello sviluppo civile.

Tuttavia le politiche da realizzare per conseguire risultati duraturi implicano un intervento complesso, volto a rispondere contemporaneamente a più criticità.

Secondo alcuni studi i tre principali “strumenti” da adottare sono: il rafforzamento della cultura della legalità, lo sviluppo economico equilibrato, la sicurezza dei cittadini.

Per quanto riguarda il primo “strumento” occorre, in particolare, che dalle forze politiche - sia di destra che di sinistra - sia coltivata, al di là delle occasioni elettoralistiche del momento, una cultura della legalità a tutti i livelli, in particolare quello politico-amministrativo.

D’altro canto occorre perseguire una maggiore equità economica e promuovere processi di integrazione sociale.

In ultimo, la sicurezza dei cittadini dovrebbe essere perseguita attraverso interventi di sistema volti alla protezione territoriale (ossia la messa in sicurezza delle città e dei quartieri con il presidio delle istituzioni) e alla maggiore efficienza del sistema della giustizia, in modo da garantire la certezza della pena.

Su quest’ultimo punto sarebbe utile ricordare che è dimostrato da risultati di ricerca che l’efficacia della sanzione non dipende dalla sua quantità, ma dalla velocità della sua applicazione. Se i processi non si concludono con una sanzione effettiva, qualsiasi politica per la sicurezza viene vanificata.

Quindi occorre assicurare al sistema giudiziario le risorse e gli strumenti necessari perché possa funzionare nel modo migliore (evitando di delegittimarlo).

Tuttavia senza un ruolo attivo dei cittadini, senza una condivisione di valori civici, senza lo sviluppo di reti solidali, sarà difficile lenire il senso di insicurezza, la paura dell’altro ed invertire il circolo vizioso della violenza.

In fondo “la disperazione peggiore di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile” (Corrado Alvaro).



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L’incontro fra l’A.N.M. e il Ministro della Giustizia


Ieri 28 maggio 2008 il Ministro della Giustizia ha incontrato la Giunta Esecutiva Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati.

I vertici dell’A.N.M. hanno consegnato al Ministro Alfano un documento con un articolato elenco di proposte per la soluzione dei principali problemi che affliggono la giustizia.

Il documento può essere letto a questo link.

Il Ministro ha manifestato l'intenzione del Governo di intervenire sui temi del funzionamento della giustizia a partire delle riforme sulle quali vi è ampio consento da parte degli operatori.

Ha altresì negato l'intenzione del Governo di procedere nuovamente ad una riforma dell'ordinamento giudiziario e ha richiamato il contenuto del programma elettorale nel quale si fa
riferimento ad una marcata distinzione delle funzioni e non alla separazione delle carriere.

Ha aggiunto che eventuali modifiche delle competenze del CSM non sono indicate nel programma elettorale, dove vi è solo un generico riferimento in materia di responsabilità civile dei magistrati, questione che al momento non viene considerata prioritaria.

Ha manifestato, inoltre, la sua disponibilità al confronto e al dialogo con gli organismi rappresentativi dell'A.N.M., anche mediante incontri periodici.

Il Ministro ha, infine, accolto la richiesta dell’A.N.M. di istituire un tavolo tecnico sulla questione retributiva, tavolo che sarà attivato già dalla prossima settimana e coordinato dal sottosegretario
Caliendo, con il programma di elaborare proposte concrete da inserire già nella prossima finanziaria, con particolare riferimento alla perequazione economica con le altre magistrature.



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lunedì 26 maggio 2008

E’ irrinunciabile che la materia disciplinare resti al C.S.M.?


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di Nicola Saracino
(Magistrato)




I cittadini sanno poco delle vicende disciplinari che riguardano i magistrati.

Ignorano, ad esempio, che anche la più blanda delle sanzioni (l’ammonimento) rappresenta una pesantissima “ipoteca” sulle loro possibilità di progredire nella carriera.

Ignorano che persino una sentenza assolutoria può incidere negativamente, anche a distanza di molti anni, sulle successive valutazioni alle quali il magistrato sarà sottoposto.

Ignorano che, per legge, il procedimento disciplinare a carico di un magistrato può durare più di cinque anni, periodo nel quale egli può subire un trasferimento “cautelare” (basato, cioè, solo su indizi) e finché il processo non è concluso il magistrato non può aspirare ad incarichi direttivi, non può svolgere l’attività di direzione del tirocinio degli uditori (i praticanti, per volgarizzare), ed anche la valutazione quadriennale della sua professionalità resta bloccata in attesa dell’esito di quel giudizio.

In definitiva occorre che tutti sappiano che nel procedimento disciplinare contro un magistrato non si giocano soltanto i suoi personali interessi, ma sono coinvolti valori superiori che appartengono alla collettività intera, quali la soggezione del giudice soltanto alla legge e la sua inamovibilità.

Quello a carico dei magistrati, per di più, è l’unico esempio di procedimento disciplinare che si svolge direttamente in sede giurisdizionale, per giunta in unico grado di merito.

Tutte le possibilità di difesa, dunque, si consumano dinanzi alla Sezione Disciplinare, non essendo invocabile alcun diverso controllo sul merito della decisione.

L’obbligatorietà della relativa azione, da poco introdotta, ha accresciuto il peso del problema, soprattutto perché la proclamata tipizzazione degli illeciti, che ad essa si accompagna, è solo di facciata, vista le presenza di fattispecie altamente “elastiche”.

Il C.S.M., le cui competenze costituzionali risultano piuttosto definite (assunzioni, trasferimenti e promozioni, provvedimenti disciplinari), si è assunto, dopo la sua effettiva istituzione, il ruolo di “organo di autogoverno” della magistratura e quindi, agli occhi della collettività, di soggetto responsabile del buon andamento della giurisdizione.

Ciò trova conferma nell’estesa attività di normazione secondaria che, incidendo sulla materia
dell’ordinamento giudiziario (coperta da riserva di legge), regolamenta tutti gli aspetti della vita della giurisdizione (organizzazione degli uffici , progressione in carriera, incarichi extragiudiziari, aggiornamento professionale, concreto impiego della magistratura onoraria ecc.).
E’, questo, un raro esempio di concentrazione in capo ad un unico soggetto della responsabilità di governo, della potestà (para)normativa e dell’esercizio della giurisdizione (disciplinare).

E’ più volte capitato di registrare interventi pubblici dei suoi componenti apicali che, nel rispondere a sollecitazioni provenienti dal ceto politico additanti concreti esempi di cattivo andamento della giurisdizione, invocano o promettono l’intervento disciplinare, sebbene della relativa iniziativa debba rispondere, sul piano politico, il solo Ministro della Giustizia che esercita l’azione mediante richiesta di indagini al Procuratore Generale della Cassazione.

La sovrapposizione di ruoli risalta e pone in crisi l’immagine di terzietà di un Giudice che non può, da solo, sopportare il peso politico del buon andamento della giurisdizione e quello della giurisdizione disciplinare nei confronti dei magistrati.

In questa cornice il rischio è che il giudice disciplinare sia condizionato dall’esigenza di difendere la propria immagine pubblica di responsabile dell’efficienza della giurisdizione, e non sia quindi nella migliore posizione per fornire la giustizia del caso concreto.

Specialmente quando le disfunzioni concretamente all’esame di quel giudice non dipendano dalla cattiva volontà del singolo, ma ad esempio dalle inadeguate direttive sul servizio imposte proprio dal C.S.M. e valevoli per tutti gli uffici giudiziari d’Italia, ovvero dalla errata distribuzione del personale di magistratura tra i vari tribunali del Paese, essendo notorio che il carico di lavoro denota sensibili diversità tra un ufficio e l’altro.

Ovvio che difficilmente sarà chiamato a rispondere dei ritardi nella redazione dei provvedimenti il giudice che ha un ruolo di 500 cause, rispetto al collega che ne fronteggia uno di 2.000.

Ma difficilmente il Giudice disciplinare, che condivide la responsabilità della distribuzione del personale, riconoscerà che il ritardo nel deposito di una sentenza dipende, in parte, anche da lui; anzi dirà (come in effetti ha detto) che è compito del singolo quello di organizzarsi in funzione del suo carico di lavoro.

Per di più l’attuale conformazione del Giudice disciplinare rappresenta, nell’Ordinamento, un singolare esempio di giudice elettivo, che ripete cioè la sua legittimazione dal voto dei giudicabili.

Proprio questo è, forse, il motivo che più di altri è alla base dell’addebito di eccessiva indulgenza che immotivatamente viene rivolto alla Sezione Disciplinare del C.S.M. e suona come beffardo per il magistrato assolto che ha subito un giudizio disciplinare, fonte di notevole disagio personale per i motivi già indicati.

Lo stesso congegno elettivo, nelle ipotesi di condanna, genera l’effetto ugualmente nocivo del sospetto che la decisione sia il frutto di un atteggiamento “odioso” nei confronti dell’incolpato.

Questi, dunque, gli argomenti di cui discutere; è stolto, invece, mettere in dubbio il principio dell’estrazione del giudice dallo stesso ordine professionale dei giudicabili, essendo questa una connotazione, ampiamente giustificabile, che accomuna tutti gli organi della giustizia disciplinare nei più svariati settori, dalle libere professioni al pubblico impiego.

A meno che non si voglia che gli ingegneri giudichino i medici e viceversa, l’individuazione delle soluzioni alternative a quella attuale è rimessa al Legislatore che, se non vorrà mutare l’intero assetto costituzionale della magistratura, dovrà in ogni caso attenersi ai principi di autonomia ed indipendenza dell’ordine giudiziario e della soggezione del giudice soltanto alla legge.

La diversa collocazione del giudizio disciplinare non contrasterebbe, di per sé, con questi fondamentali vincoli costituzionali e non è poi così difficile trovare un sistema acconcio, che contemperi le esigenze di terzietà e di sufficiente “lontananza”, anche geografica, del giudice dal giudicabile, sulla falsariga di quanto il Legislatore ha già previsto per le ipotesi di sottoposizione a procedimento penale di un magistrato, mediante l’assegnazione della competenza secondo il congegno dell’art. 11 c.p.p.; se si ritiene che il Tribunale (abilitato al giudizio penale nei confronti del magistrato) non offra il sufficiente grado di esperienza, potrebbe, ad esempio, ipotizzarsi una sezione specializzata presso le Corti d’Appello.


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domenica 25 maggio 2008

La malattia del paese


di Michele Serra
(Giornalista)


da La Repubblica del 25 maggio 2008

In venti contro un bengalese, colpevole di gestire un bar in un quartiere romano, il Pigneto, diventato troppo multirazziale per non meritare un po’ di pulizia etnica.

Un pestaggio razzista con tutti i crismi, odio di branco, schifosa vigliaccheria [una galleria fotografica a questo link: ndr].

Alcuni degli aggressori – raccontano i testimoni – avevano il volto coperto e svastiche sui foulard, ma la polizia non si sbilancia sulla natura dell’assalto.

Fossero neonazisti organizzati, o solo teppisti xenofobi, non è comunque un episodio isolato.

Una delle tante varianti della crescente violenza di strada contro gli stranieri, i diversi, gli estranei, i non riconosciuti in quel “noi” paranoico, pericoloso, infurentito, che sta riarmando in molte parti d’Italia teste calde, bande fasciste, gruppi di ragazzotti che aspettavano solo un pretesto “politico” per menare le mani.

Si va dal pogrom anti-rom di Napoli all’aggressione mortale al ragazzo veronese che sbaglia la risposta al gruppo di bulli in pattuglia-mento. Dalla pazzesca (e troppo in fretta dimenticata) spedizione punitiva di un paio d’anni fa contro un “concerto comunista” a Roma, aggredendo e terrorizzando un pubblico pacifico, al profluvio. di minacce e insulti contro le varie “infezioni” che insidiano il quartiere o la città o la Patria, ai manifesti politici dei partitini nazi-negazionisti che chiamano alla mobilitazione contro gli immigrati, gli omosessuali e gli zingari in difesa di una “purezza” paranoica, tragicamente comica, o comicamente tragica.

E’ una catena, ma è soprattutto un clima.

Non ancora bene inquadrato, va detto, con amarezza e allarme, dalle varie e severissime misure del governo in materia di ordine pubblico.

Un clima trascurato dalla campagna elettorale romana, che pure sulla sicurezza spese quasi tutta la sua adrenalina.

Un clima che getta una luce meno tranquillizzante, e meno “popolare”, sulla parola “territorio”, parola magica delle analisi politiche e sociologiche.

Perché il territorio, dentro quei cervelli da rastrellamento, è poi il movente e al tempo stesso l’alibi, il territorio siamo “noi”, i nostri bar, le nostre strade, le nostre abitudini, e “loro” se ne devono andare, anche se magari – come al Pigneto – loro lavorano e tutti i giorni aprono una saracinesca su una strada, e parecchi di “loro” sono socialmente molto più inseriti, rassicuranti, utili di quanto lo siano i bulli, i nazisti da pub, i picchiatori di sempre.

Quasi tutti, tra l’altro, battezzati alla violenza in quegli enormi, spaventosi serbatoi di intolleranza che sono (da moltissimi anni) le curve di stadio, luoghi dove si grida con spensierata allegria “negri di merda” e ci si addestra alla guerra di territorio, trenta accoltellati intorno all’Olimpico solo quest’anno, e la cronaca nera che ospita con sempre maggiore frequenza gli ultras come protagonisti di delitti, incidenti tragici, cruenti deragliamenti sociali, come quello che l’altra notte ha travolto e ammazzato due ragazzi in motorino sulla Nomentana, pieno di cocaina e di rabbia.

Se veramente è “la sicurezza” che ci preme, come comunità, come non vedere che la marea montante dell’intolleranza, dell’aggressività “difensiva”, forma oramai una schiuma fetida, chiama sangue, organizza in deliranti convogli di “ripulitori” la disarticolata violenza individuale, e indolenza intellettuale, di molte migliaia di ragazzi che poi, ovviamente, quando finiscono nei telegiornali sono sempre “ragazzi normali”, figli di famiglia con la macchina di papà, magari lavoratori e impiegati di buona reputazione in azienda?

Lo scarto di follia, l’episodio violento, in altro clima sarebbe pur sempre marginale, il “deplorevole episodio”, l’“atto inconsulto”, e tutta la ricca casistica degli eufemismi buoni per le dichiarazioni al telegiornale.

Ma questo Paese, in questo momento, ha la febbre.

Il margine tra le autorevoli preoccupazioni istituzionali e la xenofobia di territorio è vistoso se guardato dai politici in giacca e cravatta, ma è sottile, è ambiguo se visto dallo sguardo torbido degli esaltati, dei linciatori in potenza, dei fanatici dalle mani pesanti, dei capoquartiere da marciapiede.

Il razzista “di base” si sente un po’ meno deprecato e un po’ meno impopolare se approfitta della circostanza politica per farsi un po’ di spazio nel suo territorio, se può sentirsi il valoroso anticorpo che attacca il virus arrivato da fuori.

Il sindaco Alemanno e il governo nazionale, tra le varie emergenze affrontate con il piglio e l’entusiasmo della prima volta, hanno l’occasione (d’oro) di infilare in fretta e furia nel loro “pacchetto sicurezza” anche le insorgenze razziste, che sono tante, che sono contagiose, che sono insopportabili, e soprattutto sono (loro sì) qualcosa che infetta giorno dopo giorno il corpo sociale.

Lo avvelena, ne catalizza gli umori neri, le paure più fon-de e incontrollate. La destra ha il vantaggio di conoscere bene questo genere di odio: ognuno, in questo Paese, ha il suo album di famiglia.

Usi dunque la sua esperienza, e la sua nuova maturità di governo, per intervenire prima che sia troppo tardi.



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sabato 24 maggio 2008

In memoria di Giovanni Falcone. Riflessione sulle colpe – di ieri e di oggi – del C.S.M. e dell’A.N.M.


di Uguale per Tutti

Ieri è stato celebrato il 16° anniversario della morte di Giovanni Falcone.

Per rendere attuale e fecondo il sacrificio di Giovanni Falcone non si può tacere come la sua storia professionale sia stata condizionata non solo da nemici esterni, ma anche e in maniera in tanti passaggi decisiva da scelte e iniziative del Consiglio Superiore della Magistratura e di quello che nella magistratura viene in questi tempi complessivamente definito come il “circuito dell’autogoverno”.

E non si trattò – come riduttivamente a volte si sembra credere – solo della delibera con la quale a Giovanni Falcone venne preferito Antonino Meli nella direzione dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, ma anche di altre iniziative.

Il tema è di attualità purtroppo da sempre.

Cose simili a quelle che hanno riguardato Giovanni Falcone sono successe anche all’epoca dell’assassinio di Rocco Chinnici (nelle prossime settimane riproporremo il contenuto del c.d. “diario” del Consigliere Chinnici, ritrovato dopo la sua morte) e poi all’epoca dell’attentato a Carlo Palermo, che causò la strage di Pizzolungo, e poi in tante altre occasioni.

E accade ancora oggi, nell’epoca delle vicende Forleo e De Magistris e non solo (perché non meno rilievo del modo con cui il C.S.M. gestisce i suoi poteri disciplinari ha il modo con cui gestisce, per esempio, quelli di nomina dei dirigenti degli uffici giudiziari).

Ha scritto Felice Lima in un articolo di questo blog dal titolo “Luigi De Magistris e ‘la magistratura’”:

«Cosa fa la magistratura associata con i magistrati integerrimi e coraggiosi quando questi vengono assassinati si sa benissimo: si appropria dei loro meriti, dando luogo all’abuso per il quale quando qualcuno si permette di chiedere conto “alla Magistratura” di qualcosa di cui debba vergognarsi, essa invoca la memoria dei suoi martiri, dicendo che “la Magistratura ha pagato a caro prezzo il suo eroismo”.

Ma non è la verità, perché non è “la Magistratura” ad avere pagato con il sangue il suo eroismo; a farlo sono stati alcuni singoli magistrati, che prima di essere assassinati erano stati clamorosamente e rumorosamente isolati dai loro colleghi: per tutti, basti citare qui le vicende del Procuratore di Palermo Gaetano Costa, lasciato solo a firmare dei fermi particolarmente “impegnativi”, e del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, che lasciò un diario con le prove del suo isolamento da parte dei vertici degli uffici giudiziari di Palermo, diari che vennero “archiviati” dal C.S.M. con motivazioni davvero inadeguate. Ma certo è significativa anche la storia del Sostituto Procuratore della Repubblica Giangiacomo Ciaccio Montalto: all’indomani del suo assassinio un collega del suo stesso ufficio è stato arrestato perché accusato di essere legato al clan mafioso che aveva fatto l’omicidio e a casa gli sono stati trovati un’arma con la matricola abrasa e un mucchio di soldi incartati in un giornale. E il Procuratore Capo, vi chiederete? Promosso Presidente di Sezione in Cassazione!»


Una delle principali ragioni che ci ha spinti ad aprire questo blog è stata (come si può leggere nella “Presentazione”) la convinzione che i mali della giustizia sono in grandissima parte ascrivibili a responsabilità esterne alla magistratura e al suo autogoverno, ma, purtroppo, in una parte molto rilevante e sotto alcuni profili decisiva anche a responsabilità “interne”.

Per ragioni agevolmente individuabili da chiunque abbia un minimo di conoscenza degli ambienti giudiziari, per la perniciosa confusione di ruoli fra chi ha potere nell’Associazione Nazionale Magistrati e chi occupa cariche istituzionali nel Consiglio Superiore della Magistratura, per le modalità con le quali viene gestito il potere nell’A.N.M., per le opportunità di carriere personali dentro e fuori la magistratura che hanno coloro che stanno ai vertici dell’A.N.M. accade – si può dire “fisiologicamente” (perché tentazioni del genere andrebbero scongiurate con regole precise e non confidando con finta ingenuità nella rettitudine dei singoli) – che chi dovrebbe occuparsi con tutto se stesso delle esigenze e degli interessi della magistratura finisca per sovrapporre più o meno consapevolmente e più o meno in buona fede a quegli interessi altri suoi propri o di terzi con i quali abbia, speri di avere o possa avere rapporti individualmente proficui.

Per esemplificare (ma non è né l’unico né il più grave dei problemi), è difficile che chi deve confrontarsi con il Ministro della Giustizia a difesa delle ragioni della magistratura associata possa restare indifferente al condizionamento che deriva dalla prospettiva che il Ministro che gli fa da controparte “sindacale” possa chiamarlo (come accaduto enne volte e, anche di recente: qualcuno ha addirittura dato un nome alla cosa, chiamandola pax mastelliana) a ricoprire importantissime cariche apicali nel suo Ministero.

Rinviando lo sviluppo di questi concetti ad altri prossimi scritti, riportiamo qui oggi – in memoria di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e di tanti altri – una testimonianza di inconfutabile attendibilità: quella di Paolo Borsellino.

La registrazione video che riportiamo qui sotto è del 25 giugno 1992, 33 giorni dopo l’uccisione di Giovanni e 24 giorni prima dell’uccisione dello stesso Paolo.

Le parole di Paolo pesano come macigni sulla cattiva coscienza di diversi nostri colleghi e devono indurci a riflettere molto su ciò che si deve assolutamente fare per cambiare lo stato delle cose.

Paolo afferma, fra l'altro, che «la magistratura forse ha più colpe di ogni altro».

Mentre il nostro Paese va avanti in una evidente deriva antidemocratica (e sottolineiamo con forza che questa considerazione non ha nulla a che fare con il colore politico degli uni e degli altri che stavano e/o stanno al governo, ma con la crisi di valori fondamentali come la libertà di stampa, come il diritto dei cittadini di indicare la propria preferenza per i candidati alle elezioni, come l’esistenza e l’efficienza di sistemi di controllo – amministrativo e giudiziario – sull’esercizio dei poteri amministrativi, come l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, e tanti altri) diventano sempre più urgenti e indifferibili cambiamenti concreti e tangibili del modo con cui viene gestito l’autogoverno della magistratura. Per un verso, per evitare che venga travolto dalla deriva testé detta e, per altro verso, perchè divenga più idoneo ai più impegnativi compiti che lo attendono.

E invece nessun segno di autocritica viene da chi per primo ha il dovere di promuovere quei cambiamenti, mentre accadono fatti che sono stati di recente lucidamente analizzati in un bell’articolo di Silvio Liotta su questo blog, dal significativo titolo “La preoccupante alleanza fra magistratura e politica”.

L’intervento di Paolo Borsellino ripreso nel video qui sotto fa anche giustizia di un pretestuoso espediente retorico con il quale viene stigmatizzato chi tenta di indurre – come può – dei cambiamenti.

Uno dei falsi slogan che continuamente ci vengono inflitti dai difensori dello status quo è quello per il quale i magistrati dovrebbero stare zitti e non dovrebbero rendere pubblico il proprio disagio né denunciare i gravi attentati alla possibilità stessa che vi sia una giustizia che costantemente chi è più forte, chi ha più potere compie.

Nel corso della trasmissione Annozero del 4 ottobre scorso il dr Luigi Scotti, già Presidente del Tribunale di Roma, allora Sottosegretario di Stato e poi anche Ministro della Giustizia è giunto al punto di affermare – contro il vero – che Paolo Borsellino, a differenza di Luigi De Magistris, mai aveva reso interviste pubbliche (su quella sorprendente presa di posizione del dr Scotti ci permettiamo di citare una riflessione sarcastica che si può leggere a questo link).

Nel video qui sotto Paolo Borsellino racconta come si determinò a prendere posizioni pubbliche anche clamorose in difesa del lavoro suo e di Giovanni Falcone, per costringere così il Consiglio Superiore della Magistratura ad assumersi le sue responsabilità.

Perché la commemorazione dei morti non suoni offesa alla loro memoria, è indispensabile, a nostro parere, che dalle loro storie si traggano conseguenze concrete e operose.

E, com’è scritto nel biglietto da visita del nostro blog, “nessuna riforma può essere efficace se non comincia da noi stessi”!








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Il “Pacchetto Sicurezza”: ogni tanto uno si chiede se sogna o se è desto!

Versione stampabile



di Bruno Tinti
(Procuratore Aggiunto
della Repubblica di Torino)



dal blog di Chiarelettere


Qualche volta questo succede quando si vive una situazione troppo bella per essere vera; che so: una ragazza bellissima ha appena accettato di uscire a cena con te. Non ci posso credere!, si dice il fortunato.

Molto più spesso però l’esperienza para onirica è di tipo negativo. L’esempio tipico e ricorrente riguarda le iniziative adottate dalla classe politica nei più disparati settori; si resta increduli. Almeno, io resto incredulo nel settore di cui ho una qualche esperienza, quello della Giustizia. Poi mi rendo conto che è tutto proprio vero e mi … arrabbio; poi mi deprimo; poi mi rassegno.

Veniamo al dunque: il cosiddetto pacchetto sicurezza.

Per la verità, straordinariamente, qualcosa di intelligente vi è stato inserito: hanno abolito il patteggiamento in appello (almeno, così si legge nella prima versione del testo reperita su Kataweb). Trattasi di una delle situazioni para oniriche del primo tipo, quelle della ragazza bellissima che accetta di uscire a cena con te: da non crederci. E infatti mi sa che non resisterà agli aggiustamenti successivi e che alla fine il patteggiamento ce lo ritroveremo reintrodotto a furore di popolo … avvocatesco.

Poi c’è un’altra cosa furba: la subordinazione della sospensione condizionale della pena all’eliminazione delle conseguenze del reato. Per capire bene di che si tratta bisogna sapere che se uno è incensurato e viene condannato a una pena inferiore ai due anni di reclusione, non va in carcere: la pena resta sospesa per 5 anni e, se questo non commette altri reati, non la sconterà mai; se invece commette un altro reato sconta sia la pena per il reato nuovo che quella che gli era stata sospesa.

Bene, questo beneficio, dice il nuovo pacchetto sicurezza, può essere concesso solo se il condannato elimina le conseguenze dannose del reato; insomma se rimette tutto a posto o risarcisce il danno cagionato.

Una cosa ovvia, si può pensare; ma nel nostro sistema penale l’ovvio è merce rara; e una cosa così intelligente non si era mai vista.

Anche qui uno pensa: ma davvero questa bellissima ragazza viene a cena con me?

Poi scopre che è tutto vero, ma solo per il reato di cui all’art. 635 codice penale.

Di che si tratta?; beh, è il reato della fidanzata tradita, quella che va sotto la casa del fidanzato e gli riga la macchina o gli buca le gomme.

In questi casi, dice il pacchetto sicurezza, la fidanzata non andrà in prigione se porta la macchina dal carrozziere per farla riparare o se compra un treno di gomme nuovo.

E tutti gli altri reati? Che so, una villa costruita in cima a un promontorio in riva al mare, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e, naturalmente, costruita senza licenza. Oppure un bel palazzone di 10 piani costruito in zona destinata a parco pubblico. Oppure un appalto concesso a chi non doveva averlo e che lo ha avuto perché ha pagato un sostanziosa busta (con danno ovvio per chi invece l’appalto avrebbe dovuto averlo). Oppure una pubblica fornitura eseguita con materiale di scarto. Oppure un bel falso in bilancio con il quale l’amministratore della società si è portato via la liquidazione di quei 200 o 300 soci che l’avevano investita … Oppure fate voi, tutto quello che leggiamo sui giornali ogni giorno.

Ecco, per tutti questi reati il discorso non vale. Qui la sospensione condizionale della pena viene concessa subito, la villa o il palazzo non vengono demoliti e nemmeno sottratti a chi li ha costruiti che continua a starci dentro; l’appalto ormai è stato eseguito e le fatture vengono pagate; i danni eventuali saranno richiesti con un bel processo civile (tanto lo sanno tutti che i giudici civili lavorano poco e hanno tanto tempo a disposizione) e se va bene saranno pagati tra una decina d’anni. E il falso in bilancio? Beh, ma per quello, si sa, il processo manco comincia …

Allora si capisce che siamo nel solito brutto sogno e che purtroppo è tutto vero.

Dove proprio piombiamo in un incubo è quando leggiamo della nuova arma decisiva per la lotta all’immigrazione clandestina, dello strumento che risolleverà le patrie sorti e libererà l’Italia dalla piaga endemica dei clandestini: il nuovo reato di immigrazione clandestina, punito da 6 mesi a 4 anni.

Per capire bene in che pasticcio ci stiamo cacciando, andiamo per ordine.

Chi dunque è immigrato clandestinamente in Italia, secondo i nostri Solone (trattasi di un celebre legislatore dell’antichità) commette reato.

Ogni reato deve essere denunciato e l’autore di esso deve essere processato. Quindi diventa imputato.

Come ogni imputato, anche questo, che da adesso chiamiamo Alì Ben Mohamed deve essere iscritto nel registro degli indagati (tempo medio – di un segretario bravo – minuti 5)
Alì Ben Mohamed in verità è anche detenuto perché Solone ha pensato di prevedere che l’immigrato clandestino deve essere obbligatoriamente arrestato.

Siccome Solone ha anche pensato che Alì Ben Mohamed deve essere giudicato con rito direttissimo, nelle 48 ore il nostro viene portato in Tribunale.

Questo significa che:

1) Il PM deve preparare una richiesta di giudizio con rito direttissimo (tempo medio minuti 5 – il provvedimento presumibilmente sarà preparato una volta per tutte e dovrà solo essere completato con le generalità di Alì Ben Mohamed e qualche altro dato variabile).

2) Bisogna anche annotare la cosa nel registro generale informatico (tempo medio minuti 1)

3) Poi questa richiesta deve essere trasmessa al Tribunale che dovrà annotarla anche lui nel registro informatico (tempo medio minuti 1) e predisporre l’udienza.

4) Nel frattempo il PM non ha finito: deve ordinare alla scorta di portare Alì Ben Mohamed in Tribunale per domani o dopodomani: tempo medio minuti 1, si fa tutto via fax.

5) Deve ancora citare un interprete per il processo perché Alì Ben Mohamed non parla l’italiano o comunque dice di non parlarlo e tu non puoi provare il contrario (tempo medio minuti 1)

6) Naturalmente l’interprete deve essere pagato e ciò richiede una serie di incombenti amministrativi (diciamo tempo medio minuti 5)

7) infine il Pm deve citare i testimoni (sarebbe il poliziotto che ha beccato il clandestino) altro provvedimento, altro fax, tempo medio minuti 1. Magari il poliziotto ha appena finito il turno oppure è di turno in un altro posto; ma deve venire apposta in Tribunale per dire che in effetti lui ha beccato il clandestino e che questo non aveva il permesso di soggiorno. Deve venire per forza perché il suo rapporto, quello che aveva scritto allora e che racconta come si sono svolte le cose, non può essere dato al giudice se l’avvocato difensore si oppone; e, per la verità, se l’avvocato difensore non si opponesse non farebbe il suo dovere, che consiste, tra l’altro, nel far durare il processo più a lungo possibile per tardare il momento della sentenza e per arrivare alla prescrizione.

Se Alì Ben Mohamed viene portato in Tribunale, se l’interprete viene, se il poliziotto viene, il processo si fa (tempo medio ore 1): si interroga il teste, PM e difensore parlano un po’ e spiegano perché l’imputato deve essere condannato e prosciolto, il giudice si ritira e poi ritorna e legge la sentenza. Prevedibilmente sarà di condanna e la tariffa si attesterà sul minimo (succede sempre così) 6 mesi, meno le attenuanti generiche, mesi 4; magari la pena sarà anche convertita in pena pecuniara, 38 euro al giorno per 120 giorni, uguale 4560 euro.

Poi però il giudice deve ancora scrivere la sentenza (tempo medio mezz’ora, anche qui è prevedibile un modello prestampato) .

Insomma, per fare tutto questo hanno lavorato 1 PM, 1 giudice, due segretari (uno del PM e uno del giudice) 1 cancelliere per l’udienza, un numero variabile di poliziotti (chi lo ha arrestato, chi ha fatto il rapporto, chi lo ha portato in carcere etc.), la Polizia penitenziaria della scorta, 1 interprete e 1 funzionario amministrativo che gli ha liquidato il compenso che gli tocca. Tempo medio complessivo (senza considerare il lavoro di poliziotti & C) ore 2.

In realtà quasi sempre il processo per direttissima non si farà; perché quel giorno di direttissime ce ne sono 15 o 20; non c’è solo l’immigrazione clandestina che prevede il rito direttissimo.

Ancora si commettono reati di porto d’armi e ancora ci sono casi di direttissima per reati piuttosto gravi (per esempio traffico di droga); poi ci sono gli altri reati della Bossi Fini che fanno concorrenza a questo nuovo arrivato.

Insomma, nel 70 % dei casi (ma sono ottimista) il processo sarà rinviato. A quando? Mah, da 1 mese a 6 mesi.

Il clandestino naturalmente è in giro per i fatti suoi da subito dopo la sentenza.

Eh già, perché, se è incensurato, Alì Ben Mohamed ha diritto alla sospensione condizionale della pena.

Ma soprattutto ci saranno un sacco di motivi per i quale in realtà Alì Ben Mohamed sarà prosciolto. Il punto è che il codice penale prevede una scriminante (sarebbe una causa di giustificazione): lo stato di necessità, ad esempio (art. 54 del codice penale). Forse Solone non lo sa, ma si tratta di una cosa che vale per tutti, anche per i clandestini.

Così se Alì Ben Mohamed dice che lui era entrato in Italia con visto turistico per stare insieme con la moglie e il bambino piccino che erano qui legalmente; che poi la moglie è scappata con un altro, lasciando lui e il bambino piccino; e lui mica poteva lasciare il bambino piccino in mezzo alla strada, ecco che il giudice lo assolve per aver agito appunto in stato di necessità.

Oppure Alì Ben Mohamed potrebbe dire che le sue preferenze sessuali sono non del tutto ortodosse e che nel suo Paese a quelli come lui gli fanno cose brutte e definitive, sicché lui al suo Paese proprio non può tornarci. E anche qui stato di necessità.

Oppure … ma qui la fantasia (e l’abilità di un bravo difensore) può esercitarsi e di fatto si esercita molto liberamente.

Sicché che questo odioso immigrato clandestino venga condannato non è proprio del tutto certo.
In ogni modo, anche se condannato, Alì Ben Mohamed rarissimamente resterà in carcere. E, se anche ci resta, dopo 9 mesi deve essere buttato fuori per espressa disposizione di legge (sono le norme sui termini di carcerazione preventiva, questa cosa orribile che viene sempre vituperata tranne, pare, per Alì Ben Mohamed).

Comunque stiano le cose, Alì Ben Mohamed ha anche un altro diritto (lo so, non sta bene che gli si riconoscano tutti questi diritti, però, che ci si vuol fare, è la legge): può fare appello contro la sentenza di condanna. E siccome l’appello non gli costa nulla, anche perché ha un difensore di ufficio che viene pagato dallo Stato (dal popolo per la verità, cioè anche da me, mannaggia), lui lo fa di sicuro.

Questo significa che la cancelleria del giudice che lo ha condannato deve trasmettere tutto alla Corte d’Appello che poi deve fare un certo numero di notifiche e poi un nuovo processo.
Non voglio rifare la tabella tempi e metodi di cui sopra. Ma ognuno capisce che tutto questo non si fa senza che un certo numero di persone ci lavori sopra e per un certo periodo di tempo. Ah, dimenticavo, qui i giudici che si debbono occupare di Alì Ben Mohamed sono 3.

Se la sentenza viene confermata, non è mica finita. Perché Alì Ben Mohamed ha ancora questo diritto di fare ricorso in Cassazione, dove altri 5 giudici si occuperanno di lui; il tutto previa una serie sterminata di trasmissioni atti (a Roma !!!), adempimenti procedurali e notifiche.
E la Cassazione magari confermerà che Alì Ben Mohamed è proprio colpevole e che la pena inflittagli è giusta.

Ma, e qui la cosa si fa interessante, in realtà Alì Ben Mohamed non deve stare in carcere, deve essere espulso; Solone ha deciso che il giudice , con la condanna, ordina l’espulsione.

Questa cosa è bellissima; Solone proprio non sa o non ha capito niente di quello che succede.
Dunque, ordine di espulsione, si avvia il procedimento amministrativo per l’espulsione di Alì Ben Mohamed. In soldoni il questore gli notifica un provvedimento che dice che lui deve andare via.

Ovviamente Alì Ben Mohamed se ne frega e non va via.

Resta a fare il clandestino che a questo punto ha commesso anche un altro reato, quello previsto dall’art. 14 comma 5 ter della Bossi Fini. Sicché quando lo prendono di nuovo, lo denunciano anche per questo nuovo reato.

Anche per questo reato si fa la direttissima; e quindi si riapre tutto quello scenario descritto più sopra, un sacco di gente lavora su Alì Ben Mohamed per un sacco di tempo.

Qui Solone dovrebbe sapere che l’assoluzione è la norma; e non perché i giudici sono una manica di incapaci, lassisti, comunisti. Ma perché la situazione (vera, verissima) che Alì Ben
Mohamed racconta è la seguente.

Cari giudici io ho provato ad ottemperare all’ordine di espulsione e, a mie spese, mi sono recato alla frontiera con la Spagna; però lì, quando gli ho fatto vedere l’ordine di espulsione (non i miei documenti perché io non li ho, me li hanno rubati – come si dice, se non è vera è ben trovata) mi hanno detto che non se ne parlava nemmeno e che loro non mi facevano entrare. Quindi ho provato nell’ordine e sempre a mie spese, in Francia, in Svizzera, Austria e Croazia; ma anche lì mi hanno cacciato via.

In aereo, sempre per via della mancanza di documenti, non mi hanno voluto far salire. Allora ho provato con una nave ma anche lì non mi hanno voluto. Che posso fare?

Eh, dice il PM, magari ha ragione lui, io lo so che questa cosa è vera se uno non ha i documenti. Però Alì Ben Mohamed è un furbacchione e i documenti ce li ha, solo che non li vuole far vedere e mente.

Eh no, salta su il difensore, il PM non può “supporre” (intanto fa un ghigno di compatimento) che il mio assistito abbia i documenti e che volontariamente non li presenti; lo deve “provare”. Lei lo può provare PM, mi dica lo può provare? Il PM si fa piccino piccino e con un filo di voce dice che effettivamente …

Il giudice assolve.

Alì Ben Mohamed probabilmente finirà in un CPT (questa è bellissima, il nuovo pacchetto sicurezza contiene una norma decisiva per la lotta alla criminalità in genere e a quella degli immigrati clandestini e no in particolare: i centri di permanenza temporanea non si chiameranno più così, si chiameranno da adesso in poi centri di identificazione ed espulsione. Insomma non più CPT ma CIP che, obbiettivamente, è più tenero, ricorda lo scoiattolino dei fumetti).

Magari il Giudice che giudica Alì Ben Mohamed per una volta non è né incapace, né lassista né comunista, e lo condanna.

Così anche qui Alì Ben Mohamed fa appello, ricorso per Cassazione e intanto gira in strada dove fa danni. Eh si, perché siccome è clandestino e pregiudicato, non trova lavoro. Anche lui ha il vizio di mangiare; poi a casa sua ci sono mogli e bambini piccini che hanno bisogno di mangiare anche loro. Sicché che farà: spaccia, probabilmente, oppure fa contrabbando di sigarette o vende CD taroccati (è una cosa gravissima, quell’altro Solone, quello di prima, avevano previsto una pena fino a 8 anni di reclusione!!).

Tutto questo scenario, secondo il Solone di adesso, dovrebbe essere moltiplicato per 650.000.
Magari 650.000 proprio no, forse 500.000, forse 400.000. Chi lo sa?

Tanto la magistratura deve solo attrezzarsi e ottemperare ai suoi compiti istituzionali , senza sterili e incostituzionali lotte con il potere politico.

E’ ridicolo solo a pensarsi, figuriamo a dirlo o a scriverlo.

500.000 processi per questo nuovo reato non potrebbero mai essere fatti. E vero che non si può peggiorare un sistema penale come il nostro. E’ già morto del tutto.

Ma insomma ….

Un’ultima cosa.

Forse non c’è motivo di essere così pessimisti: Forse non succederà niente di tutto questo.

Vedete, nel testo del decreto sicurezza che c’era su Kataweb questo nuovo reato è previsto così: “lo straniero che fa ingresso nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente Testo Unico (sarebbero le norme sull’immigrazione) è punito etc.”

Questo significa che il reato viene commesso nel momento in cui lo straniero fa ingresso nel territorio dello Stato.

Siccome anche Solone sa (lo sa?) che c’è l’art. 2 del codice penale che dice che nessuno può essere punito per un fatto che secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato; e siccome questa nuova legge non c’era (proprio perché è nuova) quando i 650.000 sono entrati; ecco che i nostri clandestini possono stare tranquilli. Loro sono entrati clandestinamente quando la cosa non era reato.

Certo, possono essere espulsi, ripescati, denunciati perché non hanno obbedito all’ordine di espulsione, tutto come prima. Però per il reato di immigrazione clandestina non possono essere processati.

I nuovi, quelli che entreranno dopo l’entrata in vigore della legge, questi si, dovranno essere sottoposti a processo. E siccome non dovrebbero essere del tutto cretini; o comunque i loro difensori qualcosa gli suggeriranno, certamente ci diranno che è vero che sono clandestini ma sono entrati nel 2007 (a fare tanto) e da allora mai nessuno li ha fermati ….

Speriamo che siano pochi.

Domanda finale.

Se Solone gli immigrati non li vuole proprio, ma perché non li espelle da solo con tanti bei provvedimenti amministrativi fatti da questori, prefetti, sindaci e compagnia cantante; e non lascia i magistrati in pace a fare il loro lavoro?

Io avrei un po’ di falsi in bilancio, frodi fiscali, corruzioni e robette di questo genere che aspettano sul mio tavolo …



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venerdì 23 maggio 2008

Assemblea a Napoli sulla questione morale


Ieri, su iniziativa della Giunta Distrettuale di Napoli dell’Associazione Nazionale Magistrati, si è tenuta a Napoli una assemblea su “La questione morale”.

All’assemblea ha partecipato un numero ben più elevato del solito di magistrati.

Riportiamo qui il manifesto di convocazione dell’assemblea e il deliberato approvato alla fine di essa.

Un grazie di cuore ai colleghi che hanno pensato e organizzato l’assemblea e a quelli che, con la loro partecipazione, vi hanno dato vita e contenuti.



Il manifesto di convocazione:


Associazione Nazionale Magistrati
Sezione del distretto di Corte di Appello di Napoli



La questione morale è la vera questione della magistratura.

E’ la questione di come la magistratura appare al suo interno e all’esterno agli occhi della società civile.

Nel corso degli anni abbiamo saputo gestire l’indipendenza che ci è affidata dalla Costituzione e che ci è stata messa concretamente in discussione dalla Politica?

Come ha funzionato la macchina disciplinare verso coloro di noi che hanno sbagliato?

Come avrebbe dovuto funzionare e come ci auguriamo che funzioni nel prossimo futuro?

E a prescindere dalla materia disciplinare, quali sono i limiti che dovremmo porci nel nostro comportamento quotidiano, nel ricoprire cariche e nello svolgimento di incarichi che ci possono allontanare dal lavoro, e a volte nel cumularli?

L’indipendenza è solo una nostra preorgativa o è anche un onere da adempiere nella vita privata?

Come possiamo interagire con la società e gestire le nostre frequentazioni?

Anche nel nostro distretto vi sono stati casi significativi in cui questi interrogativi sono rimasti troppo a lungo senza risposta.

Molti colleghi, inoltre, ci hanno chiesto un dibattito per affrontare la vicenda De Magistris.

Di questo e di tanto altro vogliamo discuterne insieme giovedì 2 maggio alle ore 15 presso l’aula 116 del N.P.G., ove è convocata l’assemblea della sezione napoletana dell’A.N.M., che noi speriamo sia molto partecipata.

Il Presidente Sergio Amato

Il Segretario f.f. Tullio Morello

________________


Il deliberato finale:


L’Assemblea della Sezione dell’A.N.M. del distretto di Corte di Appello di Napoli:

- Rivolge un forte richiamo all’A.N.M. nazionale affinché ponga al centro della sua attenzione e azione la questione morale in magistratura, e cioè i rapporti opachi tra magistratura e centri di potere politico-affaristici.

- Richiede all’autogoverno un intervento puntuale, tempestivo e completo su quegli uffici giudiziari e quei magistrati coinvolti in vicende che hanno avuto risalto anche pubblico per i loro comportamenti poco trasparenti.

- Rivolge un ulteriore richiamo all’A.N.M. nazionale affinché presti attenzione a quei comportamenti dei magistrati connotati da neghittosità e carenza di professionalità che ricadono sulla credibilità dell’intera magistratura.

- Invita l’A.N.M. nazionale ad attivare per questi comportamenti una vigilanza al proprio interno, con applicazione dei principi del codice deontologico ed eventuali sanzioni interne.

- Invita, infine, l’Associazione a prestare prioritaria attenzione al funzionamento, alla trasparenza ed efficacia dell’azione degli uffici giudiziari meridionali, oggi particolarmente impegnati a tutelare sul territorio i diritti fondamentali della persona.

Il Presidente Sergio Amato

Il Segretario f.f. Tullio Morello



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In ricordo di Giovanni Falcone

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Per ricordare Giovanni Falcone nel 16° anniversario della strage di Capaci, riportiamo una lettera aperta della Redazione del Circolo Culturale della Strada Persa, tratta dal sito di Salvatore Borsellino.


Una guerra solitaria

Caro Giovanni,

una lettera aperta è forse una cosa sciocca in questo caso, ma è un modo come un altro per renderti omaggio nella ricorrenza della tua terribile e prematura fine, avvenuta proprio oggi, sedici anni fa.

Sentivamo il bisogno di scriverti questa lettera perché, come molte persone che non ti hanno mai dimenticato, sappiamo di dover tramandare quest’oggi la tua eredità ed il tuo pensiero, e fare in modo che, per quanto possibile, la nobile lotta per la quale hai offerto la tua stessa vita non risulti vana.

“… la mafia è un fenomeno umano, e come ogni fenomeno umano ha un inizio e una fine: questo mi dà il conforto di sapere che prima o poi riusciremo necessariamente a sconfiggerla …”

“… la mafia è un’organizzazione criminale unitaria e verticistica, rigidamente gerarchizzata, che conta appoggi nella criminalità organizzata, nonché nell’imprenditoria, nella società civile e nelle istituzioni …”


Studiare i tuoi scritti e ripercorrere le vicende della tua professione è stato per noi un momento di crescita fondamentale, e per certi versi illuminante.

Leggendo le tue parole abbiamo capito che decenni di onesto e coraggioso lavoro di magistrato antimafia ti avevano donato una conoscenza di Cosa Nostra assolutamente profonda e rara.

Le tue idee superavano molti dei luoghi comuni che circondano questo cancro della nostra società, quasi a volerlo rendere benigno, e quindi meno intollerabile: tu avevi scoperto ed avevi capito cose talmente sconvolgenti che avrebbero fatto vacillare e forse crollare la democrazia italiana, sotto il peso dei suoi segreti impronunciabili.

Avevi capito, ed oggi lo realizziamo anche noi, che ci sono cose che non si possono dire.

Sono delle zone grigie, dei misteri insondabili che adombrano questo Belpaese, dei quali è meglio non parlare perché a farlo si rischia di finire al manicomio, se non al cimitero.

Ed una di queste zone grigie è proprio quella che circonda l’eterna lotta tra lo Stato e la mafia, la guerra suprema per il prevalere della legalità sulla criminalità organizzata.

Così viene chiamata, e così uno se la immagina: come una guerra, in cui due potenze si scontrano e alla fine soltanto una prevale. Ma in verità, se ci si ferma a riflettere sui fatti storici che hanno segnato, negli ultimi trent'anni, la storia di questo interminabile conflitto, si scoprono degli episodi che a tutto fanno pensare fuorché ad uno Stato realmente interessato a debellare Cosa Nostra.

Troppi fatti inquietanti hanno segnato questa ambigua lotta.

Basta ricordare la Procura di Palermo degli anni ‘80, il “palazzo dei veleni”, nel quale tu operasti per anni, dove un misterioso Corvo recapitava ai colleghi lettere minatorie anonime, aggirandosi nei meandri del pool antimafia per capirne le strategie e spifferarle ai suoi referenti di Cosa Nostra.

Basta ricordarsi del maxi-processo svoltosi a Palermo nel 1985, da te fortemente voluto ed istruito con uno sforzo sovrumano, e ricordare il modo in cui il suo potenziale contraccolpo sul sistema politico venne disinnescato impedendoti di succedere a Caponnetto alla direzione del pool antimafia, e designando invece “dall’alto” a tale ruolo Antonino Meli. Un uomo onesto, senza dubbio, che però fece regredire il lavoro del pool di decenni, rinunciando ad ogni velleità di alzare il tiro delle indagini a livello istituzionale.

Vedi, ormai andiamo convincendoci che i magistrati non sono tutti uguali: ci sono magistrati giusti e magistrati sbagliati, e tu e il tuo amico Paolo Borsellino eravate magistrati sbagliati, scomodi, perché non vi stava bene che le indagini si fermassero ogni volta al boss siciliano di turno, senza percorrere le innumerevoli piste mafiose che portavano alla Palermo bene, agli studi di liberi professionisti, ai nomi di rispettabili imprenditori, o a Montecitorio.

Concepivate la giustizia come un concetto perfetto ed assoluto: se la si vuole, la si deve cercare sino in fondo, senza fermarsi davanti alla lussuosa porta dello studio di un onorevole.

Un pensiero così, non è difficile capirlo, era una mina vagante per quello stesso sistema legale che voi due rappresentavate.

Tu e Paolo eravate due maestri dell’antimafia: conoscevate il vostro nemico così bene che eravate perfino arrivati a scoprire tutti i suoi stretti intrecci con la massoneria, lo Stato ed i servizi segreti.

Per questo vi fecero fuori: va bene tutto, va bene la giustizia, però a un certo punto alt, certi coperchi non li si può sollevare.

La ragion di stato viene sempre e comunque prima della giustizia.

Per questo è sempre meglio che anche in magistratura, nei posti che contano, ci siano le persone giuste, gente inoffensiva: come li ha definiti Marco Travaglio nel suo libro Intoccabili, “gli specialisti delle carte a posto”.

In quella Procura spaccata e sordida di veleni è ormai chiaro che qualcuno combatteva per la legalità pura e per lo Stato di diritto, mentre qualcun altro rispondeva ad ordini politici superiori, mimetizzandosi nella suddetta zona grigia.

Diventano quindi chiare e logiche le infami campagne di delegittimazione con cui ti colpirono quando pretendesti di approfondire i legami occulti mafia-politica interrogando a 360° il super pentito Tommaso Buscetta, il quale lasciò intendere che di legami Stato e mafia ne avevano sempre avuti, e forti, anche; salvo poi riservarsi di non fare nomi, poiché sapeva che ciò avrebbe comportato la tua condanna a morte.

Ma di chi temeva la reazione Buscetta, se voleva difenderti dalla politica italiana?

Chi tra i politici aveva interesse a che l’operato del pool fosse mantenuto low profile, per non scomodare interessi di Stato?

Che cosa sapeva, Buscetta, di così sconvolgente da non poter essere detto?

“Dottor Falcone, ci sono delle cose che io so ma non posso dirle, perché se gliele dicessi finiremmo entrambi al manicomio”, ti disse una volta Buscetta.

Eccole ritornare, le cose che non si possono dire: e chi si ostinava a dirle nonostante tutto allora era proprio un rompicoglioni, anzi una minaccia da eliminare ad ogni costo, prima che scoperchiasse verità sconvolgenti.

Ecco perché decretarne l’isolamento, il ripudio, la diffamazione, la delegittimazione, che in un contesto come quello in cui tu e Paolo operavate equivaleva ad una condanna a morte.

Un isolamento decretato proprio dallo stesso establishment politico-informativo che, subito dopo le stragi, si affrettò a riabilitarvi pubblicamente distribuendo tardive medaglie al valor civile, grondanti retorica ed ipocrisia, poiché provenienti da quello stesso Stato che fino a un mese prima vi aveva osteggiati e denigrati in ogni modo.

Un modo come un altro per dimostrare che in realtà le istituzioni apprezzavano Falcone e Borsellino, e ne rimpiangevano l’orrenda fine: ma appuntare sui vostri petti dilaniati la medaglia al valor civile è stato solo l’ultimo affronto, forse il più vergognoso, perché perpetrato al solo fine di salvare la faccia allo Stato, quando voi non eravate più in grado di ribellarvi.

A ricordare tutto questo, e le altre decine di morti forse meno celebri come Rocco Chinnici e tanti altri, di fronte all’evidenza dei fatti storici diviene logica ed ineludibile la conclusione che Stato e mafia non sono affatto poteri distinti ed antagonisti, ma costituiscono invece un duopolio inscindibile di potere ed interessi economici, che trova fisiologica espressione non nello scontro frontale, bensì nella negoziazione e nell’appoggio reciproco.

Del resto fu proprio per essersi rifiutato di piegarsi alla “trattativa” con Cosa Nostra (intavolata dalle istituzioni subito dopo il tuo attentato) che venne infine eliminato anche Paolo Borsellino, il quale con la sua integrità rappresentava un fastidioso ostacolo a quelle liaisons dangereuses.

È una triste ma irrefutabile verità, che tra lo Stato italiano e la mafia sono esistiti dei gravi rapporti collusivi, in virtù dei quali vi erano politici italiani che intrattenevano amichevoli rapporti con Cosa Nostra, e rappresentanti di quest’ultima che d’altro canto avevano sicuri referenti nelle istituzioni italiane, che ne curavano gli interessi e li tenevano al riparo da reazioni repressive dello Stato che potessero veramente danneggiarli.

L’esistenza del cosiddetto “terzo livello” della gerarchia mafiosa, ossia quello istituzionale, per dimostrare l’esistenza del quale tu e gli altri martiri deste la vita, appare oggi come una verità inconfutabile.

Non fu affatto guerra, né conflitto tra Stato e mafia, bensì una crociata solitaria, una tragica e solitaria guerra condotta da pochi uomini valorosi che non tolleravano di prendere ordini da nessuno, se non dal principio di legalità e di indipendenza della magistratura.

Di conseguenza appare ormai chiaro che la sconvolgente tesi dei “mandanti occulti” delle stragi di Capaci e via D’Amelio, in base alla quale l’ordine di morte per te e Paolo sarebbe partito non da Cosa Nostra ma da più su, dai disegni di qualche “mente raffinatissima”, è più che una semplice ipotesi.

Tu avevi già capito tutto, e anche Paolo, che nei giorni prima di morire ripeteva ai familiari e agli amici “È arrivato a Palermo il tritolo per me. E può anche darsi che a farmi saltare in aria sia la mafia, ma alla fine chi avrà ordinato la mia morte saranno altri”.

Ma ci sono cose che non si possono dire, e questa è una di quelle.

Verrebbe da dimenticarsela proprio, perché a pensarla c’è da impazzire, oppure emigrare a ventimila chilometri da qui, lontano da questa palude marcia di corruzione, faide e disonestà che è diventata l’Italia.

Oppure prenderne atto, continuare ad impegnarsi per diventare un magistrato sbagliato e provare a muovere guerra, un giorno, a questa orrida distopia.

Non è semplice, di certo, ma lo è un po’ di più quando lo si può fare stando sulle spalle di maestri come te, Paolo, Rocco e tutti quelli che sono venuti prima di noi, a dare il loro contributo.

In questo triste giorno che commemora la tua fine, ripensando a te e a tutto ciò che hai fatto per questo paese che non ti meritava, ci viene in mente la frase che pronunciasti quando già avevi capito di avere i giorni contati, e sapevi che presto ti avrebbero eliminato:

“Possono uccidere gli uomini, ma non possono uccidere le nostre idee: quelle sopravvivranno sempre, e continueranno a vivere e a camminare sulle gambe di chi verrà dopo di noi”.

E ancora una volta avevi ragione. Forse, paradossalmente, è stata proprio la mafia a renderti giustizia uccidendoti.

Grazie Giovanni per quello che hai fatto per tutti noi. Prestare alle tue idee le nostre gambe, ora, per farle camminare ancora a lungo e portarle lontano, è il minimo che possiamo fare.

La Redazione del Circolo Culturale della Strada Persa


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La finta democrazia


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di Marco Imperato

(Magistrato Distrettuale Requirente presso la Procura Generale della Corte di Appello di Bologna)



La bufera mediatico-istituzionale che è seguita alle dichiarazioni di Travaglio a “Che tempo che fa” circa il neo presidente del Senato fa riflettere ....

E’ stato violato il diritto al contraddittorio?

Quindi questo principio giuridico (che vediamo in realtà più nei film americani che nelle nostre aule di giustizia ...) è un principio inviolabile anche del giornalismo?

Che ingenuo che sono: credevo che invece fosse necessario e sufficiente che le affermazioni fatte dal giornalista fossero riscontrate e documentate con il massimo scrupolo ... (altrimenti addio Watergate ... tanto per fare un esempio).

È persino ovvio che il contraddittorio sia una bella cosa, ma l’impressione è che da noi si prendano in prestito certi moderni concetti giuridici anglosassoni solo per strumentalizzarli ... diventano la foglia di fico con cui coprire ciò che non vogliono che l’opinione pubblica sappia: pensate a come e da chi e perché viene invocata la privacy ...

Nell’informazione poi il contraddittorio non è che una declinazione di comodo della par condicio: serve solo a salvare capra e cavoli per un giornalismo nano incapace di fare reportage indipendenti e domande scomode.

Indagare? Documentarsi? Ricercare? Domandare? Provocare? Far riflettere?

Ma no ... quante storie ... qui da noi, soprattutto se si vuole restare in sella alla propria poltrona, il giornalista deve essere solo il presentatore delle notizie, il microfono (e a volte il megafono) dei potenti.

Unica avvertenza minimale (non sempre rispettata, per altro): far parlare tutti i potenti uno alla volta, così che nessuno se ne abbia a male.

Cosa dicono non importa, non è analizzato, non è criticato, non spiegato al pubblico, che deve solo ingurgitare quello che gli viene preparato e premasticato senza filtri dal sistema mediatico.

Dove sta la verità non è un problema del giornalista. Tanto meno dare gli strumenti di una comprensione critica al cittadino ...

Questo cerchiobottismo è essere oggettivi? Questo è il Servizio Pubblico che tutti sostengono sarebbe stato offeso da quello che Travaglio dice e nessuno può smentire?

Naturalmente questo garantismo ipertrofico, che già conosciamo nelle aule di udienza, vale solo se l’oggetto della discussione è meritevole di tutela.

Quindi, in sintesi, se sei un politico o rivesti una carica dello Stato hai diritto al contraddittorio (che equivale alla certezza del silenzio, visto che Schifani non lo concederà mai il contraddittorio a Travaglio) ... se invece sei un extracomunitario, un pedofilo, un presunto terrorista o camorrista ... allora possiamo dire e dirti di tutto anche in tua contumacia.

Questo garantismo a doppio binario lo vedremo presto applicato anche nelle aule processuali, dove ben diversi saranno i margini di difesa per i brutti e cattivi rispetto ai belli e innocenti che forse hanno sbagliato.

Chi invita Bin Laden alla prossima puntata su Al Qaeda?

Chi ospita Messina Denaro quando si discute di mafia?

Ma non è solo questo.

In realtà le cose dette da Travaglio erano state già scritte. E qui viene il bello ...

Finché fai giornalismo e reportage di nicchia, nel tuo orticello di poche migliaia di lettori che hanno la capacità e la voglia di approfondire, non crei nessun problema ... e quindi viva la libertà di espressione e il diritto alla cronaca.

Se però pretendi di far conoscere alcuni fatti al grande pubblico (“Che tempo che fa”) ... alt!

Ma come osi? Ma come ti permetti?

Il popolo è minorenne , diceva Gian Maria Volontè in quel film? qualcosa del genere ...

Se proprio vuoi sapere certe cose, vatti a comprare il libro di stampa alternativa, ma non disturbare la digestione al cittadino che vuole solo intrattenersi prima di sapere chi vincerà il campionato.

Viva la libertà!

Viva questa finta democrazia ...

Perché se non ci sono cittadini informati, la democrazia è solo una maschera, una finzione.


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giovedì 22 maggio 2008

Ma quale tolleranza zero!


Riportiamo qui l'audio di una intervista resa ieri a Eco Radio da Bruno Tinti, con riferimento agli inganni sottesi alla propaganda di una pretesa "tolleranza zero" nei confronti degli immigrati.

Il tema è già stato trattato da Bruno in moltissime altre occasioni e, con riferimento a ciò che è stato pubblicato su questo blog, rinviamo a:

Le responsabilità della politica nella crisi della giustizia

Una giustizia forte con i deboli e debole con i forti

Il legislatore non vuole che la giustizia penale funzioni

Il cuore del problema: legge, diritti, giustizia.

Rumeni, giustizia e demagogia








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Caso Delfino: di chi è la colpa?


di Andrea Falcetta
(Avvocato del Foro di Roma)


Domenica 11 maggio pomeriggio su RAI 1 si parla di Giustizia lenta e delle conseguenze a volte assai gravi che ne possono derivare, e ci sono tra gli altri i genitori della povera ragazza uccisa a Sanremo da un fidanzato violento.

Il caso è noto alle cronache: Luca Delfino era stato indagato per l’omicidio della sua precedente fidanzata, e si addebita al pubblico ministero che aveva seguito la relativa inchiesta di non averne richiesto la custodia cautelare, il che avrebbe sicuramente evitato che potesse compiere un secondo omicidio.

La telecamera si sofferma più volte e lungamente sul viso bello e pulito della giovane vittima, e tutto il discorso rimane purtroppo viziato dall’inevitabile commozione per la sorte della povera ragazza.

Vista così, la vicenda sembra di una chiarezza disarmante, e lo stesso Procuratore Aggiunto di Torino dott. Laudi si trova in serio imbarazzo nel fornire delle spiegazioni che possano in qualche modo accontentare l’impaziente e legittima sete di sapere che anima tanto i parenti della vittima quanto la pubblica opinione.

A questo punto devo fare una premessa: due anni fa, pochi giorni prima di ferragosto ero davanti ad un giudice della Sezione Civile del Tribunale di Civitavecchia (una donna e gentilissima che tratta rito del lavoro e che si trovava lì applicata per la feriale) che, con grande senso del dovere ed incurante del caldo e della stanchezza, esaminava la mia richiesta di emanazione di un ordine di protezione nei confronti di un marito violento (che peraltro deteneva armi in casa), da me proposto a tutela di una moglie maltrattata (percosse quotidiane e violenze psicologiche) e delle sue piccole bimbe.

Alla vigilia di ferragosto quel giudice emise l’ordine che fu prontamente notificato dai Carabinieri (estremamente professionali ed efficaci nell'occasione, tanto che inviai una richiesta di encomio al Comando Generale), e la donna e le sue figlie giunsero finalmente alla fine di un incubo.

Eguale richiesta avevo presentato per la stessa cliente, e nello stesso periodo, anche ad un pubblico ministero di Roma, che tuttavia si degnò di convocare la mia assistita soltanto un anno dopo quel ferragosto, e mentre la assumeva a sommarie informazioni la rimproverava (irritualmente) di non avere portato con sé il proprio avvocato.

Se fosse dipeso da quel pubblico ministero la mia cliente e le sue bimbe avrebbero sofferto un altro anno di violenze, così presi carta e penna e le misi nero su bianco che poteva anche dimenticare quel fascicolo, visto che la sua collega di Civitavecchia aveva fatto il proprio dovere con tanto scrupolo e tanta efficienza.

Mi pare ovvio fosse sottinteso che eguale complimento non mi sentivo di rivolgere alla sua persona.

Un avvocato che scrive e sottoscrive doglianze di tanta chiarezza ad un magistrato, certamente non potrà mai essere sospettato di svolgere difese d’ufficio a favore di altri magistrati, né tantomeno di nutrire alcun metus verso chicchessia.

Fatta questa necessaria premessa posso ora dire quel che penso del caso Delfino:

a) credo che sia la pubblica opinione che le vittime e/o i parenti delle vittime di un reato, meriterebbero un’informazione più consapevole ed approfondita, soprattutto in questa delicata materia, ed in tal senso sarebbe necessario che esistessero dei cronisti di giudiziaria non dico esperti ma almeno consapevoli delle regole processuali : al contrario invece, e come noto, spesso costoro dimostrano di non conoscere neanche la differenza tra giudice e pubblico ministero, tra udienza preliminare e dibattimento, tra misure cautelari e misure di prevenzione;

b) ogni volta che la cronaca ci porta alla ribalta casi come quello di Luca Delfino, il tutto finisce sempre ridursi alla strumentale contrapposizione tra coloro che vorrebbero un utilizzo indiscriminato, quasi “illegale” della custodia cautelare (svincolato cioè dai presupposti di legge, primi tra tutti i gravi indizi di colpevolezza), e chi invece continua ad esigere che prima di ricorrere a tale extrema ratio si sia vagliata la sussistenza di tutti i presupposti che la legge processuale impone in tal senso;

c) inoltre, ultimo ma non per ultimo, trasmissioni come quella che ho citato, all’indomani dell’esito elettorale, inducono facilmente al sospetto che ad uno sbaglio se ne stia velocemente sostituendo un altro: fino a ieri i magistrati erano tutti indistintamente degli eroi, da oggi invece sono tutti indistintamente degli incapaci svogliati e chi più ne ha più ne metta.

Il pubblico ministero che ha seguito il caso Delfino mi risulta essere tecnicamente molto preparato, ed in più nelle poche dichiarazioni pubbliche rese dopo il secondo omicidio di Delfino ha dimostrato anche di essere un gran signore, io avrei fatto fuoco e fiamme, al suo posto, contro chi tentasse di addebitarmi la responsabilità non solo morale ma anche giuridica di non avere impedito un crimine così grave.

E quel dibattito televisivo (rectius: processo sommario, peraltro in contumacia) come ogni trasmissione del suo genere si è limitato ad alimentare le emozioni di una piazza divisa tra il “tutti fuori” o il “tutti dentro”, senza capire che le questioni sono più complesse e meriterebbero maggiore approfondimento per poter sperare in una soluzione.

Sarebbe bastato portare la discussione sul contenuto della L. 154 del 2001, istitutiva dei cosiddetti “ordini di protezione”, per assegnare ben altro spessore alla discussione.

Si tratta di una legge che esiste nell’Ordinamento da ben 7 anni, e tuttavia devo riconoscere che ne percepisco un’insufficiente conoscenza anche da parte degli avvocati, sebbene agli stessi difensori delle parti offese, e non solo al pubblico ministero, sia consentito sollecitare l’emanazione di siffatti provvedimenti.

Il contenuto dell’ordine di protezione è lo stesso che vediamo nei film americani, viene ordinato al soggetto che sia indagato per violenze o maltrattamenti di non avvicinarsi alla sua vittima e di non avvicinarsi ai luoghi (ad esempio domicilio e posto di lavoro) abitualmente frequentati da costei, e l’eventuale inosservanza di tale comando configura il reato di dolosa inosservanza dell’ordine del giudice (art. 388 c.p.).

Inoltre la violazione dell’ordine di protezione comporta a mio parere la conseguente applicabilità del comma 3 dell’art. 280 c.p.p. con immediata sospensione delle garanzie previste dal comma 2 del medesimo articolo e la conseguente possibilità di procedere legittimamente all’arresto del trasgressore.

Si poteva in quella sede spiegare alla pubblica opinione che questa legge si riferisce ai soli coniugi e/o conviventi, per poi sollecitarne un miglioramento nel senso di estenderne l’applicabilità ad ogni situazione di violenza fisica o psicologica che sia costante e continuata nel tempo, ed ecco che miracolosamente avremmo dato occasione ai nostri politici di fare qualcosa di realmente utile.

Ecco quindi come avrei concluso la trasmissione se fossi stato io il conduttore.

Avrei detto: «non conosco le carte e dunque non so dire di chi sia la colpa nel caso Delfino, perché non so dire chi avrebbe potuto o dovuto fare cosa per evitare che accadesse, ma una cosa è certa: ora che vi abbiamo spiegato come sia possibile evitare che accada ancora, la colpa del prossimo omicidio sarà certamente di chi vive nel Palazzo senza ascoltare le grida di aiuto ed i consigli (perdonate la presunzione) alle volte preziosi e validi che provengono da noi comuni cittadini, ed avrà pertanto omesso di prendere in considerazione questa nostra richiesta in diretta televisiva avanti a 20 milioni di telespettatori. Grazie a tutti gli ospiti intervenuti. E adesso la pubblicità».



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