lunedì 27 ottobre 2008

Solo per giustizia



Ieri sera, nel corso di una trasmissione di RaiTre, è stata mandata in onda un’intervista a Raffaele Cantone, magistrato che per anni ha lavorato nella Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli.

L’occasione dell’intervista è stata la pubblicazione di un libro di Raffaele – “Solo per giustizia” – che sarà in libreria nei prossimi giorni.

Riportiamo qui – diviso in due parti – il video dell’intervista ripreso da YouTube. Il filmato può essere visto anche nel sito della Rai, a questo link.

Più sotto riportiamo anche un articolo di Roberto Saviano sul libro di Raffaele.


Video 1/2




Video 2/2





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Giustizia, la società con lo Stato. L’uomo della legge nella terra dei boss.



Raffaele Cantone, napoletano, diventa magistrato per amore del diritto. Assegnato alla Direzione distrettuale antimafia, combatte contro la camorra casalese.
Vive da anni sotto scorta. Adesso racconta in un libro la sua vita in prima linea.


di Roberto Saviano
(Giornalista)



da Repubblica.it del 26 ottobre 2008


Qualche volta, quando non ne posso più della mia vita blindata, sento Raffaele Cantone perché vive costantemente sotto scorta non da due anni, ma da molti di più.

Cantone ha scritto un libro che racconta il suo periodo alla Dda di Napoli, intitolato “Solo per giustizia”.

Diviene magistrato quasi per caso, dopo aver cominciato a fare pratica come avvocato penalista. Diviene magistrato per amore del diritto. Ed è proprio quel percorso che lo porta a divenire un nemico giurato dei clan.

Non lo muove nessuna idea di redimere il mondo, nessuna vocazione missionaria a voler estirpare il cancro della criminalità organizzata. Lo guidano invece la conoscenza del diritto, la volontà di far bene il proprio lavoro, e anche il desiderio di capire un fenomeno vicino al quale era cresciuto. A Giugliano. Un territorio attraversato da guerre di camorra che ricorda sin da quando era ragazzo.

“C’erano periodi in cui i morti si contavano anche quotidianamente, spesso ammazzati in pieno giorno e in presenza di passanti terrorizzati. Le nostre famiglie avevano paura. Per timore che potessimo andarci di mezzo anche noi, ci raccomandavano di non andare in giro per il paese, di uscire solo quando era necessario. Quindi gran parte del tempo libero la si trascorreva a casa di qualcuno dei ragazzi della comitiva. Ma quando si spargeva la voce di un omicidio, anche noi “bravi ragazzi” spesso non resistevamo alla tentazione di andare nei paraggi per sentire chi era la vittima, a che gruppo apparteneva e soprattutto se era qualcuno che conoscevamo. Perché capita così, nella provincia: anche se si appartiene a mondi diversi, finisce che ci si conosce almeno di vista o di fama. E fu proprio un ragazzo conosciuto solo di vista una delle vittime innocenti di quella faida che sembrava eterna. Era un po’ più grande di me e i sicari lo avevano scambiato per un affiliato della parte avversa, perché gli somigliava vagamente e soprattutto perché aveva un’auto di colore molto simile. Solo dopo avergli sparato si erano accorti dell’errore e si erano fermati. Ma alcuni colpi avevano raggiunto la colonna vertebrale e paralizzandolo in tutta la parte inferiore, avevano reso il giovane invalido per il resto della vita. Ancora oggi mi capita talvolta di incontrarlo, spinto sulla sua sedia a rotelle dalla moglie che all’epoca era la sua giovanissima fidanzata”.

Un uomo che si forma in una situazione del genere comprende che il diritto diviene uno strumento fondamentale per concedere dignità di vita. Una dignità basilare, quella di vivere, di lavorare, di amare. Dove la regola non soffoca l’uomo ma anzi è l’unico strumento per concedergli libertà.

Poco prima era stata uccisa una ragazza di poco più di diciotto anni, figlia di un collega di suo padre. L’unica sua colpa era stata quella di essere uscita di casa nel momento sbagliato. Morì al posto di un delinquente in soggiorno obbligato che più tardi sarebbe diventato uno dei capi del clan dei Casalesi, uno dei più feroci: Francesco Bidognetti, detto “Cicciott’ ‘e mezzanotte”.

Quel caso non ha mai avuto soluzione giudiziaria. E lentamente il ricordo si è sbiadito. I genitori sono morti entrambi di crepacuore. Anche il penultimo omicidio dei Casalesi è avvenuto proprio a Giugliano, non lontano da dove Cantone è tornato ad abitare con la sua famiglia. Quando si sono trasferiti nella casa nuova, i vicini e i negozianti hanno organizzato una raccolta di firme per mandarli via. Qualcuno ha persino lasciato una valigia al posto dove sosta la pattuglia di vigilanza: era vuota, ma doveva simulare un ordigno.

Il libro è la storia di questa quotidianità, la quotidianità di un magistrato in terra di camorra e delle ripercussioni pesantissime che questo pone anche sulla vita dei suoi famigliari. Come quando un maresciallo che in quel periodo faceva il capo scorta vuole portarlo a vedere la partita del Napoli. Cantone, sempre attentissimo a non accettare favori, continua a rimandare sino a quando l’invito viene espresso quando c’è pure suo figlio di cinque anni che è già tifosissimo. ““Papà, mi ci porti? Andiamo a vedere la partita? Ti prego!”. E allora accettai, a condizione che non piovesse”. La domenica il maresciallo si presenta con una persona sconosciuta che a sua volta ha portato il figlio. “Questa sorpresa mi seccò a tal punto che fui tentato di dire che avevo cambiato idea. Ma come facevo con Enrico? Non avrebbe più smesso di piangere per la delusione”.

Il giorno dopo, in Procura, chiamano Cantone chiedendogli con imbarazzo se è stato allo stadio e con chi. Perché l’amico del maresciallo è stato intercettato nell’ambito di un’inchiesta sugli affari dei Casalesi mentre assicurava uno degli indagati che a questo punto il pm sarebbe stato “avvicinabile”. Non ne consegue nessun danno all’indagine, ma Cantone è furioso e sconvolto. L’unica volta che per amore di suo figlio si è sforzato di abbandonare la diffidenza che il mestiere gli ha fatto divenire seconda natura, scopre che la passione innocente di un bambino è stata strumentalizzata e abusata.

La diffidenza ha dovuto impararla presto, anni prima di entrare in antimafia. È una lezione che si iscrive nella sua carne e dentro la sua anima. “Un giorno d’inverno stavo tornando a casa nel primo pomeriggio, con l’intenzione di chiudermi nello studio e guardare con calma alcune carte. Come al solito, prima di salire, mi fermai alla cassetta delle lettere per prendere la posta. Quella volta ci trovai soltanto un foglio piegato, senza busta. E ancora adesso, quando penso al gesto automatico con cui lo aprii e vidi cosa c’era scritto, risento i brividi che mi assalirono in quel momento. Era una sorta di volantino, composto da ben due pagine. In alto c’era una mia fotografia [...] Il testo era spaventoso. Un congegno osceno orchestrato con dati reali della mia vita e con calunnie gigantesche [...] Nel volantino c’era posto per tutti i miei familiari”.

Cantone corre a metterne al corrente il procuratore Agostino Cordova, capendo che l’attacco è gravissimo. Però non riesce ad immaginare la portata di quella campagna di diffamazione. Il giorno dopo il volantino arriva a tutti i colleghi, a carabinieri e polizia, a molti avvocati e politici campani, a tutte le redazioni dei giornali, al Csm, persino a Giancarlo Caselli e Saverio Borrelli. Migliaia di volantini mandati ovunque. Per distruggere un semplice sostituto procuratore che stava svolgendo un’indagine su un’immensa truffa assicurativa, seguendone le tracce per mezza Europa.

Sono pagine impressionanti perché evidenziano con estrema limpidezza come funziona la diffamazione. Non ti si attacca frontalmente, a viso aperto. Cercano di isolarti mettendo in circolazione il virus della calunnia, certi che da qualche parte l’infezione attecchisca e il contagio si propaghi. E che a quel punto il danno sarà irreparabile. ““Meglio una calunnia che un proiettile in testa” era una frase che mi fu detta come sincero incoraggiamento da più di un collega. Ma di questo, sebbene sia un’affermazione di buon senso, non ero e non sono tanto certo. Io mi sentivo come se cercassero di farmi una cosa anche peggiore che eliminarmi fisicamente. Perché si può distruggere un uomo, annientarlo, senza nemmeno torcergli un capello. E paradossalmente è molto difficile che questo accada quando si uccide veramente”.

È questo uno dei punti più dolenti. La diffamazione ti lascia vivo fisicamente, ma annienta tutto quello che hai fatto. Come una sorta di bomba a neutrone che lascia intatte le cose mentre cancella ogni forma di vita. La vita morale di un uomo non può mai essere distrutta così radicalmente come dalla calunnia. Per questo anche chi è abituato a uccidere spesso la preferisce al piombo.

Quando entra alla Direzione distrettuale antimafia e gli viene assegnato il Casertano, c’è chi commenta: “Come al solito, Raffae’, t’hanno fatto?”. Il che in italiano si tradurrebbe con “fregato” o forse ancora meglio con “ti hanno rifilato un pacco”. “La camorra casalese veniva vista come qualcosa di molto feroce e impegnativo e al tempo stesso provinciale, di scarso prestigio”.

Ma il processo Spartacus aveva segnato una svolta e il libro è un omaggio a tutti i magistrati che l’avevano istruito e a tutti quelli che, come Cantone stesso, hanno successivamente portato avanti un impegno difficilissimo: Di Pietro, Cafiero de Raho, Greco, Visconti, Curcio, Ardituro, Conzo, Del Gaudio, Falcone, Maresca, Milita, Sirignano e Roberti.

Perché in certi territori la lotta per la legalità e la giustizia è una battaglia combattuta ad armi terribilmente impari. I clan hanno danaro, armi, uomini, coperture e collusioni a non finire. Dall’altra parte i mezzi sono limitati, la mole di lavoro è talmente enorme che bisogna essere disposti a fare straordinari che per molti non sono nemmeno pagati. Tutto il successo è sulle spalle di chi continua a voler far bene il proprio lavoro: magistrati, carabinieri, poliziotti, finanzieri. Uomini che rischiano la vita per senso del dovere e magari anche per lealtà verso i superiori che hanno saputo conquistarsi la loro fiducia, una lealtà primaria da soldati in trincea, e che non vengono ricordati quasi mai. E invece il libro di Cantone gli rende omaggio e gli concede visibilità. Uomini che spesso in territori marci sono il vero argine per contrastare lo strapotere delle mafie. Cantone si sente uno di loro: non un eroe, semplicemente un magistrato che ama il suo lavoro perché ama il diritto, crede nell’accertamento della verità.

Questo per i boss è incomprensibile. Non riescono a concepire che un magistrato persegua solo la giustizia, non personalmente loro. Che non tutti gli uomini sono uguali a loro. I boss sanno che non tutti ammazzano e che non tutti resistono al carcere. Ma sono certi che tutti vogliono danaro, fama, donne e potere. E chi non lo ammette, sta dissimulando, mentendo, imbrogliando. Così la pensa Augusto La Torre, il ferocissimo quanto intelligente capo del clan di Mondragone che l’impegno di Cantone ha messo in ginocchio. È il primo a pianificare un attentato contro di lui ed è anche uno dei primi a pentirsi. Durante gli interrogatori indulge con particolare precisione sui dettagli degli omicidi che ha commesso: la prima strage di extracomunitari a Pescopagano, il gesto con cui tappa col dito lo zampillo di sangue che esce dal buco sulla fronte dell’autista di un capozona dei Casalesi, lo strangolamento con un filo della luce di un piccolo affiliato soltanto sospettato di essere un “infame”, mentre il boss continua a ripetergli “non ti faccio niente, non ti faccio niente”.

Eppure, ragiona Raffaele Cantone con amarezza, il clan che pareva sconfitto si riforma. Meno potente, ma il territorio riprende a sottomettersi. La camorra non è possibile sconfiggerla soltanto con indagini e processi, sequestri e arresti. Raffaele Cantone oggi non lavora più alla Dda, è diventato giudice al massimario della Cassazione. Ma ha voluto dare un altro strumento per sconfiggere le mafie. Un libro in cui si racconta come si arriva a diventare uno dei principali nemici dei clan e come è fatta la vita di chi li combatte: solo per giustizia.

(2008 by Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency)



8 commenti:

Anonimo ha detto...

Grazie Redazione!
Mi avete fatto conoscere un'altro Magistrato intellettuale,(Forleo, de Magistris, Lima, Scarpinato...) Cantone!
1-
"Se uno Stato non è in grado di applicare le leggi ordinarie perché dovrebe essere in grado di applicare quelle speciali?"
2-
"La differenza tra lo stato e i criminali e che lo Stato deve rispettare sempre le regole"
3-
"Tante volte lo Stato è arrivato quasi fino in fondo poi pare che all'ultimo abbia il timore proprio di arrivare veramente fino in fondo"
4-
"Loro si sentono parte dello Stato, si sentono di coprire un vuoto che tocca loro colmare"

C'è più antimafia in queste quattro frasi (specialmente nella quarta) che in 40 ann di lotta alle mafie!

Anonimo ha detto...

(')...l'accento mancante, scusate!

salvatore d'urso ha detto...

X Anonimo...

guarda che di magistrati in gamba c'è ne sono + di quanti ne immagini...

e poi avevi dimenticato Lima... :)

Anonimo ha detto...

Scusate la precisazione, ma un magistrato DEVE ESSERE un "intellettuale" !

Cosa volete altrimenti, un magistrato ignorante, sgrammaticato e cafone ?

Anonimo ha detto...

Per Salvatore D'Urso ed anonimo delle 0.29:
Ognuno ha la sua opinione del termine "intellettuale"! Per me significa rarissime persone sfortunate costrette a vivere tra alieni!
b

Gennaro Giugliano ha detto...

Ho seguito l'intera intervista del dott Cantone,la cosa più triste è vedere dei ruoli ribaltati totalmente in questa balorda società,nel senso che dovrebbero preoccuparsi tutti coloro che a vario titolo sono dediti a varie forme di criminalità organizzata a trovarsi nelle condizioni di chi si batte per la legalità e la trasparenza e sopratutto del rispetto delle leggi. ma onestamente credo che sia di estrema difficoltà sradicare questo male,purtroppo è un tumore che non siamo riusciti ancora a debellare ( mi riferisco all'intero sistema criminale/economico di tutte le associazioni più o meno conosciute sul ns territorio) spesso con l'avallo di quelli che noi crediamo personaggi al di sopra di ogni sospetto

Anonimo ha detto...

Ho seguito l'intervista al giudice Cantone. Ne ho apprezzato l'umiltà, ne ho notato lo sguardo malinconico, ne ho percepito l'amarezza. Avevo letto l'articolo toccante di Saviano sulla storia professionale ed umana del magistrato; il trasparire della partecipazione emotiva dello scrittore ha sicuramente rafforzato il suo modo di comunicarci un sentire che proviene dall'esperienza diretta, a noi nota. Per prima cosa, mi sono chiesta: perchè chi scrive libri di denuncia dei mali della società odierna, dovrebbe giustificarsi? E con chi? Ben vengano i magistrati, gli scrittori, gli intellettuali (per me non c'è distinzione), che ci considerino parte integrante del Paese, visto che si rivolgono a noi; ben venga chi voglia accorciare le distanze, tra parole come giustizia e legalità, ostentate in discorsi paludati da personaggi che le svuotano di senso, e noi cittadini, restituendocele piene di significato. Anche dall'esperienza del giudice Cantone emerge un dato inequivocabile: non si può svincolare l'aspetto teorico del proprio impegno, dal pratico. Un punto determinante dell'articolo di Saviano è la regola come fondamento di libertà; ed è grazie all'impegno coerente, alla testimonianza lucida ed oggettiva della scrittura del Dott. Cantone e di Roberto Saviano, che siamo in grado di comprendere che la parola legalità, deformata, conformata da un manipolo di malfattori al loro "gergo", per cui avviene una strana traslazione semantica, illegalità diventa legalità, debba essere intesa come un insieme di convenzioni che corrispondano al linguaggio della società sana. Il venir meno della regola, così intesa, stravolge la sintassi dei codici comportamentali civili. Trovo ammirevole il contributo arrecato dal giudice nel dare visibilità a chi ha proseguito il suo cammino, istruendo processi sulla base di principi di equità nell'applicazione delle leggi; nel ricordare chi non c'è più; nel ricordare, la parte di sè che ha lasciato nel precedente luogo di lavoro. Ciascuna parola ha rimarcato il legame indissolubile tra la dignità della persona e la dignità del professionista; una dote che scaturisce, come ci fa notare saviano, dall'essere "un magistrato che ama il suo lavoro perchè ama il diritto, crede nell'accertamento della verità".

Anonimo ha detto...

ho avuto occasione di conoscere il dott. cantone e vi dico che lui e' un uomo giusto onesto che crede nelllo stato(quello onesto)perche c'e' quello onesto e non.cantone e' un uomo puro ,corretto, e molto umano ma non con chi crede di fare il furbo con lui.ha dato tutto alla giustizia ma quella vera e giusta , io lo ringraziero per tutta la vita. parola di un collaboratore lui mi ha fatto capire il bene dal male.Antonio De Martino