domenica 22 febbraio 2009

Gli avvocati garanti del diritto




di Vito Pirrone
(Avvocato del Foro di Catania)





Si vive in un momento storico-politico particolarmente problematico, che vede proliferare iniziative riformiste che appaiono tali da poter incidere in modo rilevante sul sistema giudiziario nel suo complesso, sia sotto il profilo ordinamentale, che con riferimento alle norme sostanziali e processuali.

I progetti di riforme in atto rivestono notevole rilievo per l’avvocatura, la quale deve cogliere l’occasione e l’opportunità per riaffermare il proprio ruolo e la propria funzione di garante dei diritti dei cittadini, sia nella società, che nell’ambito del processo.

L’avvocatura, definita da taluni “professione di frontiera” tra giustizia e società, a cominciare dagli anni novanta mette in atto forme d’azione la cui specificità rompe con le visioni omogenee e organiche dello Stato.

Oggi nell’era della globalizzazione, più che in passato, la legislazione viene influenzata dall’economia e il diritto diventa sovrastruttura dell’economia.

Una tutela effettiva dei diritti dei cittadini si raggiunge solo in un sistema in cui ad un’avvocatura forte ed indipendente corrisponde una magistratura altrettanto forte ed indipendente.

Il processo è il fulcro sul quale ruota l’attuarsi concreto della giustizia, di conseguenza il funzionamento del processo assume rilevanza basilare nel superamento della crisi della giustizia. Nel processo penale, in particolare, avviene lo scontro in forma drammatica tra principio di autorità e quello di libertà.

E’ preoccupante il conflitto che si è aperto tra esecutivo e magistratura. Conflitto che è erroneo ritenere riguardi solo la magistratura: riguarda tutti i cittadini, perché al centro di esso stanno i principi della divisione dei poteri, dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.

Principi scritti nella nostra costituzione, non a tutela della categoria dei magistrati, ma a presidio della libertà e della uguaglianza dei cittadini. In presenza di provvedimenti ancora sottoposti agli ordinari mezzi di impugnazione la critica può essere svolta con atti di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero e non con atti di indirizzo politico (v. atti parlamentari).

Va riaffermata la cultura della giurisdizione e la salvaguardia della divisione dei poteri.

Si vuole attribuire alla sovranità popolare un potere illimitato al cospetto del quale ogni altro potere deve cadere.

Un potere che non tollera, né il limite della legge interpretata dai giudici, né istanze superiori come la costituzione.

E’, né più né meno, la riproduzione della vecchia idea giacobina della volontà generale.

Appartiene unicamente alla magistratura la funzione giurisdizionale, che si esercita interpretando e applicando la legge, perché l’autonomia e l’indirizzo della magistratura costituiscono valori intangibili, consacrati come tali dalla carta costituzionale, che vuole i giudici soggetti soltanto alla legge.

Un primo obiettivo deve essere quello di assicurare al processo una ragionevole durata: “processi più brevi per cittadini più uguali”.

E’ notorio, purtroppo, che in sede europea siamo ancora censurati per la eccessiva durata dei nostri procedimenti.

Sarebbe opportuno incentivare le sedi di mediazione giudiziaria, utile strumento di deflazione, sia nel processo penale, che civile.

Il processo è legalità, è risposta di legalità, la sua durata eccessiva è negazione di legalità.

Spesso una domanda di giustizia, sia in civile, che in penale, presuppone una risposta se non immediata, celere, pronta, non una risposta lenta.

Italo Calvino (nelle Lezioni americane) evidenzia il valore della rapidità, che per diverse ragioni può essere traslato all’interno dei meccanismi processuali.

Peraltro, il valore dell’efficienza fine a se stessa, che prescindesse dalla qualità del metodo e dei contenuti dell’amministrazione della giustizia, non avrebbe pregio.

Solo in misura limitata la legge processuale può in realtà assicurare la ragionevole durata del processo.

A tal fine, sarebbe opportuno favorire le innovazioni tecnologiche (v. processo telematico) che vanno a favorire l’elisione dei tempi morti.

Una giustizia qualitativamente giusta deve poggiare su idonee strutture di uomini e mezzi.

Ma, anche le strutture (in quanto tali) non bastano a realizzare una giustizia di qualità.

Essa necessariamente poggia sulla qualità degli uomini.

In tale contesto, la classe forense, per quanto la concerne, deve seriamente riflettere sul problema dell’accesso alla professione.

Oggi si assiste ad un enorme incremento degli iscritti all’albo.

L’accesso alla professione dovrebbe essere quantomeno collegato alla qualità che il professionista deve avere quale partecipe dell’opera della giurisdizione.

L’avvocatura è un gigante numerico e un nano politico.

La qualità della giustizia è legata anche all’indipendenza dei magistrati e degli avvocati.

La auspicata separazione dei ruoli della magistratura giudicante da quella requirente comporta una maggiore professionalizzazione del pubblico ministero.

Altro è giudicare, altro è investigare ed accusare.

Ma la separazione del ruolo della magistratura inquirente non deve significare menomazione dell’indipendenza del pubblico ministero, sia come ufficio, che come magistrato.

La giustizia non può e non deve essere terreno di lotta politica.

L’obiettivo della celerità del processo deve essere perseguito senza compromettere la garanzia del cittadino.

Una giustizia lenta, faraginosa, fatta di troppe leggi impermeabili ai principi del giusto processo, è incapace di confrontarsi con quelle dei partners europei.

Sono necessarie delle riforme, e non meri interventi dettati da situazioni alle quali spesso la generalità dei cittadini è totalmente estranea.

Sono evidenti le difficoltà che ogni professionista, ma soprattutto l’avvocato, non di rado incontra nel giustificare alla clientela il proprio lavoro.

Pablo Picasso, una sera si trovava in un ristorante, e in attesa della cena, aveva schizzato un disegno su un tovagliolo di carta; vedendolo, uno dei commensali gli domanda se poteva averlo; Picasso gli risponde che avrebbe dovuto pagarlo, e a questi che tra l’indignato ed il sorpreso faceva rilevare come avesse impiegato non più di dieci minuti a tracciare il disegno, replica: “Dieci minuti e una vita”.

Il professionista si trova spesso in una situazione analoga a quella descritta nell’aneddoto.

La classe forense dovrebbe esercitare un auto-controllo, fondato sul rispetto individuale delle norme e dei valori che guidano il lavoro professionale, e sull’organizzazione dei professionisti come gruppo interno ordinato sulla base di regole deontologiche più o meno codificate, che si evolvono e si consolidano attraverso meccanismi di tipo autoregolatorio.

L’etica dell’avvocato, così come quella delle altre professioni giuridiche, svolge un’importante funzione nel contesto del problema della comunicazione tra diritto e società. Il diffondersi di un certo lassismo deontologico non può non riverberarsi negativamente sull’immagine offerta all’esterno della professione.

L’immagine angosciosa della giustizia che Kafka ci trasmette nel “Processo” affonda probabilmente le sue radici in esperienze premoderne, dove l’uso dell’apparato legale assume un significato notevolmente diverso dall’attuale: è ancora soprattutto un’arma da usare contro il “nemico”, e non uno strumento di risoluzione di controversie.

L’attività quotidiana porta l’avvocato a doversi confrontare con una produzione normativa incalzante, non di rado farraginosa e contraddittoria.

La necessità di un continuo aggiornamento tecnico testimonia della vita media molto breve delle norme, spesso prodotte con metodi legislativi (penso in particolare l’abuso della decretazione d’urgenza) decisamente incompatibili con l’immagine dell’ordinamento come “istituzione”.

In altri termini, a fianco e al di sopra del vecchio nucleo originario dei codici si è accumulata una stratificazione giuridica tale da far somigliare l’ordinamento più ad un insieme a-centrico di norme che ad un sistema strutturato per il tempo.



2 commenti:

Anonimo ha detto...

"L’avvocatura è un gigante numerico e un nano politico".

Direi che è un nano politico proprio perché è un gigante numerico.

Salvo pochi eletti, naturalmente, come sempre.

A riguardo, un rimedio ci sarebbe: costringere a ripetere l'esame coloro che l'hanno superato nelle note sedi "facili", dove passava il 99,7% dei candidati.

Così si sfoltirebbe non poco il numero, e quasi tutti i problemi della lentezza della giustizia sarebbero di colpo risolti !

E poi, l'azione disciplinare, fino alla radiazione dall'Albo, non è forse imprescrittibile ?

Ci vorrebbero meno parole e più fatti.

Ma questo è il paese delle parole, lo sappiamo bene ! Che nessuno, pertanto, si illuda.

Anonimo ha detto...

Bel contributo, complimenti. Spero di leggere più spesso i suoi scritti.
Con stima, Irene