martedì 30 giugno 2009

Archivio Genchi: la giustizia dei capi di Gabinetto.





di Monica Centofante
(Giornalista)



da Antimafiaduemila del 29 giugno 2009


Qualche tempo fa, quando il gip Maria Teresa Belmonte aveva archiviato alcune indagini sull’allora pubblico ministero Luigi de Magistris, si era gridato allo scandalo.

Perché per ragioni di opportunità quel giudice, che era nientepopodimenoche la moglie del fratello di Michele Santoro (colpevole di essersi occupato di de Magistris nel corso di alcune puntate di Annozero), avrebbe dovuto astenersi dall’incarico poiché per qualche imprecisato motivo non avrebbe potuto prendere una decisione serena e imparziale.

Giovedì e venerdì scorsi la Corte di Cassazione si è espressa su due ricorsi presentati dalla Procura di Roma contro la decisione del Tribunale del Riesame che l’8 aprile aveva ordinato di restituire l’archivio sottratto dalla stessa procura a Gioacchino Genchi, già consulente di de Magistris.

Con accuse anche fantasiose, come quella di violazione del segreto di Stato nell’acquisizione dei dati di traffico di utenze in uso a 007: reato che nel codice non esiste, quindi inventato.

Nel primo giorno di udienza la quinta sezione della Suprema Corte ha dichiarato l’inammissibilità in radice del ricorso, il che avrebbe dovuto avere, come naturale conseguenza, quella di vedere confermato il dissequestro anche nel corso dell’udienza di venerdì.

Ma le cose sono andate diversamente.

Perché il procuratore generale si è sorprendentemente dichiarato in disaccordo con l’orientamento assunto dal suo stesso ufficio il giorno precedente e ha chiesto alla Corte di dare ragione ai pubblici ministeri di Roma Achille Toro e Nello Rossi.

Che sono quelli che avevano eseguito il sequestro, ma sono anche quelli che appaiono in atti di indagini per le quali il dottor Genchi aveva ricevuto incarichi dall’Autorità Giudiziaria.

In parole povere: anche loro parte di quell’archivio.

Nello specifico, ci aveva spiegato l’avvocato Fabio Repici, legale del consulente, vi sarebbero tra l’altro conversazioni del dottor Toro che nel “maggio 2006 concordava con altra persona, con insospettabili capacità profetiche, gli incarichi al ministero della Giustizia presso l’appena nominato ministro Mastella e presso altri ministeri, riferendo anche gli incarichi graditi da altri magistrati romani, ivi compreso il dr Nello Rossi”.

In quello stesso periodo – mentre era in corso l’indagine Why Not - Toro diventava capo di Gabinetto del Ministro Bianchi nel governo Prodi, mentre il ministro Ferrero, nello stesso governo, sceglieva per quell’incarico il dott. Franco Ippolito.

Che, guarda il destino, ritroviamo venerdì come relatore all’udienza che si è tenuta davanti alla sesta sezione penale della Cassazione.

La quale era chiamata a decidere proprio sulla parte del ricorso che riguardava i tabulati di utenze telefoniche riferite, tra gli altri, a Clemente Mastella e Romano Prodi perché entrambi indagati in Why Not (il primo ora archiviato).

Alla fine la Suprema Corte decide di confermare il dissequestro di copia dell’archivio riguardante i tabulati che si riferiscono a utenze dei servizi segreti.

Ma dà ragione alla Procura capitolina nella parte del ricorso con il quale si chiedeva il ripristino del sequestro di copia dell’archivio con riferimento ai tabulati delle utenze telefoniche di parlamentari: e quindi proprio a Romano Prodi, Clemente Mastella e altri, per i quali annulla senza rinvio, chiudendo definitivamente la questione.

Nella sicura soddisfazione di indagati ed ex indagati nonché di Achille Toro e Nello Rossi.

Quest’ultimo, tra l’altro, fino a due anni fa impiegato proprio alla sesta sezione penale della Corte di Cassazione, quindi un ex-collega.

Lo scenario lascia spazio a qualche dubbio o perplessità, ma nessuno, questa volta, ha pensato di gridare allo scandalo.

Così come non era accaduto neppure quando la Procura di Roma, nonostante la decisione del Tribunale del Riesame, si era arbitrariamente e illegalmente rifiutata di restituire l’archivio al suo legittimo proprietario.

In quell’occasione l’avv. Repici si era chiesto: “Cosa assicura ai magistrati romani l’impunità davanti al Csm ed al ministro della giustizia?”.

La risposta, forse, è arrivata oggi.




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Le pulizie pasquali






di Bruno Tinti
(ex Procuratore della Repubblica Aggiunto di Torino)





da Toghe Rotte del 30 giugno 2009


Dunque secondo il Presidente della Repubblica, occorre una tregua: opposizione e stampa debbono evitare di ricordare ai Capi di Governo che parteciperanno al G8 le ragioni di dissenso nei confronti dell’attuale maggioranza e del Presidente del Consiglio (l’opposizione) e il particolare stile di vita che caratterizza Berlusconi nonché eventuali informazioni sullo svolgersi dei procedimenti penali che, a vario titolo, lo riguardano o potranno riguardarlo (l’informazione).

C’è anche chi ha letto il monito del Presidente della Repubblica come un invito alla magistratura: per il momento stop ad inchieste giudiziarie che possano coinvolgere esponenti politici e, naturalmente e in particolare, il Presidente del Consiglio.

Tutto ciò a salvaguardia della dignità e del prestigio internazionale dell’Italia.

Non credo che si possa essere d’accordo: né sui contenuti né sull’opportunità.

Non viviamo per fortuna, in un mondo nel quale sia possibile nascondere fatti ed opinioni.

Tutti i Capi di Stato e l’entourage che li circonda conoscono benissimo le disavventure del nostro Paese e gli avvenimenti che, non da oggi, hanno fornito un’immagine di Berlusconi e della classe politica italiana tutt’altro che lusinghiera.

E’ anche ovvio che le televisioni e la stampa estera, che hanno una tradizione di professionalità ed indipendenza ben diversa da quella che caratterizza i nostri organi di informazione, si sono preparate per fornire ai cittadini dei loro Paesi informazioni importanti sotto il profilo politico e particolarmente gustose sotto quello del costume.

Insomma, secondo il Presidente della Repubblica, opposizione e informazione dovrebbero comportarsi come le classiche poco scrupolose massaie che, si dice, raccolgano con la scopa la spazzatura e la nascondano sotto il tappeto.

Ma non ha pensato, Napolitano, al pessimo servizio che gli organi di informazione renderebbero all’Italia se, non sia mai, il suo invito venisse accolto?

Non ha pensato che all’estero tutti conoscono benissimo le gravi vicissitudini giudiziarie di una classe politica fondata sul malaffare e il comportamento privato del Presidente del Consiglio, giudicato, in quei Paesi, incompatibile con il suo ruolo pubblico?

Non ha pensato, che non c’è modo di nascondere queste nostre disgrazie?

Non ha pensato che un atteggiamento servile ed opportunistico degli organi di informazione italiani darebbe il colpo di grazia all’immagine internazionale del nostro Paese che apparirebbe come una qualsiasi dittatura in cui non solo il potere fa quello che vuole e se ne infischia della legge ma è anche in grado di impedire che i cittadini ne siano informati?

Non ha pensato che dignità e prestigio non si acquistano con ipocrisia e servilismo ma con il coraggio di non nascondere le proprie debolezze e con l’impegno a divenire migliori?

Non ha pensato che una manifestazione di indipendenza e autonomia da parte degli organi di informazione e di quella parte della classe politica che non si riconosce nei metodi, nello stile, nei contenuti dell’attuale maggioranza potrebbe dare del nostro Paese un’immagine di vitalità, di democrazia, di libertà; e che proprio questo (forse, le ferite aperte nella rappresentazione pubblica dell’Italia sono molte e profonde) potrebbe contribuire a renderlo più credibile ed affidabile?

E non ha pensato infine che le strumentalizzazioni che i politici più incauti e spregiudicati avrebbero fatto del suo messaggio (alludo all’interpretazione della dichiarazione di Napolitano data da Gasparri, secondo cui la tregua dovrebbe essere osservata anche e soprattutto dalla magistratura) sarebbero state obbiettiva dimostrazione per il resto del mondo che ci visita e ci valuta che l’Italia è un Paese in cui la magistratura non è autonoma e indipendente e che deve soggiacere agli indirizzi della politica, sia pure espressi attraverso chi ne è al vertice e che dovrebbe rivestire un ruolo di arbitro e di garante dei fondamentali principi democratici?

Tutto ciò sui contenuti.

Ma, come ho detto, il messaggio di Napolitano deve essere criticato anche sotto il profilo dell’opportunità.

Perché una tregua dovrebbe essere concessa ad una maggioranza in difficoltà da un opposizione che, fedele al suo ruolo, lo esercitasse in maniera conforme ai principi democratici, rivelando le debolezze e le difficoltà del governo?

Perché, proprio quando queste debolezze e difficoltà potrebbero consentire all’opposizione di conseguire significativi vantaggi politici, questa dovrebbe rinunciare ad evidenziarle?

Una tregua avvantaggia sempre chi, in un dato momento, è più debole dell’avversario; e non si è mai visto un arbitro invocare una tregua che vada a vantaggio di uno solo dei due contendenti.

Per finire: ogni opinione è rispettabile e quelle del Presidente della Repubblica non solo lo sono al massimo livello ma hanno una obbiettiva autorità che è percepita da tutti i cittadini.

E’ proprio sicuro Napolitano che sia buona cosa definire le condotte riprovevoli del Presidente del Consiglio oggetto di una polemica da cui è bene (sia pure temporaneamente) astenersi piuttosto che comportamenti incompatibili con una carica pubblica di vertice e dunque argomento di irrinunciabile dibattito politico?




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Io oblio, tu taci, egli auspica




di Marco Travaglio
(Giornalista)




da L’Unità del 30 giugno 2009


Il Senato sta per approvare la legge bavaglio-guinzaglio per la cronaca giudiziaria e per le intercettazioni della magistratura.

L’on. Carolina Lussana (Lega Nord) prepara il bavaglio anche per Internet, vietando di pubblicare persino le condanne dopo un po’ di anni in nome del “diritto all’oblio” (l’ideale, nel paese dei senza memoria).

Il ministro Tremonti, dopo aver giurato “mai più condoni”, apparecchia l’ennesimo condono per i grandi evasori camuffato da “scudo fiscale”, che poi è un’operazione di riciclaggio di Stato: chi ha accumulato soldi sporchi all’estero (perché guadagnati con traffici di droga, armi, persone o perché sottratti al fisco) potrà farli comodamente rientrare pagando una tassa del 4-6% anzichè del 45%.

Così lo Stato farà concorrenza alle “lavanderie” criminali, che per 100 euro sporchi ne restituiscono 50-60 puliti (lo Stato, invece, ne restituirà 94-96).

A Bari non passa giorno senza che emergano nuove porcherie nella Puttanopoli di Al Tappone e dei suoi amici papponi e/o spacciatori.

Il premier, fra una escort e l’altra, partecipa a simpatiche cenette con giudici costituzionali che dovranno valutare la costituzionalità del Lodo Al Fano che gli regala l’impunità, alla presenza dello stesso Al Fano e del solito Letta.

Il governo del malaffare affida i lavori per la prima “new town” nell’Abruzzo terremotato al socio di tre soci del mafioso don Vito Ciancimino.

E nessuno dice niente.

A parte il capo dello Stato, che comprende “le ragioni dell’informazione e della politica”, ma auspica “una tregua nelle polemiche fino al G8”.

Che cos’è, uno scherzo?


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Internet e diritto all'oblio: quando la memoria cade in prescrizione






di Antonello Tomanelli
(Avvocato)





da Difesa dell’informazione del 28 giugno 2009



Il generale Rafael Videla, capo della giunta militare che governò l’Argentina tra il 1976 e il 1981, amava ripetere che “la memoria è sovversiva”.

Il senso della frase è che niente che possa nuocere al Potere va ricordato.

In un’ottica opposta, Roberto Scarpinato, magistrato antimafia della procura di Palermo, dice che “la memoria è come un indice puntato contro i crimini del Potere”.

Carolina Lussana, deputata della Lega, ha fatto propria la tesi del dittatore argentino presentando alla Camera dei Deputati il disegno di legge n. 2455, che vuole regolamentare il cosiddetto “diritto all’oblìo” su internet.

Un disegno di legge che impedirebbe di mantenere in Rete, decorso un certo periodo di tempo, informazioni su persone che in precedenza hanno avuto guai con la Giustizia.

Molto sinteticamente, il diritto all’oblìo, creato da quella giurisprudenza degli anni ‘70, attentissima ai diritti della persona, che lo collocò tra i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost., è il diritto di ognuno a non vedere riproposti al pubblico fatti propri che in passato furono oggetto di cronaca.

A volte è sufficiente una singola pubblicazione perché una notizia venga acquisita con completezza dalla collettività.

Altre volte sono necessari approfondimenti, che fanno sì che la notizia perduri nel tempo.

In ogni caso, a partire dal momento in cui il fatto è acquisito nella sua interezza, l’interesse pubblico alla sua riproposizione va scemando fino a scomparire, come se diventasse un fatto privato, e sorge il presupposto del diritto all’oblìo.

Una tutela sacrosanta.

Ma che, per ovvi motivi, riguarda il “cittadino X”, il tossicodipendente che per procurarsi la dose rapinò la bottega, o l’anonimo funzionario che si fece corrompere per coprire un abuso edilizio.

Non certo il politico di lungo corso, quello il cui rapporto con la collettività perdura nel tempo e che sarà sempre attenzionato dall’opinione pubblica, anche per ciò che riguarda il passato.

Ebbene, il disegno di legge presentato dalla deputata Lussana cancella questo principio.

Detta una normativa generale sui termini massimi di permanenza in Rete della notizia di un procedimento penale a carico di chicchessia, pena una sanzione amministrativa da 5.000 a 100.000 Euro ai danni del proprietario del sito.

I termini variano a seconda che si tratti di assoluzione o archiviazione (un anno), di amnistia o prescrizione (due anni), di una condanna definitiva.

In quest’ultimo caso, i termini sono maggiori e dipendono unicamente dall’entità della pena inflitta con la sentenza di condanna.

Ma, cosa più importante, non si guarda all’autore del fatto.

La normativa riguarda tanto il pastore che uccide per riprendersi la pecora quanto il presidente del Consiglio.

E certo non rassicura l’art. 3, comma 3° lettera c), secondo cui la cancellazione dei dati sul web non può imporsi in riferimento a chi “esercita o ha esercitato alte cariche pubbliche, anche elettive, in caso di condanna per reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, allorché sussista un meritevole interesse pubblico alla conoscenza dei fatti”.

Si badi bene: “per reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni”.

Ciò significa, per fare un esempio noto, che se, come è ormai certo, interverrà la prescrizione in favore di Silvio Berlusconi una volta ripreso nei suoi confronti il processo Mills, per ora sospeso dal lodo Alfano ma che in primo grado ha accertato la posizione di Berlusconi quale corruttore, le relative notizie potranno rimanere in Rete per soli due anni.

Perché quel reato Berlusconi non lo avrebbe commesso nell’esercizio di funzioni pubbliche.

Allo stesso modo, i fatti contenuti in un decreto di archiviazione, che ha ad esempio accertato che un noto politico è abituale commensale di un mafioso ma non la sua partecipazione a Cosa Nostra, potranno rimanere in Rete per non più di un anno.

In pratica, questo disegno di legge interviene a gamba tesa sul concetto di interesse pubblico, che viene graduato in maniera molto discutibile.

In caso di condanna, la relativa notizia potrà essere mantenuta in Rete per un tempo che varia in funzione della pena comminata dal giudice, non dell’interesse obiettivo che suscita il fatto.

Ed ecco il paradosso.

Chi è stato condannato all’ergastolo per aver avvelenato la moglie, rimarrà per sempre nei motori di ricerca.

Invece, del più grave episodio di corruzione della storia della Repubblica non rimarrà più traccia passati cinque anni.

A questo porterà la geniale trovata dell’onorevole Lussana.

Le generazioni future sapranno tutto sui delitti di Erba, Garlasco, Cogne, Perugia e simili. Ma niente su una nuova Tangentopoli.

Si noti, poi, come la logica sottesa a questo disegno di legge ricalchi quella della prescrizione del diritto penale.

La prescrizione è l’estinzione del reato per decorso del tempo senza che sia stata emanata sentenza definitiva.

Si parte, cioè, dal presupposto che trascorso un certo periodo di tempo, che varia a seconda della gravità del reato, lo Stato rinuncia a punire l’autore perché non ne ha più l’interesse.

Lo Stato prima o poi dimentica, tranne i reati punibili con l’ergastolo, che sono imprescrittibili.

Allo stesso modo, questo disegno di legge impone alla collettività, decorso un certo periodo di tempo che varia a seconda della pena inflitta, di non nutrire più interesse alla conoscenza di determinati fatti.

Vengono subito alla mente i reati dei colletti bianchi, che certo non tagliano la gola ai propri familiari.

La collettività viene quindi privata della memoria in ordine a fatti la cui conoscenza è indispensabile per poter giudicare una classe dirigente.

E’ come se la memoria storica cadesse in prescrizione.

Per dirla con il collega Guido Scorza, viene meno il “diritto alla Storia”.

Ritorna in mente la frase del generale Videla (“La memoria è sovversiva”).

E niente più dito puntato contro i crimini del Potere, parafrasando il magistrato Roberto Scarpinato.

Ma vi sono altre considerazioni di ordine logico che non si possono tralasciare, e che svelano una evidente scarsa conoscenza dell’istituto del diritto all’oblio da parte dell’onorevole Lussana.

E’ noto, infatti, che l’elemento caratterizzante il diritto all’oblio sta nella riproposizione di un fatto che fu oggetto di cronaca in passato, quando l’interesse pubblico intorno ad esso si è ormai sopito.

Si badi bene: “riproposizione”.

Vale a dire: si vìola il diritto all’oblio quando il gestore di un’informazione, senza che sussista un interesse pubblico, la ripropone alla collettività.

Qui da parte del lettore vi è un’apprensione passiva del fatto già oggetto di cronaca in passato.

Riproporre un fatto alla collettività significa elevarlo al rango di notizia, quindi pubblicarlo, ad esempio, su un quotidiano (o un periodico) oppure inserirlo nella home page del proprio sito.

Il disegno di legge in questione impedisce, invece, l’apprensione attiva di un fatto, la sua acquisizione attraverso un’attività di ricerca da parte dell’utente sugli appositi motori della Rete.

E’ come se il legislatore imponesse a tutte le biblioteche di rendere inaccessibile gran parte del proprio materiale cartaceo, decorso un certo periodo di tempo.

Se davvero si fosse voluto tutelare il diritto all’oblio, non ci sarebbe stato alcun bisogno di creare una normativa ad hoc.

I principi dell’ordinamento già tutelano la persona contro le indebite riproposizioni di fatti passati.

Se chi ha picchiato un altro per un parcheggio vuole far sparire il proprio nome dalla cronaca locale di un sito male aggiornato, non ha che da rivolgersi al tribunale o al Garante della Privacy, che provvederà senza indugio a far rimuovere quei dati imbarazzanti, con rifusione delle spese legali, laddove non sussista più alcun interesse pubblico al loro mantenimento.

Pertanto, dire che il disegno di legge dell’onorevole Lussana vìola l’art. 21 Cost., che sancisce la libertà di espressione, è cosa scontata.

C’è di peggio.

Qui è la formazione culturale delle future generazioni ad essere messa a repentaglio.

Prevedere una normativa che obblighi sempre e comunque, decorso un certo periodo di tempo, a rimuovere dal web una notizia a prescindere dalla valutazione concreta della sussistenza di un interesse pubblico al suo mantenimento, significa privare i posteri di un fondamentale strumento di controllo delle elités del Potere, notoriamente refrattarie ad un ricambio generazionale.

Una privazione che si sostanzia nella violazione del principio di sovranità popolare, sancito all’art. 1 Cost., che vuole che i governanti siano scelti dal popolo, ma con cognizione di causa.

Non solo.

Qui è anche il principio costituzionale di eguaglianza sostanziale ad essere violato.

Dice l’art. 3, comma 2°, Cost.: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Quegli ostacoli, più che rimuoverli, il disegno di legge Lussana li frappone.

Imporre automaticamente l’oblio su fatti e misfatti di indubbio interesse pubblico provocherebbe uno scollamento tra i detentori del Potere e chi conferisce loro il mandato a governare, col risultato di vanificare quella “partecipazione” di tutti i cittadini al governo del Paese, voluta dalla Costituzione e che è alla base di ogni democrazia.




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Consulta, la cena segreta




di Peter Gomez
(Giornalista)





da L’Espresso del 25 giugno 2009


Un incontro carbonaro tra il premier, Alfano, Ghedini e due giudici della Corte Costituzionale. Per parlare di giustizia. Ma sullo sfondo c’è anche l’immunità di Berlusconi

Le auto con le scorte erano arrivate una dopo l’altra poco prima di cena.

Silenziose, con i motori al minimo, avevano imboccato una tortuosa traversa di via Cortina d’Ampezzo a Roma dove, dopo aver percorso qualche tornante, si erano infilate nella ripida discesa che portava alla piazzola di sosta di un’elegante palazzina immersa nel verde.

Era stato così che in una tiepida sera di maggio i vicini di casa del giudice della Corte costituzionale Luigi Mazzella, avevano potuto assistere al preludio di una delle più sconcertanti e politicamente imbarazzanti riunioni, organizzate dal governo Berlusconi.

Un incontro privato tra il premier e due alti magistrati della Consulta, ovvero l’organismo che tra poche settimane dovrà finalmente decidere se bocciare o meno il Lodo Alfano: la legge che rende Silvio Berlusconi improcessabile fino alla fine del suo mandato.

Del resto che quello fosse un appuntamento particolare, gli inquilini della palazzina lo avevano capito da qualche giorno.

Ilva, la moglie di Mazzella, aveva chiesto loro con anticipo di non posteggiare autovetture davanti ai garage.

“Non stupitevi se vedrete delle body-guard e se ci sarà un po’ di traffico, abbiamo ospiti importanti ...”, aveva detto la signora Mazzella alle amiche.

Così, stando a quanto ‘L’espresso’ è in grado ricostruire, a casa del giudice si presentano Berlusconi, il ministro della Giustizia, Angiolino Alfano, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, e il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini.

Con loro arriva anche un altro collega di Mazzella, la toga Paolo Maria Napolitano, eletto alla Consulta nel 2006, dopo essere stato capo dell’ufficio del personale del Senato, capo gabinetto di Gianfranco Fini nel secondo governo Berlusconi e consigliere di Stato.

Più fonti concordano nel riferire che uno degli argomenti al centro della riunione è quello delle riforme costituzionali in materia di giustizia.

Sul punto infatti Berlusconi e Mazzella la vedono allo stesso modo.

Non per niente il giudice padrone di casa è stato, per scelta del Cavaliere, prima avvocato generale dello Stato e poi, nel 2003, ministro della Funzione pubblica, in sostituzione di Franco Frattini, volato a Bruxelles come commissario europeo.

Infine l’elezione alla Consulta a coronamento di una carriera di successo, iniziata negli anni Ottanta, quando il giurista campano militava in un partito non certo tenero con i magistrati, come il Psi di Bettino Craxi (ma lui ricorda di aver mosso i primi passi al fianco dell’avversario di Craxi, Francesco De Martino), diventando quindi collaboratore e capo di gabinetto di vari ministri, tra cui il suo amico liberale Francesco De Lorenzo (all’epoca all’Ambiente), poi condannato e incarcerato per le mazzette incassate quando reggeva il dicastero della Sanità.

La cena dura a lungo.

E a tenere banco è il presidente del Consiglio. Berlusconi sembra un fiume in piena e ripropone, tra l’altro, ai presenti una sua vecchia ossessione: quella di riuscire finalmente a riformare la giustizia abolendo di fatto i pubblici ministeri e trasformandoli in “avvocati dell’accusa”.

L’idea, con Mazzella e Napolitano, sembra trovare un terreno particolarmente fertile.

Il giudice padrone di casa non ha mai nascosto il suo pensiero su come dovrebbero funzionare i tribunali.

Più volte Mazzella, come hanno in passato scritto i giornali, ha ipotizzato che la funzione di pm fosse svolta dall’avvocatura dello Stato.

Solo che durante l’incontro carbonaro l’alto magistrato si trova a confrontarsi con uno che, in materia, è ancora più estremista di lui: il plurimputato e pluriprescritto presidente del Consiglio.

E il risultato della discussione, a cui Vizzini, Alfano e Letta assistono in sostanziale silenzio, sta lì a dimostrarlo.

‘L’espresso’ ha infatti potuto leggere una bozza di riforma costituzionale consegnata a Palazzo Chigi un paio di giorni dopo il vertice.

Una bozza che adesso circola nei palazzi del potere ed è anche arrivata negli uffici del Senato in attesa di essere trasformata in un articolato e discussa.

Si tratta di quattro cartelle, preparate da uno dei due giudici, in cui viene anche rivisto il titolo quarto della carta fondamentale, quello che riguarda l’ordinamento della magistratura.

Nove articoli che spazzano via una volta per tutte gli ‘odiati’ pubblici ministeri che dovrebbero essere sostituiti da funzionari reclutati anche tra gli avvocati e i professori universitari.

Per questo è previsto che nasca un nuovo Consiglio superiore della magistratura (Csm) aperto solo ai giudici, presieduto sempre dal presidente della Repubblica, ma nel quale entrerà di diritto il primo presidente della Corte di cassazione, escludendo invece il procuratore generale degli ermellini.

L’obiettivo è evidente.

Impedire indagini sui potenti e sulla classe politica senza il placet, almeno indiretto, dell’esecutivo.

Del resto il progetto di Berlusconi di incrementare l’influenza della politica in tutti i campi riguardanti direttamente o indirettamente la giustizia trova conferma anche in altri particolari.

Per il premier va rivisto infatti pure il modo con cui vengono scelti i giudici della Corte costituzionale aumentando il peso del voto del parlamento.

Anche la riforma della Consulta è un vecchio pallino di Mazzella.

Nei primissimi anni ‘90 il giurista, quando era capogabinetto del ministro delle Aree urbane Carmelo Conte, aveva tentato di sponsorizzare con un articolo pubblicato da ‘L’Avanti’ l’elezione a presidente della Corte dell’ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e aveva lanciato l’idea di modificare la Carta per affidare direttamente al capo dello Stato il compito di sceglierne in futuro il presidente.

Allora i giudici non l’avevano presa bene.

Da una parte, il pur stimatissimo Vassali, era appena entrato a far parte della Consulta e se ne fosse diventato il numero uno per legge avrebbe ricoperto quell’incarico per nove anni.

Dall’altra una modifica dell’articolo 138 della Costituzione avrebbe finito per far aumentare di troppo il peso del presidente della Repubblica che già nomina cinque giudici.

Per questo era stato ricordato polemicamente proprio dagli alti magistrati che stabilire una continuità tra Quirinale e Consulta era pericoloso.

Perché la Corte costituzionale è l’unico giudice sia dei reati commessi dal capo dello Stato (alto tradimento e attentato alla Costituzione), sia dei conflitti che possono sorgere tra i poteri dello Stato, presidenza della Repubblica compresa. Altri tempi.

Un’altra Repubblica. E un’altra Corte costituzionale.

Oggi, negli anni dell’impero Berlusconi, un imputato che fonda buona parte del proprio futuro politico sulle decisioni della Corte, che dovrà pronunciarsi sul Lodo Alfano, può persino trovare due dei suoi componenti disposti a discutere segretamente a cena con lui delle fondamenta dello Stato. E lo fa sapendo che non gli può accadere nulla.

Al contrario di quelli dei tribunali, le toghe della Consulta, non possono ovviamente essere ricusate.

E dalla loro decisione passerà la possibilità o meno di giudicare il premier nei processi presenti e futuri.

A partire dal caso Mills e dal procedimento per i fondi neri Mediaset.



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Notte bianca contro la legge bavaglio




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domenica 28 giugno 2009

L’uomo che sapeva troppo poco



di Marco Travaglio
(Giornalista)


da L’Espresso del 2 luglio 2009


Da quando, in via del tutto ipotetica, il suo on. avv. Niccolò Ghedini l’ha definito “utilizzatore finale” di prostitute a sua insaputa, Silvio Berlusconi si staglia come il politico più ingenuo o più sfortunato della storia dell’umanità.

Dal 1974 al 1976 ospita nella villa di Arcore un noto mafioso, Vittorio Mangano, intimo del suo segretario Marcello Dell’Utri e già raggiunto da una dozzina fra denunce e arresti, ma lo scambia per uno stalliere galantuomo: anche quando glielo arrestano due volte in casa.

Dal 1978 (almeno) al 1981 è iscritto alla loggia deviata P2, convinto che si tratti di una pia confraternita.

Dal 1975 al 1983 le finanziarie Fininvest ricevono l’equivalente di 300 milioni, in parte in contanti, da un misterioso donatore, ignoto anche al proprietario: intatti, dinanzi ai giudici antimafia venuti a Palazzo Chigi per chiedergli chi gli ha dato quei soldi, si avvale della facoltà di non rispondere.

Negli anni ‘80 l’avvocato David Mills crea per il suo gruppo ben 64 società offshore nei paradisi fiscali, ma lui non sospetta nulla, anzi non sa nemmeno cosa sia la capofila All Iberian.

Questa accumula all’estero una montagna di fondi neri che finanziano, fra gli altri, Beffino Craxi (23 miliardi di lire) e Cesare Previti (una ventina).

Previti, avvocato di Berlusconi, ne gira una parte ai giudici romani Vittorio Metta (nel 1990) e Renato Squillante (nel 1991), ma di nascosto al Cavaliere.

Il quale però s’intasca il gruppo Mondadori grazie a una sentenza di Metta, corrotto da Previti con soldi Fininvest.

Nei primi anni ‘90 il capo dei servizi fiscali del gruppo, Salvatore Sciascia, paga almeno tre tangenti alla Guardia di finanza.

E nel 1994, quando la cosa viene fuori, il consulente legale Massimo Berruti tenta di depistare le indagini dopo un incontro a Palazzo Chigi col principale.

Ma questi non si accorge di nulla («Giuro sui miei figli»).

Nemmeno quando Sciascia e Berruti vengono condannati, tant’è che se li porta in Parlamento.

Nel 1997-98 Mills, testimone nei processi Guardia di Finanza e All Iberian, non dice tutto quel che sa e lo «salva da un mare di guai» (lo confesserà al commercialista).

Poi riceve 600 mila dollari dal gruppo di «Mr. B». E Mr. B sempre ignaro di tutto (rigiura sui suoi figli).

Di recente si scopre che il Nostro, nell’ottobre scorso, prese a telefonare a Noemi, una minorenne di Portici, proprio mentre il suo governo varava una legge per stroncare la piaga delle molestie telefoniche (“stalking”).

Ma lui scopri che era minorenne solo quando fu invitato al suo diciottesimo compleanno.

Ora salta fuori che Patrizia D’Addario, che trascorse con lui una notte a Palazzo Grazioli, è una nota “escort” barese, pagata da un amico dei premier (“l’utilizzatore iniziale”?).

Ma lui non ne sapeva nulla, tant’è che in quel mentre il suo governo varava una legge per arrestare prostitute e clienti.

É sempre l’ultimo a sapere.

Può un uomo così ingenuo, o sfortunato, o poco perspicace, fare il presidente del Consiglio?



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martedì 16 giugno 2009

L'imparzialità del Presidente





di Bruno Tinti
(ex Procuratore della Repubblica Aggiunto di Torino)




da TogheRotte


I discorsi ufficiali costituiscono sempre un problema: non si capisce mai bene cosa vogliano dire davvero. Restiamo tutti lì a pensare: ma con chi ce l’ha?

Così mi è successo con l’ultimo discorso del Presidente della Repubblica, quello pronunciato davanti al Consiglio Superiore della Magistratura.

E mi sono chiesto: ma se esprimo, nel modo più garbato e civile, le mie perplessità; e poi mi dicono che non ho capito niente e che Napolitano voleva dire cose diverse da quelle che ho capito io; che figura ci faccio?

Poi ho pensato che qualcuno doveva pur sacrificarsi perché le parole del Presidente della Repubblica sono importanti e, se sono state dirette contro le persone e le istituzioni sbagliate, allora, sempre nel modo più garbato e civile, la cosa va rilevata.

E se invece sono state dirette contro quelle giuste, allora bisogna compiacersene.

Dunque, ha detto Napolitano che la giustizia non funziona; che i cittadini si sono stufati di questo disservizio e che hanno perso fiducia nella magistratura; che la colpa di ciò sta nell’incapacità della classe politica di intervenire con risorse economiche e provvedimenti legislativi adeguati. Riassunto, questo, sicuramente rozzo ma fedele.

Per quanto mi riguarda, non posso che convenire con questa diagnosi disperata.

Tanto più disperata perché sono propenso a ritenere che una classe politica che ha approvato il lodo Alfano, la riforma (l’abolizione) delle intercettazioni telefoniche e il bavaglio all’informazione; e che si appresta a sottrarre al Pubblico Ministero la disponibilità della Polizia Giudiziaria e la possibilità di iniziare autonomamente un’indagine; non desisterà né da tal genere di iniziative legislative (ma ormai il progetto complessivo è praticamente realizzato) né dall’affamare l’amministrazione giudiziaria, lasciandola nel coma in cui versa attualmente.

Poi però Napolitano ha detto che anche la magistratura ha le sue colpe: prima di tutto sul piano dell’efficienza del processo; poi per via di “tensioni e opacità sul piano dei complessivi equilibri istituzionali”; e poi per le “tensioni ricorrenti” al suo interno.

Diciamo che ha ragione nella misura di 1 su 3; è vero che la magistratura ha forti problemi con un Consiglio Superiore dominato dalle correnti, con un Associazione Nazionale Magistrati (il sindacato dei giudici) a sua volta dominata (in realtà costituita solo) dalle correnti, con una gestione della carriera dei magistrati troppo spesso inquinata da criteri clientelari e fatalmente destinata ad annullamenti (e pesanti critiche) ad opera del TAR.

Ma che l’inefficienza del processo e gli scontri con la politica siano addebitabili ai giudici, questo proprio no.

Napolitano non può ignorare che il nostro codice di procedura penale, malamente scopiazzato da quello statunitense e reso sempre più inefficiente da interventi incompetenti e improvvisati, non garantisce gli imputati (i cittadini poveri sono stritolati e i ricchi possono impunemente abusare dei loro diritti); e garantisce invece una durata infinita del processo.

Napolitano non può ignorare che i giudici italiani sono pochi (anche se non pochissimi) e soprattutto malamente distribuiti in una miriade di inutili e costosi piccoli uffici giudiziari che dilapidano le scarse risorse dell’amministrazione della giustizia.

Napolitano non può ignorare che il personale amministrativo (cancellieri, segretari, ufficiali giudiziari, commessi etc) è sottodimensionato nella misura di quasi il 40% di un organico che già sarebbe insufficiente se completo. E che la nostra ineffabile classe politica ha risolto il problema riducendo per legge questo organico alla misura attuale, con il che ha potuto affermare che esso è completo al 100%!

Napolitano non può ignorare che, per consentire un orario di lavoro che garantisca ai giudici l’indispensabile collaborazione del personale ausiliario, bisognerebbe pagare imponenti quantità di straordinari (sempre di contratto di pubblico impiego si tratta); e che non solo i pochi straordinari fatti non vengono pagati se non con enormi ritardi; ma è stato emanato un vero e proprio divieto di ricorrervi. Sicché, alle 14,30 di ogni giorno, tutti a casa.

Come possa il Presidente della Repubblica, certamente non ignaro del peso specifico delle sue esternazioni, affermare che “la magistratura non può non interrogarsi su sue corresponsabilità dinanzi al prodursi o all’aggravarsi delle insufficienze del sistema giustizia” proprio non si capisce.

Quanto alle “tensioni e opacità sul piano dei complessivi equilibri istituzionali”, Napolitano resta coerente.

Il suo intervento ai tempi dell’indagine sui magistrati di Catanzaro fu rivelatore di una precisa scelta di campo: di “guerra tra procure” si trattava e non di un’indagine che la Procura di Salerno doveva (doveva) aprire a seguito di una denuncia di numerosi e gravi reati commessi da quei magistrati.

E che ancora oggi, dopo il riconoscimento giurisdizionale della legittimità di quella indagine e dei provvedimenti adottati dai magistrati di Salerno, nessuno (e nemmeno il Presidente della Repubblica) abbia sentito la necessità di ristabilire la verità, attribuendo alle due Procure coinvolte nella presunta “guerra” il ruolo che loro competeva (Pubblici Ministeri che indagano su gravi reati attribuiti ad indagati, per caso anch’essi Pubblici Ministeri), non è cosa che lascia tranquilli proprio sul piano “dei complessivi equilibri istituzionali”.

Di nuovo Napolitano non può ignorare che la magistratura italiana è costantemente aggredita da quegli stessi uomini politici che, oggetto di indagine per gravi reati, si ribellano al controllo di legalità doverosamente esercitato nei loro confronti come nei confronti di qualsiasi altro cittadino.

E nemmeno può ignorare che questi indagati ed imputati eccellenti godono della chiassosa e spregiudicata solidarietà di tutta (o quasi) la classe politica italiana. Proprio come avvenne, per restare in tema, quando l’ex Ministro della Giustizia Mastella trasformò la sua “Relazione al Parlamento sullo stato della giustizia nel Paese” in una autocertificazione di innocenza, ricevendone un plauso generale.

E’ molto grave che il Presidente della Repubblica, di fronte ad una classe politica che, sistematicamente, tenta di garantire l’impunità a se stessa e ai suoi sostenitori mediante la delegittimazione della magistratura, non stigmatizzi esplicitamente questo progetto eversivo e pericolosissimo per l’ordinamento democratico; ma tenti di ridurre il problema, di nuovo, ad una “guerra” tra poteri istituzionali, dove politica e magistratura vengono messe sullo stesso piano, dove i magistrati vengono ritenuti capaci di commettere quelle stesse illegalità che essi tentano di accertare e reprimere in un contesto sempre più difficile e pericoloso, per loro come per il Paese.

Ecco, mi permetto di dire che il Presidente della Repubblica non ha bisogno di esibire imparzialità; che attribuire torti e ragioni non necessita di bacchettate a tutti i contendenti; che un giudice (ma si, restiamo in tema), per dimostrare quanto è “terzo e imparziale”, non ha bisogno di condannare un imputato solo per metà dei reati che il pubblico ministero gli ha contestato e di assolverlo per l’altra metà, anche se di quest’altra metà egli è colpevole.

Il primo Magistrato della Repubblica deve, proprio come l’ultimo dei Giudici o dei Sostituti Procuratori, non solo “essere” ma “apparire” imparziale.




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lunedì 15 giugno 2009

Pm protagonisti? Magari!




di Marco Travaglio
(Giornalista)




da L’Unità dell’11 giugno 2009

Mentre il presidente del Consiglio definisce «grumi eversivi» e «nemici politici» i giudici che han condannato il suo amico David Mills per essere stato corrotto da lui, impunito e impunibile per Lodo ricevuto; mentre racconta che suo padre, grande educatore, «mi diceva sempre: se vuoi far del male al prossimo devi fare il delinquente, o il pm, o il giornalista»; mentre impone alle Camere di abolire, senza discutere, le intercettazioni e la cronaca giudiziaria; mentre il procuratore di Napoli sottrae al pm titolare, avoca a sé e stralcia le indagini sul sottosegretario Bertolaso per la truffa dei rifiuti «per non intralciare l’azione del governo»; mentre il procuratore di Verona che indaga sui nazisti viene pestato in strada dai nazisti;

mentre partiti mandano al Parlamento europeo 4 pregiudicati e una decina di indagati, anche per mafia; mentre la Procura di Roma si arrampica sugli specchi per far archiviare il caso Berlusconi-Saccà e sequestrare per «violazione della privacy» le foto che ritraggono il premier con nani e ballerine aviotrasportati su aerei di Stato; mentre non si trova quasi più nessun pm che indaghi sui potenti o protesti contro le leggi che lo disarmano; mentre l’Anm non osa neanche pronunciare la parola «sciopero» e il Csm si dedica a cacciare anziché a difendere le poche toghe scomode superstiti; ecco, mentre accade tutto ciò, il capo dello Stato va al Csm e denuncia il «comportamento impropriamente protagonistico» di certi magistrati e gli «elementi di disordine e tensione che purtroppo si sono clamorosamente manifestati in talune procure».

Magari.




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sabato 13 giugno 2009

Noi magistrati abbiamo tanti difetti, ma non siamo affatto una “ultracasta”






di Nicola Saracino
(Magistrato)






E’ nelle librerie da qualche giorno il “saggio” dal titolo “Magistrati l’ultracasta” scritto da Stefano Livadiotti, giornalista in forza a L’Espresso, 246 pagine, editore Bompiani, prezzo di copertina 17 euro.

Nei toni somiglia alle invettive che quotidianamente da molti anni raggiungono la magistratura, usata ormai da certa stampa e dalla politica come il pugile percuote il sacco: colpisci duro tanto lui non risponde.

A zittire i magistrati è intervenuto persino il Capo dello Stato, nel suo ultimo discorso nella veste di Presidente del C.S.M..


Un concorso facile.

La selezione dei magistrati avviene con un concorso pubblico nazionale riservato ai laureati in giurisprudenza, muniti di ulteriori requisiti per l’acquisizione dei quali servono almeno altri due anni, dopo i cinque del corso universitario. Vi partecipano in massa i laureati di tutta l’Italia, di ogni provenienza. Consiste nel superamento di tre diverse prove scritte (caratterizzate dall’anonimato) e di una prova orale vertente praticamente su tutto il corso di laurea. Dietro all’ultimo dei vincitori vi sono migliaia di esclusi.
Chi ha un’idea migliore per selezionare i magistrati si faccia avanti.


Una categoria di impuniti.

La tecnica adottata da Livadiotti non si segnala per arguzia. L’autore, infatti, scorre alcune vicende disciplinari, circa una decina, relative a fatti che partono dagli anni settanta.
Bene: i magistrati ordinari sono più di diecimila e se in quarant’anni di attività tutto quello che può loro rimproverarsi sono quegli episodi avremmo da rallegrarcene.
Del resto è un po’ come se, nel giudicare la categoria dei giornalisti esaminassimo solo i casi di coloro che nascondono i fatti ai loro lettori, vendendosi a questo o a quel padrone; o come se, nel valutare la classe degli ingegneri, si prendessero ad esempio solo quelli che hanno fatto cadere ponti e palazzi; o ancora, se nel catalogare i professori si additassero quei pochi pedofili che la cronaca ha smascherato; la sanità italiana sarebbe, di questo passo, rappresentata solo dalle morti dei pazienti e non dalle loro guarigioni ; le forze dell’ordine dagli isolati collusi con la delinquenza anziché dai loro martiri; gli avvocati solo dagli azzeccagarbugli e così via.
La realtà è diversa. La Sezione Disciplinare del CSM è uno dei giudici disciplinari più severi che esistano (con circa il 30% di condanne), spesso troppo severo, proprio perché condizionato dall’esigenza “politica” di assecondare l’empito giustizialista anti-magistrato.


Eccoli i fannulloni.

Purtroppo il gossip è ben presto divenuto il metro dell’agire giornalistico, il massimo che oggi sembra in grado di offrire chi, invece, lo spaccia per “inchiesta”.
Il messaggio che se ne ricava non è nuovo, ma perentorio e senza appello: i magistrati guadagnano troppo e lavorano poco. I dati, sgangherati, che sorreggono la demagogica affermazione si possono leggere, ad esempio, a pagina 40.
Nell’assumere a pretesto una lontana decisione disciplinare che dirimeva in un caso concreto la questione relativa a quanto lavoro potesse pretendersi dal magistrato (dato che la sua attività non è assoggettata ad un orario di ufficio predeterminabile) il relatore aveva ipotizzato un monte ore annuo di 1560. Ebbene il matematico Livadiotti che cosa fa? Lo divide per 365, quanti sono i giorni dell’anno,ricavandone lo strabiliante risultato secondo cui i magistrati lavorano mediamente 4 ore al giorno. Peccato che se i giorni sono 365, le settimane sono 52, proprio come le domeniche; senza contare che essendo stata abolita la schiavitù, devono sottrarsi anche i 30 giorni di ferie (gli ulteriori 15 giorni sono solo nominalmente definite ferie, ma servono a smaltire l’arretrato, cioè a scrivere i provvedimenti incamerati nelle ultime settimane di effettivo servizio e vanno considerati a tutti gli effetti giorni di lavoro). Il conto della serva è dunque smentito: dividendo quel monte ore (la cui esattezza nessuno potrà mai verificare sul campo, può aggiungersi essendo onesti intellettualmente) per il giusto quoziente si ottiene il risultato medio di circa 6 ore giornaliere di lavoro. Esattamente corrispondente alle 36 ore settimanali richieste a qualsiasi altra categoria.


I ritardatari.

Se l’inaugurazione dell’anno giudiziario è avvenuta il 23 gennaio 2009 mentre i francesi l’hanno fatta prima, lo si deve al ritardo col quale il Ministro ha presentato al parlamento la sua relazione sulla giustizia (art. 86 dell’ordinamento giudiziario). Cosa lasci supporre che i tribunali fossero chiusi prima di quella data resta un autentico mistero non rivelato da Livadiotti: è semplicemente una balla, e si sa, alle balle non è possibile applicare il braccialetto elettronico, ahinoi, esse girano liberamente e nessuno le ferma più. Non era, dunque, un magistrato quello che Livadiotti ha visto sciare nelle settimane precedenti al 23 gennaio 2009. Se li ha visti c’è, comunque, la prova che lui era in montagna ed il libro lo ha scritto ad alta quota!


I paperoni.

Guadagniamo troppo. Per fare due calcoli ed assumere a riferimento “prestazioni” paragonabili ho già detto che bastano due o tre parcelle in favore degli avvocati che difendono parti ammesse al patrocino a spese dello Stato a coprire interamente lo stipendio di un magistrato. Un giudice civile definisce in media ogni mese non meno di 30 processi, con sentenze ed altri provvedimenti.
Lo stipendio del magistrato è dominato dal principio della onnicomprensività, vale a dire che vi è uno “sconto” forfettario per chi paga, e cioè per lo Stato, discendente dal fatto che per i magistrati, a differenza di qualunque altra categoria di lavoratori dipendenti, non è previsto alcun compenso per lo “straordinario” o per la “reperibilità” e se si ammalano viene loro decurtata notevolmente la retribuzione.
Le pantagrueliche entrate extra alle quali viene fatto riferimento sono semplicemente risibili, dato che i pochi incarichi non giudiziari interessano un’esigua minoranza di magistrati (circa il 10%) e riguardano per lo più l’insegnamento per poche ore all’anno, come ognuno potrà verificare sul sito http://www.csm.it/ dove sono pubblicizzati i nomi dei magistrati con compensi da “paperoni” (in genere ben al di sotto dei mille euro all’anno).


Le “promozioni” immeritate.

Un ulteriore aspetto che fa inalberare Livadiotti è che lo stipendio cresce, nel tempo, anche se il magistrato, nel tempo, continua a fare ... il magistrato! Ebbene, il responsabile di questo “scempio” Livadiotti poteva anche individuarlo, sol che avesse indagato un po’ più a fondo. Fu il Costituente, infatti, ad imporre che i magistrati si distinguano, tra loro, solo per le funzioni svolte. Questo perché un magistrato troppo ambizioso è anche incline al compromesso se all’agognato grado sia eventualmente collegato un aumento dello stipendio; così l’art. 107 Cost. ha cautamente sollevato il magistrato dal peso eccessivo del carrierismo, contrastante con la serenità che deve distinguerne il lavoro, ponendolo al riparo dall’esigenza di assecondare i voleri di questo o di quello, si dà rendere plausibile anche la prospettiva di rimanere giudice di un tribunale di provincia (ma a Livadiotti la provincia italiana, così bella e popolata da gente meravigliosa, fa poi così schifo? Forse che i provinciali non meritano buoni giudici? Boh ...).
Proprio perché i magistrati si distinguono solo per la diversità delle funzioni svolte quelle che Livadiotti chiama “promozioni” sono, in realtà, semplici verifiche della professionalità che si succedono al ritmo di quattro anni: ogni magistrato è sottoposto ad uno screening sulla quantità e qualità del suo lavoro, i suoi provvedimenti vengono esaminati “a campione”, cioè a caso, e se non ha demeritato supera la verifica. La progressione economica collegata all’acquisizione di maggiore esperienza professionale è nella natura delle cose; un professionista con maggiore esperienza solitamente guadagna molto di più di uno alle prime armi. Lo stesso Livadiotti omette di dirci quanto lui guadagnasse dieci anni fa e quanto guadagna oggi (libro a parte, da me acquistato “in promozione” a 14 euro).


Il bilancio della giustizia e la geografia giudiziaria.

L’autore ricorda che la maggior parte dei fondi stanziati per il funzionamento della giustizia sono impiegati nel pagamento degli stipendi e delle spese del patrocinio a spese dello Stato, lasciando al lettore l’idea della netta preponderanza della prima sulla seconda voce. Personalmente liquido mensilmente tre o quattro parcelle agli avvocati delle parti ammesse al patrocinio a spese dello Stato per un importo non inferiore a quello dello stipendio di un uditore giudiziario.
Per carità, la difesa dei non abbienti è sacra, ma Livadiotti omette di dire che nel nostro paese l’evasione fiscale è talmente diffusa che l’evasore, oltre a non contribuire secondo le proprie capacità al bene comune, vampirizza le risorse pubbliche ed è quindi sensato supporre che a fruire di quel costoso beneficio sia molto spesso chi non ne avrebbe titolo, a scapito delle famiglie realmente in difficoltà e delle scarse risorse destinate al funzionamento degli uffici giudiziari.
Che la geografia giudiziaria italiana sia assolutamente arcaica, e quindi inefficiente, è cosa risaputa alla classe politica, l’unica che può intervenire, con legge, per ridisegnarla; da tempo i magistrati segnalano che la dimensione minima di un ufficio giudiziario non dovrebbe essere inferiore a 20 magistrati ma, si sa, sopprimere un tribunale fa guadagnare denaro ma perdere troppi voti. Ed i voti servono ai politici, non ai magistrati (almeno per ora!).


I giudici che giudicano i giudici.

Livadiotti, visto che mi conosci così bene e ti sei preso una bella confidenza verso di me ed i miei colleghi, mi sento autorizzato a darti del tu. E quindi mi permetti una domandina? Ma se io fossi talmente arrabbiato per tutte le inesattezze che hai scritto su di me e volessi deferirti alla “disciplinare” tu da chi saresti giudicato? Forse dai veterinari?
Guarda che in ogni settore i giudici disciplinari sono espressione della stessa categoria professionale del giudicabile; e questo perché le regole deontologiche e quelle tecniche di ogni professione devono essere amministrate dall’ordine di appartenenza. Perché non hai paragonato le statistiche con quelle della tua categoria? Credo che più d’un cittadino sia piuttosto deluso per come funziona l’informazione in questo paese, non meno di quanto si lamenti per la giustizia, per la sanità o per l’istruzione (per non parlare di banche ed assicurazioni).


Le degenerazioni correntizie.

Nessuno è perfetto. Anche noi abbiamo i vostri difetti.
Le famigerate “correnti” sono delle associazioni private esterne ed autonome rispetto all’ANM (che raccoglie circa il 90% dei magistrati italiani), con propri statuti ed organi gestionali, alle quali sono iscritti una minoranza di colleghi; esse, tuttavia, riescono ad assumere la gestione dell’ANM ed anche a determinare l’elezione dei loro aderenti al CSM.
L’esasperante importanza assunta dall’appartenenza di un magistrato a questa o a quella corrente nell’attribuzione dei più diversi incarichi (dai posti direttivi a quelli presso i ministeri, dove troppi magistrati sono distolti dai loro compiti) è oggi al centro dell’attenzione critica dell’opinione pubblica ed anche di parte della magistratura e sembra di poter cogliere qualche possibilità di auto correggere la rotta.
La cosa disdicevole è che il magistrato privo di “targa” è sostanzialmente tagliato fuori da ogni possibilità di “carriera” e, come dice Livadiotti con disprezzo, magari resta a vita a fare il giudice nel fatidico tribunale … di provincia!
Non è un mistero che Livadiotti abbia tratto ispirazione anche dagli scritti di Felice Lima pubblicati in questo blog per stigmatizzare questa pratica. Essa è oggettivamente riscontrabile giacché i dirigenti (i presidenti di tribunale ed i procuratori della Repubblica) quando non sono designati all’unanimità, riportano maggioranze “riconoscibili”, nel senso che essi sono votati da tutti i consiglieri di questa o quella corrente. In sostanza scelte di carattere tecnico si prestano ad essere intese come frutto di precostituita diffidenza verso chi non veste, nell’occasione, la giusta casacca.
Il fenomeno attenta gravemente alla credibilità del sistema tanto da aver allarmato il capo dello Stato (che del CSM è presidente) ed il problema si è acuito con l’aumento della discrezionalità conferita al CSM, non più vincolato dal criterio dell’anzianità nella scelta dei dirigenti e quindi del tutto libero di preferire un giovincello ad un magistrato di esperienza, con motivazioni sempre più spesso vagliate negativamente dal giudice amministrativo.




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Il Fatto Quotidiano - Notte bianca “No Bavaglio”






di Antonio Padellaro e
Marco Travaglio

(Giornalisti)





da Voglioscendere


E’ il momento di tornare a farci sentire, le raccolte di firme non bastano più.

Con la controriforma delle intercettazioni e della cronaca giudiziaria, il regime punta a salvare i delinquenti e a privare i cittadini della necessaria informazione: vuole espropriarci di quel diritto che Luigi Einaudi definiva “conoscere per deliberare”.

Per questo il Fatto Quotidiano ha deciso di esordire in pubblico, prim’ancora di uscire nelle edicole, organizzando subito una notte bianca “No Bavaglio”. Perché la ragione sociale del nostro giornale è proprio questa: informare.

Ci troveremo tutti insieme la sera di mercoledì 8 luglio a Roma (il luogo lo stiamo scegliendo, per non lasciare fuori nessuno), per incontrarci e dire no alla legge eversiva e golpista del Signor P2 che mira a disarmare la magistratura e a imbavagliare la libera stampa.

Inviteremo sul palco giornalisti, scrittori e artisti per un grande happening di protesta, di satira, di testimonianza, ma soprattutto di informazione.

Spiegheremo la controriforma nel dettaglio, leggeremo e faremo ascoltare in originale le intercettazioni e le carte giudiziarie, anche inedite, dei grandi scandali politico-finanziari che il regime vuole nascondere ai cittadini.

I partiti e i politici di opposizione che vorranno aderire e partecipare tra il pubblico saranno i benvenuti.

Tenetevi liberi, invitate gli amici e restate in contatto con i nostri blog: ogni giorno vi aggiorneremo sugli sviluppi dell’iniziativa.
Più siamo, più il bavaglio si allontana.

Antonio Padellaro e Marco Travaglio


__________

(Vignetta di Natangelo)





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venerdì 12 giugno 2009

Strategie






Vignetta di Bandanas





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Ddl intercettazioni, Scarpinato: Il Paese messo a tacere



da Micromegaonline



Pubblichiamo il testo della prefazione al volume di Gianni Barbacetto “Se telefonando. Le intercettazioni che non leggerete mai più”, pubblicato da Melampo Editore.



di Roberto Scarpinato
(Procuratore Aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Palermo)



Le vicende emerse dalle intercettazioni in tanti processi hanno messo a nudo una inquietante trasversalità nella gestione di affari poco puliti.

Credo che non sia un caso che le intercettazioni siano diventate un punto di attacco fondamentale da parte del mondo politico.

Ormai si è costruito un sistema di omertà blindato.

Testimoni non se ne trovano più, le poche persone che hanno osato raccontare alla magistratura i misfatti dei potenti hanno dovuto subire una via crucis che non ha risparmiato neanche i loro affetti più personali.

Collaboratori di rango sono venuti meno, restano collaboratori che raccontano episodi di criminalità da strada.

Magistrati che osano indagare sui potenti sono sottoposti a procedimenti disciplinari e trasferiti di ufficio con procedure discutibili.

Oggi l’unico momento di visibilità del modo in cui viene realmente esercitato il potere sono rimaste le intercettazioni; solo le macchine (le microspie) ci consentono di ascoltare in diretta la vera e autentica voce del potere.

Le intercettazioni sono rimaste l’ultimo tallone di Achille di un potere che nel tempo ha sempre più circondato di segreto il proprio operato, perché l’opposizione è venuta meno al proprio compito, il giornalismo indipendente è emarginato e non ha più spazi nella televisione, la magistratura rischia di divenire sempre più addomesticata.

Ed ecco perché la riforma delle intercettazioni deve passare, perché da quel momento in poi non sarà più possibile sapere quello che succede in questo Paese dietro le quinte: in quel fuori-scena dove, come la lezione della Storia ha dimostrato, si mettono a punto accordi segreti e inconfessabili, che riducono la politica visibile a una “messa in scena” per cittadini ignari, trattati come eterni minorenni ai quali celare la realtà della macchina del potere.

La magistratura sarà privata di strumenti di indagine fondamentali e il vecchio tormentone sulle toghe rosse non ci sarà più, perché non ci saranno né toghe rosse, né toghe nere, né toghe di centro.

Io e i miei colleghi assistiamo sgomenti a quello che sta accadendo, perché ci siamo battuti in questi anni con tutte le nostre forze per arginare l’avanzare della criminalità mafiosa e della criminalità del potere, e renderci conto che si stanno facendo saltare gli ultimi anticorpi, che ci stanno disarmando, che si rischia di consegnare il Paese alla criminalità è qualcosa che ci lascia interdetti e ci fa interrogare sul senso del sacrificio di quelli che prima di noi hanno perduto la propria vita per difendere la tenuta democratica del Paese.

Vi confesso che da qualche tempo ho difficoltà a partecipare, il 23 maggio e il 19 luglio, alle cerimonie per l’anniversario della strage di Capaci e di via D’Amelio, perché quando vedo tra le prime fila a rappresentare lo Stato taluni personaggi sotto processo o condannati per mafia o per corruzione, io non mi sento di poter stare in quella stessa chiesa, non mi sento di poter stare in quello stesso palazzo.

E mi chiedo: ma come potranno i nostri ragazzi credere in uno Stato che si presenta con queste facce?

Allora altro che toghe rosse. Io credo che se questa partita delle intercettazioni sarà perduta non avremo soltanto una pessima riforma processuale, ma avremo uno squilibrio dei poteri in Italia.

È strano che una riforma processuale possa acquisire uno spessore di carattere costituzionale, ma ciò avviene perché siamo in una situazione di patologia della democrazia.

In una situazione fisiologica esistono tutta una serie di anticorpi che consentono di controbilanciare gli abusi del potere: c’è un’opposizione parlamentare, c’è un giornalismo libero e indipendente, c’è una separazione dei poteri.

Io credo che in un Paese come questo, in cui tutti gli anticorpi sono stati disinnescati e dove soltanto le macchine, le microspie svolgono una funzione di opposizione e di visibilità democratica, quando anche le macchine saranno messe a tacere, il Paese sarà messo a tacere.



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Lettera di un Pubblico Ministero al Presidente del Consiglio






di Marco Imperato
(Sostituto Procuratore della Repubblica di Bologna)






Gentile Presidente del Consiglio,

Lei ha detto in più occasioni pubbliche, seppure con il tono goliardico di una boutade, che ritiene che fare il pubblico ministero (pm, i magistrati requirenti) consista nel fare del male.

L’astio e la sfiducia che rivolge a questa specifica parte della magistratura (salvo attaccare anche i giudici che non la ritengono estraneo ai fatti che le vengono contestati ...) mi fa pensare che la battuta sia sintomatica di un pensiero radicato realmente in Lei e che la sua posizione e popolarità diffonde o quanto meno insinua anche nell’opinione pubblica.

Questa sensazione mi viene confermata anche dal fatto che lei sempre più spesso si riferisce a questa parte della magistratura come gli “avvocati dell’accusa”, rivelando così il suo punto di vista: il ruolo dei pm è quello di indagare, sono dei poliziotti con la toga il cui scopo è trovare i colpevoli e il cui unico successo è la condanna dell’imputato.

In altre parole, un duro giustiziere che distribuisce male a chi lo commette, ma che nel fare ciò incappa anche in errori e così passa sopra anche la pelle e la vita di sfortunati innocenti che diventerebbero le vere vittime del processo.

No, signor Presidente. Per fortuna non è così.

Non è così per il sottoscritto, che sognava da quando aveva 14anni di fare questo lavoro proiettando i sogni e gli ideali di un giovanissimo ingenuo.

Non è così per la grande maggioranza dei colleghi che incontro e conosco in giro per l’Italia.

Ma soprattutto non è così per la Costituzione.

Non sono pagato, come lei ha lasciato intendere, per torturare psicologicamente i poveri imputati che trascino fino in Cassazione.

Il mio lavoro è innanzitutto quello di cercare la verità (con la “v” minuscola, per carità).

Per questo ho deciso di non fare la professione bellissima e affascinante dell’avvocato: perchè mi volevo e mi voglio sentire sempre libero di poter cercare solo la verità (e vado fiero del fatto di chiedere l’assoluzione al termine di un processo che ho istruito se quello mi pare l’esito corretto).

Non mi interessa la pressione dell’opinione pubblica che vuole un capro espiatorio, non mi devo preoccupare della necessità di portare a termine delle operazioni da parte delle forze di polizia: il successo del mio lavoro è rappresentato solo dal raggiungimento della verità processuale, dalla ricostruzione in tempi ragionevoli e con il rispetto delle norme di quanto è successo, così che la vittima trovi risposta alla sua istanza di giustizia e di difesa e che l’indagato debba rispondere solo di ciò che ha colpevolmente commesso, avendo tutte le opportunità che la legge italiana garantisce per difendersi e spiegare la propria versione dei fatti.

Spesso è davvero difficile prendere delle scelte e sebbene le decisioni finali appartengano solo ai giudici, io stesso, sentendomi magistrato prima ancora che pm, cerco di assumermi il peso della decisione facendo così richieste oggettive e solide, e non ispirate solo da una logica accusatoria (cosa che dall’altra parte dell’aula di udienza il difensore non si potrebbe permettere di fare specularmente, dovendo innanzitutto difendere al meglio gli interessi e la posizione del proprio assistito).

Il giorno in cui ho giurato sulla Costituzione (unico vero faro del nostro lavoro) sapevo che essendo un essere umano e come tale limitato e fallibile nonostante le mie migliori intenzioni, avrei commesso degli errori: questo vale per tutte le professioni ma ero e sono consapevole che commettere un errore nel mio lavoro può comportare gravi sofferenze e conseguenze per la vita delle persone.

Mi assumo la responsabilità di quello che faccio e la mia funzione pubblica può e deve essere sempre di più soggetta alla valutazione di professionalità (come previsto in maniera ancora più pressante dalle recenti riforme) e soprattutto il sistema prevede che ci siano molti altri soggetti che intervengono a controllare il mio operato (avvocatura) e prendere decisioni (i colleghi giudicanti dei vari gradi).

Il fatto poi che debbano potersi impugnare anche le sentenze di assoluzioni in primo grado (cosa che lei ha di recente nuovamente contestato) deriva dall’ovvia osservazione che anche il giudice può sbagliare e quindi anche lui deve sottostare alle verifiche di appello e cassazione volte a limitare entro i limiti dell’umanamente possibile errori giudiziari (salvo pensare che i pm siano antropologicamente diversi, ma anche questo riesce difficile poichè sono selezionati insieme ai futuri colleghi giudicanti con un concorso molto selettivo e basato principalmente su prove scritte teoriche).

C’è poi un altro aspetto del mio lavoro che Lei dimentica: la difesa delle vittime e delle loro istanze di giustizia e protezione.

Per me fare il pm vuole innanzitutto dire porre la mia professionalità al servizio del Paese per combattere le ingiustizie, difendere con la legge coloro che subiscono prepotenze e violenze: “la legalità è il potere dei senza potere”, disse lo statista ceco Dubcek.

La donna che subisce violenze, il cittadino vittima di una rapina o di una truffa, il bambino abusato, l’imprenditore derubato da qualche furbetto, la famiglia straziata dal dramma della droga e quella orfana di un lavoratore morto in cantiere per il mancato rispetto della legge ... sono queste le persone che affidano alla magistratura (anche quella requirente) la loro speranza di giustizia, che peraltro non dovrebbe esaurirsi nella punizione del colpevole.

Il male non è l’obiettivo del mio lavoro ... bensì il suo nemico, signor Presidente.

E non separare le carriere per restare parte di un unico ordine insieme ai miei colleghi giudici ha proprio il principale merito di ricordare a noi pm che siamo anzitutto dei magistrati, che siamo soggetti solo alla legge e il nostro unico obiettivo è la ricerca della verità nella lotta contro le ingiustizie.

Gli eccessi negativi di quei pm troppo votati solo all’accusa e che difettano di serenità e della capacità anche di cambiare idea in base alle emergenze probatorie sono figli proprio di un atteggiamento poliziesco di colui che si sente solo avvocato dell’accusa e rischia così di dimenticarsi che il grande potere che gli è dato è solo in vista dell’affermazione della legalità: sarebbe opportuno rifletterci profondamente quando si invoca la separazione delle carriere, che potrebbe solo di aggravare il problema che si dice all’opinione pubblica di voler risolvere.

Per queste ragioni continuo a credere che il mio lavoro sia tanto difficile e delicato quanto appassionante, consentendomi di guadagnarmi da vivere non dovendo pensare al mio tornaconto personale ma solo al servizio e nell’interesse della collettività e dell’affermazione della legalità.

Spero che quando i miei piccoli due maschietti saranno cresciuti fare il pm in Italia continui a significare questo.

Cordiali saluti.

Marco Imperato
magistrato (e pubblico ministero per ora ...)





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Criminali in parlamento





di Peter Gomez
(Giornalista)





da Voglioscendere


I piduisti amici del boss mafioso Vittorio Mangano e di altri noti criminali ce l’hanno fatta.

Tra ieri e oggi, nel silenzio complice di buona parte della stampa italiana, è stata abolita la libertà di parola.

D’ora in poi, salvo ripensamenti del Senato, sarà impossibile raccontare sulla base di atti giudiziari i fatti e i misfatti delle classi dirigenti.

Chi lo farà rischierà di finire in prigione da 6 mesi a tre anni, di essere sospeso dall’ordine dei giornalisti e, soprattutto, dal suo giornale, visto che gli editori andranno incontro a multe salatissime, fino a un massimo di 465.000 euro.

Il plurimputato e pluriprescritto Silvio Berlusconi per raggiungere il risultato è stato costretto a ricorrere al voto di fiducia.

Le nuove norme contenute nel disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche sono infatti talmente indecenti da risultare indigeste persino a un pezzo importante della sua maggioranza.

Da una parte, s’interviene sul diritto-dovere d’informare con disposizioni grossolane e illiberali stabilendo, per esempio, che le lettere di rettifica vadano pubblicate integralmente (anche dai blog) senza possibilità di replica.

Insomma, se un domani Tizio scriverà a un giornale per negare di essere stato arrestato, la sua missiva dovrà finire in pagina, in ogni caso e senza commenti, pur se inviata dal carcere di San Vittore.

Dall’altra, per la gioia di delinquenti di ogni risma e colore, si rendono di fatto impossibili le intercettazioni.

Gli ascolti saranno infatti autorizzati, con una procedura farraginosa e lentissima, solo in presenza di «evidenti indizi di colpevolezza».

Cioè quando ormai si è sicuri che l’intercettato è colpevole.

E in ogni caso non potranno durare più di due mesi.

Inoltre le microspie potranno essere piazzate solo nei luoghi in cui si è certi che vengano commessi dei reati: detto in altre parole, è finita l’epoca in cui le cimici nascoste nelle auto e nei salotti dei mafiosi ci raccontavano i rapporti tra Cosa Nostra e la politica.

Che Berlusconi e un parlamento formato da nominati e non da eletti dal popolo, in cui sono presenti 19 pregiudicati e una novantina tra indagati e miracolati dalla prescrizione e dall’amnistia, approvi sia pure tra qualche mal di pancia leggi del genere non sorprende.

A sorprendere sono invece le reazioni (fin qui pressoché assenti) di quasi tutti i direttori dei quotidiani e dei comitati di redazione dei telegiornali (dai direttori dei tg, infatti, non ci si può aspettare più nulla).

Quello che sta accadendo in parlamento dovrebbe essere la prima notizia del giorno.

E invece a tenere banco è la visita di Gheddafi e le polemiche intorno alla sua figura di dittatore.

Così a furia di parlare di Libia nessuno si accorge di come il vero suk sia ormai qui, a Roma, tra Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Chigi.

E di come, tra poco, nessuno potrà più raccontarlo.


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La vignetta è di
Bandanas





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In Italia le domande le fanno i nemici, punto




di Rachel Donadio
(Giornalista)





da The New York Times del 7 giugno 2009


Traduzione di Italiadallestero


Roma - Ho ricevuto una telefonata la scorsa settimana da un amico italiano, un reporter investigativo.

Aveva appena parlato con un magistrato italiano che voleva sondare una teoria.

Il magistrato si chiedeva - in tutta serietà - se il mio recente articolo sul New York Times sulla vita personale del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi potesse essere una prova che il sindaco Michael R. Bloomberg, invidioso dell’impero mediatico di Berlusconi, mi stesse usando per smontare il Presidente del Consiglio.

Il mio amico ha rapidamente e giustamente scartato la teoria per quello che era: insensata.

Ma il fatto che fosse stata avanzata da un rispettabile magistrato vi dice quasi tutto quello che avete bisogno di sapere su come funziona il potere in Italia.

La dice lunga anche sul successo inarrestabile di Berlusconi, un fenomeno tanto strano per gli americani quanto lo sono le leggi sul conflitto di interessi per gli italiani.

Gli americani si chiedono da sempre come l’Italia possa continuare a votare Berlusconi, i cui problemi legali -per non menzionare le recenti minacce di divorzio da parte della moglie e le sue accuse di flirt del marito con donne molto giovani- avrebbero rovesciato i governi da qualsiasi altra parte.

Ma gli italiani non sempre vedono le cose in questo modo. In Italia, l’abuso d’ufficio è una sorta di concetto astratto, nonostante un tribunale italiano stia ora investigando se Berlusconi l’abbia commesso quando ha utilizzato aerei del governo per trasportare ospiti, inclusi un cantante napoletano e una ballerina di flamenco, a feste di gala nella sua villa in Sardegna.

Berlusconi ha liquidato tutto ciò, come ha fatto con tutte le altre accuse di scorrettezze, come una campagna contro di lui organizzata da magistrati e giornalisti di sinistra. A suo avviso, vogliono screditare la sua coalizione di centro-destra in vista delle elezioni di questo weekend per il Parlamento Europeo, che ancora una volta si aspetta di vincere.

Sebbene largamente fuori dall’obiettivo nel mio caso, la teoria del magistrato su Bloomberg non è del tutto insensata. Berlusconi la scorsa settimana ha ipotizzato in un’intervista che il Times di Londra avesse pubblicato editoriali critici su di lui perché di proprietà di Rupert Murdoch, proprietario di Sky ovvero il più grande attore nel mercato della TV italiana via cavo dopo Berlusconi.

In Italia, questa è ordinaria amministrazione. L’opinione generale è che tutti usano i mezzi a propria disposizione per combattere i propri rivali.

La vera questione qui è che l’Italia non è una meritocrazia.

E’ una società feudale molto evoluta in cui ognuno è visto, ed inevitabilmente è, il prodotto di un sistema, o di un protettore.

Durante gli anni del dopoguerra, i democristiani appoggiati dagli americani, i comunisti appoggiati da Mosca e i socialisti orientati al mondo del business avevano le proprie reti di politici, banchieri, avvocati, e i propri organi di stampa.

Quel sistema di patrocinio corrotto è crollato con la fine della guerra fredda e con un enorme scandalo di tangenti.

Oggi non ci sono né ideologie né reti; c’è solo Berlusconi, e si può essere con lui o contro di lui.

In confronto al vecchio ordine, la classe politica di Berlusconi è vista come una forza modernizzatrice.

I rivali di Berlusconi lo accusano di essere sul lato sbagliato della legge e lui a sua volta accusa loro di essere sul lato sbagliato della storia.

Queste due cose non dovrebbero escludersi a vicenda, ma spesso lo fanno.

I membri della sinistra italiana sono stati in lotta interna sin dal crollo del Muro di Berlino e sono così deboli e inefficaci oggi che alcuni in questa terra di teorie intricate di cospirazione sono convinti che Berlusconi li stia pagando.

L’Italia è profondamente confusa per gli americani, che sono immersi in concetti quali dire la verità per governare e inseguire il denaro, cresciuti nella terra del “Si possiamo”, non del “Mi dispiace, signora, questo è impossibile”.

Nella logica capovolta dell’Italia, il controllo senza rivali di Berlusconi sui settori pubblico e privato e sui media non lo fanno apparire compromesso.

Al contrario, i suoi seguaci lo vedono abbastanza ricco da poter essere indipendente.

Come mi ha detto un romano della classe operaia non molto tempo fa, pieno di ammirazione, “è così ricco che non aveva nemmeno bisogno di mettersi a fare politica”.

In Italia, quando i giornalisti fanno domande del tutto legittime sullo stato legale e la vita personale del leader di un paese del G8, o persino quando chiedono perché l’Italia non sembra importarsene delle risposte, sono inevitabilmente accusati di insultare Presidente del Consiglio o di essere le pedine di interessi più grandi.

In Italia, il presupposto generale è che qualcuno è colpevole finché non provato innocente.

I processi, nella stampa e nei tribunali, riguardano più spesso la difesa dell’onore personale che stabilire i fatti, che sono facilmente manipolati.

A volte mi chiedo cosa ne pensa dell’Italia Papa Benedetto XVI, che ha inveito contro la “dittatura del relativismo” secondo la quale equiparare tutte le credenze porta al nichilismo.

In Italia l’informazione è usata non per chiarire, ma per annebbiare.

Come altro interpretare la raffica di materiale largamente contraddittorio emerso dalla stampa nelle settimane recenti, su come Berlusconi abbia incontrato Noemi Letizia, alla cui festa di 18esimo compleanno il Premier ha partecipato ad aprile, un atto che ha fatto talmente infuriare sua moglie, da molto lontana dai riflettori, che con la sua minaccia di divorzio è ora diventata il leader di opposizione de facto? In assenza di una storia chiara e coerente, l’unico standard di prova diventa la lealtà personale.

Noemi Letizia la scorsa settimana ha dichiarato in un’intervista di essere arrabbiata perché il suo nuovo fidanzato aveva fatto un provino per il reality televisivo “Grande Fratello” senza chiederle il permesso.

Nel reality che è l’Italia di oggi, Berlusconi è il palese vincitore.

I suoi rivali stanno facendo poco più che lanciare pomodori sul palco.

L’attore sta mostrando segni di stanchezza ma il pubblico è incollato ai propri posti. Après lui, le déluge [Dopo di lui, il diluvio: in francese nel testo, N.d.T.].


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La fotografia è tratta da Repubblica.it




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Tangenti, “furbetti” e Calciopoli, le verità che non avremmo saputo Le verità che non avremmo saputo



di Liana Milella
(Giornalista)



da Repubblica del 12 giugno 2009


Intercettazioni, ecco come la riforma toglie spazio ai pm e limita la stampa. Da Lady Asl agli immobiliaristi: l’obbligo di indizi “evidenti” impedirebbe molti controlli.

Roma - Gli orrori della clinica Santa Rita di Milano? Sarebbero rimasti ben segreti.

Le partite truccate di Calciopoli? Avrebbero continuato a essere giocate.

L’odioso stupro della Caffarella? Gli autori sarebbero ancora liberi.

Il sequestro dell’imam Abu Omar? I pm di Milano non l’avrebbero mai scoperto. E gli agenti del Sismi che collaborarono con la Cia non avrebbero mai lasciata impressa sul nastro la fatidica frase “quell’operazione è stata illegale”.

Lady Asl e la truffa della sanità nel Lazio? La cupola degli amministratori regionali avrebbe continuato ad operare indisturbata.

I furbetti del quartierino? Per le scalate Antonveneta e Bnl forse non ci sarebbero stati gli “evidenti indizi di colpevolezza” per mettere i telefoni sotto controllo.

A rischio le inchieste potentine di Henry John Woodcock, Vallettopoli, Savoiopoli, affaire Total, tangenti Inail, dove i nastri hanno continuato a girare per otto-nove mesi prima di produrre prove, e quelle calabresi (Poseidone, Toghe lucane, Why not) dell’ormai deputato europeo Luigi De Magistris.

Una moria impressionante, in cui cadono processi famosi e meno famosi, in cui le indagini sulla mafia sono messe a rischio perché non si potrà più mettere sotto controllo telefoni per truffa ed estorsione.

Si salva Parmalat dove, come assicurano i pm di Milano e di Parma, le intercettazioni non furono determinanti né per arrestare Calisto Tanzi in quel dicembre 2003, né per accertare ragioni e colpevoli del crack.

Ha detto e continua a dire l’Anm con una frase ad effetto, è la morte della giustizia penale in Italia.

Nelle stesse ore in cui alla Camera, con il concorso dell’opposizione nonostante l’appello del giorno prima a Napolitano di Pd, Idv, Udc, si approva la legge sugli ascolti, nelle procure italiane, tra lo sconcerto e l’irritazione delle toghe, si fanno i conti delle intercettazioni che non si potranno più fare in futuro e di quelle che, in un passato recente, non sarebbero mai state possibili.

E, anche se fossero state fatte, non si sarebbero mai potute pubblicare, né nella versione integrale, né tanto meno per riassunto.

Le indagini cadono su due punti chiave della legge: “evidenti indizi di colpevolezza” per ottenere un nastro, solo 60 giorni per registrare.

Così schiatta l’indagine sulla clinica Santa Rita che parte con una truffa ai danni dello Stato per via dei rimborsi gonfiati e finisce per rivelare che si operava anche quando non era necessario.

Non solo sarebbero mancati gli “evidenti indizi” (se ci fossero stati i pm Pradella e Siciliano avrebbero proceduto con gli arresti), ma non si sarebbe andati avanti per undici mesi, dal 4 luglio 2007 al 24 giugno 2008.

Giusto a metà, era settembre, ecco le prime allusioni a un reparto dove accadevano “fatti gravi”.

Niente ascolti, niente testi sui giornali, niente versione integrale letta al processo, niente clinica costretta a cambiare nome per la vergogna.

Cambia corso il caso Abu Omar, nato come un sequestro di persona semplice contro ignoti. Solo due mesi di tape. Ma la telefonata chiave, quando l’imam libero per una settimana racconta alla moglie la dinamica del sequestro, giunge solo allo scadere dei 12 mesi d’ascolto.

In più la signora, in quanto vittima, non avrebbe mai dato l’ok a sentire il suo telefono, come stabilisce la nuova legge.

Per un traffico organizzato di rifiuti a Milano, dove arrivava abusivamente anche la monnezza della Campania, hanno fatto 1.500 intercettazioni per sei mesi. Solo dopo i primi due s’è scoperto cosa arrivava dal Sud. In futuro impossibile.

Come gli accertamenti che fanno scoprire i mafiosi.

A Palermo hanno intercettato l’imprenditore Benedetto Valenza per quattro mesi: dalla truffa e dalla frode nelle pubbliche forniture sono arrivati a scoprire che riciclava i soldi del clan Vitale e forniva cemento depotenziato pure agli aeroporti di Birgi e Punta Raisi.

Idem per l’inchiesta contro gli amministratori di Canicattì e Comitini che inizia per abuso d’ufficio e corruzione e approda a un maxi processo contro le cosche di Agrigento. Telefoni sotto controllo per sei mesi, ormai niente da fare.

“La gente sarà meno sicura” dicono i magistrati. E citano lo stupro della Caffarella d’inizio anno.

Due arresti sbagliati (i rumeni Ractz e Loyos), il vanto di aver fatto tutto “senza intercettazioni”, poi il ricorso all’ascolto sul telefono rubato alla vittima. Domani impossibile perché in un delitto contro ignoti si può intercettare solo il numero “nella disponibilità della persona offesa”.

Assurdo? Contraddittorio? Sì, ma ormai è legge.



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