domenica 8 agosto 2010

Siamo cittadini o sudditi?




di Giuseppe Albanese
(Studente universitario)





Il principio dello Stato di diritto presuppone che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti.

Dunque, lo Stato, sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, e questo avviene tramite una Costituzione scritta.

Nella storia, la nascita dello Stato di diritto coincide con la fine dell’assolutismo, e comporta l’affermazione della borghesia tra il XVIII ed il XIX secolo.

Infatti, a livello teorico, la proclamazione dello stato di diritto avviene come esplicita contrapposizione allo Stato assoluto in cui i titolari dei poteri erano “absoluti”, ossia svincolati da qualsivoglia potere ad essi superiore.

Oggi sembra essere tornato l’assolutismo in Italia: la legge non è più uguale per tutti ... il “potere”, in senso lato, è tornato ad essere “absoluto” ... il Parlamento è divenuto uno strumento in mano all’Esecutivo, e le disposizioni normative hanno da tempo perso i caratteri illuministici della brevità e della chiarezza, divenendo negli anni un marasma indecifrabile, quasi degli statuti cinquecenteschi, che fanno la fortuna dei moderni “azzeccagarbugli”.

Il potere giudiziario è in balia delle onde: è rimasto l’ultimo orgoglioso tutore e baluardo della legalità, in un quadro di disgustoso disordine istituzionale, ma è costantemente controllato a vista e vilipeso da un esecutivo che minaccia di operare nei suoi riguardi riforme ai limiti della costituzionalità.

E’ altresì dilaniato da contraddizioni interne, da infiltrazioni nocive eterogenee ad esso, per contrastare le quali, aimè (non me ne vorrà il Capo dello Stato) non gode dei necessari anticorpi.

Questo disordine di equilibri, di ruoli e di fonti ha condotto alla “diseducazione civica” della società italiana; è stata inarrestabile e ci ha reso tutti meno responsabili, attivi e interessati, quindi più facilmente condizionabili, “gestibili”: il cittadino è tornato ad essere suddito.

A questo punto sorge spontaneo citare l’amara ma lucida riflessione di un noto magistrato, Piercamillo Davigo, che fotografa in maniera imbarazzante la realtà italiana: “Questo è un paese infarcito di una infinità di regole la cui violazione è abitualmente tollerata. Un paese serio è un paese dove ci sono poche regole fatte ferreamente rispettare. Questa è la differenza fra il suddito e il cittadino: il suddito è un soggetto cui sono imposti infiniti obblighi e infiniti divieti; normalmente gli si permette di farne strame ma se alza la testa gli si chiede conto e ragione di tutte le violazioni fino a quel momento perpetrate. Il cittadino è un uomo a cui sono imposti pochissimi obblighi, pochissimi divieti per la cui violazione non c’è perdono, non ci sono il condono edilizio, il condono fiscale, l’amnistia, l’indulto: c’è il rigore. Ma, rispettati quegli obblighi, è un uomo libero e più nessuno può infastidirlo”.

Mentre il cittadino è il civis, colui che partecipa della vita pubblica della comunità e come tale è titolare di diritti e soggetto delle decisioni , il suddito è colui che delle decisioni è solo oggetto.

Il cittadino italiano, oggi, è tornato ad essere oggetto delle decisioni, tirato in ballo in continuazione da chi vuole legittimare senza possibilità di replica e critica il suo potere: “gli elettori hanno deciso”, “il popolo italiano ha scelto”, come se la volontà e gli umori del popolo fossero l’unico elemento valido per legittimare la direzione politica di uno Stato, o per rendere qualcuno giuridicamente irresponsabile.

L’articolo 1 della Costituzione stabilisce senz’altro che “la Sovranità appartiene al popolo”, ma aggiunge anche che esso deve esercitarla “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, evidenziando chiaramente i principi ed i limiti propri dello Stato di diritto.

Erano i sovrani assoluti, ed in epoca più recente i dittatori, che legittimavano il loro potere in nome del Popolo: proprio per mezzo di questa “autorizzazione superiore” compivano i peggiori misfatti, calpestavano i diritti di quel popolo demagogicamente esaltato, giustificando il loro agire con un consenso ideale che in realtà era timore, ignoranza, mancanza di freni e di limiti istituzionali che imbrigliassero la loro azione politica, limiti oggi rappresentati proprio dalla carta Costituzionale.

Già, la Costituzione ... quotidianamente offesa e aggirata, minacciata da una sempre più marcata deriva autoritaria.

A questo punto lo so a cosa starete pensando: tutto già letto, tutto già sentito ... infatti, “L’Italia s’è desta”, gli italiani no.




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Pensieri di mezza estate





di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza)




Nei mesi trascorsi l’impegno civile ha portato molti come me, giuristi per caso, ad occuparsi di un lento processo di disgregazione delle regole costituzionali che la maggioranza governativa ha via via tentato di attuare attraverso lo strumento della legge ordinaria.

Primo momento di passaggio di questo viatico è stato il c.d. decreto salva liste, materia di competenza regionale, regolata medio tempore (secondo le regole del decreto legge) da un provvedimento dell’esecutivo emanato nel settore elettorale pur se la legge regolatrice della decretazione d’urgenza governativa espressamente esclude proprio la materia elettorale.

Altro punto nodale dello svuotamento per legge ordinaria delle garanzie costituzionali è il tentativo ancora potenzialmente in atto di limitare il potere di indagine della magistratura e il diritto all’informazione (attivo e passivo) attraverso l’invocazione di un tutela della privacy (rectius: riservatezza) dei cittadini quantunque si tratti di cittadini invasi dalle intercettazioni in occasione di indagini tese al perseguimento di reati penali.

In tutti questi casi ciò che più di tutto ha turbato molti oppositori per caso – è la mia situazione – è stata l’assoluta mancanza di onestà intellettuale di molti messaggi mediatici e anche di molti messaggi veicolati da uomini delle istituzioni.

In ogni tribuna televisiva visibile gli oracoli di ogni tendenza hanno veicolato al cittadino messaggi forvianti in modo da rendere plausibile ciò che in realtà non si sarebbe mai potuto dire chiaramente ai quivis di ogni parte d’Italia: la legge non è più generale ed astratta ma particolare e concreta.

Nei mesi trascorsi molti insigni giuristi e altrettanti uomini dell’informazione hanno spiegato con semplicità (speriamo ci siano riusciti) che il progetto di legge sulle intercettazioni non aveva niente a che fare con la riservatezza dei cittadini posto che il quisque de populo che si incolonna al mattino per raggiungere il proprio posto di lavoro, che durante il tragitto pensa alla rata del mutuo o alla bolletta del gas, poi al figlio che sta all’università, ecc. … nulla ha da temere dalle intercettazioni ambientali o telefoniche perché al massimo può permettersi qualche svago sentimentale che, per essere scoperto, non necessita di intercettazioni ambientali bastando la normale curiosità degli altri e un po’ di sfiga.

In questi ultimi mesi poi abbiamo assistito all’ennesimo miracolo politico di questo ultimo ventennio; nella desolazione di reali alternative di messaggi culturali e sociali, in un panorama cioè di appiattimento su un sentiero unico, la maggioranza di governo, come era già accaduto ai tempi dell’UDC di Casini e Follini, ha partorito la sua vera opposizione: i Finiani.

Qualcuno sostiene che sia tutta colpa di Bocchino che ha finito per essere una vera spina nel fianco dell’etica di governo, in realtà sembra si tratti di uno scatto d’orgoglio della parte di destra che ritiene che la legge debba essere necessariamente generale ed astratta.

Ciò che conta però è che sentir dire che Paolo Borsellino è un eroe restituisce senso alle parole diritto e rovescio anche a volerle vedere solo in senso tennistico.

Pare cioè che lo scatto di orgoglio dei Finiani abbia ridato un senso al termine antitetico dove, almeno per la concezione dello stato, può dirsi che esistono correnti di pensiero che si pongono in antitesi.

Tutto questo accade mentre una buona parte dei quivis che ritenevano ormai superato il grande problema della riproposizione dei limiti dell’aborto, dell’immigrazione clandestina e del poliziotto di quartiere, scopre che le vacanze vanno drasticamente ridotte o del tutto abolite, che girano sempre meno soldi e, soprattutto, che le banche hanno drasticamente ridotto il sostegno creditizio.

Il calabrese silenzioso ritrova il mare a volte ancora con la schiumetta, lui che certamente non ha mai pensato di berlo (si sa che l’acqua salata impedisce di respirare se la bevi) se vuole andare in Sila trova i lavori in corso sulla statale e scopre l’efficienza dello stato.

Lo Stato, tuttavia, non è solo fatto di agenda politica anzi in gran parte è fatto da uomini e donne che, come notava mirabilmente il Direttore Cosenza, nelle ultime settimane, sembra avere dato sprazzi di primavera proprio in Calabria e a Cosenza.

L’editoriale del Direttore mi ha fatto venire in mente un bellissima canzone di Jovanotti in cui si dice che è bello quando il sentimento si sposa con il sesso, quando cioè, come nell’editoriale, all’informazione si unisce un impegno civile di vaga ispirazione tomista.

Anche perché, sempre quel quisque incolonnato credo si rincuori nel sentirsi tutelato nei suoi diritti dagli uomini dello stato.

Per la Calabria l’estate è anche il momento di maggiore interazione geografica, figli che tornano e turisti che arrivano.

Mi viene in mente l’età breve di Corrado Alvaro e quel senso di importanza e di maturazione che il partire rappresentava per il protagonista.

Leggevo ieri alcune considerazioni leghiste secondo le quali il progetto politico dei finiani sia proprio quello di porsi quale gruppo che porta avanti le migliori istanze del sud in antitesi proprio alla lega.

Sul piano generale si potrebbe dire che era ora visto che un partito di ispirazione centralista, ispirato al simbolo della nazione mal si conciliava con l’idea della padania, mi chiedo, tuttavia, se questo nuovo gruppo sarà in grado di affrontare il senso del messaggio dell’età breve di Alvaro, dell’appuntamento con l’emigrazione e la sua importanza o se più semplicemente saprà rispondere all’ira di Massimo Troisi quando in viaggio gli dicevano napoletano? Emigrato? No in vacanza.






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