di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)
da Il Fatto Quotidiano online del 17 maggio 2011Io credo che le colpe più gravi degli italiani siano quelle intellettuali e morali.
In particolare, su tutte, una: la violenza alla verità.
Gli italiani più di tutti gli altri credono di potere
“piegare” la verità a piacimento.
Siamo il popolo che più di ogni altro è incline al
“Cara non è come sembra”.
E, con riferimento alle cose più serie, siamo il popolo della
“finanza creativa”, dei trucchi di bilancio, della sostanziale depenalizzazione del falso in bilancio, delle sanatorie edilizie e di quelle fiscali.
Da noi, insomma, le cose non sono mai ciò che sono, ma ciò che noi vogliamo, anzi
pretendiamo che siano.
Da noi mentire non è disonestà morale, vergogna, attentato al bene comune, oltraggio alle intelligenze altrui, ma astuzia, “coraggio”, “decisionismo”, “metterci la faccia”, “virilità”, “potere”.
E la sincerità, l’onestà intellettuale e morale sono “moralismo” e “bacchettoneria”.
Questo rende difficile, ai limiti dell’oggettiva impossibilità, una vita civile.
Perché la vita di una società civile è fatti e idee.
Se i fatti vengono negati spudoratamente e le idee costruite su menzogne palesemente tali, è praticamente impossibile parlare davvero e confrontarsi.
Per questo – e me ne scuso con i miei pochi e generosi lettori – da un po’ scrivo poco. Perché è difficile parlare, quando le parole non sono più “pietre” sulle quali costruire, ma sassi tirati per demolire la verità.
Il 99% del dibattito pubblico del nostro Paese si avvita ormai non più sui fatti, sui nostri problemi reali, sulle necessità di questo e di quel pezzo di un Paese che va in bancarotta, ma su un racconto totalmente falso che le televisioni di un regime elaborano a reti unificate ventiquattro ore su ventiquattro e che un popolo di sudditi e spettatori/consumatori si bevono passivamente.
Io ho sempre ritenuto gli americani un popolo culturalmente un po’ rozzo e giuridicamente molto rozzo.
Ma sono folgorato dalla quantità di vero e di buono che ogni tanto la loro cultura e soprattutto le loro prassi producono.
Dalla enorme mole di articoli sulla vicenda di Dominique Strauss-Kahn mi hanno folgorato poche battute:
- l’udienza per la convalida dell’arresto è durata OTTO minuti, OTTO; un solo giudice (non una Corte di cinque o sei, ma un solo giudice, del quale nessun giornale si sogna di raccontare per chi vota e di che colore ha le calze) ha consentito a due avvocati fra i più pagati del mondo di difendere uno degli indagati più potenti del mondo dicendo pochissime cose (quelle – le uniche pertinenti – che si possono dire in cinque minuti); il di più sarebbe stato ritenuto oltraggio alla Corte;
- la decisione del giudice è stata pronunciata dopo che l’indagato ha «atteso il suo turno come un criminale comune, seduto su una panchina e guardato a vista da un poliziotto»; ha atteso il suo turno, non gli hanno fatto un turno apposta né un’udienza apposta;
- nonostante abbia offerto una cauzione di unmilione di dollari, il giudice ha detto che deve restare in galera, non “ai domiciliari”, “in galera”, perché – semplicemente e banalmente – ci sono gravi indizi che abbia davvero commesso il reato per cui è accusato ed è plausibile che tenti di sottrarsi alla pena.
Punto.
E basta.
Anche l’America ha tante malattie, ma evidentemente si è data dei limiti su quelle che è disposta a tollerare.