di Andrea Reale - Magistrato
Una consistente generazione di magistrati ha deciso di intraprendere questo bellissimo percorso professionale sull’onda emotiva delle stragi del 1992 e su quella, altrettanto forte, di Mani pulite e di Tangentopoli.
Indimenticabile uno degli ultimi discorsi di Paolo Borsellino dedicato a Giovanni Falcone e alle altre vittime della barbarie mafiosa, forse quello che più di tutti scosse le coscienze di tanti studenti universitari o di giovani laureati dell’epoca.
“Sono morti per noi e abbiamo un grosso debito nei loro confronti. Un debito da pagare gioiosamente, rifiutando di trarre dal sistema mafioso i benefici che possiamo trarne, gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro, facendo il nostro dovere.
La lotta alla mafia era il primo problema da affrontare in Sicilia, non solo come distaccata opera di repressione, ma come movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo della libertà…….”.
Oggi il debito non solo non è stato ripagato ma si è accresciuto e sembra quasi divenuto inestinguibile.
Né vi è nulla di cui gioire o di cui essere orgogliosi, neanche dentro l’associazione nazionale dei magistrati.
La principale emergenza, all’interno del mondo della magistratura, è la MAGISTRATOPOLI nostrana: un sistema fatto di spartizioni, di lottizzazioni per appartenenza correntizia/partitica, di raccomandazioni, di “killeraggi” nei confronti dei magistrati non allineati o sgraditi, di collateralismo politico, di corruzione morale, di omertà. Un sistema para-mafioso dentro la magistratura, un vero e proprio ossimoro: la negazione della funzione e dei valori ai quali ogni singolo magistrato dovrebbe sempre ispirare l’azione.
Altro che giorno del ricordo e della commemorazione consapevole e fiera. Questo è il giorno della vergogna.
La gente non fa più “tifo” per noi (come sussurrava, felice, Giovanni Falcone a Paolo Borsellino), piuttosto ci schifa, ci reputa indegni, non crede più a noi e al nostro ruolo.
Non abbiamo fatto il nostro dovere per onorare il debito della memoria nei confronti dei nostri caduti!
Abbiamo demeritato la fiducia dei cittadini e dovremmo chiedere scusa.
Non abbiamo saputo, neanche dopo la scoperta del più grande scandalo che ha investito gli “interna corporis” dell’Ordine giudiziario, punire i reprobi.
Non abbiamo saputo procedere ad una efficace e salutare autoriforma, né a cacciare i “mercanti dal tempio”, né a reagire al “metodo mafioso” che è entrato persino dentro il mondo giudiziario.
E non siamo riusciti neanche a restituire l'agenda rossa alla famiglia Borsellino. Vergogna!
Un attuale consigliere del CSM ha già pubblicamente denunciato come “con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare… La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”.
Un altro magistrato di grande esperienza, in una pubblicazione di qualche anno fa, ha sottolineato che "il Csm ormai non è affatto un padre amorevole per i magistrati, non è più l'organo di autotutela, non è più garanzia dell'indipendenza, ma è diventato una minaccia, perché non vi siedono soggetti distaccati, ma faziosi che promuovono i sodali e abbattono i nemici, utilizzando metodi mafiosi”.
Abbiamo accettato e conviviamo ormai da decenni con questo odore nauseabondo: un olezzo vomitevole, quel “puzzo” con il quale Borsellino definiva l'agire della criminalità organizzata mafiosa e che oggi respiriamo tristemente al nostro interno.
Dispiace constatare come sia ancora assolutamente imberbe il movimento culturale e morale che doveva coinvolgere le nuove generazioni, che sembrano troppo timide, se non già rassegnate e disfattiste.
Oggi albergano al nostro interno tutti quei vizi che, a dire di Borsellino, sostantivano quel fetore:
1) L’indifferenza, innanzitutto: una deleteria ignavia che fa scivolare addosso a tutti i magistrati anche le vicende più imbarazzanti, illegali, criminali, che connotano spesso l’agire dell’organo di governo autonomo. Indifferenza che, parafrasando Antonio Gramsci, è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Borsellino raccomandava di fare il proprio dovere. Gramsci diceva: “alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano
oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto”;
2) Il compromesso morale, fatto della complice accettazione e persino della formale giustificazione di gravissimi illeciti disciplinari, come le autopromozioni e le etero-promozioni (quelle “raccomandazioni” che Paolo Borsellino invitava a rifiutare sdegnosamente per non dimostrare connivenza con le varie mafie e per evitare riconoscenza e servilismo) per opportunismo, in attesa di una promozione o di un incarico, se non per protezione o, addirittura, per vigliaccheria;
3) La contiguità alle lobbies, a logge para-massoniche, alla partitocrazia becera, al collateralismo politico, e, dunque la complicità al Sistema.
Con enorme e dolorosa tristezza bisogna costatare che il sacrificio di magistrati straordinari come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, che avrebbe dovuto smuovere le coscienze degli uomini e delle donne liberi, in special modo dei colleghi, sembra del tutto dimenticato nel torpore di troppe, e troppo ipocrite, “anime morte”- per non dire di veri e propri “sepolcri imbiancati”- assise sugli scranni di potere della magistratura italiana.