martedì 22 gennaio 2008

Della moralità, ovvero tentar non nuoce


di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma
)

L’attuale grave situazione in cui versa nel nostro Paese l’amministrazione della giustizia (e purtroppo non solo quella) impone a tutti noi una seria meditazione.

E’ dunque al fine di suscitare e favorire una riflessione – e non certo perché ritenga inoppugnabili le mie considerazioni – che espongo qui di seguito alcuni punti di vista.

La giustizia (e – lo ripeto – non solo quella) sembra oggi più che mai consegnata al dia-bolico (nel senso più profondo ed etimologico del termine) “gioco” del tutti contro tutti; gioco da ritenere tanto più pericoloso (molto pericoloso!) quanto più si consideri che esso viene condito, ogni giorno di più, dalla rabbia e dalla passionalità che conseguono alle difficoltà economiche, alle paure indotte dalla globalizzazione, all’impotenza della politica, alla caduta dei livelli di autorevolezza, all’affievolirsi della speranza, all’appannarsi degli ideali.

I diversi corpi sociali – considerandosi a rischio di “tramonto” e dunque entrando in una logica di sopravvivenza (ispirata a null’altro che al “mors tua, vita mea”) – fanno quadrato, enfatizzando le proprie ragioni, disconoscendo quelle degli altri, ignorando del tutto quello che un tempo veniva chiamato “bene comune”.

Questa marcata insensibilità all’“altro”, unitamente al fatto che ogni monito sembra oggi non assistito, come sopra osservato, dalla necessaria autorevolezza, ha espunto dal tessuto sociale la consapevolezza della rilevanza, nel convivere dei cittadini, del livello etico, il quale – ahimè! – non può essere surrogato da nessuna tecnica e neppure da un qualsiasi “cambio della guardia” al vertice di questa o quella istituzione: qualsiasi minestra, infatti, privata del sale necessario risulta scipita.

I vari “casi” giudiziari che scuotono l’Italia dovrebbero, innanzitutto, scuotere le coscienze, perché è di lì che deve iniziare la “riscossa”.

Deve iniziare non, moralisticamente, come conformità a regole dettate dall’esterno (da dove poi?), ma ontologicamente, dal diverso essere di ciascuno di noi, da subito, da oggi, dal nostro cuore.

Deve – chi giudica (lascio alle altre professioni di meditare su se stesse) – riguadagnare la consapevolezza che il giudizio si radica nella “moralità” del giudicante, luogo che è, a un tempo, “forza” per chi è chiamato a “giudicare” e garanzia per i cittadini.

Sono – i giudicanti – usi a sentirsi tutelati dalla Costituzione e da adeguati assetti legali: norme tutte che essi legittimamente e opportunamente invocano.

Credo però che, prima ancora, essi debbano trovare la forza necessaria in interiore homine.

Afferma il sapere antico che “quando si litiga, ci si rifugia dal giudice: andare dal giudice significa andare davanti alla giustizia, giacché il giudice intende essere come la giustizia vivente” (Aristotele, Eth. Nic.).

In questo suo essere la giustizia vivente, chi giudica trova forza e ragione per affrontare le avversità: “Chiedi cosa sia il male? Cedere a eventi che sono detti mali e consegnare a essi, come per tradimento, la propria libertà, per la cui difesa tutto dovremmo sopportare: la libertà perisce se non disprezziamo ciò che ci impone un giogo. Non ci sarebbe alcun dubbio sull’atteggiamento che un uomo saggio dovrebbe tenere, se si sapesse cos’è la forza d’animo. Non è temerarietà sconsiderata. Né amore del rischio né ricerca di avventure: consiste invece, nella capacità razionale di distinguere il male da ciò che non lo è affatto” (Seneca, Lettere a Lucilio).

La forza di chi è chiamato a “giudicare” (è superfluo aggiungere imparzialmente: un giudizio parziale non è infatti per nulla un “giudizio”) sta, radicalmente, nella capacità del giudice di sapere che l’unico vero male, per lui, è non comportarsi da uomo.

Non c’è, naturalmente, da farsi grandi illusioni sulla capacità di tenuta del corpus giudiziario; o meglio è lecito sperare nel meglio, ma con quell’equilibrata moderazione che ci viene dall’esperienza storica, la quale ci ricorda che “ con due provvedimenti legislativi del 1923 e del 1925 venne disposta l’epurazione dei magistrati – come del resto di tutti i pubblici funzionari – che avessero assunto, in ufficio o fuori dall’ufficio, un atteggiamento incompatibile ‘con le generali direttive del governo’” (A.Giuliani - N. Picardi, La responsabilità del giudice).

La storia ci ricorda anche che in tutto furono epurati una ventina di magistrati: tutti gli altri si allinearono.

Per carità!, nulla di nuovo sotto il sole: “la forza delle leggi e delle convenzioni, che si fonda sulla saldezza del sistema, si era dissolta: regnavano violenza e caos; il governo assumeva sempre più il volto di una dittatura: e almeno fosse stata stabile, invece ogni giorno cambiava e ricominciava da capo, senza sosta. Le decisioni dei magistrati sembravano quelle dei mentecatti, il loro cervello era schiavo della paura” (Procopio da Cesarea, Carte segrete).

Occorre subito fare una precisazione: il fatto – encomiabile – che, specie in tempi difficili, il giudice si senta personalmente coinvolto e chiamato ad essere giustizia vivente, tutto può determinare tranne che un delirio di onnipotenza o un senso di elitaria superiorità: al contrario, deve indicare come doverosa la direzione in cui – a opere di quella stessa “moralità” che consente al giudice di trovare in se stesso la forza per essere “giustizia vivente” – vengono a prodursi, su un altro versante, frutti di equilibrio, di compostezza e di rispetto per ogni tipo e sorta di imputato.

Non si tratta infatti – nel giudicare – di compiere un atto che realizzi, per dir così, un fine esterno al giudicante, ma il fine è immanente al giudicare stesso poiché l’atto del giudicare “mette in questione il valore dell’uomo nell’effettuazione del suo essere più proprio” (F. Calvo,Giustizia e giudizio): come nel giudizio di gusto, nel giudicare tout court, l’uomo può portare a compiutezza o tradire il suo fondamento, così ottenendo (o meno) il consenso di coloro cui il fondamento è comune.

Se solo in un orizzonte comune può essere costituito il proprio del giudicante, è inevitabile – per chi giudica – giudicare ed essere giudicato: “e questo non solo nella dialettica di chi assolve un determinato ruolo e chi lo giudica dall’esterno. Prima ancora di questo tale dialettica è oggettivamente prescritta, dall’interno, all’atto stesso dell’assunzione del ruolo”, il quale deve configurarsi non solo come esporsi, nel sociale, di quel “fondo” da cui l’attività proviene, ma, ben più profondamente, dall’assumere in proprio una socialità ed un “comune”.

Né questo deve suonare novità, dato che l’uomo è destinato per sua natura a perseguire il bene (= ciò che è bene per lui), compiendo un’interrotta attività interpretativa: infatti “il bene è sempre nella sua interpretazione, non a partire da una norma preordinata, ma come risposta e conferma di una tendenzialità costitutiva”.

Né scoprire che è l’uomo – la sua “essenza” – a essere ripresa in ogni giudizio deve disorientarci, ma (al contrario!) aiutarci a capire che il “processo” – per tecnico che appaia il suo volto – ci conduce al cuore dell’uomo; che i limiti della certezza giuridica non sono altro che i limiti dell’uomo; che il “mistero del processo” di cui parlava Salvatore Satta non è altro che il mistero dell’uomo.

Ecco allora che esercitare la professione di giudice (ma lo stesso potrebbe dirsi per la professione di avvocato, e via discorrendo) non allude a un mero dato funzionale, ma a una testimonianza (evocata dalla stessa etimologia: profiteor, dichiaro pubblicamente): quella di chi assume la responsabilità attestare pubblicamente di aver portato a termine quel far-si che gli consente di ben giudicare.

Essere “buon giudice” è molto più che “sapere”, nel senso che si diventa capaci di giudicare solo se il sapere si converte in un mutamento profondo di noi stessi: infatti, in generale, nelle “virtù” (e la capacità di ben giudicare rientra tra queste) non desideriamo sapere, ma essere: “non vogliamo infatti sapere cosa è il coraggio, ma essere coraggiosi; e neppure sapere cosa è la giustizia, ma essere giusti, proprio come anche vogliamo avere buona salute più che conoscere cosa è la salute ed essere in buona forma fisica più che conoscere cosa è la buona forma”(Aristotele, Eth. Eud.).

Ne segue che “le raccolte di leggi e di costituzioni sono utilissime a coloro che sono in grado di meditarle e di giudicare cosa è bene e cosa è male e quali elementi si armonizzino tra loro; ma a color che affrontano tali argomenti senza la disposizione adatta non può accadere di giudicare bene, se non magari per caso” (Aristotele, Eth. Nic.).

Si dirà (ci sono abituato): “Belle parole, ma cosa possono cambiare?”.

Le mie parole non possono, effettivamente, cambiare nulla, ma il rinnovato impegno morale di chi legge può cambiare tutto.

Se, in ipotesi, mille lettori (giudici e non giudici) si sentissero domani ancor più impegnati ad interrogarsi su cosa significhi – con riferimento agli immensi problemi che ci soverchiano – essere uomo; a lasciarsi coinvolgere nelle iniziative feconde; a non rassegnarsi al peggio; a non tacere per quieto vivere; a non anteporre il proprio interesse a quello generale (e dunque anche loro); se tutto ciò accadesse non credo proprio che tutto rimarrebbe tale e quale.

Dopo tutto tentare non nuoce. Al punto in cui siamo, cosa abbiamo da perdere?

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A questo post è stato scritto un commento dalla Redazione, dal titolo "Perché non possiamo consegnarci allo sconforto e alla rassegnazione", che si può leggere cliccando sul titolo medesimo.



1 commenti:

Anonimo ha detto...

Io non mi rassegno al peggio. Perché al peggio non c'è mai fine...in Italia, ovviamente !