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mercoledì 25 febbraio 2009

Eluana Englaro

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Non abbiamo scritto nulla prima d’ora su Eluana Englaro, perché la sua dolorosa storia umana è stata oggetto di ogni genere di speculazione e, infine, anche di una orribile strumentalizzazione politica. E non ci sembrava giusto trattare Eluana così. Pubblichiamo adesso alcune riflessioni di Stefano Racheli, che si fanno carico della complessità del problema e che vogliono essere un invito a riflettere sui temi importanti che vengono in discussione in questa storia, temi che non possono essere affrontati con semplificazioni e strumentalizzazioni. La Redazione del blog non ha una “posizione politica” su questi temi. Ciascuno di noi ha proprie opinioni e, soprattutto, serie preoccupazioni e molti interrogativi, che poniamo alla nostra coscienza e affrontiamo con il nostro impegno di uomini e donne. Sarà bello parlarne insieme, ma, ve ne preghiamo, senza pregiudizi e senza barricate, perché la cosa da fare davvero e cercare “luci” e questo si può fare solo prestando attenzione a ogni aspetto del problema. Stefano ha volutamente lasciato il suo discorso aperto a ogni diversa opinione, non perché non ne abbia una sua, ma per lasciare chiaro che in questo momento, per potere sperare di trovare risposte, serve una grande capacità di farsi domande.
______________


di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)



Una premessa.

Cari amici del blog, chiedo venia, ma i tragici avvenimenti che sono andati sotto il nome di “caso Englaro”, mi spingono, sopite le polemiche, a scrivere qualcosa sul tema, ancorché di tutto avrei voglia meno che di imbarcarmi in siffatto genere di problemi.

Sento il bisogno di comunicare con voi; di avere uno scambio di vedute, senza alcuna pretesa di ammannire al prossimo la verità, ma semplicemente - come si addice tra amici che si rispettano - di provocare solitarie meditazioni e personali approfondimenti: meditazioni e approfondimenti del tutto necessari, visto che la discussione dal quesito iniziale - cos’è mai la vita? cos’è l’uomo? - è passata a toccare punti vitali della convivenza umana e del diritto.

Non deve dunque sorprendere l’estrema lunghezza di questo scritto e, qua e là, l’oggettiva complessità dell’esposizione: spero che tutto ciò mi verrà perdonato ove si consideri che ho cercato di seguire rigorosamente lo spirito del blog il quale, nella sua essenza, è desiderio di confronto aperto, sincero e approfondito, del tutto nemico di ogni spirito di “arruolamento”.

Quando vengono in discussione temi come quelli di cui stiamo trattando (e molti altri di simile o comunque apprezzabile complessità), l’U.S.A.C. (Ufficio Semplificazione Affari Complicati) si mette rapidamente all’opera, semplificando, emotivando, schematizzando: insomma, camminando esattamente nella direzione opposta a quella auspicata da Spinoza allorché ammoniva: “humanas actiones non ridere, non lugere neque detestari sed intelligere” (traduco liberamente: non ridete delle azioni umane, non piangete e neppure adiratevi a causa loro, ma cercate di capire cosa avete davanti agli occhi).

Il primo effetto dell’U.S.A.C. è quello di alimentare il fuoco delle passioni: di qui all’animosità e allo scontro il passo non solo è possibile, ma, purtroppo, è anche breve. Naturalmente nello “scontro” non vince chi ha ragione, ma chi ha più “armi” e dunque i “disarmati” devono condurre il confronto sul terreno loro favorevole (quello della ragione) e non su quello del “calor bianco” delle passioni.

Cerchiamo dunque di sottrarci all’atmosfera creata da chi (magari al di là delle sue intenzioni) suscita animosità.

Lo dobbiamo non solo per motivi, diciamo così, tattici, ma per l’affetto che portiamo a quel contenuto di nobili valori che chiamiamo Costituzione.

Difendere la Costituzione non è solo optare per un determinato assetto normativo: è - ben prima e ben di più - un professare e praticare valori ben individuati: un “uomo costituzionale” ha una precisa idea dell’uomo e della convivenza umana; egli rifiuta di imporre il suo modo di vedere le cose e si affida esclusivamente alla forza del dialogo.

Devo anche premettere alle argomentazioni che seguiranno alcune brevi considerazioni su un concetto che sembra espunto dalla cultura corrente: il concetto di “mistero”.

Intendo qui per mistero non già l’ineffabilità - o peggio l’esotericità - dell’oggetto del nostro conoscere: chiamo infatti “mistero” la distanza che corre tra l’oggetto della nostra conoscenza e la nostra capacità attuale di comprendere esaustivamente detto oggetto.

Tranne alcuni casi limite, dove l’oggetto del conoscere eccede per definizione le nostre capacità conoscitive, tutto il nostro conoscere ben difficilmente, al di là delle apparenze, è tale da esaurire completamente e definitivamente il suo oggetto.

Questa nostra naturale limitatezza non ha sempre eguale spessore: mentre essa è evidente in determinate materie, in altre è più nascosta.

Certo è che nella materia che andiamo a trattare occorre estrema prudenza ed è più saggio porre domande che sbandierare proclami: deve dunque essere chiaro che, anche là dove il mio dire non assumerà esplicitamente la forma di un interrogativo, dovrà essere pur sempre considerato tale: il lettore dovrà dunque avere sempre cura di tradurre in domande quelle che gli appaiono affermazioni.

Non sono infatti importanti le mie (provvisorie e limitate) convinzioni: la loro (eventuale) importanza consiste solo e unicamente nella loro idoneità a suscitare una personale ricerca.

L’unico scopo che cerco di perseguire con questo mio scritto è quello di rendere chi legge consapevole del fatto che la sua posizione finale è, di necessità, la risultante della soluzione di numerosi e ardui dilemmi. Come dire: ognuno di noi, nel pervenire ad una personale convinzione sul da farsi, deve prima saltare diversi ostacoli (e che ostacoli!).


Il primo ostacolo.

La prima asticella da saltare si chiama mind-body problem, problema che da decenni affatica psicologi e psichiatri (e ben prima di loro, nel corso dei secoli, i filosofi)

La formula mind-body problem nasce internamente alla scienza psicologica/psichiatrica nel tentativo di dare conto del rapporto che lega ciò che chiamiamo “mente” alla persona considerata nella sua interezza. Il problema è dunque l’uomo e la sua mente. Evidenzio la congiunzione “e”, per significare che già nel separare la “mente” dall’uomo, si compie un’operazione discutibile perché ben potrebbe sostenersi che l’uomo non è tale senza la sua “mente”. Virgoletto inoltre “mente” perché sia chiaro da subito che detto termine può indicare realtà assai diverse tra loro.

Nel pensiero contemporaneo (soprattutto anglosassone) il problema va appunto sotto il nome di M.B.P. (mind-body problem) e allude, per la precisione, alle questioni implicate dal seguente quesito: dove collocare il “mentale” con riferimento a quella specifica realtà che chiamiamo uomo?

Come è stato rilevato (S. Moravia) il “mentale” non si vede e nessuno si attende di vederlo. Ma quel “vedere” è ambiguo e invoca che si chiarisca se esso sia o meno usato nel senso di “constatabile” (tutto quello che si vede è constatabile, ma non viceversa).

Ne segue la necessità di: a) chiarire l’ulteriore ambiguità della natura e del luogo di quelli che sono stati chiamati i realia invisibilia; b) prendere atto che la problematica di cui trattasi costituisce risposta al quesito di fondo: chi sono realmente io (= cos’è che fa di me una realtà specifica)?

La necessità appena indicata pone, come è evidente, un ulteriore quesito (sul quale torneremo in seguito): quale è il metodo idoneo ad affrontare l’indagine invocata? Il metodo scientifico, quello filosofico, quello teologico, etc?

Il M.B.P. dunque più che “un” problema, è “il” problema: quello del significato e della “portata” di ciò che chiamiamo “natura dell’uomo”.

La questione è antica: “Nel dualismo delle età precedenti come in quello platonico, si assume che i corpi possano vivere solo se possiedono un’anima (…) ma per Cartesio, e per noi dopo di lui che abbiamo familiarità con una prospettiva meccanicistica riguardo alla natura, i corpi viventi sono tali solo grazie a meccanismi interamente fisici (…) La svolta decisiva impressa da Cartesio al problema mente-corpo è dunque la seguente: l’anima non può più essere considerata vita o fonte di vita, come in Platone e in Aristotele, perché vita è meccanismo. Si apre così la strada alla moderna e contemporanea accezione del termine “mente” e quindi a una reimpostazione del problema del rapporto mente-corpo: l’anima è privata delle funzioni vitali e ridotta a pensiero, a ragione, ad autocoscienza”.

Se si è accennato al mind-body problem, è stato solo per far comprendere la fondamentalità della questione.

Fondamentalità e – aggiungo – “misteriosità”: non a caso Griesinger (padre, con Kraepelin, del modello psichiatrico scientifico-materialistico) afferma che “neppure un angelo sceso dal cielo per spiegarci tutto” potrebbe rendere la nostra ragione capace di dare conto del perché e del percome “un processo organico (celebrale) si trasformi in un atto di coscienza (in atto psichico)” (cito da E. Borgna, Modelli teorici e questioni cliniche di psichiatria in Introduzione a A. Gaston, Genealogia dell’alienazione).

Ho sopra affermato che il termine “mente” può essere usato per indicare realtà molto differenti tra loro.

Può infatti designare sia ciò che è cultura, affettività, psicologicità.

Ma può anche designare qualcosa di ben più profondo e sostanziale: “sostanza è ciò che non viene predicato di alcun sostrato, ma è ciò di cui tutto viene predicato”.

Questo qualcosa di sostanziale – che possiamo chiamare mente o intelletto o anima – risplenderebbe, secondo i suoi sostenitori, nell’umano modo di conoscere (conoscenza intellettuale), il quale sarebbe determinato da un quid che, ad un tempo, costituisce causa (ma sulla specie e la portata di questa causalità dovremmo interrogarci a lungo, per non confonderla con la causalità efficiente) del vivere e del conoscere definibili come umani (su questo quid tornerò, sia pur brevemente, nelle pagine che seguono).


Il secondo ostacolo.

Saltata la prima asticella (per la qual cosa – sia ben chiaro ! – non è certo sufficiente leggere le righe che precedono!), occorre affrontare il secondo ostacolo che è intimamente connesso al primo.

Sgombro subito il campo da una questione. In nessun modo e sotto nessun profilo (salvo eccezioni del tutto rare) si è discusso se la vita fosse o meno da tutelare: sul punto infatti non sembra esserci disaccordo di rilievo.

Dico questo per rilevare come non sia in discussione il principio etico secondo cui la vita va rispettata in ogni sua forma: sulla intangibilità della vita “religiosi” e “laici” sono infatti del tutto d’accordo.

Dove dunque il dissidio? Semplicemente (si fa per dire) sul che cosa sia la vita; anzi, a essere precisi, sul cosa sia la via umana. Problema delicatissimo che, con buona pace dell’USAC, affascina l’umanità fin dalla notte dei tempi:

“(…) Possiamo ragionevolmente porre ai primi posti la ricerca sull’anima. Sembra inoltre che la conoscenza dell’anima contribuisca grandemente alla verità in tutti i campi e specialmente alla ricerca sulla natura, giacché l’anima è come il principio degli esseri viventi” (Aristotele, De Anima).

Vorrete prendere nota del fatto che ho evidenziato i termini anima (ψυχή), natura (φΰσις ), principio (αρχη), esseri viventi (ζώον): si tratta infatti di termini fondamentali al fine di comprendere di cosa andiamo parlando.

Esaminiamoli insieme.

“Anima” innanzitutto. Solo a proferire questo termine , si respira, nella nostra cultura, aria di sagrestia, ma in allora, il significato era (sulla base dell’originaria parola sumerica) tutt’altro: soffio vitale (da cui l’odierno “essere animato”, “animale” etc). Lo stesso può dirsi per il verbo ζωω e per il sostantivo ζωον.

Quanto al termine “natura”, esso significa ciò-che-fa-crescere, ciò-che-dà-luogo. Il suo significato profondo è dunque quello di scaturigine, di sorgente-causante (considerazioni analoghe possono farsi per il termine “principio”).

Dunque l’indagine che – or sono 2500 anni (davvero, come si vede, nulla di nuovo sotto il sole) – il buon Aristotele andava svolgendo era la seguente: “Cos’è che fondamentalmente ci rende viventi?”.

Vorrei sottolineare con forza quel “fondamentalmente”, il quale esclude tutto ciò che – pur conseguendo al vivere – non è in sé il vivere: ciò che cerchiamo, infatti, è qualcosa di radicale, di fondante: quasi le fondamenta su cui posa ciascuno di noi.

Vorrei anche far notare che “vivere” non equivale a “esistere”, dal momento che, se è vero che tutto ciò che è vivente esiste, non è vero anche il reciproco (infatti non tutto ciò che esiste – ad es una pietra – è vivente).

Ma – e qui la faccenda va facendosi “misteriosa” nel senso sopra indicato – per gli esseri animati/viventi l’esistere coincide con l’essere-viventi: infatti quando non viviamo più, non siamo più esistenti.

Dunque l’essere vivente non è una qualità del soggetto che – modificandosi o scomparendo – lasci persistere l’“essere-a-questo-mondo” del soggetto stesso.

La questione si ingarbuglia viepiù (non me ne vogliate!) ove si consideri che il vivere - o, il che è lo stesso, essere vivente - non si modula in modo sempre eguale, ma, per dir così, mostra facce diverse a seconda che a “vivere” sia una felce, un cane, un uomo. Dunque vivere, sembrerebbe equivalere, per noi, a esistere-come-uomo sì che il quesito “cosa è il mio vivere?” si allarga sino a ricomprendere l’ulteriore quesito “cos’è un uomo?”.

Come si vede, la problematica non è facile perché, se già a porre domande si corre il rischio di essere fuorvianti, a dare risposte il rischio aumenta dismisura, con la conseguenza di legittimare posizioni potenzialmente dirompenti. Basti fare alcuni esempi.

Se “essere in quanto uomo” dovesse comportare una mera compiutezza fisica, occorrerebbe ammettere che non siano uomini le persone affette da gravi o gravissime menomazioni fisiche.

Se invece “essere in quanto uomo” allude a qualcosa che va oltre la vita vegetativa e/o animale, occorrerà dire che la nostra umanità vive anche se deprivata dei “gradi” inferiori di vita.

Gradi, si badi bene, che è possibile definire “inferiori” solo pagando il prezzo di numerosi distinguo.

La loro “inferiorità” infatti è tale solo ad ammettere un livello fondante ulteriore (quello, per l’appunto, che ci specifica come uomini) rispetto ai detti “gradi” e – in ogni caso – con obbligo di tener presente che detta “inferiorità” non sembra assolutamente comportare una superfluità dei “gradi inferiori”.


Il terzo ostacolo.

Esaurito il secondo ostacolo il paziente lettore si troverà alle prese con il terzo ostacolo: se il “pianeta uomo” è così articolato e “misterioso”, quale è mai il “sapere” in grado di leggere detto pianeta?

Questo terzo ostacolo – al pari degli altri – fa sicuramente tremare le vene e i polsi.

Occorre infatti innanzitutto decidere di quanti “saperi” possano usufruire i mortali: se cioè l’unico sapere di cui possiamo disporre sia quello che chiamiamo scienza.

Ostacolo – dicevo – assai arduo dato che il “sapere” che chiamiamo scienza è un “sapere” difficile da identificare e con limiti ben precisi.

Al fine di abbozzare la portata e l’ambito del dibattito concernente la “scienza”, prendo qui quale paradigma la teoria di K.R.Popper, il più noto degli epistemologi contemporanei, la cui dottrina ha fatto scuola al di là dei confini del ristretto campo dei filosofi della scienza. Non a caso G. Jervis afferma: “La formulazione di Popper, del resto ben nota, è – nella sua semplicità – tuttora un punto di riferimento obbligato; secondo questa formulazione, un enunciato è scientifico quando accetta di rischiare la confutazione, indicando con chiarezza qual è l’evento che lo rende falso”.

Ed ancora “In psicologia come altrove gli enunciati sono scientifici non in quanto vanno presi per certi, ma proprio perché, al contrario, sono provvisori e esposti alle verifiche”.


Veniamo dunque a Popper. La scienza – egli afferma – prende avvio soltanto dai problemi: essa non descrive, non afferma, ma esterna congetture al fine di rendere conto di tali problemi.

Popper nega che la conoscenza possa derivare dalla mera osservazione, sostenendo che “il programma consistente nel ricondurre tutta la conoscenza alla sua fonte prima, l’osservazione, che è logicamente impossibile da eseguire, porta a un regresso all’infinito”.

Proprio per tale motivo Popper propone di sostituire al quesito circa le fonti della nostra conoscenza l’altro del tutto differente: “in che modo possiamo sperare di scoprire e di eliminare l’errore?”.

Popper, tra l’altro, condivide largamente l’impostazione kantiana secondo cui va abbandonata l’illusione di essere osservatori passivi sui quali la natura imprima la propria regolarità.

Ci si deve convincere – per Popper – che il “cosmo reca l’impronta della nostra mente”.

In altri termini “il mondo quale lo conosciamo è una nostra interpretazione dei fatti osservabili alla luce delle teorie che inventiamo noi stessi”; e ancora “le teorie non possono essere derivate logicamente dalle osservazioni”.

Per Popper la scienza è un progredire da problemi ad altri problemi, come un tentativo di risolvere problemi e non di descrivere la realtà.

Egli nega che l’osservazione ci fornisca una conoscenza dei fatti la quale giustifichi o consolidi la verità di un’asserzione.

Nega, per la precisione, che possa darsi una corrispondenza tra fatti ed enunciati sì da conferire fecondità scientifica alle definizioni.

Secondo Popper vanno accantonati, in quanto “metafisici”, i problemi relativi al “perché” il mondo si lasci leggere dal soggetto conoscente e al “che cosa” si legga del mondo mediante la scienza: occorre insomma prescindere (con Husserl) da che cosa sia il sapere e la verità.

Se qui si accenna al problema di cosa sia la scienza (empirica) è perché il mind-body problem non può essere affrontato se non si ha compiuta contezza dei limiti della “scienza”: “Io” afferma Toraldo di Francia “ho indubbiamente anche un concetto di bellezza e ne posso parlare; ma la bellezza non è una grandezza fisica perché non so misurarla”.

Infatti “una grandezza fisica è definita mediante le prescrizioni delle operazioni che si devono effettuare per misurarla”.

Il problema nasce dunque quando si voglia comprendere se il “pensare”, la “coscienza” si esaurisca in un venire a contatto della “fisicità” di cui l’uomo è portatore con la “fisicità” di cui è portatore il mondo che circonda l’uomo.

Nella misura in cui vogliamo sapere quali siano gli effetti di questo téte a téte, siamo in presenza di un legittimo e rilevante problema “fisico” che ha ogni diritto ad attirare la nostra attenzione.

A condizione che le sue soluzioni non vogliano rispondere, in modo neo-empedocleo, ad un problema in cui la fisicità, pur sicuramente implicata, non è decisiva.

Empedocle di Agrigento sosteneva che il simile conosce il simile (l’acqua conosce l’acqua, la terra la terra etc).

Nella nostra concezione (più raffinata) si verrebbe a stabilire che il fisico conosce il fisico.

Ma, per chi pensi che occorra indagare al di là della fisica (in senso metafisico), l’“anima” si pone come un alcunché di immateriale che, in quanto tale, è quodammodo omnia: è cioè capace di trascendere la fisicità dei singoli esistenti, “astraendo” da essi gli aspetti per dir così assimilabili allo spirito umano e gettando un ponte verso il mondo esterno, così rendendo possibile il sapere in generale.

Nell’ansia di tenerci stretto il “sapere scientifico” (“sapere”, s’intende, fondamentale), corriamo il rischio di abbandonare saperi altrettanto affascinanti e fondamentali, finendo per perdere di vista la trama che, nell’ordito del Sapere globale, distingue tra loro i vari saperi.

E si badi che il difensore, ad un tempo, della specificità del sapere scientifico e della maggiore ampiezza del più generale contesto costituito, per l’appunto, dalla trama del Sapere globale, fu proprio lui, Galileo Galilei, la vittima della più famosa delle lotte tra saperi, il quale afferma: “Mirabile e veramente angelica dottrina: alla quale molto concordemente corrisponde quell’altra, pur divina, la quale, mentre ci concede intorno alla costituzione del mondo, ci soggiunge (forse acciò che l’esercizio delle menti umane non si tronchi e anneghittisca) che non siamo per ritrovar l’opera fabbricata dalle Sue mani. Vagli dunque l’esercizio permessoci e ordinatoci da Dio per riconoscere e tanto maggiormente ammirare la grandezza Sua, quanto meno ci troviamo idonei a penetrare i profondi abissi della Sua divina sapienza”.


Il “sapere” – c’è dunque da chiedersi – è anzitutto ritenere per certo?

Si identifica con il poter dedurre sperimentalmente?

E’ un mero tangere o “percepire”?

Per poter “sapere” occorre, prima ancora (in senso non temporale) poter “conoscere”: necessità cioè il realizzarsi di una precondizione che consenta un qualsiasi sapere.

Ricapitolo. Chiunque si accosti al problema della “mente” dovrà dunque riflettere concretamente e seriamente sulla possibilità o meno di ridurre il sapere a quel tipo specifico di conoscenza che chiamiamo “scienza”.

Dovrà poi orientarsi nel ginepraio di teorie che tentano, con grande difficoltà, di stabilire quali siano i parametri che ci consentano di definire come “scientifica” una teoria e come “scientifico” il metodo a essa correlato.

Dovrà soprattutto vegliare perché nessun “sapere” invada il regno, per così dire, di altri saperi.

Personalmente sono convinto che ogni “sapere” sia un affaccio sul “mistero” del reale.

Non esistono “saperi” con diritto di esclusiva: tutti insieme possono apprendere assai di più di quanto non riescano a fare da soli.

Ogni sapere ha diritto di interpellare gli altri saperi conformemente al noto adagio secondo cui a chiedere non si fa peccato.


Il quarto ostacolo.

Gli ostacoli non sono finiti. Infatti dopo aver risposto ai quesiti sopra indicati, ci si imbatte in un nuovo e non facile quesito: quando c’è morte biologica?

Un tempo il quesito non aveva la stessa valenza di oggi, dato che il confine tra vita e morte era abbastanza netto, mentre oggi – con il progresso delle varie tecniche di assistenza medica – si è aperta una zona grigia non facilmente decifrabile.

Infatti il passaggio – se vogliamo chiamarlo così – dalla vita alla morte non sempre è rapido e improvviso, ma vengono spesso in essere zone grigie, non definibili chiaramente come vita o come morte, in cui si passa dallo stato di vita a quello di morte per fasi successive “non meglio identificate”.

Se si arresta il cuore e cessa la circolazione sanguigna, non c’è questione.

Quando invece vanno spegnendosi le funzioni cerebrali, si determina la perdita di funzioni essenziali per la “vita umana” senza che le “funzioni vitali” si arrestino.

Uso con prodigalità le virgolette, essendo ben evidente che la “vita umana” e le “funzioni vitali” (oltre a determinare i quesiti affrontati in precedenza) costituiscono proprio la realtà che stiamo indagando, sì che non possono essere ad un tempo oggetto dell’indagine e concetti su cui si fonda l’indagine.

Dunque “di vita umana” e di “funzioni vitali” sono – allo stato delle discussione – quasi delle metafore allusive che manifestano la limitatezza del nostro conoscere.

Che non ci sia identificazione tra “funzioni vitali” è attività cerebrale sembra dimostrato (ma è dimostrato?) dal fatto che è comunemente accettato che, in caso di morte cerebrale, venga interrotta la respirazione assistita e facciano finire le “funzioni vitali”, dato che il tessuto cerebrale è morto senza possibilità alcuna di ripresa.

Vi sono invece casi in cui solo alcune parti del cervello sono irrimediabilmente compromesse.

Nel caso in cui il danno riguarda la corteccia cerebrale, le funzioni vitali sono mantenute e può essere presente anche la respirazione spontanea, ma le funzioni cognitive sono irrimediabilmente perdute e non c’è speranza alcuna che il paziente possa riacquistare coscienza.

In questo caso non c’è morte cerebrale, ma l’individuo come tale sembra non esistere più.

Sorge a questo punto un duplice quesito: la “vita umana” si identifica con la “vita cognitiva”?

E – passando alla pratica – quand’è che, in assenza di morte cerebrale, si può stabilire in assoluto che non sia possibile ripresa alcuna delle facoltà cognitive?

Ma non basta rispondere a questi quesiti.

Infatti – dato e qui non concesso che possa dirsi umana anche una vita in cui sia compromessa la facoltà cognitiva e che non sia dimostrata in assoluto l’impossibilità di ripresa – quando le cure da prestare realizzano quello che chiamiamo “accanimento terapeutico”?

Nella terapia si affrontano infatti due problemi fondamentali: la quantità della vita e la qualità della vita.

E’ terapia ideale quella che aumenta la quantità della vita senza andare a discapito della qualità della vita.

Occorre dunque, nel caso che ci occupa, far uso di detti due parametri per stabilire se e quando ci sia accanimento terapeutico e dunque possa essere interrotta la terapia.

Come se non bastasse, si pone a questo punto un interrogativo non irrilevante: dovendo stabilire se vi sia o meno accanimento terapeutico, la nutrizione artificiale può essere considerata “terapia” e dunque, in caso di accanimento, essere interrotta?

Risposta non certo facile, ove si consideri che tanto l’intervento terapeutico quanto la nutrizione artificiale sono – al di là delle differenze lessicali – essenziali alla sopravvivenza del paziente, sì che riesce arduo dar conto e ragione del perché l’“accanimento” renda possibile eliminare solo uno dei due metodi di sopravvivenza.


Il quinto ostacolo.

Chiunque sia giunto pazientemente sin qui ed abbia, nel suo cuore, affrontato, esaminato e approfondito i temi da me sopra solamente abbozzati, dovrà a questo punto decidere se la sua soluzione sia indiscutibilmente certa o soltanto “opinabile” (nel senso più alto e nobile del termine): se cioè ammetta, qua e là, in occasione dell’uno o dell’altro dei vari ostacoli, posizioni diverse, opzioni diversificate, soluzioni diversamente calibrate.

La risposta a questo quesito non è acqua fresca, ma assai rilevante se la si coniuga con la problematica connessa al concetto di democrazia.

Se infatti – per poter definire democratico uno stato - fosse sufficiente accertare se in esso le decisioni siano prese in base al principio di maggioranza, non ci sarebbe questione.

Ma anche sul punto occorre formulare un interrogativo: siamo sicuri che sia così? Infatti il principio di maggioranza in nulla verrebbe ferito ove, in ipotesi, il 50% più uno degli elettori decidesse di privare gli altri del diritto di cittadinanza o della loro casa. Dunque la democraticità mentre invoca il principio di maggioranza, invoca anche, e prima ancora, dei limiti. Quali? Ancora una volta non voglio rispondere a interrogativi, ma porre interrogativi. Chiediamoci dunque: esistono dei limiti alla maggioranza (come la nostra costituzione, tra l’altro, statuisce parlando di diritti inviolabili da essa riconosciuti)? La legge penale, “democraticamente” emanata, può dirsi “democratica” anche quando obblighi i cittadini ad aderire, nei fatti, ad opinioni, credenze o tesi “opinabili”.


Il sesto ostacolo.

Non perdetevi d’animo, cari amici del blog, e fatevi forza: mi vergogno a dirlo, ma c’è un sesto ostacolo da saltare.

Come è noto, infatti, la Corte di Cassazione ha detto ultime e definitive parole (giuridicamente parlando) sulla drammatica vicenda dei Eluana Englaro.

Si chiede: deve essere rispettata questa sentenza?

Può il Parlamento metterla nel nulla con una “legge fotografia”?

Non fatevi trarre in inganno: di tutto si tratta meno che di interrogativi meramente tecnico-giuridici e, in quanto tali, esistenzialmente parlando, di serie B.

Infatti, a ben vedere, si tratta – niente di meno, niente di più – che della libertà delle coscienze rispetto al diritto e del principio della divisione di poteri (inteso come uno dei cardini su cui poggia il controllo del potere).

Libertà di coscienza, anzitutto.

E ci mancherebbe che così non fosse e che l’ordinamento giuridico pretendesse di vincolare le coscienze (a proposito: cos’è mai la “coscienza”? Bel problemino su cui sarebbe assai interessante intrattenersi) ad aderire ai valori quali emergono dagli atti dei vari Poteri pubblici.

Dunque la Magistratura non può vincolare le coscienze.

E neppure – aggiungo – il Parlamento e il Presidente della Repubblica o chiunque altro.

Ma può la coscienza, nel sentirsi o meno vincolata, prendere a parametro solo la condivisione dei valori praticati dalla Magistratura, dal Parlamento, etc.?

Se così fosse, ce ne dovremmo andare ognuno per la sua strada a ogni pie’ sospinto: quasi mai infatti i proclami del Potere coincidono con il nostro interno sentire.

Siamo qui nel pieno del problema affrontato da U. Scarpelli nel suo Cos’è il positivismo giuridico ? (un libro da leggere, se mai lo troviate !): il diritto positivo merita di essere seguito quando il sistema nel suo complesso meriti di essere condiviso per la sua democraticità, per il suo pluralismo, per il rispetto dei valori fondamentali, etc.

Che nel caso concreto questa condivisione debba darsi è la croce e delizia di cui ognuno di noi deve farsi carico.

Infatti poiché le coscienze sono tante, ognuna formata a suo modo e con i suoi valori, è necessario ammettere che, fino a un certo punto, i miei valori possano essere disattesi, così come capita per ogni cittadino: il prezzo del pluralismo è infatti ammettere che non sempre si può vincere e che, come ben si esprime il Concilio Vaticano II, “l’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà cui i nostri contemporanei, tanto tengono e ardentemente cercano e a ragione”.

Sembrerebbe dunque che l’interrogativo da porsi sia: “Il sistema consente reale libertà sì che i valori di ciascuno possano affermarsi, nel libero dibattito, come valori condivisi da tutti?”.


La divisione dei poteri.

Sulla importanza di tutelare siffatto principio (o, il che è lo stesso, evitare la concentrazione del potere) mi sono già espresso altrove e dunque non starò qui a ripetermi.

Merita però di chiedersi: che ne sarebbe del nostro convivere se i giudici pretendessero, sotto forma di sentenza, di emettere leggi o il Parlamento si sovrapponesse alle sentenze?

Meditate gente, meditate …


Tirate le somme.

Cari amici del blog siamo – anzi siete – giunti alla fine.

Rispondendo ai vari quesiti avete implicitamente risposto a tutte le questioni sollevate dal dibattito sul dramma di Eluana Englaro.

Sarete così maggiormente consapevoli del se, del quando e del come si possa o meno obbligare qualcuno a “rispettare” la vita.

Conservate nel vostro cuore la vostra opinione e confrontatela.

E, se mi è consentito un auspicio, siate pronti a difenderla così come a riconoscere le ragioni degli altri.

Perché mai, come in questo tipo di faccende è vero quello cha andava ripetendo il vecchio filosofo:
“E’ impossibile ad un uomo cogliere in modo adeguato la verità ed è altrettanto impossibile non coglierla del tutto: infatti, se ciascuno può dire qualcosa intorno alla realtà, e se, singolarmente preso, questo contributo aggiunge poco o nulla alla conoscenza della verità, tuttavia, dall’unione di tutti i singoli contributi deriva un risultato considerevole (…) Ora non solo è giusto essere grati a coloro dei quali condividiamo le opinioni, ma anche a coloro che hanno espresso opinioni piuttosto superficiali; anche costoro, infatti, hanno dato un certo contributo alla verità, in quanto hanno contribuito a formare il nostro abito speculativo”.




martedì 24 febbraio 2009

Brevi note a margine del trasferimento cautelare disciplinare e della sua indebita afflittività






di Nicola Saracino
(Magistrato)






Come annunciano le agenzie di stampa i colleghi Dionigio Verasani e Gabriella Nuzzi sono stati trasferiti rispettivamente al Tribunale di Cassino e al Tribunale di Latina; gli interessati avevano indicato sedi libere più vicine ai luoghi di residenza, come Napoli, Avellino o Benevento, in considerazione della circostanza che entrambi hanno figli, anche in tenerissima età.

Nell’esecuzione del trasferimento cautelare non si può trascurare che quello disposto dalla Sezione Disciplinare è un trasferimento provvisorio, caducabile in qualsiasi momento, la cui funzione è essenzialmente cautelare; esso è giustificato dalla sola esigenza di evitare la reiterazione delle condotte sanzionabili.

Incorrerebbe in evidente contraddizione chi, invece, affermasse che il trasferimento provvisorio costituisce un’anticipazione dell’esito finale del procedimento disciplinare, ciò essendo in aperto contrasto con la funzione cautelare che si dipana nell’ambito di un procedimento sanzionatorio.

Soltanto nella materia civile, infatti, ha senso discettare di provvedimenti cautelari anticipatori della sentenza; nel procedimento disciplinare, invece - sia per effetto del rinvio alle norme del codice di procedura penale, sia per l’ovvia operatività dei principi generali del diritto punitivo - la funzione delle misure cautelari è essenzialmente diversa, tendendo, per l’appunto, a prevenire il ripetersi di condotte disciplinarmente rilevanti ovvero a ripristinare l’equilibrio della funzione giudiziaria che s’ipotizza turbato da condotte disciplinari indiziariamente predicabili a carico del magistrato il quale, tuttavia, non è stato (ancora) riconosciuto colpevole e nei confronti del quale non si giustificherebbe l’anticipata esecuzione della condanna.

Solo liberandosi da questo preconcetto di fondo è possibile pervenire a soluzioni corrette anche in punto di esecuzione della misura cautelare.

Deve quindi essere evitato il fuorviante accostamento tra il trasferimento cautelare “provvisorio” (per definizione interinale ed instabile) e la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio: l’esecuzione del primo è regolata dal contemperamento tra le esigenze cautelari e la necessità di provocare il minore svantaggio al magistrato; l’esecuzione della seconda (cfr art. 13 comma 1 del Decreto Legislativo n. 109/2006), vera e propria sanzione, seppure accessoria, è collegata al pieno accertamento della responsabilità dell’incolpato e presuppone il passaggio in giudicato della condanna, che conferiscono al trasferimento il carattere della stabilità, il solo che consente di fare riferimento alla ordinaria disciplina del trasferimento del magistrato (a domanda, o d’ufficio per incompatibilità ambientale).

Ciò premesso, per non assegnare alle misure cautelari improprie finalità afflittive, è d’obbligo attenersi al dettato normativo evitando di introdurre sacrifici degli interessi e delle esigenze del magistrato ulteriori e diversi rispetto a quelli espressamente consentiti dalla legge, in una fase del procedimento disciplinare nella quale si è, per definizione, lontani dal pieno accertamento delle responsabilità dell’incolpato.

L’art. 13 comma 2 del Decreto Legislativo 23 febbraio 2006 n. 109, nel prevedere il trasferimento di sede e/o di funzioni, non pone alcun vincolo di carattere “geografico” e, quindi, la cautela deve attuarsi col minor disagio per il magistrato che vi è sottoposto, compatibilmente con la disponibilità di posti vacanti.

L’art. 22 del citato Decreto (che non contempla il mutamento di funzioni ma solo il trasferimento di sede) dispone nella seconda parte del comma 1: “Nei casi di minore gravità il Ministro della giustizia o il Procuratore Generale possono chiedere alla sezione disciplinare il trasferimento provvisorio dell’incolpato ad altro ufficio di un distretto limitrofo, ma diverso da quello indicato nell’articolo 11 del codice di procedura penale”.

A tale specifica previsione, dunque, occorre dare un senso logico, per spiegare la differenziazione della disciplina con particolare riferimento all’impossibilità di assegnare il magistrato ad un ufficio del distretto dove è ubicato quello competente ex art. 11 c.p.p.. Soccorrono, allora, i soliti criteri dell’interpretazione letterale e sistematica, anche a mente del fenomeno della successione delle leggi nel tempo.

Deve, infatti, rimarcarsi che la seconda parte del primo comma dell’art. 22, prevedente il trasferimento cautelare, è stata introdotta dall’art. 1, comma 3, lettera n), L. 24 ottobre 2006, n. 269; l’innesto è avvenuto nell’ambito di un articolo che, originariamente, non contemplava il trasferimento, riguardando soltanto la sospensione cautelare facoltativa, da applicarsi nelle due alternative ipotesi della sottoposizione del magistrato a procedimento penale, ovvero dell’ascrivibilità di fatti disciplinarmente rilevanti incompatibili con l’esercizio delle funzioni (di qualsiasi funzione).

L’assetto normativo delle misure cautelari, prima dell’innovazione, era il seguente: al magistrato al quale fossero stati ascritti solo illeciti disciplinari, non costituenti reato, era applicabile il trasferimento cautelare già previsto dall’art.13, ovvero la sospensione cautelare prevista dall’art. 22; al magistrato sottoposto a procedimento penale, invece, risultava applicabile esclusivamente la più grave misura della sospensione dal servizio.

Di qui l’interpolazione, testualmente riferita ai “casi di minore gravità” che consente, oggi, l’applicazione della più tenue misura del trasferimento cautelare, in luogo del sia pur temporaneo troncamento del rapporto di servizio anche nelle ipotesi di sottoposizione del magistrato a procedimento penale.

E’ agevole, a questo punto, cogliere che le ipotesi relative alla ascrivibilità di fatti disciplinarmente rilevanti risultavano, all’epoca dell’emanazione dell’art. 1, comma 3, lettera n), L. 24 ottobre 2006, n. 269, già espressamente contemplate dall’art. 13 del d. lgs. n. 109 del 2006 tra quelle legittimanti il trasferimento cautelare e provvisorio del magistrato e, pertanto, l’innovazione normativa risulterebbe priva di significato se correlata a questa categoria di presupposti.

Viceversa, l’aggiornamento normativo trae concreto e coerente significato solo se riferito alla diversa ed autonoma classe di fatti connessi alla pendenza di un procedimento penale a carico del magistrato, giacché solo per effetto dell’aggiunta apportata al testo originario, con un chiaro intento di favor, è divenuto possibile evitare la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, applicando il trasferimento cautelare; a ciò è collegato che il magistrato sottoposto a procedimento penale non possa essere assegnato ad un ufficio posto nel distretto nel quale si è già radicata la competenza a giudicarlo, ex art. 11 c.p.p..

Ne discende, allora, che tale limitazione territoriale, caratterizzante il trasferimento provvisorio dell’art. 22, opera solo quando il trasferimento sia determinato dalla pendenza di un procedimento penale contro il magistrato, sempre che il reato in concreto ascritto al giudicabile sia inseribile “nei casi di minore gravità”.

Risulta, al contrario, priva di ogni senso la stessa limitazione se rapportata alle ordinarie ipotesi di un procedimento disciplinare instaurato per fatti non costituenti reato.

Può, in definitiva, affermarsi che la modifica dell’art. 22 del d.lvo n. 109 del 2006 non ha affatto introdotto una nuova misura cautelare ma, più semplicemente, ha esteso l’operatività di quella già prevista dall’art. 13 comma 2 del Decreto legislativo n. 109/2006 ad ipotesi (sottoposizione a procedimento penale) originariamente escluse.

Se è unica la misura cautelare, unica ne è anche la disciplina, e quindi se all’interessato il trasferimento cautelare è stato applicato per ipotesi disciplinari diverse ed autonome rispetto alla sottoposizione a procedimento penale, ne deriva che non può trovare applicazione alcun “divieto” al trasferimento presso un ufficio di un distretto limitrofo, seppure astrattamente competente ex art. 11 c.p.p. rispetto ai procedimenti penali riguardanti i magistrati in servizio presso la sede a quo del trasferibile.

Se le notazioni che precedono sono plausibili, non si comprende quali siano le ragioni che hanno condotto il CSM ad imporre ai colleghi un disagio maggiore di quello necessario, e quindi a connotare la cautela come afflizione, costringendoli ad un trasferimento in sedi lontane (Cassino e Latina) dai rispettivi luoghi di residenza e questo sebbene vi fossero molti posti vacanti nei tribunali limitrofi a quello di Salerno.


lunedì 23 febbraio 2009

Più visibilità per i nostri lettori






dalla Redazione






I nostri lettori sono una “parte” importantissima e amatissima del blog.

Abbiamo scoperto due strumenti della piattaforma informatica che ospita il nostro blog che consentono di dare loro maggiore visibilità.

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Si trovano subito sotto l’area dei “Lettori registrati”.

Di ogni commento vengono riportati il nome dell’autore, il titolo dell'articolo commentato e le prime righe del commento.

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Approfittiamo di questa occasione per segnalare a tutti i lettori l’utilità di firmare i commenti con il proprio nome e cognome o almeno con un nickname, che, consentirà di restare anonimi (a chi malauguratamente lo preferisca), ma darà anche agli “anonimi” una “identità virtuale”, che consenta di “riconoscerli” e di seguirne le opinioni.

Grazie a tutti per la Vostra preziosa partecipazione e per la ricchezza dei Vostri contributi.



Riflessioni tecniche sull’ordinanza cautelare del C.S.M. nei confronti dei magistrati di Salerno

Versione stampabile



di Giuliano Castiglia
(Giudice del Tribunale di Termini Imerese)




Da circa tre settimane conosciamo le motivazioni dell’ordinanza del 19 gennaio (data della pronuncia) - 4 febbraio (data del deposito) 2009 con la quale la Sezione disciplinare del C.S.M. ha cautelativamente sospeso dalle funzioni il Procuratore della Repubblica di Salerno Luigi Apicella e trasferito ad altra sede i sostituti procuratori di Salerno Nuzzi e Verasani, il Procuratore generale di Catanzaro Iannelli e il sostituto procuratore generale di Catanzaro Garbati, rigettando le domande di trasferimento di altri due magistrati catanzaresi.

Personalmente, sin dall’inizio, le iniziative che organi istituzionali e la stessa magistratura associata hanno intrapreso nei confronti dei magistrati di Salerno protagonisti di quella che si è voluta far passare come guerra tra le Procure di Salerno e Catanzaro non mi hanno affatto convinto per tante ragioni.

Ho atteso la motivazione dell’ordinanza del 19 gennaio 2009 per verificare se qualcosa mi sfuggisse ma devo dire che essa, lungi dal dissipare dubbi e timori, li ha acuiti.

E ciò per il semplice motivo che, a mio avviso, sul piano strettamente tecnico, tanto con riferimento all’approccio generale che ai singoli passaggi logici in cui si snoda, detta motivazione si presenta tutt’altro che convincente.

Non è mia intenzione santificare i pubblici ministeri di Salerno.

Anzi, dico subito questo: il famoso atto di più di 1400 pagine è stato redatto secondo una tecnica che a me non piace affatto; di più, ho la netta impressione che alcuni passaggi dell’atto risultino oggettivamente causa di ingiusto danno per alcuni dei soggetti che, pur apparendo del tutto estranei al procedimento, ivi sono stati, anche indirettamente e/o non espressamente, tirati in ballo.

A mio avviso, però, il problema che tutti, a partire dalla Sezione disciplinare una volta investita della questione, avrebbero dovuto porsi non era questo.

Non è compito del C.S.M. sindacare la tecnica di redazione e la congruità e pertinenza della motivazione dei provvedimenti giudiziari mentre i terzi ingiustamente danneggiati da tali provvedimenti possono attivare le previste forme di tutela giurisdizionale e, se lesione di diritti effettivamente c’è stata, ottenerne il dovuto riconoscimento.

In ogni caso, ora che è intervenuta la decisione del C.S.M., l’interrogativo che dobbiamo porci è se il comportamento tenuto dai pubblici ministeri salernitani, in un sistema ormai formalmente fondato sulla tipicità dell’illecito disciplinare dei magistrati, integra o meno una delle fattispecie di illecito espressamente previste e se c’erano i presupposti per l’adozione dei provvedimenti cautelari che sono stati adottati; dobbiamo chiederci, ancor prima, se il procedimento seguito dalla Sezione disciplinare per pervenire alle decisioni adottate sia stato rispettoso delle garanzie che l’ordinamento riconosce a chi è coinvolto in una causa e, in particolare, ai magistrati sottoposti a giudizio disciplinare.

A mio avviso, l’iter procedimentale seguito dalla Sezione disciplinare; l’approccio generale dalla stessa adottato rispetto all’accertamento della sussistenza – sia pure a livello proprio della fase cautelare – delle violazioni oggetto dell’incolpazione, tutto incentrato sul carattere eclatante dei fatti giudicati e disattento al profilo della loro riconducibilità alle fattispecie di illecito disciplinare tipicamente previste dalla legge; il costante vaglio di pertinenza dei dati inseriti nel corpo motivazionale; e, infine, le specifiche conclusioni alle quali la Sezione è pervenuta, sollevano diverse e gravi perplessità.

Tali perplessità, oltre a fare seriamente dubitare della regolarità della procedura seguita nel caso di specie e della giustezza delle decisioni adottate, suscitano più generali preoccupanti considerazioni; da un lato, sul rischio di indebite interferenze del giudice disciplinare sul merito delle iniziative e dei provvedimenti giudiziari e, dall’altro, sul deficit di garanzie di cui oggi di fatto dispone il magistrato sottoposto al giudizio disciplinare.

Pur avendo in questi giorni riflettuto sui diversi aspetti sopra menzionati, qui sono in grado di proporre, grazie anche ad una fastidiosa influenza che da vari giorni mi costringe a casa, considerazioni che riguardano solo l’aspetto procedurale e, in particolare, le due questioni della ricusazione e della pubblicità dell’udienza.

Mi riservo, lavoro e famiglia permettendo, di tornare in un futuro non troppo lontano sugli altri aspetti della vicenda.


RICUSAZIONE

Un momento significativo dell’iter procedimentale che ha preceduto la decisione di merito del 19.1.2009, è rappresentato dal provvedimento del 10.1.2009 con il quale è stata rigettata la ricusazione avanzata dal dr Apicella nei confronti di alcuni componenti della Sezione disciplinare del C.S.M., sia effettivi che supplenti.

Su tale istanza si è pronunciato un Collegio in composizione diversa da quello chiamato a decidere sul merito.

Peraltro, da quanto ho letto, non è chiaro, a parte Presidente e Relatore, da chi questo secondo Collegio fosse composto. Ricordo, in proposito, che l’art. 6 comma 5 della legge n. 195 del 1958, prevede che “sulla ricusazione di un componente della sezione disciplinare, decide la stessa sezione, previa sostituzione del componente ricusato con il supplente corrispondente”.

Per comodità indicherò il Collegio che ha deciso sull’istanza di ricusazione come Collegio B, in contrapposizione al Collegio che poi, con l’ordinanza del 19.1.2009, ha deciso sul merito e che indicherò come Collegio A.

Per tutti i ricusati l’istanza era fondata ai sensi dell’art. 36 lett. c) del codice di procedura penale e, per alcuni, anche ai sensi dell’art. 36 lett. a) del codice.

Il Collegio B) affronta separatamente i due profili di ricusazione e li ritiene entrambi manifestamente infondati.

Ogni addetto ai lavori sa che l’art. 36 lett. a) c.p.p. prevede l’obbligo di astensione del giudice – con la correlativa facoltà delle parti di ricusarlo prevista dall’art. 37 c.p.p. – che abbia interesse nel procedimento.

E sa anche che da sempre si ritiene che, tra l’altro, sussista un interesse nel procedimento quando:

- il giudice si presenti come danneggiato dal comportamento che è chiamato a valutare;

- dall’esito del procedimento il giudice possa ricavare un vantaggio, anche solo di natura morale.

Il provvedimento del 10.1.2009 esclude che nel caso di cui ci occupiamo ricorresse una di queste due ipotesi.

Bene, l’affermazione che i componenti ricusati non potessero essere considerati danneggiati dal comportamento sottoposto al loro giudizio è supportata esclusivamente dalla seguente affermazione: i ricusati non “potrebbero essere qualificati come danneggiati dal comportamento contestato che non costituisce reato, ma un illecito amministrativo.

Ora, poiché dobbiamo escludere che siamo di fronte ad una frase buttata lì tanto perché qualcosa doveva pure essere scritta, dobbiamo sforzarci di dare un senso a tale affermazione.

E l’unico senso possibile senso è il seguente: i componenti della Sezione disciplinare ricusati dal dr Apicella non possono essere qualificati come danneggiati dal comportamento contestato perché soltanto i comportamenti costituenti reato possono danneggiare qualcuno e qui, invece, siamo di fronte non ad un reato ma ad un semplice illecito amministrativo.

Così intesa, nell’unico modo possibile, è palese che siamo di fronte ad una affermazione totalmente infondata e dalle implicazioni paradossali.

Non è affatto vero, infatti, che solo i reati producono danno. E non credo valga la pena, sul punto, di insistere ulteriormente, bastando rimandare ad una lettura degli artt. 2043 e 2059 del codice civile.

In altri termini, è “arcipacifico” che possono essere causa di danno comportamenti non costituenti reato come gli illeciti civili, gli illeciti amministrativi o, addirittura, comportamenti del tutto leciti.

Che poi, se quanto affermato dal Collegio B fosse vero, non si spiegherebbe come il Collegio A della stessa Sezione disciplinare, con l’ordinanza del 19.1.2009, abbia potuto ritenere il comportamento dei magistrati di Salerno causa di danno nei confronti di un numero assai significativo di soggetti; a meno che il Collegio A non abbia in cuor suo già accertato, contrariamente a quanto affermato dal Collegio B per rigettare la ricusazione, che detto comportamento è reato.

L’altro profilo della ricusazione ai sensi della lett. a) dell’art. 36 c.p.p., attinente al possibile vantaggio dei ricusati dall’esito del procedimento, era collegato al fatto che una delle accuse (Capo D) mosse ai magistrati di Salerno, tra cui il ricusante, era quella di avere “fatto propria, nella motivazione del decreto di perquisizione de quo, una congerie di impressioni soggettive, di accuse allusive e di giudizi sostanzialmente denigratori riguardo a decisioni giurisdizionali già assunte dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura”.

Nell’ottica del ricusante, dunque, il ragionamento era questo: siccome ciò di cui sono accusato è ritenuto denigratorio, tra gli altri, dei componenti della Sezione disciplinare del C.S.M. che hanno deciso il trasferimento del dr De Magistris, una decisione che qualificasse come violazione disciplinare la mia condotta recherebbe un evidente vantaggio, almeno sul piano morale, a tali componenti della Sezione disciplinare; pertanto, i componenti della Sezione disciplinare che hanno deciso il trasferimento del dr. De Magistris, chiamati ora a decidere sulla mia condotta asseritamente denigratoria della loro decisione, devono astenersi; e siccome non si astengono, li ricuso.

Ebbene, l’argomentazione utilizzata dal Collegio B per ritenere manifestamente infondata, anche sotto questo profilo, l’istanza di ricusazione è questa e soltanto questa: “è ben vero che in detto capo di incolpazione si afferma che i pubblici ministeri di Salerno “hanno fatto propri” giudizi formulati dal dr De Magistris nei confronti di una pluralità di magistrati che si sono occupati delle sue vicende, ma tale affermazione è da intendersi nel senso che detti pubblici ministeri hanno ritenuto rilevante la esposizione di tali rilievi e non anche che ne hanno ritenuto la fondatezza (ché, altrimenti, anche per i giudici disciplinari avrebbero provveduto ad iniziative processuali analoghe a quelle adottate nei confronti di altri magistrati)”.

Che dire? A me risulta davvero difficile cogliere la razionalità dell’affermazione appena riportata.

Dunque, i pubblici ministeri di Salerno avrebbero ritenuto rilevante quanto detto dal dr. De Magistris e l’avrebbero riportato nel decreto ma non l’avrebbero ritenuto fondato.

In sostanza, quindi, si dice che i pubblici ministeri di Salerno non hanno creduto al dr. De Magistris.

Questo non solo in assenza di ogni elemento significativo in tal senso ma addirittura in un contesto che lascia supporre l’esatto contrario.

“Ché, altrimenti - dice però il Collegio B -, anche per i giudici disciplinari avrebbero provveduto ad iniziative processuali analoghe a quelle adottate nei confronti di altri magistrati”.

Insomma, sembrerebbe che qui si dica che i pubblici ministeri salernitani non hanno creduto al dr De Magistris perché altrimenti avrebbero iscritto nel registro delle notizie di reato anche i componenti delle Sezione disciplinare del C.S.M., avrebbero ordinato perquisizioni nei loro uffici di Palazzo dei Marescialli e nelle loro abitazioni e avrebbero sequestrato gli atti del procedimento disciplinare nei confronti di De Magistris. Ma vi pare?

Invero in quell’affermazione si torna alla visione “panpenalistica” delle relazioni umane per cui denigrare qualcuno implica ritenerlo responsabile di reati.

E in quest’ottica, ovviamente, pare che un magistrato soggetto a procedimento disciplinare potrà pretendere l’astensione di un componente della Sezione disciplinare solo quando la contestazione ha ad oggetto l’adozione di un atto giudiziario in diretto pregiudizio di quel componente, da una perquisizione a salire.

Per completare il quadro della precarietà assoluta dell’argomentazione utilizzata in questo caso dal Collegio B, si deve ancora aggiungere che se si leggono le pagine da 43 a 47 dell’ordinanza del 19.1.2009 con la quale il Collegio A ha cautelativamente sospeso Apicella e trasferito Verasani e Nuzzi, della sottile distinzione tra il “fare proprio” ed il “ritenere rilevante” non c’è più traccia e, in buona sostanza, il comportamento dei tre viene ritenuto gravemente scorretto per avere recepito, facendole proprie, le dichiarazioni di De Magistris.

L’altra ragione posta a fondamento della dichiarazione di ricusazione era quella fondata sulla lett. c) dell’art. 36 c.p.p..

Tale disposizione prevede che “il giudice ha l’obbligo di astenersi - e può quindi essere ricusato - se ha manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie”.

E’ un dato di fatto che risulta dalla stessa ordinanza del 19.1.2009 che alcuni componenti del Sezione disciplinare chiamata a decidere si erano già pronunciati sui comportamenti oggetto delle incolpazioni nella procedura amministrativa volta al trasferimento per incompatibilità ambientale in seno alla Prima Commissione del C.S.M..

L’ottica del ricusante era dunque la seguente: siccome vi siete occupati del caso nell’esercizio di funzioni amministrative, non ve ne potete ora occupare in sede di giurisdizione disciplinare; e siccome non vi astenete, vi ricuso.

Il Collegio B ha risposto in questo modo: “di tutta evidenza è altresì la manifesta infondatezza dell’ulteriore motivo di ricusazione dedotto ai sensi dell’art. 36, comma primo, lett. c, c.p.p.”.

Le ragioni di tale risposta si esauriscono nelle due seguenti affermazioni:

- “Difatti occorre tener conto della natura giurisdizionale e non amministrativa della sezione disciplinare, la quale viene costituita sulla base di criteri predeterminati fissati direttamente dalla legge”.

- “Inoltre è la stessa Costituzione che, all’art. 105, prevede per i componenti del C.S.M. la possibilità di cumulare le funzioni amministrative con quelle giurisdizionali anche con riferimento allo stesso fatto ed allo stesso magistrato”.

Va subito detto che la seconda delle due affermazioni, come tutti possono apprezzare leggendo l’art. 105 Cost., è totalmente infondata.

L’art. 105 Cost. neppure prevede una giurisdizione del CSM, limitandosi a prevedere tra le competenze dell’organo di autogoverno l’adozione dei provvedimenti (non delle sentenze) disciplinari nei riguardi dei magistrati.

La creazione del CSM come giudice disciplinare è opera della legge ordinaria.

Mi sia consentita, a questo proposito, una breve digressione. Non credo sia necessario essere un costituzionalista per intendere il senso delle parole “spettano al CSM, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati” (art. 105 Cost.).

A me pare indubitabile che l’art. 105 Cost. faccia riferimento ad un CSM come organo di amministrazione al quale, in quanto tale, naturalmente competono le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.

La riserva costituzionale al CSM di tali attribuzioni, ovviamente, nell’ottica del legislatore costituente, era finalizzata ad evitare che al legislatore ordinario potesse venire in mente di assegnare detti compiti al Ministro della Giustizia.

Ora, se quanto ho detto è corretto, è inevitabile dubitare della legittimità costituzionale dell’assetto normativo predisposto dal legislatore ordinario già nella misura in cui fa del CSM il giudice disciplinare dei magistrati e, inoltre, del modo in cui lo fa.

A me pare evidente il contrasto di tale assetto normativo, tra l’altro, con l’art. 102 Cost., che fa divieto di istituire giudici speciali, e con l’art. 24 Cost., che riconosce a tutti il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.

Ma, se si raffronta la condizione dei magistrati a quella di tutti gli altri pubblici impiegati, evidente mi pare anche la violazione dell’art. 3 Cost.

Ed invero, con il sistema attuale, la situazione dei magistrati risulta all’evidenza assai meno garantita rispetto a quella di tutti gli altri pubblici impiegati.

Tra costoro, infatti, quelli non contrattualizzati, di fronte a provvedimenti disciplinari adottati dall’amministrazione di appartenenza, possono ricorrere al T.A.R.. e poi, se del caso, al Consiglio di Stato; sia T.A.R. che C.d.S. sono giudici anche del fatto.

In questi casi, quindi, l’interessato dispone di due istanze giurisdizionali che valutano la fondatezza in fatto del provvedimento adottato dall’amministrazione di appartenenza.

La situazione dei pubblici impiegati non contrattualizzati è ancora più garantita.

Di fronte al provvedimento disciplinare, infatti, possono ricorrere al Tribunale; poi, se del caso, alla Corte di Appello; e possono infine adire, per motivi di legittimità, la Corte di cassazione.

I magistrati, invece, sono giudicati dalla Sezione disciplinare del C.S.M. e, a fronte di tale decisione, se sfavorevole, possono solo fare ricorso in Cassazione per motivi di legittimità.

Tornando alla decisione del Collegio B sulla ricusazione, rispetto l’affermazione secondo cui “è la stessa Costituzione che, all’art. 105, prevede per i componenti del C.S.M. la possibilità di cumulare le funzioni amministrative con quelle giurisdizionali anche con riferimento allo stesso fatto ed allo stesso magistrato”, ribadisco che l’unica cosa che può dirsi è che tale affermazione ha un contenuto semplicemente non vero.

L’altro argomento addotto a sostegno della ritenuta manifesta infondatezza della ricusazione, anche ai sensi dell’art. 36 lett. c), è quello della natura giurisdizionale e non amministrativa della Sezione disciplinare e della sua costituzione sulla base di criteri fissati dalla legge.

Devo riconoscere che, nel provvedimento in esame, questo è l’unico passaggio che mi sembra sensato.

Sensato perché all’argomento in questione si attaglia il richiamo operato dal Collegio B ai precedenti delle Sezioni Unite della Corte di cassazione: “la Corte di Cassazione - si legge nel provvedimento - ha costantemente ritenuto la piena compatibilità fra le funzioni di giudice della sezione disciplinare e di quelle di componente dell’assemblea plenaria del C.S.M. e delle relative commissioni referenti, escludendo altresì qualsiasi contrasto con i principi costituzionali posti a tutela del diritto di difesa e della giurisdizione”.

In effetti, l’idea che l’avere in precedenza esercitato funzioni amministrative in seno al C.S.M. sui medesimi fatti portati all’attenzione della Sezione disciplinare non imponga al componente di tale Sezione l’obbligo di astenersi risulta in linea con la giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Basti dire, infatti, che Cass. civ., Sez. Un., n. 27172 del 2006 (Pres. Nicastro, est. Luccioli) - la più recente tra le pronunce richiamate nel provvedimento in esame - testualmente afferma: “In tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, la natura giurisdizionale e non amministrativa della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura e la sua composizione secondo criteri fissati direttamente dalla legge escludono la sussistenza di ragioni di incompatibilità, e quindi di astensione, nell’ipotesi in cui siano chiamati a farne parte componenti che abbiano già espresso il loro parere sui medesimi fatti oggetto dell’incolpazione nell’esercizio dell’attività amministrativa dell’organo di autogoverno”.

Sul punto, dunque, la pronuncia del Collegio B si colloca nel solco di un consolidato filone giurisprudenziale. Nondimeno l’argomento sul quale si fonda mi sembra alquanto precario.

Tutti in Italia sono soggetti ad un giudice naturale precostituito per legge.

Gli istituti dell’astensione e della ricusazione non sono incompatibili con questo principio; anzi, nella misura in cui il giudice che si è astenuto o è stato ricusato con successo, viene sostituito secondo regole anch’esse predeterminate, ne sono una diretta esplicazione, finalizzata anche a rendere effettivo un altro principio costituzionale, quello di imparzialità del giudice, da diversi anni ormai costituzionalizzato anche formalmente.

Perché mai il fatto che la composizione della sezione disciplinare sia stabilita secondo criteri fissati direttamente dalla legge dovrebbe escludere la sussistenza di ragioni di incompatibilità, e quindi di astensione, per quei componenti che si siano pronunciati sui medesimi fatti nell’esercizio dell’attività amministrativa del Consiglio?

Il nesso di consequenzialità logica tra l’essere la composizione della Sezione disciplinare stabilita secondo criteri legali e l’inesistenza di un dovere di astensione del componente che si sia occupato della medesima questione nell’esercizio delle funzioni amministrative del Consiglio, con conseguente sostanziale disapplicazione dell’art. 36 lett. c) c.p.p., davvero mi sfugge.

L’unico dato che può trarsi della legge è che non vi è incompatibilità tra il far parte della Sezione disciplinare ed il far parte di altre Commissioni del Consiglio ma da ciò non può trarsi l’ulteriore conclusione che il consigliere che si pronuncia su un fatto nell’esercizio di funzioni amministrative nell’ambito di una delle Commissioni del C.S.M. non soggiace al disposto dell’art. 36 c.p.p..

In sintesi, quindi, anche per il motivo fondato sulla lett. c) dell’art. 36 c.p.p., gli argomenti impiegati per rigettare la ricusazione si presentano per certi versi deboli e per altri totalmente infondati.

Prima di chiudere l’argomento, però, mi sembra il caso di aggiungere qualche considerazione in positivo, a sostegno della fondatezza del motivo di ricusazione.

Non credo si possa dubitare del fatto che il giudice espressosi sullo specifico oggetto della causa in veste diversa da quella di giudice della medesima causa non può essere considerato imparziale. E non per niente c’è l’art. 36 lett. c) c.p.p., della cui ragionevolezza mai nessuno ha dubitato.

Ora, la stessa Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato il seguente principio: “A seguito della modifica dell’art. 111 della Costituzione, operata dall’art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che ha sancito in modo solenne il principio dell’imparzialità del giudice, adeguando il sistema processuale al fondamentale precetto dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, l’esigenza di far decidere la controversia da un giudice imparziale non costituisce più soltanto una questione amministrativa relativa all’organizzazione degli uffici giudiziari, che dà luogo ad un procedimento incidentale definito con un provvedimento di natura ordinatoria, bensì rappresenta un diritto soggettivo della persona, non solo pieno ed assoluto, ma anche fondamentale ed insopprimibile, in quanto riconosciuto dalla Costituzione e dalla menzionata Convenzione internazionale, con riferimento a qualunque tipo di processo” (ho qui riportato la massima di Cass. civ., Sez. I, n. 4297 del 2002, ma ce ne sono diverse altre di identico tenore).

Domando, c’è una ragione per la quale questo diritto soggettivo della persona, non solo pieno ed assoluto, ma anche fondamentale ed insopprimibile non debba essere riconosciuto ai magistrati nel processo (disciplinare) a loro carico?

Può mettersi in dubbio che la risposta a tale domanda sia no, una ragione non c’è?


PUBBLICITA' DELL'UDIENZA

L’ordinanza del 19 gennaio che ha deciso per la sospensione di Apicella, per il trasferimento di Verasani, Nuzzi, Iannelli e Garbati nonché, infine, per il rigetto delle altre richieste, prima di entrare nel merito delle accuse mosse ai colleghi, affronta alcune questioni di rito presentatesi nell’iter procedurale.

L’indisponibilità degli atti rende in gran parte impossibile l’esame critico di questi aspetti della decisione.

Credo, tuttavia, che almeno la questione della pubblicità dell’udienza, tutta in diritto, si presti ad essere compiutamente valutata.

La Sezione disciplinare ha ritenuto che il principio di pubblicità dell’udienza non trova applicazione nella fase cautelare del procedimento disciplinare e che in tale fase l’udienza si deve svolgere a porte chiuse.

La mia valutazione su queste conclusioni è fortemente negativa.

L’art. 18 del d.lgs. 109 del 2006 (disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità), rubricato “discussione nel giudizio disciplinare”, stabilisce al comma 2 che “l’udienza è pubblica”.

Analoga disposizione non è dettata dal d.lgs. 109/06 con specifico riferimento al procedimento cautelare. Relativamente all’ipotesi di “sospensione cautelare facoltativa”, l’art. 22 comma 2 si limita a prevedere che la Sezione disciplinare del C.S.M. “provvede dopo aver sentito l’interessato o dopo aver constatato la sua mancata presentazione”.

Di fronte a tale corpo normativo, la Sezione disciplinare ha sposato la tesi secondo cui nel procedimento cautelare a carico di magistrati, “atteso il difetto di una previsione in tal senso nelle norme che regolano il procedimento stesso”, “deve escludersi l’obbligo della pubblicità delle udienze” ed ha ritenuto che, trovando applicazione l’art. 127 c.p.p. in materia di procedimento in camera di consiglio, si applichi il comma 6 di tale articolo, il quale stabilisce che “l’udienza si svolge senza la presenza del pubblico”.

La Sezione, dunque, ha dichiarato di confermare i provvedimenti adottati all’udienza camerale del 19.1.2009 “con i quali si è negata prima al dott. Apicella e poi ai dottori Verasani e Nuzzi la richiesta di pubblicità dell’udienza” (ord. 19.1-4.2/2009, pag. 12).

Ciò che mi lascia fortemente perplesso, innanzi tutto, è il modo con il quale l’ordinanza della Sezione disciplinare risolve la questione attinente all’invocato precetto dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo cui ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata, tra l’altro, “pubblicamente”.

L’ordinanza liquida il tema dicendo che l’art. 6 C.E.D.U. non è invocabile perché la C.E.D.U., “nell’affermare l’esigenza di pubblicità del processo, pone solo un principio di comportamento per il legislatore nazionale”.

Di fronte a tale affermazione si resta quasi basiti già per il fatto che risulta in radicale contrasto con i precedenti della Sezione disciplinare (già con la Sentenza 5.7.1985 la Sez. disc. affermava il principio della diretta applicabilità dell’art. 6 C.E.D.U. nel procedimento disciplinare a carico dei magistrati).

Ma si resta esterrefatti quando, nelle pagine 35 e ss. della stessa ordinanza dei 19.1-4.2/2009, si registra che la Sezione disciplinare, nel valutare la motivazione del noto provvedimento, la giudica in contrasto con l’art. 6 C.E.D.U., facendo quindi diretta applicazione - peraltro sbagliata (l’art. 6 C.E.D.U. non disciplina la motivazione dei provvedimenti giudiziari) - nell’ordinamento interno dello Stato italiano di tale articolo della Convenzione.

Con il che si registra una inspiegabile ed insanabile contraddittorietà della motivazione.

Nei passaggi motivazionali dello stesso provvedimento, infatti, l’art. 6 C.E.D.U. è considerato in un caso solo “un principio di comportamento per il legislatore” e in un altro una diretta fonte di diritti e doveri nell’ordinamento interno dello Stato.

In particolare, allorché invocato dagli incolpati quale fonte del loro diritto alla pubblicità dell’udienza, l’art. 6 C.E.D.U. viene ridotto a “principio di comportamento per il legislatore”; quando invece si tratta di valutare se la condotta degli incolpati è o meno legale l’art. 6 assurge a fonte precettiva diretta.

In ogni caso, qualche riflessione sull’argomentazione impiegata per ritenere non invocabile l’art. 6 C.E.D.U. quale fonte diretta del diritto alla pubblicità dell’udienza è opportuno svolgerla.

Dire che l’art. 6 C.E.D.U., “nell’affermare l’esigenza di pubblicità del processo, pone solo un principio di comportamento per il legislatore nazionale”, è una affermazione di assoluta retroguardia.

Essa oblitera tutta l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale - senz’altro travagliata ma inesorabile - in materia di efficacia delle norme C.E.D.U. negli ordinamenti interni degli Stati ad essa aderenti.

Evoluzione nella quale si sono registrate tappe come, a titolo meramente esemplificativo, quella segnata da Cass. civ., Sez. I, n. 9411 del 2006, secondo la quale “il giudice italiano, chiamato ad applicare la legge, è tenuto ad interpretarla in modo conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”; o come Cass. civ., Sez. I, n. 7923 del 2005, la quale afferma che “le norme della Convenzione costituiscono fonte di diritti ed obblighi per tutti i soggetti” e, con specifico riferimento tra l’altro proprio all’art. 6, che “le disposizioni della Convenzione costituiscono norme precettive per quanto direttamente risulta dal loro contenuto”; o ancora come Cass. civ., Sez. Un., n. 28507 del 2005, la quale, nel ribadire “il principio che il fatto costitutivo” del diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo “coincide con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della convenzione, di immediata rilevanza nel diritto interno”, rileva come la Corte avesse già in passato “espressamente riconosciuto la natura sovraordinata alle norme della Convenzione sancendo l’obbligo per il giudice di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma pattizia dotata di immediata precettività nel caso concreto (Cass. 19 luglio 2002, n. 10542)”.

Ma c’era ancora un precedente delle Sezioni Unite della Cassazione - ricordato proprio da Sez. Un., n. 28507/05 - con la quale la Sezione disciplinare non poteva non confrontarsi. Si tratta di un precedente con il quale le Sezioni Unite riconoscono alle norme della Convenzione efficacia abrogante di una disposizione interna e si dà il caso che si tratti proprio della norma sulla non pubblicità delle udienze nei procedimenti disciplinari nei confronti di magistrati allora prevista dall’art. 34 comma 2 del r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511.

La sentenza è la n. 7662 del 10 luglio 1991, la cui massima recita come segue: “L’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955 n. 848, ove prevede la pubblicità delle udienze, trova applicazione anche nei procedimenti disciplinari a carico di magistrati, e, quindi, implica l’abrogazione dell’art. 34 secondo comma del R.D.L. 31 maggio 1946 n. 511, nella parte in cui dispone che la discussione sulle incolpazioni si svolga "a porte chiuse" (salva restando la possibilità di una deroga a detta pubblicità, nel caso concreto, quando sussistano specifiche esigenze che la richiedano)”.

Vero è che, di recente, la Corte costituzionale, con le sentenze n. 348 e 349 del 2007 si è pronunciata in senso contrario alla diretta disapplicazione da parte del giudice della norma interna recisamente contraria alla C.E.D.U. ma ha anche affermato che in questo caso il giudice deve sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost..

Ma soprattutto, in una questione nella quale il precetto era tutt’altro che definito e lo spazio per un’interpretazione conforme - riconosciuta come doverosa anche dalla Corte costituzionale nelle due suddette sentenze - assai ampio, la sbrigativa affermazione secondo cui “l’esigenza di pubblicità del processo” sancita dalla C.E.D.U. “pone solo un principio di comportamento per il legislatore nazionale”, a fronte dei precedenti che ho richiamato e dei precedenti contrari della stessa Sezione disciplinare, a mio avviso ha il tocco, come ho detto, di una campana di assoluta retroguardia.

Ma oltre a quanto detto sin qui, sulla questione c’è un’altra cosa da segnalare.

La legge istitutiva del Consiglio Superiore, la n. 195 del 1958, all’art. 6 comma 6 (aggiunto dall’art. 1 della legge n. 74 del 1990), stabilisce quanto segue: Dinanzi alla sezione disciplinare il dibattito si svolge in pubblica udienza; se i fatti oggetto dell’incolpazione non riguardano l’esercizio della funzione giudiziaria ovvero se ricorrono esigenze di tutela del diritto dei terzi o esigenze di tutela della credibilità della funzione giudiziaria con riferimento ai fatti contestati e all’ufficio che l’incolpato occupa, la sezione disciplinare può disporre, su richiesta di una delle parti, che il dibattito si svolga a porte chiuse”.

E qui non si fa distinzione tra procedimento ordinario e cautelare: “Dinanzi alla sezione disciplinare il dibattito si svolge in pubblica udienza”.

Perché questa norma non è stata presa in considerazione ed applicata?

La norma non mi risulta espressamente abrogata dalla nuova procedura introdotta con il d.lgs. n. 109/06, e non vedo perché avrebbe dovuto esserlo, e di certo escluderei che ci siano i presupposti per ritenerla implicitamente abrogata ai sensi dell’art. 15 delle preleggi.

In ogni caso, se così è stato ritenuto, una parola al riguardo doveva pure essere spesa.

Vorrei dire, infine, che la dissertazione sulla pubblicità dell’udienza è niente affatto accademica.

Basti tenere presente, a prescindere da altre considerazioni, che se accettiamo l’idea che l’udienza deve essere pubblica, il non consentire che ciò accada comporta la nullità dell’attività che viene svolta a porte chiuse.

Ed infatti, l’art. 471 comma 1 c.p.p., che fa parte delle norme sul dibattimento penale espressamente richiamate dall’art. 18 comma 4 del d.lgs. n. 109/06 in materia di procedimento disciplinare, stabilisce che “l’udienza è pubblica a pena di nullità”.



domenica 22 febbraio 2009

De Magistris, ultimo atto?




di Giuseppe Panissidi
(Ricercatore nell’Università della Calabria)





da Messaggero.it del 22 febbraio 2009


Nuova iniziativa disciplinare nei confronti dell’ex pm di Catanzaro, oggi giudice a Napoli, Luigi De Magistris, nell’ambito del nebuloso caso Genchi, una volta di più innescato dalla collaborativa magistratura di Catanzaro.

Una trovata come un’altra, ma che,a differenza dalle prime, è tutto fuorché il fatidico fulmine a ciel sereno.

Se la logica non è un’opinione, infatti,per quanti coltivano un sano gusto del ragionamento, si tratta della banale non-notizia del cane che morde l’uomo e non mangia il suo simile o, non di rado, socio.

Di recente, proprio su queste colonne, ci eravamo misurati con un’ampia e spassionata lettura di questo speciale affaire di Stato.

Che, tuttavia, non sembra interessare più di tanto quel che resta di un’opinione pubblica in tutt’altre faccende affaccendata, drammaticamente in bilico fra le opzioni del vegetare o del morire e perciò comprensibilmente distratta.

Con la consolante esclusione di qualche celebre pensatoio, liberatorio e compassionevole, di molti patriottici bar dello sport o di fastose canzonette plebiscitarie.

In quell’occasione, si ricorderà, la ricostruzione analitica delle complessive dinamiche fattuali (e valoriali) aveva generato uno spazio per conseguenti conclusioni predittive – non solo previsive – degli sviluppi odierni. Sappiamo.

Dalle pregresse risultanze investigative dell’AG di Salerno nei riguardi del De Magistris – avvalorate, il mese scorso, da un’ulteriore istanza di archiviazione di una notitia criminis a suo carico – che la sua attività a Catanzaro si era snodata nella rigorosa osservanza di leggi e regolamenti.

A dispetto, prima, dell’arbitraria estromissione del magistrato dai suoi compiti d’istituto in Calabria e – pour cause – del successivo, e non meno arbitrario, trasloco in altra sede.

Sappiamo, inoltre, di un’Ag, quella di Salerno, incorsa nei fulmini dello Stato (di diritto. O di rovescio?) perché rea di avere profanato, con furia iconoclasta, l’acropoli repubblicana, i vertiginosi santuari di un potere senz’altra ambizione, se non quella di essere lasciato in pace.

E in vita, con alimentazione laica e naturale, come si conviene, non bigotta e forzosa.

Sappiamo, infine, che l’improba fatica delle istituzioni di controllo e autogoverno avrebbe rischiato di risolversi in un nulla di fatto o, peggio, in un boomerang, se si fosse trascurato di applicare un congruo assioma di chiusura, corollario indispensabile per la quadratura del cerchio.

Tornare a De Magistris, imperativo categorico, se anche etico non rileva, per un ultimo delicatissimo adempimento: le rifiniture.

Dopo la normalizzazione della Procura salernitana (nesso pentole/coperchi a parte) in merito ai procedimenti che lo costituiscono parte lesa, l’interessato dev’essere rimasto in trepida attesa di verità e giustizia.

A dissuaderlo, del resto, altri avevano già provato, vanamente.

Prima, rispettabili settori del Parlamento della Repubblica nata dall’antifascismo e dalla Resistenza - lontani ricordi – e, dopo, l’unione nazionale dei penalisti – un pilastro della giurisdizione – disgraziatamente afflitta da peculiari forme di ipoacusia, dislessia e strabismo, se vogliamo dar credito alla Procura di Roma in riferimento al caso Di Pietro-Presidente della Repubblica.

Sennonché, in ordine a ogni eventuale devianza di De Magistris a Catanzaro, la competenza appartiene sempre a Salerno – che noia! Dove gli uffici sembrano … inagibili,a giudicare dai precisi esiti investigativi – confermati da organi giudicanti – fin qui maturati.

Palla al centro dunque, è giocoforza, a Roma, sede disciplinare, la sola percorribile.

Ed ecco il punto vero, senza impropri stupori: si tratta della normale esigenza di uniformità dello Stato al teorema di completezza, classicamente.

Occorre esercitare sul nostro un’energica (e sinergica) moral suasion, fargli perdere di vista e separarlo da ciò che non è essenziale, che è ormai superato.

Come la inopinata attività pre-incriminatrice dell’Ag campana, ora in quarantena, dopo il tempestivo intervento risolutore delle istituzioni.

Che non contempla la realtà – un dettaglio – ma il profilo e l’ombra della realtà, privi di tutti gli accenti della verità.

Un destino davvero singolare: né magistrato, né cittadino con diritto alla Giustizia.

Come il PD: né governo, né opposizione. Quasi un contrappasso.

Tant’è, il fine giustifica i mezzi: ameno leitmotiv nazional-popolare, bussola di quanti, senza aver mai letto un solo rigo di Machiavelli, ne praticano la grottesca parodia.

Non sono i mezzi adeguati che finiscono per giustificare i fini, come, con ingenua superficialità ermeneutica, credeva – e raccomandava – F.De Sanctis.

Il governo della lingua e, soprattutto, della coscienza non rientra nel novero dei saperi privilegiati.

Eppure, se la nostra rappresentanza nazionale non fosse tanto lenta e rissosa, quante criticità si potrebbero appianare con la castrazione, chimica o chirurgica, ad libitum!

Anche verso certi magistrati, ostinatamente ribelli all’unica vera norma sovrana e non scritta del bel paese.

Giunti a questo punto, tuttavia, l’ANM dovrebbe almeno sciogliere la suspence e decidersi: sono “pagine chiuse” o ancora aperte?

I faraoni costruirono le piramidi per essere ricordati. Per la Storia.

Le forze sane della nazione, nel consesso delle democrazie occidentali e in una gloriosa prospettiva storica, optarono per la lotta contro la tirannide nazifascista e l’eccidio degli uomini giusti.

Non si accettano pentiti. Questa volta.



Se il caso Mills fosse scoppiato in Usa





di Alexander Stille
(Giornalista)





da Repubblica del 19 febbraio 2009


«Allora, fammi capire – mi ha scritto un mio collega giornalista americano – viene condannato per corruzione il coimputato del primo ministro ma si dimette il capo dell’opposizione. Che strano Paese, l’Italia».

Poi, mi chiama più tardi un’altra collega americana che chiede, «ma è possibile che non avrà conseguenze gravi la condanna di David Mills?». «Dopo tutto – aggiunge – se Berlusconi non avesse fatto passare il Lodo Alfano sarebbe stato condannato anche lui? Come spieghi il fatto che cose di questa gravità passano come se nulla fosse?».

Prima, ricapitoliamo i fatti principali.

Nel febbraio 2004, David Mills, l’avvocato britannico di Berlusconi che si occupava dei conti “off-shore” della Mediaset, i conti cosidetti “very discreet”, per operazioni finanziarie segrete e forse illegali, mette penna su carta.

Impaurito dalla possibilità di essere colto in fallo con un pagamento di 600.000 dollari non dichiarato al fisco inglese, decide di spiegarne l’origine al suo fiscalista.

Spiega che i soldi erano un regalo o un prestito a lungo termine per il silenzio nei vari processi di Berlusconi che chiama sempre B. o Mr. B.

Il fiscalista, per non essere complice di un reato, passa la lettera alle autorità britanniche, le quali a loro volta, informano la magistratura italiana.

Quindi, il processo nasce non da una caccia alle streghe dei giudici italiani ma da una comunicazione di un reato denunciata nel Regno Unito alla quale la magistratura ha dovuto rispondere.

Mills conferma ai magistrati italiani il contenuto della sua lettera.

Solo in un momento successivo, quando si accorge forse di essere in guai ancora più gravi, ritratta le sue dichiarazioni e dice di aver avuto i soldi da un’altra parte.

Evidentemente il tribunale di Milano ha trovato più convincente la prima versione e l’ha condannato.

Nel processo originario, Berlusconi era coimputato con Mills e con buona probabilità, dato l’esito del processo, sarebbe stato condannato anche lui se il suo governo, con grande tempestività, non avesse varato il Lodo Alfano che protegge il primo ministro da qualsiasi processo penale durante il suo mandato.

Che un caso così grave (un primo ministro che rischia la condanna per aver corrotto un testimone al fine di evitare, forse, altre condanne – falsando completamente il sistema giudiziario – e poi si toglie dai guai usando il Parlamento per farsi leggi ad personam) passi quasi inosservato, desta stupore e incredulità nel pubblico americano.

Dopotutto, quando il governatore democratico dell’Illinois viene scoperto a promettere favori in cambio di denaro, viene espulso dall’assemblea sia dai democratici che dai repubblicani.

Quando l’uomo scelto da Barack Obama per riformare la sanità americana, Tom Daschle, viene scoperto nei guai con il fisco, il presidente è costretto ad allontanarlo.

Allora, come si spiega la mancanza di risposta in Italia?

In parte, bisogna partire da lontano; con l’unità d’Italia, lo Stato visto come un’imposizione; l’abitudine di guardare la legge con sospetto come strumento di potere, evitata dai potenti, interpretata per gli amici e applicata ai nemici.

Ma questo è solo lo sfondo, non spiega tutto.

Ricordiamoci, l’opinione pubblica era massicciamente a favore della magistratura ai tempi dell’inchiesta Mani Pulite quando Berlusconi è sceso in campo.

Ma in un paese normale, non avrebbe mai potuto farlo essendo ancora proprietario di tre grandi reti televisive.

Sarebbe stato messo fuori gioco dai soldi a Craxi, dalle tangenti alla Guardia di Finanza, anche se i processi non hanno portato a condanne.

O dal caso Previti: per conto di chi l’avvocato Previti ha corrotto il magistrato Renato Squillante?

O dal caso Dell’Utri: per chi ha lavorato Marcello Dell’Utri in tutti gli anni in cui ha intrattenuto rapporti con esponenti importanti della mafia?

Si potrebbe andare avanti per molti paragrafi.

Ma ovviamente, la risposta è più complessa.

Una delle più grandi prestazioni di Berlusconi (se le possiamo chiamare cosi) è di aver sistematicamente smantellato Mani Pulite.

Per ogni guaio giudiziario del Cavaliere e della Mediaset, partiva un attacco feroce contro i giudici.

Venivano fatte sistematicamente delle accuse gravissime – che andavano dalla corruzione all’assassinio, contro Di Pietro, Borrelli, Caselli, contro altri magistrati di punta come Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo.

E poi i vari casi Mitrokhin e Telekom con le accuse di megatangenti a Romano Prodi e Piero Fassino.

Il fatto che queste accuse siano tutte crollate non importa.

Creava l’apparenza, falsa, di un’equivalenza morale. Così fan tutti.

La raffica di accuse e contro-accuse crea una tale confusione che l’elettore medio ha deciso di non tenere conto delle questioni giudiziarie e morali.

La retorica antipolitica di Berlusconi ha aggravato il già diffuso cinismo degli italiani da cui trae beneficio politico.

Con abilità brillante, riesce a governare il paese per anni in una fase di netto declino ma riesce a presentarsi come l’uomo dell’opposizione alla politica.

Peggio va, meglio è per lui, un sistema perfetto – per ora.

In tutto questo ha un ruolo estremamente pesante il mondo dell’informazione.

Appariva in prima pagina e all’inizio dei telegiornali la conferenza stampa in cui Berlusconi ha dichiarato, cimice in mano, di essere stato spiato – il delitto politico più grave dopo il Watergate.

Ma la notizia che era tutta una bufala è stata riportata come una notizietta.

Ho suggerito un piccolo esame alla mia collega americana che chiedeva perché il caso Mills non avrebbe inciso nel dibattito italiano: vediamo se il Tg1 o il Tg2 riportano o citano la lettera di David Mills, la pistola fumante del processo.

Qualsiasi resoconto del processo avrebbe l’obbligo di spiegare su quale base un tribunale della Repubblica ha condannato qualcuno di un reato molto grave.

Se c’ è un’informazione libera in Italia i tg menzioneranno almeno l’esistenza della lettera.

Ma i due grandi Tg della Rai hanno sepolto la notizia con dei brevi servizi in mezzo al programma e nessuno ha spiegato sulla base di quali prove è stato condannato l’avvocato Mediaset.

Ho saputo che il servizio ha rischiato addirittura di non esserci.

La sede di Milano della Rai non ha neppure mandato una troupe al tribunale per fare un servizio.

Hanno spiegato i dirigenti che senza Berlusconi come imputato non aveva nessuna importanza nazionale, aggiungendo figuriamoci dopo i risultati in Sardegna.

Solo dopo la protesta dei giornalisti e il loro sindacato – e per evitare uno scandalo – si è fatto qualcosa, ma a quell’ora la Rai ha dovuto comprare il filmato da una troupe privata.

Ormai i giornalisti dei tg sono talmente condizionati che diventa prassi normale tacere su notizie imbarazzanti o sgradevoli.

Berlusconi ha detto un giorno a Marcello Dell’Utri: “Non capisci che se qualcosa non passa in televisione non esiste? E questo vale per i prodotti, i politici e le idee”.

E’ anche per questo che in Italia il caso Mills non esiste o quasi.