martedì 10 febbraio 2009

“La questione immorale”, il nuovo libro di Bruno Tinti

E’ in libreria da pochi giorni il nuovo libro di Bruno Tinti: La questione immorale. Perché la politica vuole controllare la magistratura.

Questo il link alla pagina del sito di Chiarelettere, dove si possono leggere, fra l’altro, il sommario del libro e una rassegna stampa.

Riportiamo qui da L’Espresso del 12 febbraio 2009 una intervista a Bruno.

Bruno ha anche un blog tutto suo – “Toghe rotte” – del quale c’è un banner in fondo alla sidebar di destra di “Uguale per Tutti”.



NESSUNO TOCCHI LA CASTA

La classe politica usa la riforma per garantirsi l’impunità. A partire dalle nuove regole per le intercettazioni. Il libro-accusa di un alto magistrato


colloquio con Bruno Tinti di Gianluca Di Feo

La riforma della giustizia? E’ diventata una paradossale lotta di classe. Perché gran parte della classe politica si batte da almeno 15 anni per paralizzare procure e tribunali.

Ma è soprattutto una «questione immorale», che ha perso qualunque decenza.

Bruno Tinti, fino a tre mesi fa procuratore aggiunto di Torino, ama definirsi «un cantastorie, che scrive e racconta quello che ha imparato»: con un linguaggio semplice e diretto spara a zero sui programmi del governo.

Tinti non è una toga rossa: piuttosto e una “toga rotta”, per parafrasare il titolo della sua fortunata opera prima, che non risparmia critiche nemmeno ai magistrati.

E il suo nuovo libro, La questione immorale, è destinato a irrompere nel dibattito sulla riforma della giustizia, demolendo uno a uno gli argomenti del ministro Angelino Alfano.

«E’ dai tempi di Mani pulite che la classe politica, senza distinzioni di partito, lavora per lo stesso obiettivo: conquistare l’impunità. In questi giorni ho ripensato a quando andavo in carcere per interrogare un bandito che voleva collaborare, un rapinatore o un ladro che aveva deciso di fare i nomi dei complici. Assistevo sempre alla stessa scena: mentre il pentito veniva accompagnato al colloquio, tutti i detenuti, non solo quelli che lui avrebbe accusato, lo riempivano di insulti e di minacce. L’omertà era un bene che andava difeso da tutti i delinquenti che avevano un interesse comune: l’‘infame’ va bloccato perché sennò il sistema salta. Ecco, gran parte della politica adotta la stessa logica: non ha importanza quali sono i guai occasionali di questo o quel politico, c’è un interesse comune: l’impunità. Le intercettazioni, ad esempio, non si devono fare perché oggi può toccare a me, domani a te».

Ogni riforma creata per aumentare lo scudo a protezione dei potenti non incide solo sui loro processi: aumenta l’inefficienza dell’intero sistema, fa lievitare la montagna di fascicoli arretrati e reati dimenticati.

A leggere il libro nasce un sospetto: questa paralisi è un danno collaterale o c’è la volontà di creare un’impunità di massa?

«E’ un effetto sicuramente voluto nella parte in cui fa riferimento a singoli interventi. La riforma dell’interesse privato in atti d’ufficio e dell’abuso d’ufficio ha reso praticamente impossibile punire i reati commessi dagli amministratori pubblici. La riforma delle intercettazioni renderà impossibile farle. In questi casi la volontà politica è evidente: il malaffare non deve essere scoperto. E, se proprio viene scoperto, non deve essere conosciuto dai cittadini. Insomma, l’inefficienza è cercata, perseguita e voluta. Ci sono poi altre situazioni in cui l’estensione dell’impunità è un effetto secondario. Come la riforma del falso in bilancio: ciò che interessava era fermare un singolo processo, poi la legge è rimasta lì e ora non c’è modo di punire condotte terribili per l’economia del paese».

Di controriforma in controriforma, il rischio è quello di svuotare la Costituzione.

Ma nell’elenco delle demolizioni in corso da parte del governo, c’è un progetto che lei considera più pericoloso per la democrazia?

«Metterei sullo stesso piano la riforma delle intercettazioni e l’inasprimento delle pene per i giornalisti e gli editori: il pericolo più grande per la democrazia è il bavaglio all’informazione. In realtà, con le ultime novità, non ci sarà bisogno di imbavagliare l’informazione: semplicemente non si faranno più intercettazioni e alla fine non si faranno nemmeno i processi».

E le riforme possibili? Ci sarà qualcosa che si può fare per rendere più rapidi i processi?

«Sono riforme solo teoricamente possibili. Perché la politica non vuole che la giustizia funzioni».

Ma mettiamo che all’improvviso l’Italia fosse obbligata ad adottare alcuni interventi, quali indicherebbe?

Tinti mette al primo posto la razionalizzazione delle circoscrizioni: in pratica, eliminare i tribunali troppo piccoli e frazionare quelli troppo grandi. Seguita subito dalla riforma delle notifiche. Oggi gli imputati devono essere avvertiti di ogni fase del processo; se non lo sono, tutto nullo. Fino al 2005 se ne potevano occupare anche le forze dell’ordine, poi questo è stato vietato e il compito è stato riservato alle poste o agli ufficiali giudiziari. Risultato: il numero di udienze andate all’aria è moltiplicato.

«Ma non è solo questo il problema: la vera riforma è concettuale. Un cittadino sottoposto ad indagine deve essere subito avvertito: “Guarda che ti facciamo un processo”, poi l’onere di informarsi di quello che accade dovrebbe essere suo. Non è possibile che lo Stato debba andarlo a cercare dappertutto. Occorre una inversione logica: una volta che l’imputato abbia nominato il suo difensore o ne abbia ricevuto uno d’ufficio, le notifiche dovrebbero essere fatte solo all’avvocato. E se il cliente si rende irreperibile peggio per lui. Ma questa riforma non si farà mai: le si oppongono sia l’ideologia delle garanzie, vere o finte che siano; sia l’interesse degli avvocati. Per gli avvocati le notifiche sono una manna: i processi si fanno saltare con le nullità delle notifiche; e così passa il tempo e si raggiunge la prescrizione».

E i magistrati? Il libro non li risparmia.

«Certo, la magistratura ha molte responsabilità. Ma non c’è la volontà di opporsi alle riforme che farebbero funzionare il processo. La mia critica verso i magistrati riguarda le logiche con cui vengono gestite le nomine dei capi degli uffici. O la strumentalizzazione dei rapporti di potere interni che viene fatta da alcuni per garantirsi carriere parallele: i posti di prestigio accanto a ministri e deputati; l’elezione a parlamentare, il “fuori ruolo” che da venti anni non fa il giudice ma sta in mezzo alla gente che conta. Logiche non trasparenti, talvolta inaccettabili e spesso anche immorali, con cui viene gestita la carriera dei magistrati».

Il volume ha una conclusione cupa. Tinti ammette di non essere riuscito a far nulla per migliorare la giustizia.

«Dal punto di vista concreto hanno vinto loro. E’ illusorio sperare che una classe politica in gran parte fondata sul malaffare ponga mano a una riforma concreta. A loro interessa solo quello che porta acqua al mulino dell’impunità. Ma sono anche ottimista. Perché c’è sempre più gente che comincia a spiegare all’esterno: “Guardate che vi stanno mentendo”. E c’è sempre più gente che sta rendendosi conto ...».

Piercamillo Davigo parla spesso della teoria del pendolo: ci sono momenti storici in cui fattori esterni, come la crisi economica o la congiuntura internazionale, determinano una richiesta di giustizia che non può più essere negata. A quel punto si torna a dare incisività all’azione penale.

«Ma questo significherebbe che il Paese è arrivato alla bancarotta. Però è vero, forse quando avremo toccato il fondo ci sarà un ricambio».

E infatti Tinti conclude ricordando il crollo dei Muro di Berlino: «Nessuno sa bene perché è crollato; però è successo e tutti cantavano ed erano felici. Un giorno anche la giustizia italiana cambierà; come è successo per il muro».



1 commenti:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

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