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martedì 31 marzo 2009

La crisi della democrazia rappresentativa e l’evoluzione del ruolo dei laici nella Chiesa e nel mondo


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Pubblichiamo il testo di un discorso tenuto da padre Bartolomeo Sorge S.J. nell’auditorium San Paolo della Diocesi di Reggio Calabria il 22 maggio 2008, in occasione del trentesimo anniversario della morte di padre Guido Reghellin S.J.. Ci sembra che l’analisi e le indicazioni di padre Sorge possano costituire spunto di riflessione per tutti noi che, credenti e non, ci interroghiamo sul “che fare”, su come corrispondere con il nostro impegno alla responsabilità alla quale questo tempo ci chiama. Un grazie affettuoso a padre Giovanni Ladiana S.J., amico fraterno, che ci ha aiutato a ritrovare questo prezioso testo.
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L’evoluzione del ruolo dei laici
nella chiesa e nel mondo



di padre Bartolomeo Sorge S.J.


Sono contento di associarmi con voi al ricordo dell’indimenticabile padre Guido Reghellin. Continuare sulla strada da lui tracciata della formazione di un laicato maturo: uomini e donne di sintesi tra spiritualità e professionalità.

In una crisi epocale difficile, tocca soprattutto ai laici cristiani portare avanti un discorso nuovo, segno di speranza, capace di risvegliare gli animi di tutti gli uomini di buona volontà, senza rassegnarsi.

Occorre, perciò, comprendere anzitutto la situazione presente, per poterla cambiare.

Oggi la questione cattolica si identifica con la questione democratica.

La crisi è grave. Il fossato tra società civile e istituzioni democratiche si è allargato smisuratamente.

Dilaga l’“antipolitica” e la classe politica ormai è indicata con il nome dispregiativo di “casta”.

È entrata in crisi la “democrazia rappresentativa”, quella che ci siamo dati dopo la seconda guerra mondiale e che ha consentito al nostro Paese di diventare una delle prime nazioni del mondo.

Che fare per uscire dalle presenti difficoltà? È possibile costruire in Italia una “democrazia partecipativa” matura?

È questa la domanda, alla quale cercheremo di dare una risposta, compiendo tre passi:

1) anzitutto occorre rendersi conto della natura e delle dimensioni della grave crisi nella quale ci dibattiamo;

2) in secondo luogo, vedremo qual è il ruolo dei cristiani nella società oggi;

3) infine, specularmente, qual è il ruolo dei fedeli laici nella Chiesa di oggi, alla luce del Concilio Vaticano II.


1. Natura e dimensioni della crisi presente

Occorre dire subito che quella della democrazia rappresentativa è un aspetto della più ampia crisi di cultura e di civiltà che caratterizza questa lunga transizione dall’epoca moderna all’epoca post-moderna.

Applicando gli strumenti concettuali forniti dall’antropologia culturale, dobbiamo dire che stiamo vivendo una crisi non meramente congiunturale, ma di natura strutturale.

La crisi congiunturale è data dal cambiamento degli equilibri interni della società, ma senza variazioni apprezzabili del quadro generale della cultura e dei valori, sui quali si fondano le istituzioni che sostengono una determinata civiltà.

Finché reggono la cultura e i suoi valori, reggono le istituzioni che su quella cultura si fondano (la famiglia, la scuola, il lavoro, il sistema politico …): ovviamente, gli equilibri si rinnovano a ogni mutare di generazione, ma rimangono all’interno del medesimo quadro di valori, della medesima civiltà, che può durare a lungo.

Si tratta di crisi di natura “congiunturale”.


Quando invece si trasformano la cultura e i valori su cui si regge l’equilibrio istituzionale, allora la crisi diviene “strutturale”, le istituzioni non reggono più ma vanno riformate e ripensate. Finisce una civiltà e ne inizia un’altra.

La crisi strutturale è fondamentalmente una crisi di senso della vita.

La crisi oggi è appunto di natura strutturale: finisce la civiltà industriale, durata più o meno trecento anni, e nasce la civiltà post-moderna o tecnologica; è entrata in crisi la cultura precedente con i suoi valori.

Finisce un’epoca e se ne apre una nuova.

La crisi presente delle istituzioni (familiari, lavorative, scolastiche, di partecipazione politica come i partiti …) è strutturale, non solo congiunturale, perché è in crisi il senso stesso della vita.

Lo sottolinea Benedetto XVI: «A motivo dell’influsso di fattori di ordine culturale e ideologico, la società civile e secolare oggi si trova in una situazione di smarrimento e di confusione: si è perduta l’evidenza originaria dei fondamenti dell’essere umano e del suo agire etico e la dottrina della legge morale naturale si scontra con altre concezioni che ne sono la diretta negazione. Tutto ciò ha enormi e gravi conseguenze nell’ordine civile e sociale» (1).

Per queste ragioni di fondo è entrata in crisi la “democrazia rappresentativa”, che ci eravamo dati dopo la caduta del fascismo e che tanti buoni frutti ha prodotto.

In certa misura, essa è una “crisi di crescita”, non priva però di aspetti assai negativi.

Oggi i cittadini non si fidano più dei partiti e delle istituzioni democratiche; dubitano che essi siano in grado di tutelare la sicurezza dei cittadini, di garantire il benessere a tutte le fasce sociali, di liberare i territori del Paese dominati dalle mafie, di assicurare la rapidità della giustizia e la certezza della pena, di offrire servizi sociali che funzionino, di elaborare norme fiscali eque.

In una parola, la cosiddetta “Repubblica dei partiti” è finita, non solo perché decapitata da Tangentopoli, ma anche perché, a causa del profondo cambiamento culturale seguìto alla fine delle ideologie, la vecchia forma-partito ideologica non consente più una vera partecipazione dei cittadini alla elaborazione della politica nazionale (Cost., art. 49).

Non basta più andare a votare una volta ogni cinque anni!

La vita democratica è stata ridotta a ingegneria amministrativa e a ricerca del potere fine a se stesso; i vecchi partiti hanno finito con disattendere il bisogno di relazioni umane, interpersonali e sociali, che è maturato nei cittadini.

Oggi la società civile è cresciuta, non accetta più che il bene dei cittadini meno favoriti o emarginati dipenda dalla benevolenza dello Stato che interviene a ridistribuire la ricchezza prodotta (Stato sociale); chiede che i cittadini partecipino responsabilmente alla vita politica e siano inclusi attivamente nei processi di produzione e di ridistribuzione della ricchezza.

È impressionante come una Nota pastorale della CEI del 1991 vedeva già venire la crisi di oggi: «non fa meraviglia che la stessa determinazione delle regole generali di convivenza risulti in qualche modo inquinata. Le leggi, che dovrebbero nascere come espressione di giustizia, e dunque di difesa e di promozione dei diritti della persona, e da una superiore sintesi degli interessi comuni, sono spesso il frutto di una contrattazione con quelle parti sociali più forti che hanno il potere di sedersi, palesemente o meno, al tavolo delle trattative, dove esercitano anche il potere di veto. Tutto ciò ha portato ad elevare al massimo il potere ricattatorio di hi ha una particolare forza di contrattazione, ad aumentare il numero delle leggi “particolaristiche” (cioè in favore di qualcuno) e a ridurre invece drasticamente le leggi “generali”, vanificando così le istanze di chi non ha voce né forza. Per le stesse ragioni il parlamento corre il rischio di essere ridotto a strumento di semplice ratifica di intese realizzate al suo esterno, con il conseguente impoverimento della funzione delle assemblee legislative. Anche all’interno dei partiti il gruppo di vertice può giungere a imporre le sue scelte sulla base di contrattazioni fatte all’esterno dei partiti stessi. Per questa via le leggi corrono il rischio di farsi sempre meno strumento di meditata e condivisa regolamentazione dei problemi che vanno emergendo nella società e sempre più ratifica dell’esistente, cioè delle conquiste che, in assenza di una regolamentazione giusta ed efficace, il potente di turno ha realizzato. […] Anche la classe politica, con il suo frequente ricorso alle amnistie e ai condoni, a scadenze quasi fisse, annulla reati e sanzioni e favorisce nei cittadini l’opinione che si può disobbedire alle leggi dello Stato. Chi si è invece comportato in maniera onesta può sentirsi giudicato poco accorto per non aver fatto il proprio comodo come gli altri, che vedono impunita o persino premiata la loro trasgressione della legge. Tutto ciò può innestare una generale e pericolosa convinzione che la furbizia viene sempre premiata, che il “fai da te” contro le regole generali dello Stato può essere considerato pienamente legittimo» (2).

Che fare per passare alla “democrazia deliberativa” o partecipativa?

Occorre impedire che la politica resti in mano alla “casta”, cioè a rappresentanti eletti dal popolo ma succubi dei poteri forti o di gruppi d’interesse, senza più riferimento alla volontà degli elettori e a spese del bene comune: «è indispensabile che la comunità civile si riappropri quella funzione politica, che troppo spesso ha delegato esclusivamente ai “professionisti” di questo impegno nella società. Non si tratta di superare l’istituzione “partito”, che rimane essenziale nell’organizzazione dello Stato democratico, ma di riconoscere che si fa politica non solo nei partiti, ma anche al di fuori di essi, contribuendo a uno sviluppo globale della democrazia con l’assunzione di responsabilità di controllo e di stimolo, di proposta e di attuazione di una reale e non solo conclamata partecipazione» (3).

Tuttavia, bisogna stare attenti che il discorso sulla “democrazia deliberativa” non si riduca, a sua volta, al solo aspetto pragmatico e funzionale, cioè alla necessità di escogitare nuove tecniche di dialogo e di “inclusione” dei cittadini nelle decisioni, ma trascurando la parte fondativa o dei valori su cui la nuova forma di democrazia deve poggiare per essere solida.

Per “ricostituzionalizzare” lo Stato, per passare a una “democrazia deliberativa” effettivamente partecipata, c’è bisogno soprattutto di una nuova cultura della partecipazione, rafforzando i pilastri corrosi della “democrazia rappresentativa”.

Quali sono gli elementi fondamentali di questa cultura?


2. Ruolo dei fedeli laici nella società

Si tratta di superare la visione antropologica neoliberista, utilitaristica e individualistica, che sta all’origine del relativismo etico e ha messo in crisi la “democrazia rappresentativa” (4).

Infatti, il “pensiero unico” neoliberista dominante ha corroso i pilastri fondamentali della democrazia rappresentativa: la persona (riducendola a “individuo”), la solidarietà (riducendola a “legalismo formale”), la razionalità (riducendola a “laicismo”).

Perciò, lo sforzo che oggi dobbiamo fare è quello di porre a fondamento della nuova “democrazia deliberativa” o partecipativa una nuova cultura politica, passando: a) dall’“individuo” alla persona integrale; b) dal “legalismo formale” a una vera solidarietà fraterna; c) dal “laicismo” a una laicità positiva.

A) Dall’individuo alla persona.

Il neoliberismo si fonda su una visione “debole” della persona umana intesa come individuo; una simile concezione intacca anzitutto il concetto stesso di “persona”, giungendo a negare che ogni individuo sia persona, come nel caso di chi non fosse capace di relazioni normali a motivo di malformazioni genetiche.

In realtà l’uomo vale per quello che è, e non solo per quello che ha o per quello che fa.

L’uomo merita amore e rispetto perché vive, non perché possiede.

La sua dignità è legata proprio al fatto che è persona.

Perciò, finché vive, ogni uomo conserverà sempre la sua onorabilità; anche se è povero o infermo, anche se sbaglia o è delinquente.

La persona umana non perde mai la sua grandezza nativa e nessuno gliela può togliere.

L’uomo rimane sempre il principio e il fine della convivenza civile.

E’questa la ragione per cui – come rileva il Concilio Vaticano II –, almeno in via di principio, «credenti e non credenti sono pressoché concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo, come a suo centro e vertice» (5).

La difficoltà nasce invece, quando si tratta di chiarire l’origine e il fondamento della dignità della persona.

Si danno tante spiegazioni. Tuttavia – come dimostra la storia – nessuna concezione puramente immanente dell’uomo riesce a fondarne in modo assoluto la dignità e l’esistenza di diritti inalienabili.

Ogni volta che si nega o si ignora l’origine trascendente della persona, si cade nel relativismo e l’uomo si distrugge.

La razza, la cultura, la salute, il potere, il successo, il danaro o qualsiasi altra realtà immanente, non potranno mai fondare il valore primario della persona.

Da qui viene il ruolo fondamentale dei cristiani nella crisi presente della società.

Infatti, la rivelazione cristiana viene in aiuto, svelando l’uomo all’uomo.

«La Sacra Scrittura, infatti, – aggiunge il Concilio – insegna che l’uomo è stato creato “a immagine di Dio”, capace di conoscere e di amare il proprio Creatore, e che fu costituito da Lui sopra tutte le creature terrene quale signore di esse, per governarle e servirsene a gloria di Dio» (6).

In altre parole, la persona umana possiede – a differenza di tutti gli altri esseri viventi – una dignità trascendente e diritti inalienabili, perché è creata «a immagine e somiglianza» di Dio (Gen 1, 26).

B) Dalla solidarietà alla fraternità.

Il secondo pilastro della democrazia rappresentativa, inteso in modo riduttivo dal neoliberismo, è il concetto di “solidarietà”.

Infatti, secondo la concezione individualistica della persona, ognuno è libero di scegliere e di fare ciò che vuole: l’unico limite è il rispetto della libertà altrui, e l’unico principio di autorità e verità è la volontà della maggioranza.

Non esistono una presunta verità e una norma etica trascendenti, che possano impedire la libera autodeterminazione dell’individuo.

Tuttavia, la storia stessa dimostra che una libertà senza limiti e senza alcuna norma morale porta alla autodistruzione della stessa libertà e della solidarietà.

I valori non dipendono dalla volontà libera degli uomini, né da maggioranze provvisorie e mutevoli; non li crea, né li decide lo Stato.

Essi vengono prima della libera organizzazione della società; sono inscritti nella coscienza di ogni uomo e, in quanto tali, sono punto di riferimento normativo per la stessa legge civile.

Compito dello Stato è tutelarli e coordinarli in vista del bene comune, ponendoli a fondamento dell’ordinamento democratico.

Perciò, anche Giovanni Paolo II ribadiva: «Se non esiste nessuna verità ultima, la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia» (7).

Il sistema democratico è solo uno strumento e, come tale, riceve la sua moralità dal fine cui serve.

La concezione illuministica di libertà altera, perciò, il modo di intendere la legalità cioè il concetto di solidarietà, i rapporti dei cittadini tra di loro e con lo Stato.

La legalità non può consistere nella mera osservanza formale delle regole in senso individualistico, ma è intrinsecamente sociale (vedi l’esempio del semaforo rosso).

Infatti la società è una comunità di persone in relazione tra loro, non è un gregge di individui anonimi uno accanto all’altro, ciascuno dei quali pensa solo a se stesso: non c’è libertà personale senza responsabilità sociale.

Il bene comune non è la somma totale dei beni individuali, ma è il bene di tutti e di ciascuno.

«Dall’indole sociale dell’uomo – ribadisce il Concilio – appare evidente come il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa società siano tra loro interdipendenti. Infatti, principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana, come quella che di sua natura ha sommamente bisogno di socialità. Poiché la vita sociale non è qualcosa di esterno all’uomo, l’uomo cresce in tutte le sue doti e può rispondere alla sua vocazione attraverso i rapporti con gli altri, i mutui doveri, il colloquio con i fratelli» (8).

Ancora una volta, il ruolo dei cristiani è determinante. La rivelazione cristiana, ancora una volta, viene in aiuto.

La solidarietà ci vuole, ma la pura legalità da sola non basta: «In nome di una presunta giustizia (ad esempio, storica o di classe), talvolta si annienta il prossimo, lo si uccide, si priva della libertà, si spoglia degli elementari diritti umani. L’esperienza del passato dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all’annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda che è l’amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni» (9).

C) Dal laicismo a una “laicità positiva”.

Infine, pure il terzo pilastro della democrazia rappresentativa – la razionalità, divenuta “laicismo” – oggi è in discussione.

Da un lato, la storia ha camminato, ma ha camminato pure la Chiesa: la dimostrazione storica dell’importanza decisiva della coscienza religiosa nella lotta contro le ingiustizie e per la pace è andata di pari passo con l’abbandono da parte della Chiesa dei vecchi schemi apologetici e il riconoscimento che la democrazia laica è il migliore sistema di governo.

Ciò ha condotto al superamento, anche da parte dello Stato laico, delle antiche diffidenze e al riconoscimento della importanza sociale della religione.

Chi può ancora sostenere che la fede è un fatto puramente privato e senza alcuna ricaduta sociale, di fronte alla parte avuta dalla coscienza religiosa nella caduta del muro di Berlino, nel riscatto di tanti popoli latino-americani, nella lotta alla mafia?

D’altro canto, anche la Chiesa ha camminato.

Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto la laicità come valore.

Infatti – spiega la costituzione Gaudium et spes – le realtà temporali hanno un loro valore intrinseco, hanno finalità, leggi e strumenti propri, che non dipendono dalla rivelazione soprannaturale: «E’ in virtù della creazione stessa che le cose tutte ricevono la propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine. L’uomo è tenuto a rispettare tutto ciò, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola arte o scienza» (10).

Per la Chiesa, quindi, la laicità non è un accidente storico, ma ha addirittura un fondamento teologico.

La conclusione è che ragione e religione non sono alternative, ma complementari.

Questo ripensamento della nozione di laicità, imposto dalla evoluzione dei tempi e delle idee, è confermato da due casi emblematici: l’Accordo di revisione del Concordato lateranense tra la Santa Sede e la Repubblica italiana (18 febbraio 1984) e il Trattato costituzionale europeo (firmato a Roma il 29 ottobre 2004, ora sostituito dal Trattato di riforma dell’Unione, firmato a Lisbona nel dicembre 2007) (11).

La religione, dunque, non è più considerata un fenomeno privato, e lo Stato laico non può più ignorarla.

Nella società pluriculturale e plurietnica, il problema di trovare una via all’incontro nel rispetto delle diversità è divenuto improrogabile e urgente.

Solo una laicità positiva consente l’incontro fra tradizioni diverse, nel rispetto della identità di ciascuna.

La nuova laicità, intesa non più come opposizione tra separati, ma come collaborazione tra diversi, comporta che, senza rinunciare alla propria identità, si cerchino insieme piste concrete per realizzare il maggior bene comune possibile in una data situazione, consapevoli delle necessarie mediazioni da compiere.

Ciò può fare problema soprattutto ai cattolici, chiamati a ispirare le scelte politiche a esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili.

Tuttavia, è la natura stessa dell’arte politica a non consentire che quelle esigenze assolute si traducano immediatamente in leggi, ma a imporre la necessaria gradualità richiesta dalle situazioni concrete.

Lo rileva il Compendio della dottrina sociale della Chiesa: «Il fedele laico è chiamato a individuare, nelle concrete situazioni politiche, i passi realisticamente possibili per dare attuazione ai principi e ai valori morali propri della vita sociale. […] la fede non ha mai preteso di imbrigliare in un rigido schema i contenuti socio-politici, consapevole che la dimensione storica in cui l’uomo vive impone di verificare la presenza di situazioni non perfette e spesso rapidamente mutevoli» (12).

Pertanto, la collaborazione politica dei cattolici con partner di diverso orientamento culturale va impostata laicamente e nel rispetto delle regole democratiche, senza con ciò compromettere la propria identità e la coerenza con i valori ispiratori.

Questo incontro sul piano della laicità è il passaggio forzato alla democrazia deliberativa.

Nello stesso tempo, i cristiani, mentre si impegnano in politica a rispettare pienamente la laicità e le regole democratiche, ricercando il maggior bene concretamente possibile in dialogo con gli uomini di buona volontà, non rinunceranno mai a testimoniare la forza profetica e critica del Vangelo.

Tocca alla Chiesa intera di annunziare profeticamente, con la Parola e con la vita, che «il potere di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo».

Ora, questo passaggio dalla democrazia rappresentativa alla “democrazia deliberativa” non è scontato: siamo tutti impreparati.

Ecco perché è essenziale il discorso sulla educazione politica.

Tanto più oggi che la “questione sociale” è divenuta “questione antropologica”, i cui problemi gravissimi – quelli cosiddetti “eticamente sensibili”, insieme a quelli della pace, della salvaguardia del creato, della convivenza multietnica e multiculturale – esigono l’incontro e la collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, quale che sia la loro razza, la loro cultura, la loro religione.

Si tratta di realizzare un “neo-personalismo solidale e laico”, che consenta di “andare oltre” le contrapposizioni, per fare unità nella diversità, mantenendo ciascuno le proprie radici e la propria storia, ma superandosi in una visione superiore comune.

Si tratta di passare dalla persona intesa come individuo alla persona intesa in senso integrale, dalla solidarietà ridotta a mera realtà relazionale alla fraternità e dal laicismo inteso come separazione e contrapposizione alla laicità intesa come distinzione nella cooperazione per il bene comune.

In una parola: dalla democrazia rappresentativa alla democrazia deliberativa.

Tuttavia, non basta ripensare i pilastri teorici della “democrazia rappresentativa”, oggi corrosi; ma, nello stesso tempo, bisogna avere il coraggio di misurarsi con i problemi concreti, realizzando le necessarie riforme che consentano la partecipazione soggettiva dei cittadini, affinché essi si sentano coinvolti in prima persona nelle decisioni che contano e non siano solo consultati.

Ma, per questo, occorre formarsi.


3. Il ruolo dei fedeli laici nella Chiesa

Alla nostra generazione spetta il grave compito del discernimento.

I modelli di ieri non servono più, quelli di domani non ci sono ancora.

Occorre “inventare” strade nuove di partecipazione.

E’ una vera fatica – anche pericolosa, perché si può sbagliare –, ma è esaltante.

Il guaio è che questa crisi epocale di civiltà ci ha presi alla sprovvista, non l’abbiamo vista venire.

Ci siamo trovati tutti impreparati ad affrontarla.

Di qui la priorità assoluta della educazione e della formazione, tanto più necessaria in quanto i cattolici oggi sono divisi non sulla necessità di rendere al Paese un servizio culturale, ma sul modo di prestarlo.

Come si devono porre la Chiesa e i cattolici italiani di fronte ai gravi interrogativi che la presente situazione comporta?

La Chiesa non può disinteressarsene – ribadisce il Papa –: «non può esimersi dall’interessarsi del bene dell’intera comunità civile, in cui vive e opera, e ad essa offre il suo peculiare contributo formando nelle classi politiche e imprenditoriali un genuino spirito di verità e di onestà, volto alla ricerca del bene comune e non del profitto personale» (13).

Perciò, Benedetto XVI ha ribadito alla 45ma Settimana Sociale quanto aveva già detto nell’enciclica Deus caritas est: «il compito della Chiesa è mediato, in quanto le spetta di contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali»; nello stesso tempo, però, accanto al contributo “mediato”, specifico della Gerarchia, è compito dei fedeli laici operare “immediatamente” per un giusto ordine nella società; pertanto, «come cittadini dello Stato tocca ad essi partecipare in prima persona alla vita pubblica e, nel rispetto delle legittime autonomie, cooperare a configurare rettamente la vita sociale, insieme con tutti gli altri cittadini, secondo le competenze di ognuno e sotto la propria autonoma responsabilità» (14).

In una parola: è l’ora dei laici.

È loro missione, mediare in termini culturali, politici, economici e sociali la luce che il Vangelo e l’insegnamento della Chiesa gettano sull’antropologia.


Infatti, alcuni si ispirano al metodo deduttivo: ritengono che si debba partire dalla riaffer-mazione dei valori e dei principi “non negoziabili” per dialogare «senza complessi di inferiorità con le dinamiche culturali del nostro tempo» (così, per esempio, si leggeva nel Documento preparatorio alla 45ma Settimana sociale), proponendosi in forma neppure tanto velata di ristabilire in Italia una forma di leadership culturale cattolica, dopo la fine di quella politica.

Altri invece, senza nulla togliere alla importanza della testimonianza e dell’annunzio coraggioso dei valori del Regno di Dio, ritengono che sul piano operativo si debba seguire il metodo induttivo: partire piuttosto dalla condivisione disinteressata dei problemi materiali, morali e culturali della gente, per proseguire insieme gradualmente verso la verità tutta intera, confidando nell’aiuto dello Spirito Santo che apre gli occhi della mente e del cuore.

È questo il metodo di Giovanni XXIII (Vedere, giudicare, agire), fatto proprio dal Concilio (Gaudium et spes), codificato da Paolo VI nella lettera apostolica Octogesima adveniens, n. 4.

È importante chiarire questo rapporto tra dialogo e testimonianza della carità.

Non è solo questione di metodo, se è vero – come scrive Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est – che la carità (quindi, anche la carità culturale) «non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi. […] Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai d’imporre agli altri la fede della Chiesa» (15).

In Italia, infatti, la questione è questa: in una situazione culturalmente e politicamente fram-mentata i cattolici sono in grado, sì o no, di aiutare il Paese a ritrovare la sua unità nel rispetto della pluralità?

Sono capaci, sì o no, di realizzare insieme con gli altri una mediazione culturale che recepisca quanto di valido vi è nelle differenti tradizioni, senza chiedere a nessuno di rinnegare le proprie radici e la propria storia, ma spingendo tutti a una partecipazione democratica, che vada oltre gli anacronistici steccati ideologici e culturali?

Certamente sì.

Non solo i cattolici sono capaci di recare questo contributo, ma oggi è questo il loro preciso dovere.

A ciò li impegna il grande “sì” della fede, di cui parla spesso Benedetto XVI. Non è una categoria astratta («La fede senza le opere è morta», [Gc 2, 26]), ma si traduce necessariamente in testimonianza disinteressata della carità, anche della “carità culturale” e della “carità sociale e politica”: offerta non in modo strumentale, per imporre agli altri una propria visione confessionale, ma con disinteresse in vista alla formazione di un ethos civile e laico condiviso, intorno al quale realizzare l’unità nella pluralità, necessaria a garantire il bene comune.

Detto in altre parole: non basta enunciare i valori assoluti e i principi “non negoziabili” (i quali devono essere certamente annunziati e testimoniati), se nello stesso tempo non ci si impegna a ricercare insieme il bene comune possibile, il quale passa inevitabilmente attraverso le regole democratiche del consenso e quelle psicologiche della gradualità.

Infatti – come ha spiegato bene il card. Martini nel discorso di sant’Ambrogio 1998 –, il bene comune non consiste in una definizione filosofica astratta, ma va perseguito concretamente commisurandolo alle reali situazioni storiche in cui si opera; ciò significa che il suo raggiun-gimento dovrà passare per il convincimento e la pazienza, per la progressiva e graduale af-fermazione dei valori, talvolta «perfino per dure rinunce nel nome di una superiore concordia civile e sempre in vista di un bene più alto» (16).

Principi e valori, cioè, sono sempre in sé “non negoziabili”, ma la loro traduzione storica è soggetta alle condizioni di tempo e di luogo, al consenso e alla crescita del costume e della vita politica.

«Pare invece – continua Martini – che, nell’accettare le leggi del consenso, il cristiano si senta in colpa, come se affidasse al consenso democratico la legittimazione etica dei propri valori. Non si tratta di affidare al criterio della maggioranza la verifica della verità di un valore, bensì di assumersi autonomamente una responsabilità nei confronti della crescita del costume civile di tutti, che è il compito vero dell’etica politica. Tale compito perciò sta a cuore alla Chiesa nel suo operare come seme e lievito all’interno della società» (17).

Pertanto, si applica anche all’esercizio della “carità culturale” ciò che Benedetto XVI dice più in generale nell’enciclica Deus caritas est: «Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr 1 Gv 4, 8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare» (18).

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In conclusione, oggi non è più tempo di pensare all’egemonia di una cultura politica (neppure di quella “cattolica”) imposta sulle altre, ma di realizzare la partecipazione di tutti alla vita democratica, che apra le diverse tradizioni culturali che hanno fatto l’Italia a una dimensione trascendente nuova, senza tagliarne le radici.

Ma per questo bisogna formarsi, educarsi alla politica.

Per tutti, si tratta di rinverdire e approfondire lo spirito e la lettera della nostra Costituzione repubblicana.

Sessant’anni fa i Padri costituenti riuscirono a superare le profonde divisioni ideologiche di allora in nome del bene comune del Paese, facendo sintesi tra l’attenzione alla dimensione etica e religiosa (propria del personalismo della tradizione cattolico-democratica), l’insistenza sulla solidarietà (propria della tradizione socialista) e la esigenza di laicità (propria della tradizione liberal-democratica).

Perché noi oggi non dovremmo riuscire ad approfondire insieme il significato di valori (libertà, uguaglianza, solidarietà, pace, dignità della persona) che permeano la nostra Costituzione e di cui oggi conosciamo meglio il significato dopo 60 anni di vita democratica?


Per i cattolici, in particolare, si tratta di formare numerosi politici nuovi, uomini e donne della sintesi tra spiritualità e professionalità, capaci di testimoniare e immettere lo specifico cristiano nella vita politica: «Chi ha responsabilità politiche e amministrative abbia sommamente a cuore alcune virtù, come il disinteresse personale, la lealtà nei rapporti umani, il rispetto della dignità degli altri, il senso della giustizia, il rifiuto della menzogna e della calunnia come strumento di lotta contro gli avversari, e magari anche contro si definisce impropriamente amico, la fortezza per non cedere al ricatto del potente, la carità per assumere come proprie le necessità del prossimo, con chiara predilezione per gli ultimi» (19).

Pertanto, i cattolici – quale che sia la loro scelta partitica – oggi sono chiamati a recare un contributo originale ed essenziale in direzione d’una nuova cultura della partecipazione, sia a livello di riflessione teorica, sia a livello operativo di testimonianza e di effettivo servizio politico e sociale.



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(1) Benedetto XVI, «Discorso ai membri della Commissione Teologica Internazionale» (5 ottobre 2007), in L’Osservatore Romano, 6 ottobre 2007, 5.

(2) Commissione ecclesiale giustizia e pace, Educare alla legalità (1991), n. 8s., §§ 544s., 550s. in Enchiridion CEI, 5, pp. 209ss.

(3) Ivi, n. 17, § 580, p. 224.

(4) Benedetto XVI, nell’enciclica Spe salvi (2007), analizza come si sia formata in Occidente questa cultura sull’onda del progresso scientifico e tecnico, stabilendo un rapporto ambiguo tra libertà e ragione (nn. 16-23); e conclude: «Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo» (n. 22).

(5) Concilio Vaticano II, costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 12.

(6) Ibidem

(7) Giovanni Paolo II, Evangelium vitae (1995), n. 70.

(8) Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 25

(9) Giovanni Paolo II, Dives in misericordia (1980), n. 12.

(10) Concilio Vaticano II, costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 36.

(11) L’art. 1 dell’Accordo di revisione recita: «La Repubblica italiana e la Santa Sede riaf-fermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese». A sua volta, l’art. I-52 del Trattato costituzionale europeo (ora divenuto art. 16C del Trattato di riforma, approvato a Lisbona nel 2007) riconosce lo status di cui le Chiese, associazioni o comunità religiose godono nel proprio Paese (§1); quindi, dopo aver ammesso esplicitamente il valore sociale della religione, dispone che si instaurino rapporti stabili di collaborazione tra le istituzioni dell’Unione e le Chiese, attraverso «un dialogo aperto, trasparente e regolare» (§3).

(12) Pontificio consiglio della giustizia e della pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 568.

(13) Benedetto XVI, «Messaggio al Presidente della CEI in occasione della 45a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani», in L’Osservatore Romano, 20 ottobre 2007, n. 6.

(14) Ivi.

(15) Benedetto XVI, enciclica Deus caritas est, n. 31c.

(16) Martini C. M., «Il seme, il lievito, il piccolo gregge», discorso di sant’Ambrogio 1998, in AS 2 (1999) 164.

(17) Ivi.

(18) Benedetto XVI, enciclica Deus caritas est, cit., ivi.

(19) Commissione ecclesiale giustizia e pace, Educare alla legalità, cit. n. 16, § 578, p. 223.



Il “metodo Genchi” e la riduzione al sintattico nella lotta al Principe







di “Menici60d15”




Non conosco a fondo il caso Genchi, ma vedo che lo difendono molte persone informate che stimo.
Ora, dopo 20 anni di attività, Genchi viene messo sotto accusa dalla magistratura e sospeso dal servizio per aver leso il prestigio delle istituzioni. Che la sua presenza sia “nociva per l’immagine della Polizia” è il contrario del vero: ricordandoci che esistono poliziotti che fanno il proprio dovere, Genchi preserva l’immagine positiva della istituzione polizia. Non condivido la fiducia espressa pubblicamente dal vicequestore Genchi nei confronti del Viminale e di viale Romania.

Vorrei riportare alcune considerazioni su aspetti collaterali della sua vicenda, per come viene presentata dalle prime pagine dei giornali. Sono aspetti che, al di là del caso, possono interessare coloro che vogliono contrastare democraticamente la criminalità di tipo mafioso e la connessa degenerazione dello Stato.

Il primo aspetto è la preparazione di Genchi come tecnico, e la sua scelta tecnicamente felice del settore di attività. Non dev’essere facile districarsi tra i tabulati telefonici, nel regno del combinatorio, dove basta permutare 10 fattori per ottenere 3.628.000 sequenze diverse; sospetto che le inverosimili notizie per le quali si fa credere che Genchi abbia messo sotto controllo quasi un quarto dell’intera popolazione italiana abbiano un’origine combinatoria.

Un altro aspetto che è stato sfruttato per farlo apparire come super-spione degli italiani è la natura altamente concentrata dell’informazione contenuta nelle utenze. Possiedo un cd, pieno per due terzi, che contiene 23 milioni di recapiti telefonici. L’ho pagato un euro: il “Giornale di Brescia” lo ha distribuito in allegato.

Genchi ha compiuto la scelta all’apparenza minimalista di trattare informazione di tipo sintattico. L’utenza A è in contatto con l’utenza B, al tempo x, e con l’utenza C, al tempo y. Un’informazione priva di contenuto semantico intrinseco: nonostante sia il testo col maggior numero di riferimenti a persone reali, solo i matti delle barzellette trovano interessante leggere come un libro l’elenco telefonico. Un’informazione che certo non elimina la necessità di interpretazione, ma la limita a dati di tipo semplice, ed oggettivi; e che si presta ad essere processata per estrarre nuova informazione e generare ipotesi da verificare con altri metodi. Perfino i familiari elenchi del telefono sono una miniera di informazione sintattica, dalla quale si possono estrarre informazioni nuove sulle relazioni tra le persone: importanti studi di genetica delle popolazioni sono stati condotti incrociando i cognomi degli elenchi telefonici.

In quest’era tecnologica le conoscenze tecniche possono essere un pericolo per il potere. Oggi con la tecnologia “si può ingannare tutta la gente per tutto il tempo” purché qualcuno non intervenga a svelare l’inganno con altri strumenti tecnici. Se Genchi non fosse così preparato, e non avesse scelto così bene il campo di cui occuparsi, forse ci sarebbero stati minori motivi per accanirsi contro di lui.

Il secondo aspetto è la doppia inaccettabilità per il potere, tecnica e culturale, dello strumento che Genchi ha usato. Il non avere mai fatto un’intercettazione, ascoltando colloqui cioè raccogliendo informazione semantica, ma essersi occupato solo di tracciare il traffico telefonico, è in un certo senso un’aggravante. Riducendo le relazioni tra soggetti potenti a grafi che possono essere studiati sistematicamente Genchi ha oltrepassato la linea del proibito.

Si può pensare che limitarsi al traffico telefonico sia poca cosa. Al contrario, Genchi ha coltivato nel campo delle investigazioni giudiziarie quello che la scienza, la scienza vera, persegue per ottenere i suoi successi: la riduzione al sintattico di un sistema complesso.

E’ quello che fanno nel marketing - un campo dove a differenza di altre discipline più nobili la ricerca è realmente rigorosa - i sistemi di “data mining”. O gli algoritmi coi quali analizzano automaticamente i dati i computer delle grandi strutture di spionaggio elettronico delle superpotenze, come quelle della NSA. Ma qui Genchi non andava a favore dei poteri forti.

L’informazione sintattica, il dato nudo, e per di più in Italia: dove per sviare dall’esaminare le cose nella loro essenzialità la Controriforma promosse il barocco e dove infatti “la linea più breve tra due punti è l’arabesco”. Dove la lotta alla mafia è come la tela di Penelope, Genchi ha allestito un telaio inverso, che produce il diagramma di trame e orditi.

Maestro di una tecnica e del relativo mestiere, Genchi è portatore involontario di un’eresia culturale. Andando verso il sintattico si va nella direzione opposta a quella intuitiva dell’oralità e dell’immagine alla quale ci hanno assuefatto i media. Un metodo alieno: obiettivo, razionale, maneggevole; inesorabile nella sua semplicità di principio.

Ottenere mappe di relazioni tramite il traffico telefonico. Quale reticolo di mafia, meridionale o del malaffare padano, potrebbe lavorare in pace se venisse oggettivato da questo genere di controlli? Contro le mafie meridionali gli strumenti di punta li abbiamo già: una produzione letteraria, oratoria e cinematografica da paura. Che fine farebbe l’invincibilità mitica della mafia, se anziché con l’epopea degli eroi e la facondia degli appelli antimafia la si combattesse coi tabulati sfornati dal PC, carta e matita?

Un metodo barbaro, inaccettabile per i nostri modi bizantini basati sul culto della parola, del soggettivo, delle infinite sfumature del linguaggio, dell’interpretazione arbitraria e contorta, dell’esegesi illimitata. Un metodo pratico e potente, che è la negazione del vorticoso immobilismo col quale si può lasciare invariato ciò che conta davvero.

Oltre al merito di ciò che ha scoperto, per esempio sull’eliminazione di Borsellino e la strage di Via D’Amelio, Genchi si è posto nella posizione di essere considerato una minaccia a causa dei metodi sintattici, tecnicamente troppo efficaci e quindi pericolosi, e culturalmente devianti rispetto al discorso consentito dal potere.

Col caso Genchi possiamo vedere gli auto-sabotaggi cui le istituzioni ricorrono per evitare di fare sul serio contro le mafie meridionali, e per consentire alle mafie padane autoctone di restare coperte. La repressione di tale metodo di ispirazione positivista rientra anche negli aspetti culturali della restaurazione reazionaria in corso.

Le conoscenze tecniche possono costituire una forma altamente efficace di opposizione e come tali vanno energicamente tenute sotto controllo; e se necessario schiacciate. Il caso Genchi ci mostra quella che dovrebbe essere una moderna via per l’opposizione al “Principe”: la via tecnologica, basata sull’informazione legalmente accessibile e sulla sua analisi. Purtroppo questa strada non viene ben percorsa, al punto da portare a volte a ripetere la domanda ormai banale “ma da che parte sta l’opposizione?”



I nuovo padri della patria


da Voglioscendere del 30 marzo 2009





Trascrizione:

“Buongiorno a tutti.
Non per guastare la festa a questa bella incoronazione imperiale del leader del popolo delle libertà che, come avete visto, a sorpresa è stato eletto primo, unico, ultimo imperatore del partito che aveva fondato sul predellino di una macchina e che quando l’aveva fondato Gianfranco Fini l’aveva subito fulminato dicendo: “siamo alla comica finale, noi non entreremo mai nel Popolo della Libertà e Berlusconi non tornerà mai più a Palazzo Chigi con i voti di Alleanza Nazionale”.

E quando qualcuno gli aveva chiesto “Possibilità che AN rientri all’ovile?”, risposta di Fini: “Noi non dobbiamo tornare all’ovile perché non siamo pecore”. Poi come avete visto sono tornati all’ovile quindi ne dobbiamo concludere che sono pecore o pecoroni.
Ecco, non è per guastare il clima idilliaco anche perché avete visto che sono talmente uniti che su 6000 delegati non se n’è trovato uno che votasse per un altro candidato; potevano pagarne uno almeno per votare per un altro candidato almeno facevano finta di averne due, invece no. E’ stata proprio una cosa unanime che ha molto commosso il Cavaliere che non se l’aspettava: avete visto l’emozione con cui ha scoperto di essere stato eletto leader in quei congressi che proprio all’ultimo momento ti riservano questo colpo di scena finale. Chi l’avrebbe mai detto.
Ma diciamo che questo stava nelle cose. La cosa interessante è che a poco a poco si cominciano, con quindici anni di ritardo, a vedere i nomi e i cognomi dei veri padri fondatori di quest’avventura che adesso si chiama Popolo della Libertà, che prima si chiamava Casa della Libertà , che prima ancora si chiamava Polo della Libertà e che in realtà ha un unico padrone che si chiama sempre Forza Italia.
Quante volte abbiamo sentito rievocare la storia di Forza Italia, le origini... adesso c’è anche quel libro scritto in caratteri gotici, molto grosso per i non vedenti, probabilmente è la versione braille quella che Berlusconi ha mostrato in televisione, che invece della fiaba di cappuccetto rosso, di Cenerentola racconta la fiaba di uno dei sette nani: l’ottavo nano, anzi, come l’avevano ribattezzato i fratelli Guzzanti e la Dandini.

Craxi, questo sconosciuto

L’ottavo nano che nel 1993 cominciò a macinare idee, progetti che poi si tradussero in Forza Italia.
All’inizio ci dicevano che fu lui ad avere questa intuizione meravigliosa, anzi quando qualcuno insinuava che ci potessero essere dei rapporti, dei suggerimenti di Bettino Craxi, di alcuni strani personaggi siciliani che poi vedremo, veniva tutto negato: “non sia mai, noi non c’entriamo niente”. Anzi Berlusconi Craxi faceva proprio finta di non conoscerlo. Per la precisione, il 21 febbraio del 1994, ad un mese ed una settimana delle prime elezioni che Berlusconi vinse, tre settimane dopo il famoso discorso televisivo a reti unificate spedito in videocassetta ai telegiornali, quello della discesa in campo, Berlusconi era a Mixer, ospite di Giovanni Minoli che, conoscendo anche lui molto bene Craxi gli chiese quale fosse il suo rapporto con Craxi.
All’epoca Craxi era un nome impronunciabile, era il numero uno dei tangentari, stava facendo di gran fretta le valige perché di li a poco con l’insediamento del nuovo Parlamento i vecchi parlamentari avrebbero perso ipso facto l’immunità e sarebbe finito dentro. Allora stava apprestandosi alla fuga, alla latitanza verso Hammamet. Era un nome pericoloso, e Berlusconi, fedele alle amicizie e fedele come sempre, rispose a Minoli: “è una falsità, una cosa senza senso dire che dietro il signor Berlusconi ci sia Craxi. Non devo nulla a Craxi e al cosiddetto CAF”.
Un anno dopo, lui aveva già fatto il suo primo governo, era già cascato, c’era il governo tecnico Dini, alla Repubblica gli chiesero notizie di Craxi perché era venuto fuori da un vecchio consulente di Publitalia che aveva partecipato alla progettazione, addirittura pare fin dall’estate del 1992, Ezio Cartotto, alla nascita di Forza Italia, aveva raccontato che in queste riunioni, in quella decisiva di aprile del 1993, mente lui era li ad Arcore con Berlusconi si aprì una porta ed entrò Craxi e diede alcune indicazioni. Per esempio che bisognava mettere insieme le truppe berlusconiane con i leghisti, ma Craxi disse “mai con i fascisti”. Craxi aveva tanti difetti ma essendo un socialista i fascisti non li voleva vedere mentre, come abbiamo visto, Berlusconi si è portato dentro i fascisti e anche qualche nazistello per non disperdere i voti.
In ogni caso i giornali pubblicarono le dichiarazioni di Cartotto, che chi di voi vuole vedere nel completo trova nel libro “L’odore dei soldi”, lì c’è proprio il racconto di questa riunione nella quale Craxi spalancò una porta.
Berlusconi replicò negando. Io mi ricordo che in una conferenza stampa in quei giorni a Torino, al Lingotto, io gli chiesi se era vero che Craxi avesse partecipato a queste riunioni e lui, invece di rispondermi, mi disse “si vergogni di farmi questa domanda”. Era una conferenza stampa: in un altro paese immagino che tutti i giornalisti avrebbero rifatto la stessa domanda fino a ottenere la risposta, invece i colleghi, che sono quelli che fanno parte del codazzo, che sono ormai quasi di famiglia per lui, mi guardarono come dire: “ce lo disturbi, così ci rimane male, ci rimane storto per tutta la giornata”. Io mi ritirai in buon ordine, non conoscendo queste usanze altamente democratiche.
Berlusconi disse di nuovo: “Forza Italia e Craxi sono politicamente lontani anni luce. Posso assicurare che politicamente non abbiamo a che fare con Craxi e siamo stati molto attenti anche alla formazione delle liste elettorali”. Come dire, quello è un pregiudicato e noi i pregiudicati non li vogliamo. Non vogliamo neanche gli indagati, infatti Forza Italia nel 1994 faceva firmare una dichiarazione ai suoi candidati nella quale dichiaravano non solo di avere condanne ma nemmeno di avere mai ricevuto un avviso di garanzia, che è addirittura eccessivo come dicevamo la settimana scorsa. Per essere indagati basta essere denunciati da qualcuno, che magari si inventa le accuse.
“Non rinnego l’amicizia con Craxi ma è assolutamente escluso che Forza Italia possa aver avuto o avere alcun rapporto con Craxi”. 2 ottobre 1995.
Craxi è rimasto latitante dal 1994 al 2000 ad Hammamet. Nel gennaio del 2000 è morto. Stefania Craxi ha aspettato per sei anni che l’amico Silvio, che doveva molto se non tutto a Craxi, andasse a trovare suo padre e Berlusconi non c’è mai andato, è andato a trovarlo da morto al funerale.
Infatti, parlando al Corriere della Sera nell’agosto del 2004, Stefania Craxi dichiarava: “A Berlusconi non perdono di non essere mai stato a trovare mio padre neppure una volta.”.
L’avete vista, l’altro giorno piangeva felice durante la standing ovation riservata a Craxi su invito di Berlusconi dall’assemblea dei congressisti; evidentemente si è dimenticata o forse ha perdonato, o forse il fatto che l’abbiano portata in Parlamento l’ha aiutata a perdonare.
Sta di fatto che Craxi era un appestato, non si poteva dire che Craxi era uno dei padri fondatori di Forza Italia e poi dei suggeritori, visto che da Hammamet non faceva mai mancare i suoi amorevoli consigli, come emerse dalle famose intercettazioni depositate nel processo sulle tangenti della metropolitana di Milano, quelle che il giovane PM Paolo Ielo tirò fuori in aula per dimostrare la personalità criminale di Craxi che anche dalla latitanza continuava a raccogliere dossier a distribuire suggerimenti, ed era in contatto con il gruppo parlamentare di Forza Italia. Tant’è che il portavoce del gruppo parlamentare si dovette dimettere perché era solito sottoporre a Craxi le interrogazioni e le interpellanze parlamentari, e Craxi dava ordini su come orchestrare le campane contro i magistrati... anche questo lo trovate mi pare in “Mani Pulite” se non ricordo male.

L’altro padrino fondatore

Ma, andando avanti, l’altro giorno finalmente c’è stato lo sdoganamento postumo di Craxi: quindici anni esatti dopo la prima vittoria elettorale di Forza Italia Berlusconi ci ha fatto sapere pubblicamente, durante la standing ovation, che uno dei padri fondatori era Bettino. Non è male un partito che ha fra i suoi padri fondatori un latitante, no?
Ecco, per chi pensasse che non è bello un partito co-fondato da un latitante, fermi la propria indignazione o la propria riprovazione perché tra i padri fondatori Craxi probabilmente è il più pulito. Nel senso che, magari ci arriviamo al prossimo congresso, prima o poi sentiremo il Cavaliere ammettere anche il nome di altri padri fondatori di Forza Italia, che per il momento restano ancora abbastanza nell’ombra.
Quando voi vedrete a un prossimo congresso, non so... quando gli metteranno la corona o gli poseranno la spada sulla spalla o si metterà lo scolapasta in testa e il mestolo in mano e comincerà a declamare in lingue strane, se solleciterà una standing ovation per Vittorio Mangano sappiate che quello è il momento: finalmente un altro padre, o padrino, fondatore di Forza Italia verrà allo scoperto. Per il momento ci dobbiamo accontentare di quello che siamo riusciti a scrivere nei nostri libri, perché noi scriviamo nei nostri libri delle cose e poi dieci anni dopo Berlusconi arriva e le dice, e tutti i giornali le annotano dicendo “Berlusconi rivela...”. No, Berlusconi non rivela niente: confessa tardivamente, di solito quando le cose sono andate in prescrizione.
Allora, per essere precisi perché molto spesso si fa letteratura, Mangano, non Mangano, sarà vero o non sarà vero.
Io vi cito semplicemente quello che noi sappiamo per certo sul ruolo che ebbe Vittorio Mangano in tandem con Marcello Dell’Utri nella nascita di Forza Italia.
Un po’ di date: il 23 maggio del 1992, strage di Capaci. Qualche giorno dopo Ezio Cartotto, che è un vecchio democristiano della sinistra DC milanese che teneva delle lezioni e delle consulenze ai manager e ai venditori di Publitalia e che quindi lavorava per Dell’Utri, viene chiamato da Dell’Utri. Siamo nell’estate del 1992, tangentopoli è appena esplosa, non c’è ancora nessun nessun politico nazionale indagato dal pool di Mani Pulite: hanno preso Mario Chiesa, hanno preso i due ex sindaci di Milano Tognoli e Pillitteri, hanno preso un po’ di amministratori locali democristiani, comunisti, socialisti.
Eppure Dell’Utri, evidentemente con le buone fonti che ha a Palermo, ha già deciso che la classe politica della prima Repubblica è già alla frutta e non si salverà e quindi a scanso di equivoci chiama Cartotto e, in segreto, senza nemmeno parlarne con Berlusconi, gli commissiona – dice Cartotto - “di studiare un’iniziativa politica legata alla Fininvest”.
Poi c’è la strage di Via D’Amelio, preceduta dalla famosa intervista dove Paolo Borsellino ha detto che a Palermo ci sono ancora indagini in corso sui rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri, Mangano e il riciclaggio del denaro sporco.
Dopo avere dato quell’intervista, passano nemmeno due mesi e Borsellino viene eliminato a sua volta. Intanto Cartotto lavora come una talpa: lo sa solo Dell’Utri. Berlusconi, questo lo trovate negli atti del processo Dell’Utri e noi in Onorevoli Wanted e anche nel libro arancione “L’amico degli amici” abbiamo raccontato dilungandoci questa vicenda che ha semplicemente dell’incredibile. O almeno, avrebbe dell’incredibile se qualcuno la conoscesse, se qualcuno l’avesse raccontata in questi giorni in cui tutti facevano i retroscena della nascita di Forza Italia. Si sono dimenticati questi popò’ di retroscena.
Nell’autunno del 1992 Berlusconi viene informato del fatto che farà un partito, perché i primi a saperlo sono Dell’Utri e Cartotto. Da’ il suo via libera al progetto, che prosegue tramite le strutture di Publitalia all’ottavo piano di Palazzo Cellini a Milano 2, dove ha gli uffici Dell’Utri.
Il progetto viene chiamato “Progetto Botticelli”, viene camuffato da progetto aziendale, in realtà è un progetto politico che sfocerà in Forza Italia, e poi ci sono tutte le riunioni di quando Berlusconi comincia a consultarsi con i suoi uomini.
Ovviamente, non solo i manager del gruppo ma anche i direttori dei giornali e dei telegiornali, che sono sempre i vari Costanzo, Mentana, Fede, Liguori e ovviamente Confalonieri, Dell’Utri, Previti, Ferrara. Montanelli non ci andava, ma ci andava Federico Orlando che poi ha scritto un libro, anche quello molto interessante: “Il sabato andavamo ad Arcore” pubblicato dalla Larus di Bergamo.
Poi ha scritto un altro libro “Fucilate Montanelli”, nel quale si raccontano, per gli Editori Riuniti, questi fatti.

Le riunioni ad Arcore

In queste riunioni ci sono discussioni, perché Berlusconi è preoccupatissimo. C’è il referendum elettorale che ha portato l’Italia alla preferenza unica e si va verso l’uninominale, c’è la scomparsa nella primavera del 1993 dei vecchi partiti che gli avevano garantito protezione per vent’anni, c’è la necessità di sostituirli con qualcosa che sia talmente forte da sconfiggere la sinistra che sembra approfittare del degrado morale che sta emergendo soprattutto, ma non solo, per i partiti del centrodestra – poi il PCI era coinvolto anche nella sua ala milanese ma non a livello nazionale nello scandalo di tangentopoli. E soprattutto c’è tutto il problema delle concessioni televisive e di chi andrà a governare il Paese e quindi a regolare la materia delle concessioni televisive che Berlusconi aveva appena sistemato con la famosa legge Mammì e quei famosi 23 miliardi finiti sui conti esteri della All Iberian di Craxi subito dopo la legge Mammì.
Allora c’è grande allarme, c’è grande preoccupazione: sarà meglio entrare o sarà meglio non entrare? C’è tutta la manfrina “facciamo un partito di centrodestra e poi lo consegniamo chiavi in mano a Segni e Martinazzoli perché vadano avanti loro, oppure lo facciamo noi?”. Questo era il dibattito, che nell’aprile del 1993 segna la benedizione ufficiale di Craxi con quella riunione che vi dicevo prima ad Arcore con Ezio Cartotto.

La mafia e la nuova Repubblica

Poi ci sono altre discussioni, ci sono ancora i frenatori come Confalonieri, Gianni Letta, Maurizio Costanzo che sono piuttosto ostili al progetto, o meglio temono che per Berlusconi sia un autogol.
Sarà un caso, ma proprio il 14 maggio del 1993 la mafia fa un attentato a Roma, il primo attentato a Roma nella storia della mafia, il primo attentato fuori dalla Sicilia nella storia della mafia viene fatto a Roma nel quartiere dei Parioli. Contro chi? Ma guarda un po’: Maurizio Costanzo che sfugge poi, fortunatamente, per un centesimo di secondo.
Quel Costanzo che stava nella P2: evidentemente qualche ambientino non si aspettava che fosse ostile alla discesa in campo. Perché lo dico? Perché in quello stesso periodo in Sicilia e in tutto il sud ovest, anche Calabria, si muovevano delle strane leghe meridionali che, in sintonia con la Lega Nord – c’era stato addirittura a Lamezia Terme con un rappresentante della Lega Nord – si proponevano di secedere, di staccare Sicilia, Calabra... infatti si chiamavano “Sicilia libera”, “Calabria libera”. Era tutto un fronte di leghe molto strano: invece di esserci i padani inferociti lì c’erano strani personaggi legati un po’ alla mafia, un po’ alla ‘ndragheta e un po’ alla P2 e uno di questi, il principe Orsini che aveva legami con questi personaggi, aveva legami anche con Marcello Dell’Utri.
Quindi noi sappiamo che Dell’Utri – lo ha dimostrato Gioacchino Genchi, ma guarda un po’, andando a incrociare i telefoni e i tabulati di questi personaggi – aveva contatti diretti con questo Principe Orsini. Dell’Utri inizialmente tiene d’occhio questi ambienti, perché sono le organizzazioni mafiose, legate a personaggi della P2 e dell’eversione nera, che si stanno mettendo insieme perché sentono odore di colpo di Stato, sentono odore di nuova Repubblica e vogliono far pesare, ancora una volta, la loro ipoteca con un partito o una serie di partiti nuovi.
Come Sicilia Libera, della quale si interessano direttamente boss come Tullio Cannella, Leoluca Bagarella, i fratelli Graviano e Giovanni Brusca.
Dopodiché succede qualcosa, succede che dopo l’attentato a Costanzo e dopo gli attentati che seguono – alla fine di maggio c’è l’attentato a Firenze, ci sono addirittura cinque morti e diversi feriti; poi alla fine di luglio ci sono gli attentati di Milano e Roma con altri cinque morti e diversi feriti – questa strategia terroristica ad ampio raggio, della mafia, sortisce i risultati sperati: Riina non stava sparando all’impazzata, stava facendo la guerra per fare la pace con lo Stato, così disse ai suoi uomini.
Una nuova pace con nuovi soggetti e referenti politici che però, a differenza di quelli vecchi che ormai erano agonizzanti, fossero vivi, vegeti, reattivi e in grado, fatto un accordo, di rispettarlo.
E’ l’estate del 1993 quando Forza Italia è ormai decisa: Berlusconi nell’aprile-maggio ha comunicato a Montanelli che entrerà in politica e che quindi il Giornale dovrà seguirlo nella battaglia politica. Montanelli gli ha detto che se lo può scordare: tra l’estate e l’autunno sono mesi in cui si consuma la rottura tra Montanelli e Berlusconi perché Montanelli continua a scrivere che Berlusconi non deve entrare in politica perché c’è un conflitto di interessi, perché non si può fare due mestieri insieme.
Dall’altra parte, ci sono le reti Fininvest che bombardano Montanelli per indurlo alle dimissioni, perché era diventato un inciampo: il giornalista più famoso dell’ambito conservatore che si scatenava contro quello che doveva diventare, secondo i desideri di Berlusconi, un partito moderato, liberale, insomma il partito che avrebbe dovuto incarnare gli ideali di cui Montanelli era sempre stato l’alfiere e che invece Montanelli sapeva benissimo non avrebbe potuto incarnare perché Berlusconi è tutto fuorché un moderato e un liberale: è un estremista autoritario.
In quei mesi la mafia decide di abbandonare il progetto di Sicilia Libera che essa stessa aveva patrocinato e fondato e tutto ciò avviene in seguito a una serie di riunioni, nell’ultima delle quali Bernardo Provenzano – ce lo racconta il suo braccio destro, Nino Giuffré che ora collabora con la giustizia e che è stato ritenuto attendibile in decine e decine di processi compreso quello Dell’Utri – convoca le famiglie mafiose, la cupola, per sapere che cosa scelgono: se preferiscono andare avanti col progetto del partitino regionale Sicilia Libera o se invece non preferiscano una soluzione più tradizionale come quella che sta affacciandosi a Milano grazie all’opera di un loro vecchio amico: Marcello Dell’Utri che conoscevano fin dai primi anni Settanta come minimo, cioè da quando Dell’Utri, in rapporto con un mafioso come Cinà e un mafioso come Mangano, aveva portato quest’ultimo dentro la casa di Berlusconi.
Si potrà discutere se l’ha fatto consapevolmente o inconsapevolmente, ma il fatto c’è: ha dato a Cosa Nostra la possibilità di entrare dentro la casa privata e di stazionare con un proprio rappresentante dentro la casa privata di uno dei più importanti e promettenti finanzieri e imprenditori dell’epoca. Berlusconi era costruttore, in quel periodo, poi sarebbe diventato editore e poi politico.

Gli incontri tra Mangano e Dell’Utri

E’ strano che non si trovi più nessuno, ma nemmeno all’estrema sinistra, che ricordi questi fatti documentati. Ancora nel novembre del 1993 quando ormai per Forza Italia si tratta proprio di stabilire i colori delle coccarde e delle bandierine, c’erano i kit del candidato, stavano facendo i provini nel parco della villa di Arcore per vedere i candidati più telegenici; in quel periodo, a tre mesi dalle elezioni del marzo del 1994, Mangano incontra due volte Dell’Utri a Milano. E questa non è una diceria, c’è nelle agende della segretaria di Dell’Utri: Palazzo Cellini, sede di Publitalia, Milano 2, i magistrati arrivano e prendono le agende e nell’agenda del mese di novembre del 1993 si trovano due appuntamenti fra Dell’Utri e Mangano, il 2 novembre e il 30 novembre.
E Mangano chi era, in quel periodo? Non era più il giovane disinvolto del ‘73-’74 quando fu ingaggiato e portato ad Arcore come stalliere: qui siamo vent’anni dopo.
Mangano era stato in galera undici anni a scontare una parte della pena complessiva di 13 anni che aveva subito al processo Spatola per mafia e al maxiprocesso per droga, due processi istruiti da Falcone e Borsellino insieme.
E’ stato definitivamente condannato per mafia e droga a 13 anni, ne aveva scontati 11, uscito dal carcere nel 1991 era diventato il capo reggente della famiglia mafiosa di Portanuova e grazie al suo silenzio in quella lunga carcerazione aveva fatto carriera e partecipato alle decisioni del vertice della mafia di fare le stragi.
E poche settimane dopo le ultime stragi di Milano e Roma, Dell’Utri incontra un soggetto del genere a Milano negli uffici dove sta lavorando alla nascita di Forza Italia.
Io non so se tutto questo sia penalmente rilevante, lo decideranno i magistrati: penso che sia politicamente e storicamente fondamentale saperlo, mentre si vede Gianfranco Fini che cita Paolo Borsellino al congresso che sta incoronando il responsabile di tutto questo, cioè Berlusconi.
Verrebbe da dire “pulisciti la bocca”.
Possibile che invece di abboccare a tutti i suoi doppi giochi, quelli del centrosinistra non – ma dico uno, non dico tutti, li conosciamo, fanno inciuci dalla mattina alla sera e sono pronti a ricominciare con la Costituente come se non gli fosse bastata la bicamerale – uno, di quelli anche più informati, che dica “ma come ti permetti di parlare di Borsellino? Leggiti quello che diceva, Borsellino, di questi signori in quella famosa intervista prima di morire”.
Leggiti quello che c’è scritto nella sentenza Dell’Utri e poi vergognati, perché quel partito lì non l’ha fondato lo spirito santo, l’hanno fondato Berlusconi, Dell’Utri, Craxi con l’aiuto di Mangano che faceva la spola fra Palermo e Milano, infatti le famiglie mafiose decidono di votare per Forza Italia e di abbandonare Sicilia Libera – che viene sciolta nell’acido probabilmente – quando Mangano arriva giù a portare le garanzie.

Bettino, Silvio e Marcello

Io concludo questo mio intervento, che racconta l’altra faccia della nascita e delle origini di Forza Italia e quindi della Seconda Repubblica, semplicemente leggendovi quello che hanno scritto e detto prima Ezio Cartotto, piccolo brano, e i giudici di Palermo.
Cartotto dice: “Craxi ci disse – in quella famosa riunione in cui si aprì la porta – che bisogna trovare un’etichetta, un nome nuovo, un simbolo, qualcosa che possa unire gli elettori moderati che un tempo votavano per il pentapartito. Con l’arma che hai tu, Silvio, in mano delle televisioni, attraverso le quali puoi fare una propaganda martellante”. Mh... “Ti basterà organizzare un’etichetta, un contenitore – una volta è Forza Italia, una volta la CdL, una volta il PdL -, hai uomini sul territorio in tutta Italia, puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e salvare il salvabile”.
Vedete che Berlusconi continua a ripetere le stesse cose che gli aveva detto Craxi, quindici anni dopo non ha ancora avuto un’idea originale.
Berlusconi invece era ancora disorientato, in quel momento, tant’è che dice: “mi ricordo che mi diceva: ‘sono esausto, mi avete fatto venire il mal di testa. Confalonieri e Letta mi dicono che è una pazzia entrare in politica e mi distruggeranno, che faranno di tutto, andranno a frugare tutte le carte e diranno che sono un mafioso”.
Questo diceva Berlusconi nella primavera del 1993. Domanda: ma come può venire in mente a un imprenditore della Brianza di pensare che se entra in politica gli diranno che è un mafioso? E’ mai venuto in mente a qualche imprenditore della Brianza che qualcuno potrà insinuare che è un mafioso? Ma uno potrà insinuare che è uno svizzero, piuttosto, ma che è un mafioso no! Cosa c’entra? Strano che lui avesse questa ossessione, no?
“Andranno a frugare le carte e diranno che sono un mafioso” già, perché evidentemente in certe carte si potrebbe anche trarre quella conclusione lì.
“Che cosa devo fare? A volte mi capita perfino di mettermi a piangere sotto la doccia”. Queste erano le condizioni psicologiche, umane del personaggio, disperato perché sapeva che Mani Pulite sarebbe arrivata a lui ben presto, e non solo mani pulite visto che temeva addirittura di finire dentro per mafia.
I giudici di Palermo, nella sentenza Dell’Utri, nove anni di reclusione e interdizione dai pubblici uffici in primo grado, scrivono: i rapporti tra Dell’Utri e Cosa Nostra “sopravvivono alle stragi del 1992 e 1993, quando i tradizionali referenti, non più affidabili, venivano raggiunti dalla vendetta di Cosa Nostra – i vecchi politici: Lima, Salvo... - e ciononostante il mutare della coscienza sociale di fronte al fenomeno mafioso nel suo complesso”.
Cioè Dell’Utri nonostante la gente cominci veramente ad appassionarsi all’antimafia dopo la morte di Falcone e Borsellino, rimane sempre lo stesso.
Esistono “prove certe della compromissione mafiosa dell’imputato Dell’Utri anche relativamente alla sua stagione politica – quella di cui abbiamo parlato -. Forza Italia nasce nel 1993 da un’idea di Dell’Utri il quale non ha potuto negare che ancora nel novembre del 1993 incontrava Mangano a Milano mentre era in corso l’organizzazione del partito Forza Italia e Cosa Nostra preparava il cambio di rotta verso la nascente forza politica”.
Dell’Utri incontrava Mangano nel 1993 e poi anche nel 1994 “promettendo alla mafia precisi vantaggi politici e la mafia si era vieppiù orientata a votare Forza Italia”.
Tutto questo è scritto in una sentenza di primo grado, che naturalmente aspetta conferme o smentite in appello e in Cassazione.
Però è strano che non si sia trovato nessuno che la citasse in questi giorni tra un retroscena e l’altro.
Io penso che sia fatta giustizia, spero che prima o poi, invece di usarlo soltanto per raccattare qualche voto sporco in campagna elettorale, tributino finalmente nel prossimo congresso i giusti onori anche al padre fondatore, anzi al padrino co-fondatore, Vittorio Mangano.
Passate parola.”



sabato 28 marzo 2009

Il prefetto che non sa (!?) ma stra-parla



Camorra a Parma, il prefetto: “Da Saviano solo sparate”.


di Maria Chiara Perri
(Giornalista)



da Repubblica.it del 27 marzo 2009


Il rappresentante del governo attacca lo scrittore che in diretta televisiva parla degli affari dei Casalesi a Parma. La città al centro delle inchieste del magistrato Raffaele Cantone, dove si è registrata la prima condanna in primo grado per associazione di stampo camorristico nel nord Italia. Nei giorni in cui si costituisce l’associazione Libera e il Pd presenta due interrogazioni sulle infiltrazioni mafiose fatte al ministero dell’Interno.

Titoli shock scorrono sul teleschermo. Roberto Saviano con enfasi pacata ne sottolinea la volontà, ancor prima di mistificare, di riflettere e consolidare la mentalità criminale che divora una terra.

Incolla al teleschermo, mercoledì sera, 4 milioni e mezzo di telespettatori.

Parla anche di Parma, per tre volte, per esemplificare come i tentacoli della camorra abbraccino anche le realtà apparentemente più periferiche del nord Italia.

Due giorni dopo un quotidiano locale, Informazione di Parma, pubblica un’intervista al prefetto Paolo Scarpis. Titolo? “Camorra a Parma? Solo ‘sparate’”.

Un’affermazione che il rappresentante del governo non precisa e non ridimensiona, che consola una città dove nel frattempo sta nascendo l’associazione Libera e le due parlamentari del Pd, Albertina Soliani e Carmen Motta, presentano due interrogazioni sulle infiltrazioni mafiose nel nord Italia fatte al ministro dell’Interno.

Saviano ha citato la città ducale per gli interessi, già raccontati anche da un’inchiesta dell’Espresso, di quel Pasquale Zagaria che insieme al fratello Michele le mise occhi e mani addosso nel campo dell’edilizia.

Ha parlato di come la patria di Maria Luigia, oltre a Milano, sia terra in cui le attività dei criminali si intrecciano con quelle di imprenditori e forse anche politici.

Persino durante il sequestro del piccolo Tommaso Onofri, la camorra si è occupata di Parma: i boss lanciarono sulle colonne di un quotidiano partenopeo una sorta di accorato appello ai rapitori: liberatelo e faremo in modo che non vi succeda niente, fategli del male e ve la faremo pagare.

Tutto questo ha raccontato Saviano nel corso delle tre ore in diretta televisiva, che oggi vengono smontate dal rappresentante del governo.

“Sono ‘sparate’ di una persona che sta a 800 chilometri di distanza, che ha visto Parma di passaggio – si legge nell’intervista pubblicata dall’Informazione di Parma – Durante una riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica avevo chiesto al procuratore ella Repubblica un resoconto di eventuali posizioni aperte nel parmense sentendo anche la Dda di Bologna e la Dia di Firenze: la risposta è stata “non ci sono indagini di questo tipo”. Il tentativo di allarmismo è quindi del tutto fuori luogo e se qualcuno è così convinto di saperne di più dei professionisti del settore, che si faccia avanti facendo nomi e cognomi”.

C’è una cosa che forse Saviano teme più delle minacce che lo costringono a una vita da recluso. Quella di essere delegittimato. Che le accuse di “scrivere favole” che gli rivolgono tanti conterranei possano attecchire e vanificare l’opera di denuncia che tanto gli è costata.

Ai microfoni di Tv Parma, il prefetto Scarpis precisa che in città ci sono realtà di criminalità organizzata, cioè messa in opera da più di due persone, ma non infiltrazioni di stampo mafioso, che presuppongono il controllo del territorio tramite infiltrazioni negli organi che lo governano: non gli risultano indagini di alcun tipo che riguardino mafia, camorra e n’drangheta.

Eppure, l’assalto della camorra sulla città tramite un patto del cemento tra imprenditori del nord e i casalesi, in cui non mancarono contatti con la politica locale, è stato oggetto anche di una recente conferenza di Raffaele Cantone, magistrato che coordinò le indagini su Pasquale Zagaria e scoperchiò gli interessi di Gomorra sulla città ducale.

Parlò di affari da otto milioni di euro, delle capacità imprenditoriali di Zagaria, di una delle più grosse società immobiliari di Parma confiscata, e della prima condanna per associazione camorristica del centro-nord. Una condanna in primo grado per una immobiliare locale.

E anche di un incontro in un albergo romano con un politico, che poi ammetterà di non sapere chi fosse quell’uomo.

Pochi giorni fa la polizia ha arrestato a Colorno, “Michè lo Svizzero”.

E’ Ciro Dell’Ermo, del clan degli Orefice, residente nel parmense con obbligo di firma.

Lo scorso giugno approfittò di un permesso di cinque giorni per tornare ad Acerra e tentare un’estorsione da 100.000 euro ai danni di un imprenditore edile.

I sindacati emiliani dell’edilizia hanno chiesto di estendere l’obbligo delle certificazioni antimafia a tutte le attività, perché “è noto l’intresse di mafia, camorra e n’drangheta per gli appalti di opere pubbliche e private. La presenza della criminalità organizzata è documentata soprattutto a Parma, Reggio Emilia e Modena”.

E sulla ‘ndrangheta c’è anche l’ultima relazione della Dia in cui si parla delle infiltrazioni dei clan calabresi nel territorio provinciale.

La società civile si sta organizzando per costituire nella città ducale l’associazione di Don Ciotti. Una prima riunione c’è stata e vede in prima fila il pastore metodista Giuseppe La Pietra, già responsabile di Libera in Abruzzo. Diverse le realtà locali coinvolte, tra cui l’Agesci, l’Arco e il coordinamento Libera Emilia Romagna.

In questo contesto “Camorra a Parma? Solo sparate” non sfigurerebbe nella collezione dei titoli di Saviano mandati in onda l’altra sera.



giovedì 26 marzo 2009

Rai: Santoro vince anche in appello. D’Amati: “la decisione di oggi è una gran bella soddisfazione”







da Articolo21.info




La Corte d’Appello di Roma, sezione lavoro, ha respinto il ricorso della Rai contro Michele Santoro che si vede così confermare sia il risarcimento economico che il rispetto della collocazione e del ruolo legato al programma in onda.

La Rai infatti aveva già pagato 1,5 milioni di euro al giornalista per il risarcimento del danno subito con l’allontanamento dalla tv pubblica e anche rispettare la sentenza che gli imponeva di riportare in video Santoro nella stessa collocazione di prima.

Tutto questo era stato stabilito dal Tribunale del lavoro contro il quale la Rai aveva appunto in appello fatto il ricorso che oggi è stato respinto.

Viene quindi confermata la parte che stabiliva le modalità di utilizzazione di Santoro, che la Rai aveva contestato in quanto a suo avviso doveva essere ripensata perché avrebbe inciso sull’autonomia imprenditoriale dell’azienda.

Ma anche la parte economica del risarcimento, che la Rai aveva già pagato.

Questa la decisione della Corte d’Appello di Roma sezione lavoro, presidente Ermanno Cambria, relatore Donatella Casablanca.

“Con la sentenza di oggi questi siamo ad oltre 10 giudici – commenta l’avvocato Domenico D’Amati, legale di Michele Santoro – che danno ragione a Santoro e torto alla Rai. La decisione di oggi è una gran bella soddisfazione”.



mercoledì 25 marzo 2009

Manganelli Canterini





di Marco Travaglio
(Giornalista)



da L’Unità del 25 marzo 2009


Il vicequestore Gioacchino Genchi, da 20 anni consulente dei giudici in indagini di mafia e corruzione, è stato sospeso dal servizio.

Motivo: ha rilasciato interviste per difendersi dalle calunnie e ha risposto su facebook alle critiche di un giornalista.

«Condotta lesiva per il prestigio delle Istituzioni» che rende «la sua permanenza in servizio gravemente nociva per l’immagine della Polizia», Firmato: il capo della Polizia, Antonio Manganelli.

Se Genchi avesse massacrato di botte qualche no global al G8 di Genova, sarebbe felicemente al suo posto e avrebbe fatto carriera (Massimo Calandri, «Bolzaneto, la mattanza della democrazia»): Vincenzo Canterini, condannato a 4 anni in primo grado per le violenze alla Diaz, è stato promosso questore e ufficiale di collegamento Interpol a Bucarest. Michelangelo Fournier, 2 anni di carcere in tribunale, è al vertice della Direzione Centrale Antidroga. Alessandro Perugini, celebre per aver preso a calci in faccia un quindicenne, condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per le sevizie a Bolzoneto e a 2 anni e 3 mesi per arresti illegali, è divenuto capo del personale alla Questura di Genova e poi dirigente in quella di Alessandria.

Le loro condotte non erano «lesive per il prestigio delle Istituzioni» e la loro presenza è tutt’altro che «nociva per l’immagine della Polizia».

Ma forse c’è stato un equivoco: Manganelli voleva difendere Genchi e sospendere Canterini, Fournier e Perugini, ma il solito attendente coglione ha capito male.

Nel qual caso, dottor Manganelli, ci faccia sapere.


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La fotografia è tratta da Repubblica.it





martedì 24 marzo 2009

Una lettera di Luigi de Magistris ai lettori del nostro blog




Pubblichiamo una lettera inviata ai lettori del nostro blog da Luigi de Magistris.





Caro Felice, cari amici di “Uguale per tutti”,

in questi giorni così difficili per me, nei quali ho maturato la scelta, davvero dura, di non esercitare più il mestiere di magistrato – per le ragioni che ho esposto già in diverse occasioni pubbliche – ho più volte pensato a quello che è accaduto in questi mesi, alla lotta per i diritti che si è praticata, alle discussioni, alle relazioni umane che si sono create e consolidate, a quello che possiamo fare – tutti insieme – per cambiare, nei prossimi anni, il Paese nel segno della Giustizia uguale per tutti e, quindi, della resistenza costituzionale.

Arrivo subito al punto, vi vorrei dire tante cose per l’affetto che ho per i frequentatori di questo luogo per me così familiare, ma forse non è il momento, non vorrei essere accusato di utilizzare il blog per fare campagna elettorale e mettervi in difficoltà.

Con questa breve missiva voglio solo comunicarvi, in due parole, che questo Blog è stato per me un costante e fondamentale punto di riferimento in questi anni durissimi, un luogo in cui ho trovato raccontati i fatti secondo verità, in cui si è realizzata l’informazione, in cui si è messo in atto un confronto culturale, in cui si è discusso liberamente, in cui si è criticato il regime ed ove si è praticato l’art. 21 della Costituzione.

Grazie per quello che avete rappresentato durante questo periodo, anche solo per il conforto morale che ho trovato nei momenti più bui, e vi esorto a non mollare mai nella lotta per i diritti ed, anzi, contribuite fattivamente, per come potete o volete, alla realizzazione di un vero tessuto democratico che, solo attraverso la partecipazione di tutti, può dare nuova e vitale linfa al nostro Paese.

Permettimi, infine, carissimo Felice, di concludere queste righe dando qui pubblicamente, con l’affetto che sai, un abbraccio particolarmente grato a te, della cui amicizia mi onoro.

Luigi de Magistris




lunedì 23 marzo 2009

Colpevoli per non aver commesso il fatto





da Voglioscendere del 23 marzo 2009


Trascrizione:

“Buongiorno a tutti,
meno male che i rumeni non sono politici italiani. Pensate se dal 18 febbraio fossero in carcere due politici, mettiamo pure due consiglieri di circoscrizione anche perché fossero parlamentari per definizione non potrebbero essere dentro. Due consiglieri di circoscrizione arrestati per un presunto reato, dopodiché si scopre che non l’hanno commesso ma li tengono dentro lo stesso con accuse che cambiano di giorno in giorno.

Poi arrestano quelli che si ritengono essere i veri colpevoli di quel reato, ma loro rimangono ancora dentro: figuratevi, apriti cielo! Avremmo fiumane di trasmissioni televisive, campagne stampa, articoli di tutti i garantisti di questo mondo – quelli sedicenti. “Ah, errore giudiziario, manette facili! Chissà perché li tengono dentro, forse per fargli confessare un delitto che non hanno commesso.”.
Fortunatamente non stiamo parlando di due politici italiani, ma di due rumeni che solo per la faccia che hanno, a questo punto, sono in galera.
E’ bene ricordarseli sempre, questi nomi, perché il degrado che sta subendo il nostro diritto passa attraverso queste storie e quando noi non ci facciamo caso perché “tanto si tratta di rumeni”, “i rumeni sono tutti uguali”, “se non hanno fatto una cosa ne avranno fatta un’altra”, insomma vale per loro il detto cinese “quando torni a casa picchia tua moglie: tu non sai perché la stai picchiando ma lei sì”. Ecco, la stessa cosa vale per il rumeno, il nuovo mostro sul quale scaricare tutte le nostre tensioni e frustrazioni.
Si chiamano Karl Racz e Alexandro Isztoika Loyos. Furono arrestati il 18 febbraio per lo stupro della Caffarella. Il questore Caruso disse – ne abbiamo già parlato – che era un grande successo, li avevano presi con i metodi di indagine tradizionali, con questo che è un modo stranissimo di definire le indagini: è un modo politico di definirle perché c’era, in quel momento e c’è ancora, la polemica sulla legge sulle intercettazioni così il questore, che è il rappresentante della Polizia a Roma e quindi il rappresentante del governo, un dipendente del ministero dell’Interno, si affrettò a offrire sul piatto d’argento al governo un argomento a favore della legge che limita le intercettazioni, ripetendo a pappagallo quello che i politici di centrodestra e spesso anche quelli di centrosinistra dicono: che purtroppo le intercettazioni impigriscono gli investigatori e i magistrati impedendo loro di fare le famose indagini tradizionali.

Maledetta tecnologia

Questa volta si vantavano di avere fatto le indagini tradizionali, di avere usato i metodi tradizionali, il famoso Ogino-Knaus del perfetto detective. Chi volesse divertirsi può andare nell’archivio dell’Ansa e trovare le dichiarazioni esultanti dei famosi ambienti della questura i quali tirano la pietra e nascondono la mano, e si vantavano di avere riesumato le indagini alla Maigret tutte fatte con i metodi tradizionali “senza l’aiuto di nessuna tecnologia” - leggi: senza l’aiuto di nessuna intercettazione, nessun tabulato telefonico.
Dopodiché, purtroppo, arrivano le tecnologie: disgraziatamente abbiamo le tecnologie. Quando sperano di incastrarli definitivamente col DNA, questo smentisce che siano stati loro: e sul DNA non si discute, o sei tu o non sei tu.
Non erano loro.
Problema: può un rumeno non essere stato lui? Può il questore essersi sbagliato? Può il governo avere imperniato tutta la campagna dell’ultima settimana della legge sulle intercettazioni su un fatto falso? No, non si può.
Allora avrà torto il DNA, tant’è che qualcuno cominciava a dire che il DNA non è poi così importante, non è poi così decisivo.
Intanto, però, cosa fecero i magistrati e i poliziotti? Denunciarono e incriminarono i due arrestati per lo stupro per altri reati; uno dei due fu accusato di un altro stupro, quello di Primavalle. L’altro fu accusato di essersi autocalunniato nel famoso interrogatorio di cui abbiamo visto addirittura i filmati in televisione, a Porta a Porta e non. Confessione che poi si è rivelata falsa infatti è stata ritrattata, quindi se confessi un delitto che hai fatto finisci in galera per quel delitto, se confessi un delitto che non hai fatto resti in galera perché ti sei autocalunniato.
Naturalmente il reato di autocalunnia, l’ha spiegato bene Bruno Tinti su La Stampa, presuppone come tutti i reati il dolo, cioè presuppone che uno si autocalunii appositamente per mandare in galera se stesso e per depistare le indagini. Ma dato che di fessi che si autoaccusano di un reato così grave, tra l’altro... che se ti porta in galera hai finito di vivere anche in galera perché il detenuto accusato di molestie sessuali e di stupri, vi assicuro, rimpiange di non aver ammazzato qualcuno o di non avere fatto qualche strage; rischia di subire lo stesso trattamento, in carcere, sapete bene com’è l’ambiente carcerario.

Il rumeno ha sempre qualcosa da nascondere

Ecco, se uno si autoaccusa di un delitto così orrendo, finisce in galera in base a quello che ha detto lui di se stesso e non è proprio pazzo – e qui pazzi non ne abbiamo – allora può darsi che lo abbia fatto o perché l’hanno picchiato e costretto a confessare, che è quello che sostiene lui, oppure perché qualcuno molto feroce che ce l’ha in pugno lo ha costretto ad autoaccusarsi per coprire lui.
In entrambi i casi il tizio avrebbe agito sotto costrizione, avrebbe agito per causa di forza maggiore, per stato di necessità, quindi assolutamente senza il dolo e la volontà di commettere quel reato. Quindi non c’è autocalunnia.
Dopodiché ne aggiungono ancora un pezzo e dicono che ha pure calunniato i poliziotti rumeni, che l’avevano interrogato prima che si accendessero le telecamere e che venisse interrogato dai poliziotti italiani, perché aveva sostenuto che in quel primo interrogatorio davanti ai poliziotti suoi connazionali era stato picchiato e intimidito duramente.
Naturalmente picchiato nelle parti molti, che non si vedono, che non lasciano tracce e lividi. Anche se poi il questore, bontà sua, disse “beh effettivamente presenta alcuni arrossamenti sul collo”.
In ogni caso è stato accusato anche – il famoso biondino – di avere calunniato oltre che se stesso anche i rappresentanti della polizia rumena e per questo è rimasto in galera. Ora, è vero che esistono alcuni casi nei quali la gente finisce in galera anche per calunnia – il famoso caso del falso pentito di mafia Pellegriti che Falcone arrestò perché ritenne che le accuse che lanciava a Salvo Lima e ad altri politici sui grandi delitti di mafia fossero false. Lo stesso accadde a Milano nel 1996-1997 quando furono arrestati due sottufficiali dei Carabinieri, i famosi Strazeri e Corticchia, che avevano testimoniato a Brescia sostenendo di avere le prove del complotto del Pool di Milano, da Di Pietro a Davigo a Colombo, contro il povero Berlusconi; poi si scoprì che erano due peracottari che raccontavano un sacco di fregnacce e che avevano addirittura avuto dei vantaggi dopo avere raccontato quelle fregnacce, visto che erano in contatto con ambienti della Fininvest, e allora furono arrestati.
Ma voi capite che quando uno si inventa un complotto ai danni di un presidente del Consiglio o quando uno si inventa che dei politici siano dei mandanti di omicidi e poi non è vero niente, capite che si tratta di grandi operazioni di depistaggio. Anche Igor Marini fu arrestato per calunnia. Accidenti, era un tale calunniatore che addirittura era arrivato al punto di inventarsi la tangente Telekom Serbia a Prodi!
Stiamo parlando di grandi calunnie; qui cosa volete che sia? E’ uno che dice “sono stato io” o “la polizia mi ha picchiato”: si può mai pensare che uno rimanga in galera per un delitto così fumoso, improbabile, ridicolo e poco pericoloso? L’abbiamo capito, non sei stato tu, basta. Ti mettiamo fuori. Questo sarebbe successo – è la mia opinione – se questi due signori fossero stati degli italiani; non dico dei politici italiani: degli italiani.
Il rumeno ha sempre qualcosa da nascondere o da farsi perdonare, quindi rimangono in galera anche se nel frattempo è saltata anche l’accusa a uno dei due per l’altro stupro, quello di Primavalle, e anche se nel frattempo sono stati arrestati altri due rumeni di cui si dice che sono i colpevoli veri!
Noi abbiamo contemporaneamente in galera i presunti colpevoli veri e i sicuri colpevoli falsi.
La cosa stupefacente non è che tengano in galera qualcuno che non c’entra niente, perché per fortuna abbiamo vari gradi di ricorso e prima poi il Tribunale della Libertà, il Riesame, la Cassazione farà giustizia. La cosa paradossale è che non protesta nessuno! Non si leggono editoriali, salvo rarissimi casi, e devo dire abbastanza bipartisan: è intervenuto l’avvocato Ghedini, è intervenuto l’avvocato Calvi, cioè l’avvocato di Berlusconi e quello di D’Alema a dire “ma come vi viene in mente di tenere dentro questa gente?”.
Per il resto, silenzio. Non ho visto dei Porta a Porta col plastico di Primavalle: ho visto dei Porta a Porta che invece tendevano a dimostrare che il tizio, anche se aveva ritrattato la confessione, comunque non aveva motivo di ritrattare e bisognava credere alla confessione. E’ uno strano modo di ragionare, se si pensa che invece per quanto riguarda l’avvocato Mills tutti credono alla ritrattazione e non alla confessione, eppure Mills non l’aveva picchiato nessuno quando scrisse la famosa lettera al suo commercialista per dire di avere avuto 600.000 dollari da Mr cioè da Berlusconi, in cambio delle sue testimonianze false o reticenti nei processi milanesi alla Guardia di Finanza e di All Iberian.
Quindi, se Mills confessa per iscritto al suo commercialista in una lettera che mai è destinata a essere pubblicata e poi conferma quella lettera quando i magistrati di Milano lo convocano e poi la smentisce dopo che probabilmente qualcuno gli ha detto di smentirla, tutti credono alla smentita anche sei poi Mills viene condannato ma nessuno lo dice; dall’altra parte, se un rumeno in strane serie di interrogatori, con certi arrossamenti, confessa un delitto che poi si scopre sicuramente non essere suo allora bisogna continuare a credere alla confessione.

C’è chi pagherebbe per vendersi

E’ molto pericolosa la deriva verso cui stiamo andando, perché dimostra i danni devastanti che fa un certo clima misto a certe riforme in arrivo. Ne abbiamo parlato, è la riforma che stacca il pubblico ministero dalla polizia giudiziaria. Non è ancora in vigore, ma come voi ben sapete in Italia c’è chi pagherebbe per vendersi; questo lo diceva Victor Hugo ma penso che sia il motto nazionale: c’è un tale conformismo e una tale corsa sul carro dei vincitori che qualcuno tende sempre ad anticipare, addirittura, le riforme che non sono state ancora fatte.
Pensate soltanto a quello che accadde alla procura di Palermo, ai tempi del procuratore Grasso, quando furono eliminati con una specie di “pulizia etnica” i cosiddetti caselliani, i magistrati ritenuti troppo vicini all’ex procuratore Caselli. In realtà non era perché erano amici di Caselli, ma perché avevano condotto i grandi processi ai politici per i rapporti fra mafia e politica; chi si occupava del processo Andreotti, del processo Contrada, del processo Tannino e del processo Dell’Utri soprattutto furono completamente emarginati, furono esclusi da quel circuito di circolazione delle notizie che deve essere la regola principale dei Pool antimafia, per legge, prima ancora che passasse la legge Castelli-Mastella, Castella, Mastelli che affidava al procuratore capo una specie di diritto di vita e di morte su tutta l’attività della procura. Cioè, rifaceva delle procure delle piramidi con un vertice mentre prima il potere delle procure era diffuso e in capo a ogni sostituto procuratore.
Pensate a quello che è accaduto a Catanzaro, dove prima che entrasse in vigore questa riforma che verticalizza le procure e da tutto in mano ai capi, un procuratore capo – Lombardi – e un procuratore generale – Favi – hanno tolto le famose indagini a De Magistris, anticipando le riforme.
Adesso ne sta arrivando un’altra; l’ha firmata Alfano ma potete immaginare chi l’ha scritta: è quella che espropria il pubblico ministero del potere di prendere le indagini e di dirigere la polizia giudiziaria.
Lo dice spesso Berlusconi: il pubblico ministero deve diventare l’avvocato dell’accusa, cioè la longa manus della Polizia. La polizia fa le indagini, il pubblico ministero non può metterci becco e quando la polizia le ha finite il PM va in aula a sostenere l’accusa contro quelli che la polizia, i Carabinieri o la Guardia di Finanza gli hanno impacchettato.
Pensate a tutti quelli che le forze di Polizia non impacchetterebbero più, visto che dipendono dal governo. E pensate a tutte le indagini a cui non avremmo più possibilità di accedere proprio perché il magistrato di sua iniziativa non potrà più farle, dovrà aspettare che le faccia la Polizia che dipende dal governo.

Rischiamo grosso

Contro questa riforma, che è eversiva in un Paese come l’Italia dove la politica va dappertutto, l’associazione degli studiosi del processo penale diretta da tre avvocati, Amodio, Giarda e Illuminati, hanno espresso “perplessità e preoccupazione di fronte alla elisione del vincolo funzionale fra il rappresentante dell’accusa e la polizia giudiziaria, anche sotto il profilo di legittimità costituzionale”.
Dicono che è incostituzionale, questa porcheria. E poi dicono che “questo orientamento ribalta completamente la prospettiva recepita dal nostro codice, ponendo numerosi interrogativi anche sul piano dell’efficienza del lavoro investigativo. Non foss’altro, perché affida a un organo dipendente all’Esecutivo – cioè la Polizia – l’iniziativa investigativa e le consequenziali scelte di indirizzo”.
Sono parole un po’ tecniche per dire che rischiamo grosso togliendo la polizia dal controllo della magistratura e lasciandola esclusivamente sotto la direzione del governo, e i risultati li stiamo vedendo proprio in questi giorni quando una parte della magistratura, quella più servile, si è già messa a fare l’avvocato della Polizia.
La Polizia ti dice che lo stupro della Caffarella è stato fatto da quei due, Racz e Loyos? Perfetto, senza star lì a discutere quelli vengono ficcati dentro e una volta dentro devono rimanere dentro, un’accusa vale l’altra; l’importante è che restino lì per non smentire la Polizia.
Ma quando mai il magistrato deve adagiarsi supinamente sulle tesi delle forze dell’ordine? Le forze dell’ordine fanno il loro giusto e sacrosanto lavoro, ma poi la magistratura deve raffinarlo, verificarlo e spesso deve calmare le forze di Polizia dicendo “attenzione, c’è questo, questo e quest’altro”.
Pensate a quello che è successo per gli altri stupri: qui non c’è uno stupro, di quelli avvenuti a Roma, di cui si sia venuto a capo. Adesso si scopre pure che lo stupro di Capodanno forse non era nemmeno uno stupro, ma un tentativo di rapporto consenziente fra due ragazzi che erano pieni di droga e alcool, talmente pieni che non sono riusciti nemmeno ad avere un rapporto, per cui poi è successa una rissa e il maschio ha picchiato la ragazza.
Cosa deplorevolissima, naturalmente, ma non è uno stupro; tant’è che il tizio che era stato messo ai domiciliari ora è tornato pure a casa perché non ha fatto uno stupro.
E stanno crollando quasi tutte queste indagini fatte negli ultimi mesi sull’onda dell’emozione, con il governo che spingeva per dimostrare una risposta immediata ai cittadini, la Polizia che assecondava il governo e la magistratura che assecondava la Polizia.
E dov’è il controllo terzo, imparziale della magistratura? Ci sarebbe ancora, perché non l’hanno ancora abolito per legge, ma c’è già chi ne fa a meno, chi fa come se non ci fosse più il dovere della magistratura di un controllo imparziale.

Come con Genchi e De Magistris

Guardate che la stessa identica cosa sta avvenendo con i casi che ormai conosciamo abbastanza bene di Gioacchino Genchi e De Magistris.
La procura di Roma ha sempre avvertito questa vicinanza con il potere politico: ci lavorano splendidi magistrati alla procura di Roma, ma anche qualcuno che evidentemente avverte certi venticelli dei palazzi del potere vicini. E guardate cos’è successo con Genchi: la procura di Salerno, competente a indagare sulle attività di Genchi e De Magistris a Catanzaro, aveva già stabilito con una richiesta di archiviazione per De Magistris, che tutta la faccenda del telefonino di Mastella non conteneva reati perché loro non sapevano niente sulla titolarità di quel telefonino fino a che non hanno ricevuto i tabulati.
Allora cos’è successo? Che il Ros dei Carabinieri, non essendo riuscito a far passare le proprie accuse a Genchi e indirettamente a De Magistris, presso la procura di Salerno è andata a cantare in un altro cortile, a Roma e alla procura di Roma hanno aperto un duplicato dell’indagine di cui a Salerno si era già chiesta l’archiviazione, e hanno incriminato Genchi per quei due reati ridicoli che abbiamo descritto la settimana scorsa.
Adesso, nel giorno in cui De Magistris annuncia la sua candidatura alle europee nell’Italia dei Valori, il mattino c’è la conferenza stampa con Di Pietro, al pomeriggio escono le agenzie con la notizia che De Magistris è iscritto dalla procura di Roma nel registro degli indagati.
Naturalmente se si fosse trattato di Berlusconi o di un suo uomo, apriti cielo! Ma come, al mattino annuncio la candidatura e al pomeriggio fai sapere che sono iscritto nel registro degli indagati? E’ giustizia a orologeria, avrebbero detto quelli là. Noi non lo diciamo perché non siamo quelli là.
Segnalo, però, che l’iscrizione nel registro degli indagati è uno dei pochi atti segreti. Non l’avviso di garanzia, non l’invito a comparire, non il mandato di perquisizione, il mandato di arresto, il mandato di sequestro. Quelli sono tutti atti pubblici, ma l’iscrizione sul registro degli indagati è un atto segreto; dopodiché a volte i giornalisti lo vengono a sapere, ben venga... possibile che siano venuti a saperlo proprio il pomeriggio dell’annuncio della candidatura?
Abbiamo anche dei giornali che ignorano la consecutio temporum, come questo che titola: “Il PM è indagato e Di Pietro lo candida”.
In realtà la consecutio temporum esatta è: Di Pietro lo candida e la procura di Roma annuncia che è indagato, perché questa è la reale consecutio.
Dopodiché tutti si possono sbizzarrire dicendo che ci sono quei fanatici di Travaglio, Grillo e tutti gli altri che hanno sempre detto che non si devono candidare gli indagati.
Attenzione, siamo seri: se io volessi impedire a chicchessia di essere candidato, presenterei denunce in tutte le procure d’Italia nei confronti di tutti quelli che so che vogliono candidarsi. Nove su dieci, chi viene denunciato viene iscritto come atto dovuto nel registro degli indagati e quindi potrei dire “quello è indagato, non si deve candidare”. Nessuno di noi ha mai sostenuto una sciocchezza del genere, abbiamo sostenuto che se ci sono dei rinvii a giudizio, delle condanne, sarebbe bene farsi da parte; se ci sono delle condanne definitive sarebbe bene che ci fosse una legge che impedisce la candidatura; se uno è indagato bisogna andare a vedere per che cosa lo è.
Potrebbe essere indagato per avere fatto un blocco ferroviario per bloccare un treno che portava delle armi, per esempio: è un reato ma non c’è nulla di indecente moralmente, stiamo parlando di altro.

Il complice De Magistris

Qui di che cosa si tratta? L’indagine su De Magistris è abuso d’ufficio e interruzione di pubblico servizio, non per avere bloccato un’autostrada o una ferrovia. Sapete qual è la colpa di De Magistris? Pensate a come una parte della magistratura ormai va incontro ai desiderata del potere politico nel giorno giusto e nel momento giusto: l’accusa nasce dalla denuncia della procura di Catanzaro contro quella di Salerno che aveva fatto la famosa perquisizione ai magistrati di Catanzaro, e i magistrati di Catanzaro appena indagati e perquisiti da quelli di Salerno avevano contro sequestrato le carte che gli avevano portato via e avevano incriminato, senza avere nessuna competenza per farlo, i loro colleghi di Salerno per abuso d’ufficio e interruzione di pubblico servizio.
L’interruzione di pubblico servizio era dovuta al fatto che quelli di Salerno gli avevano preso l’originale del fascicolo Why Not, impedendo a quelli di Catanzaro di proseguire nelle indagini, che peraltro languivano da mesi e che sarebbero rimaste bloccate uno o due giorni, il tempo di fare le fotocopie e di restituirlo ai titolari dell’indagine.
In ogni caso i magistrati di Salerno vengono denunciati da quelli di Catanzaro per avere fatto quella perquisizione e avere interrotto quell’importantissimo pubblico servizio.
A questo punto, dato che la procura di Catanzaro è incompetente a fare quella iscrizione nel registro degli indagati, l’inchiesta passa poi alla procura competente, che è quella che deve occuparsi degli eventuali reati commessi a Salerno ed è quella di Napoli.
Ma quella di Napoli non può occuparsene perché nel frattempo il CSM ha trasferito De Magistris proprio a Napoli, allora si va nella procura competente a giudicare i magistrati di Napoli, cioè Roma. Ma anche quella di Roma non è competente, perché a Roma lavorano due dei tre magistrati di Salerno che il CSM nel frattempo ha trasferito per avere fatto la perquisizione a Catanzaro, la dottoressa Nuzzi e il dott. Verasani.
Allora, da Roma questa indagine passerà a Perugia, questa è l’indagine: perché c’è dentro De Magistris? Perché è stato De Magistris, con le sue denunce nei confronti dei colleghi di Catanzaro, a innescare quell’indagine che poi ha portato i magistrati di Salerno a fare la perquisizione a Catanzaro. Anche De Magistris è complice dei magistrati di Salerno per essere poi andati a Catanzaro a portar via le carte di Why Not interrompendo il pubblico servizio.
Questo è il reato che gli viene contestato: “Indagato, eppure lo candidano lo stesso”...
Per essere andato a Salerno a difendere il lavoro che lui riteneva buono – poi nessuna sa se era buono o se era cattivo perché non gli hanno fatto concludere le indagini – e segnalato, com’era suo dovere, gli insabbiamenti e gli ostacoli che aveva incontrato presso i colleghi e i superiori di Catanzaro, De Magistris è indagato.
Quante possibilità ci sono che venga processato per delle cose così assurde? Ecco perché noi siamo sempre affezionati alle carte, ai fatti: perché bisogna grattare dietro la parola “indagato” e andare a vedere cosa c’è. Se fosse indagato perché l’han beccato in un’intercettazione mentre parla con un mafioso, basterebbe e avanzerebbe l’iscrizione nel registro degli indagati per rendere inopportuna la sua candidatura; ma visto che è indagato per quello che vi ho detto, probabilmente avere difeso il proprio lavoro non è una cosa – anche se costituisse reato, cosa di cui dubito – sia infamante e incompatibile con una candidatura.
In ogni caso, resta il problema che dicevo prima: ci sono magistrati della procura più importante d’Italia che tengono in galera gente che non ha commesso lo stupro del il quale erano stati arrestati, continua a tenerli in galera anche se sono stati arrestati i presunti colpevoli veri e nello stesso tempo attiva e comunica, anche violando i segreti, indagini nei confronti di persone che sono entrate nel mirino di tutta la politica, come Genchi e De Magistris, che se avessero commesso dei fatti riprovevoli giustamente dovrebbero essere perseguiti, ma come abbiamo visto vengono accusati di reati molto strani, fumosi di cui non si vede dove sia la consistenza mentre si vede dove sta l’interesse nel colpirli con indagini per poi poter dire “sono indagati”.
L’uno per evitare che gli vengano conferiti ancora degli incarichi di consulenza, l’altro per evitare che possa fare la sua campagna elettorale come è suo diritto.
Ultima cosa, e poi mi taccio: avrete notato che sono stati arrestati i “veri” colpevoli, così ci è stato detto, dello stupro della Caffarella, altri due romeni, e sono stati arrestati come? Con metodi tradizionali, quelli di Maigret e del questore Caruso? No, sono stati arrestati grazie a un incrocio complicatissimo di tracce telefoniche, tabulati telefonici, schede che passano da cellulare a cellulare, a partire dalla scheda dei telefoni che sono stati rubati ai due ragazzini durante il famigerato stupro. Schede che poi hanno cambiato vari titolari, vari cellulari... alla fine si è arrivati al mercato nero dove erano stati rivenduti e ricettati e si è riusciti a risalire a chi poi li aveva comprati, venduti e infine si è arrivati a scoprire, si spera, i veri stupratori della Caffarella.
Questo metodo di lavoro, incrociare i dati telefonici, i tabulati e le intercettazioni, vi ricorda qualcuno? Vi ricorda qualcosa? A me ricorda il metodo Genchi. Mi ricorda il famigerato metodo Genchi, che quando viene usato nei confronti dei rumeni va benissimo, applausi a scena aperta; quando viene usato nei confronti dei politici apriti cielo!
Passate parola.”