lunedì 29 giugno 2020

Gli abusi delle correnti


Più volte nelle interviste televisive o in quelle rilasciate alla carta stampata il dott. Luca Palamara ha affermato che il sistema delle correnti escludeva da qualsiasi nomina i magistrati che non appartenevano, che non erano intranei ai gruppi associativi, nel senso che non venivano nemmeno valutati, presi in considerazione. In buona sostanza, il sistema nei fatti non li riconosceva nemmeno quali soggetti legittimati a partecipare ai concorsi interni.

Non solo, perché il dott. Eugenio Albamonte ha dichiarato recentemente al Corriere della sera, in relazione alla sua nomina qualche anno fa a magistrato segretario del CSM, che ciò avvenne secondo la prassi di scegliere i magistrati segretari tra i più fidati appartenenti alle singole correnti riunite nei rispettivi gruppi consiliari (Io fui nominato secondo le regole, e secondo la prassi di scegliere i segretari del Csm non solo per competenze e professionalità ma anche in riferimento ai gruppi rappresentati in Consiglio - intervista rilasciata a Giovanni Bianconi e pubblicata in data 21/6/20), cioè a dire che quei posti, benché messi a concorso, erano e sono in ogni caso riservati ai magistrati che abbiano dimostrato fedeltà alla corrente.

Dunque, una prassi assolutamente contra legem, perché in violazione dei principi di buon andamento e di imparzialità della P. A., sanciti nell’art. 97 della Carta costituzionale.

Ora, nel nostro codice penale l’art. 323 punisce il pubblico ufficiale che nell’esercizio delle sue funzioni, violando norme di legge o di regolamento, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto; sempre che il fatto non costituisca un più grave reato.

Dunque, affinché possa configurarsi l’abuso d’ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale violi una norma di rango primario (la legge) o secondario (il regolamento) al fine di procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale anche ad un terzo ovvero un danno ingiusto (che non deve essere necessariamente patrimoniale).

Per meglio comprendere la questione di cui si discute, qualche considerazione deve essere svolta innanzitutto con riferimento a quella che gli addetti a lavori chiamano doppia illiceità o doppia ingiustizia, nel senso che il giudice deve compiere una duplice valutazione, sia con riferimento alla condotta che all’evento. 

Ciò non toglie che tale vaglio possa fondarsi sulla stessa violazione di legge o di regolamento, che viene valutata da due angoli prospettici diversi. Anche in questo caso, infatti, non vi sarebbe sovrapposizione del giudizio di illiceità, essendo diverso l’oggetto (in un caso la condotta, nell’altro l’evento), con la conseguenza che l’ingiustizia del vantaggio patrimoniale o del danno potrà derivare dalla violazione delle stesse norme di legge o di regolamento che hanno caratterizzato la condotta di abuso del pubblico ufficiale.

Va evidenziato che sul punto si registrano significative aperture della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 13426/2016, n. 48913/2015, n. 11394/2015).

Nel caso delle nomine di cui si discute non vi è dubbio che la prima violazione va rinvenuta con riferimento all’art. 97 della Costituzione, che sancisce i principi di buon andamento e di imparzialità della P. A. (come può funzionare al meglio la macchina giudiziaria se le nomine vengono effettuate in base alla appartenenza e non al merito? Come può dirsi imparziale una pubblica amministrazione che seleziona i suoi procuratori della Repubblica o i suoi presidenti di Tribunale sulla base della appartenenza, escludendo a priori i magistrati estranei alle logiche inquinate del sistema correntizio?), prima ancora che negli atti di normazione primaria e secondaria che disciplinano la materia.

L’altro aspetto che va sia pure sinteticamente approfondito è quello della intenzionalità del dolo, nel senso che, per potersi configurare l’abuso d’ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale intenzionalmente deve volere procurare a sé o ad altri un vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto; è necessario cioè che il p. u. abbia realizzato la condotta con l’intenzione, o meglio, al fine di conseguire un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero di arrecare ad altri un danno ingiusto.

Dunque, la prova della intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell’agente sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto.

Anche qui viene in soccorso l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha elaborato una serie di cosiddetti indici fattuali, che sono rivelatori della intenzionalità del dolo: così, ad esempio, la «macroscopica illegittimità dell’atto compiuto», l’«evidenza, la reiterazione e gravità delle violazioni», ovvero la «competenza dell’agente» o ancora i rapporti intercorrenti tra il pubblico agente e il soggetto favorito. Ebbene, anche da una analisi superficiale emerge che quegli indici sintomatici si rinvengono tutti nel caso delle nomine effettuate dal CSM, come disvelate pubblicamente dal dott. Palamara e dal dott. Albamonte: la prassi citata da quest’ultimo, così come la confessione del primo sopra sintetizzata, individuano un sistema di nomine macroscopicamente contra legem; altrettanto deve dirsi per la reiterazione delle nomine con quei meccanismi distorti, tanto da non costituire atti sporadici, ma un vero e proprio sistema fondato su logiche clientelari; gli atti sono emanati da un organo costituito da soggetti quantomai competenti, i consiglieri superiori (scelti dai vertici delle correnti tra i magistrati migliori e supinamente eletti dal corpo elettorale); i rapporti di tipo clientelare intercorrenti tra i consiglieri riuniti in gruppi correntizi ed i soci appartenenti alle varie correnti, tra i quali vengono divise le nomine, a scapito dei magistrati non inseriti nel sistema.

Orbene, se le affermazioni del dott. Albamonte dovessero corrispondere al vero, con riferimento alle nomine dei magistrati segretari ci troveremmo davanti ad un plateale abuso d’ufficio, connotato sia dall’ingiusto vantaggio patrimoniale (tenuto conto del cospicuo incremento della retribuzione, rispetto ai colleghi di pari anzianità che svolgono attività giurisdizionale), sia dall’altrui danno (cagionato, oltre alla P. A., a tutti i magistrati non appartenenti al sistema delle correnti, che sono stati pretermessi).

Lo stesso deve dirsi per gli incarichi fuori ruolo, anche essi normalmente preclusi ai non associati, laddove comportino un incremento stipendiale (cosa che avviene nelle maggior parte dei casi).

Tuttavia, l’abuso è configurabile anche in tutte le altre ipotesi, sotto il profilo del danno intenzionalmente cagionato ai pretermessi. Cerchiamo di capire perché.

Alla luce di quanto abbiamo finora evidenziato, si potrebbe sostenere che l’obbiettivo del sistema è quello di piazzare i soci di corrente, non quello di danneggiare i pretermessi estranei alle correnti, per cui, mancando la intenzionalità del danno, non sarebbe configurabile il reato di cui all’art. 323 c. p.

Una siffatta impostazione non può essere condivisa, perché l’evento intenzionalmente voluto dal p. u. deve essere inteso in senso complessivo, comprensivo cioè sia del vantaggio non patrimoniale conseguito dal nominato, che del danno cagionato al pretermesso. In questi casi il p. u. vuole l’evento nel suo complesso, costituendo l’ingiusto vantaggio procurato al socio piazzato e l’esclusione aprioristica del concorrente, che non appartiene al sistema, due facce della stessa medaglia. In altri termini, la nomina del magistrato inserito nel circuito correntizio passa necessariamente attraverso la pretermissione del collega estraneo ai gruppi associati, che pur partecipando formalmente al concorso non viene nemmeno preso in considerazione.

Vi è dolo intenzionale, in conclusione, non solo quando l’esclusione del magistrato estraneo alle correnti costituisce l’obiettivo principale dell'attività voluta dal consigliere superiore, ma anche quando tale pretermissione era solo il mezzo per un ulteriore obiettivo (il piazzamento del socio di corrente), ovvero quando era solo la conseguenza secondaria che si è dovuta necessariamente realizzare per poter piazzare i propri sodali.

Anzi, la complessiva lettura dei fatti emersi dalla indagine perugina, peraltro confessati dal dott. Palamara, consente di affermare che l’esclusione dei magistrati non affiliati alle correnti costituisca l’in sé del sistema, il pilastro su cui lo stesso si regge; non un male sopportato, quale prezzo da pagare per la perpetrazione del sistema, quanto piuttosto un male pervicacemente voluto!

Naturalmente, del reato di abuso d’ufficio sono chiamati a rispondere in concorso, quali istigatori che hanno rafforzato il proposito criminoso dei consiglieri superiori (che allo stato godono della immunità per i voti espressi nell’esercizio della funzione), sia i questuanti direttamente interessati (di cui le chat rivenute nello smartphone del dott. Palamara danno ampio conto), sia gli intermediari ed i capibastone correntizi, che hanno interferito nelle nomine, sponsorizzando - talora anche in maniera assillante, come emerge ancora una volta dalle chat pubblicate - il consigliere superiore o il gruppo consiliare di riferimento.

1 commenti:

Unknown ha detto...

Non si sopporta una giustizia corrotta, bisogna lottare x non ci siano personaggi così meschini