lunedì 1 febbraio 2021

Le nostre tesi in sede istituzionale.



E' la prima volta.

Confidiamo non l'ultima. 

Sopra il video e qui sotto il testo del discorso del Procuratore Generale dott. Roberto Saieva all'inaugurazione dell'anno giudiziario a Catania.    



ps: per chi naviga da mobile ecco il link al video. 




CORTE di APPELLO di CATANIA


INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO 2021

 

Assemblea generale della Corte del 30 gennaio 2021


Intervento del Procuratore Generale

 

Roberto Saieva


Signor Presidente, illustri rappresentanti del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’Onorevole Ministro della Giustizia, Autorità civili, militari e religiose, rappresentanti del libero Foro

 L’anno trascorso rimarrà impresso nella memoria di tutti noi come l’anno – o, meglio, il primo degli anni – della pandemia da virus COVID-19.

 Nella memoria dei magistrati, però, sarà anche l’anno in cui la diffusione di ulteriori atti della nota indagine condotta dai pubblici ministeri di Perugia nei confronti di un ex componente del Consiglio Superiore della Magistratura ha rivelato come lo scenario in una prima fase emerso dall’indagine coinvolgesse un numero di magistrati assai più consistente ed ambienti giudiziari assai più vasti di quel che si poteva ritenere.

E’ quello scenario che già il 21 giugno 2019 il Capo dello Stato, nel suo intervento all’Assemblea plenaria straordinaria del CSM – l’ho ricordato nel mio intervento alla cerimonia inaugurale del 1° febbraio 2020 – aveva definito con taglienti parole “quadro sconcertante e inaccettabile, siccome composto da un “coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il CSM, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato … in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’Ordine Giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla Magistratura”.

Oggi a nessuno è lecito negare che all’interno dell’Ordine Giudiziario un profondo ed esteso processo di pervertimento ha contaminato l’esercizio di poteri e facoltà, connotato lo svolgimento della vita associativa e perfino improntato le dinamiche dei rapporti personali.

 Non che al magistrato di media intelligenza ed esperienza condotte e metodi di cui parlo fossero ignoti! L’indagine perugina li ha però in modo incontrovertibile documentati e l’utile iniziativa di alcuni organi di informazione li ha resi noti anche al di là degli alti muri che proteggono la categoria professionale, alzando impietosamente il sipario su uno spettacolo desolante, che dovrà probabilmente essere oggetto di ulteriori approfondimenti in relazione a recentissime divulgazioni. 

Al decadimento ha fortemente contribuito la degenerazione dei gruppi associativi, nati come luoghi di elaborazione di idee e proposte e trasformatisi a mano a mano in centri di puro, inflessibile esercizio di potere diretto a condizionare l’attività del CSM e la vita interna degli uffici giudiziari, anche contro gli associati dei gruppi antagonisti ed a scapito dei magistrati indipendenti; esso non può tuttavia trovare la sua sola giustificazione nel prevalere della correntocrazia e verosimilmente si spiega con il progressivo indebolimento nella società, a tutti i livelli, dei valori civici; poiché quel che, nel bene e nel male, la società esprime prima o poi penetra in ogni sua istituzione, anche se separata, è sempre meno diffuso il “senso dell’essere magistrato” che un tempo caratterizzava i componenti dell’Ordine Giudiziario.

 Facendo leva sull’elemento della integrità morale della maggioranza dei magistrati – certamente vero,  anche se non è più possibile sostenere la tesi consolatoria che quelle emerse sono isolate vicende di malcostume, ascrivibili a poche mele marce – e attribuendo potere taumaturgico alle iniziative penali, disciplinari ed amministrative assunte nei confronti di alcuni, pochi protagonisti delle vicende oggetto delle investigazioni, i gruppi associativi hanno formulato il solenne impegno di abbandonare le deprecabili pratiche del passato e annunciato l’avvio di una nuova stagione di prassi virtuose.

 Non è una speciale inclinazione al pessimismo quella che induce ad essere scettici sull’esito di simili promesse. L’esperienza dimostra che le istituzioni, di ogni natura, che siano interessate da processi patologici particolarmente severi – e tale è la condizione dei gruppi associativi giudiziari – sono incapaci di autorigenerazione e possono rinnovarsi solo attraverso interventi esterni.

Solo una radicale riforma legislativa che impedisca ai gruppi associativi di condizionare la selezione dei componenti del CSM potrà far sperare che in futuro l’azione dell’Organo di governo autonomo della Magistratura possa essere ispirata, con riferimento alle sue diverse sfere di competenza, a principi di buona amministrazione, piuttosto che a logiche di compromesso e prassi spartitorie tra schieramenti interni, talora operanti in sinergia con poteri esterni all’Ordine Giudiziario.

 Quanto poi a quella generale caduta di tensione morale all’interno della Magistratura alla quale prima accennavo, utile a contrastarla potrebbe essere un forte impegno educativo, in particolare della Scuola Superiore della Magistratura, non soltanto nella fase del tirocinio; presso la Scuola bisognerebbe parlare di deontologia professionale tanto quanto si parla di diritto e di efficienza dell’azione giudiziaria.

Utile, ma non sufficiente! L’esercizio di un potere incisivo come quello giudiziario, connotato da vasta discrezionalità nella interpretazione del diritto così come nella valutazione del fatto, necessita di adeguati contrappesi. Non può esistere un potere senza responsabilità, un potere cui non corrisponda un efficace sistema di controlli.

 Quelli esistenti non lo sono abbastanza. Occorrerebbe ridisegnare, com’era stato proposto in passato, la mappa delle competenze per i procedimenti penali riguardanti i magistrati, che nell’assetto attuale concede a questi ultimi una giustizia di eccessiva prossimità; e, come pure era stato proposto, sarebbe probabilmente opportuno prevedere un periodico obbligo di informazione al Parlamento sull’attività svolta dai titolari dell’azione penale e disciplinare nei confronti dei magistrati; e positivi effetti potrebbe avere una modifica delle disposizioni di cui all’art. 18 della legge di ordinamento giudiziario che regolano le incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità dei magistrati con esercenti la professione forense, oggi ispirate ad una elasticità tale da vanificarne gli scopi.

 Non pare tuttavia che ci si stia avviando lungo un percorso di idonee riforme, tanto sul piano del ridimensionamento del potere delle correnti, quanto sul piano della individuazione di più efficaci controlli sull’attività giudiziaria.

 Ho aperto l’intervento evocando la pandemia che ha sconvolto il nostro Paese, come il resto del mondo. Tra gli effetti del morbo che si è diffuso, certamente secondari rispetto alle tante morti ed al disastro economico che sta provocando, ma comunque significativi, ci sono la legislazione e l’amministrazione dell’emergenza.

 I magistrati hanno in generale fatto il loro dovere durante l’anno trascorso, al fine di coniugare, come richiesto, l’esigenza di assicurare un accettabile livello del servizio giudiziario, con quella di garantire la sicurezza sotto il profilo sanitario degli operatori e degli utenti.

 Lo hanno fatto tra le difficoltà causate da una legislazione convulsa, che, per un certo periodo, ha tra l’altro conferito poteri para-normativi ai capi degli uffici giudiziari anche ai fini, di non poco momento, dell’adozione di linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze, con la conseguente istituzione nel territorio nazionale, in un quadro caotico, di molteplici prassi diverse nello svolgimento dell’attività giudiziaria, penale e civile.

 Una legislazione che talora non si è preoccupata di incidere sulle regole consolidate del rito, in particolare di quello penale, soprattutto con riguardo al carattere della oralità, con la previsione della celebrazione dei processi a distanza o con la trattazione cartolare dei giudizi di appello, e pure con riguardo all’esigenza della effettiva collegialità delle decisioni, con la previsione dello svolgimento delle camere di consiglio attraverso collegamenti da remoto, in ossequio ad una urgenza di innovazione digitale che è sicuramente condivisibile, ma che non può non reclamare cautela quando investe il processo che, per dirla con Calamandrei, è creatura viva.

 E lo hanno fatto il loro dovere i magistrati – e qui mi riferisco in particolare ai capi degli uffici – tra le difficoltà di gestione amministrativa generate per un verso dalla insistente promozione del c.d. lavoro agile, che nel settore pubblico si è risolto nella maggior parte dei casi in una mera finzione pietosamente negata, per altro verso dalla necessità di corrispondere ai compiti sempre più estesi che gli organi del Ministero della Giustizia ai capi degli uffici giudiziari hanno delegato.

 Mai come durante questa emergenza sanitaria gli organi giudiziari sono stati chiamati ad assumere responsabilità non confacenti alla loro natura e scarsamente compatibili con il principio della divisione dei poteri affermato nella Carta costituzionale, che nell’art. 110 attribuisce al Ministro della Giustizia e solo ad esso l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.

 E’ speranza comune di tutti i cittadini che la pandemia cessi, ma nel mondo giudiziario, tra gli operatori del diritto, alla invocazione della scomparsa del virus non può non sommarsi la speranza che cessi al più presto uno stato di eccezione che dura già da un anno e con esso tramonti la stagione dei provvedimenti di emergenza.

 

 

 

Il Procuratore Generale

Roberto Saieva

 


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