di Vittorio Grevi
(Professore Ordinario di Procedura Penale)
da Il Corriere della Sera del 30 dicembre 2007
A parte la singolare (e assai discutibile, non trattandosi di materia affidata alle scelte individuali) rinuncia proveniente dallo stesso interessato, il provvedimento di ricovero in ospedale di Bruno Contrada, disposto l’altro ieri dal competente magistrato di sorveglianza, ha finalmente incanalato nella direzione giusta la controversa vicenda dell’ex funzionario del Sisde, condannato in via definitiva a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa (che non è un «reato crepuscolare», come qualcuno vorrebbe far credere).
Una vicenda sulla quale in troppi hanno parlato e straparlato, spesso sulla base di argomenti puramente emotivi (e talora perfino senza rendersi conto di quel che dicevano), provocando equivoci e tensioni che probabilmente non hanno giovato nemmeno allo stesso Contrada.
In simili ipotesi, quando un detenuto si trovi in condizioni di salute così gravi da non poter essere fronteggiate in carcere, la direzione giusta è quella fisiologicamente suggerita dalle leggi dettate al riguardo.
In primo luogo, per l’appunto, vi è la possibilità per il magistrato di sorveglianza di disporre il ricovero del detenuto in un ospedale civile, per assicurargli le cure necessarie (e così è avvenuto per Contrada, trasferito all’ospedale Cardarelli di Napoli, ed ivi sottoposto a piantonamento).
In secondo luogo, quando la gravità delle condizioni di salute del detenuto sia tale da risultare incompatibile con la prosecuzione dello stato detentivo, la prospettiva meglio praticabile, trattandosi di condannato definitivo, è quella di richiedere al tribunale di sorveglianza il rinvio della esecuzione della pena: cioè un provvedimento che ne comporta la sospensione, e quindi la liberazione temporanea del recluso.
Proprio questa prospettiva risulta tuttora aperta nei confronti di Contrada, e anzi la relativa udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Napoli è stata addirittura anticipata al prossimo 10 gennaio, evidentemente sulla base di una valutazione di urgenza, che non era stata invece condivisa, nemmeno 20 giorni fa, dal magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere: il quale, altrimenti, avrebbe potuto provvedere al rinvio in forma provvisoria.
In ogni caso, attraverso i due suddetti passaggi (ricovero in ospedale civile ed anticipazione della udienza sulla richiesta di rinvio), il detenuto Contrada ha visto tutelate, per quanto possibile, sia le sue esigenze sanitarie, sia le conseguenti aspettative ad ottenere, ove se ne accertino i presupposti, il differimento della esecuzione della pena.
Se queste sono le linee di intervento legislativamente previste in circostanze del genere (la detenzione domiciliare non è ammessa, invece, nel caso dei delitti di mafia), non può non destare sconcerto il polverone sollevato, nei giorni scorsi, da una «supplica» di grazia inviata dall’avvocato di Contrada al Presidente Napolitano, e da questi correttamente trasmessa al ministro della Giustizia, secondo prassi, per le incombenze di rito.
A parte ogni altra possibile considerazione (legata, per esempio, al tipo di reato commesso ed alla misura della pena sinora espiata) deve essere chiaro, infatti, che un provvedimento eccezionale come la grazia, ispirato a «finalità essenzialmente umanitarie», intanto potrebbe giustificarsi nei confronti di un condannato in precarie condizioni di salute, in quanto non fossero esperibili, allo scopo, gli ordinari rimedi predisposti dal sistema.
Ma non è questa, come si è visto, la situazione di Bruno Contrada. Il quale, per contro, se volesse contestare come «ingiusta» la sentenza che lo ha condannato, non avrebbe altra via che quella di chiedere la revisione del processo.
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