Pubblichiamo il testo dell’intervento di don Virginio Colmegna, Presidente della Fondazione Casa della Carità “Angelo Abriani” al XXIX Convegno dell’Associazione Nazionale Magistrati, tenutosi a Roma dal 6 all’8 giugno.
di don Virginio Colmegna
(Presidente della Fondazione Casa della Carità “Angelo Abriani”)
Ringrazio per l’invito e non posso fare altro che consegnarvi una esperienza, quella che sto svolgendo a Milano come Fondazione Casa della Carità, non solo come testimonianza, ma perché in quel luogo si sviluppano saperi, una domanda culturale, crescono riflessioni, inquietudini, interrogativi, soprattutto in questa fase.
E’ quindi con umiltà che voglio comunicare qui a dicendo ancora grazie a voi e, in particolare, a Edmondo [Bruti Liberati], che mi ha invitato.
E’ una Fondazione, quella di Casa della Carità, che è una casa di ospitalità, dove si abita, dove abito anch’io, attualmente ci sono 130 tra uomini e donne di tante nazionalità (più di 72) ed anche persone e famiglie rom, accolti dopo uno dei tanti sgomberi.
Siamo presenti poi nei diversi “non luoghi” della metropoli, con un approccio sempre di mediazione, di attenzione al contesto, di sviluppo di patti di socialità e legalità.
Puntiamo molto alla socialità che produce legalità.
Stare nel mezzo delle situazioni con un sociale che non può essere soltanto residuale o strumentale per logiche solo di contenimento o espulsive.
Distinguere sicurezza e legalità è estremamente importante: l’ondata emotiva a favore della sicurezza non è affatto accompagnata da un’analoga ondata emotiva a favore della legalità.
Vi è una scarsissima affezione per le regole: riteniamo pericolosa questa frattura tra legalità e sicurezza.
Una società dove il bisogno di sicurezza prospera, slegato dal discorso sulla legalità, si espone inevitabilmente al rischio di derive anche autoritarie o di stampo populista.
La frattura esistente vorrebbe imporre un sociale buonista, assistenzialistico, compassionevole, che lasci spazio a una gestione dell’ordine pubblico tutto di ridimensionamento del valore della coesione e responsabilità sociale.
La politica deve avere un ruolo diverso da quello di essere accompagnatore delle emozioni, qualche volta accondiscendente, ma deve governare, anticipare le situazioni.
Questo vale anche per il tema degli stranieri, dove spesso si sviluppa una riduzione che riporta alla questione di sicurezza, con questo ragionamento: “Chi entra in Italia senza titolo di soggiorno è in una situazione di illegalità, ogni illegalità è una minaccia per la sicurezza dei cittadini; ergo – e qui è un passaggio indebito, però che passa nella mentalità comune – la questione degli stranieri è una questione di sicurezza”.
Non è così semplice, e la politica non può non affrontare la complessità.
Noi vediamo, ad esempio, quante donne sono nelle nostre case, con una irregolarità quasi indispensabile per essere accolti, ma soprattutto la società civile, il sociale deve produrre legalità, responsabilità.
Avere ridotto il sociale a emergenza umanitaria, non sostenerlo come luogo e ambito dove si devono creare anche le premesse per i processi di inclusione sociale, collaborare a rompere le diffidenze e promuovere cultura effettiva di legalità, non aver fatto questo è un grave limite.
Ma quando mai si può accettare che si insinui l’idea che si sottovaluta la legalità e la giustizia, proprio stando con loro!
Non possiamo pensare a una politica che si consegna solo all’ordine pubblico.
Ma per fare questo si chiede di abbassare i toni dell’ideologia dei proclami, operare silenziosamente, impostare e dare valore alle scelte formative ed educative (scuola in primis).
Noi stiamo vivendo nella città con una presenza che vuole essere anche un laboratorio di ricerca, di comunicazione culturale, un luogo da cui guardare la città, la sua domanda di serenità, di sviluppo, di coesione, di amicizia.
E’ da qui che è nato quello stile di mediazione sociale, di costituzione di un’ospitalità fondata su patti, su regole condivise.
Per noi, e ne siamo sempre più convinti, la socialità, la rottura dell’indifferenza, il far crescere la passione per la responsabilità sociale e anelito di giustizia, sono scelte importanti.
Chiedono uno stare nel mezzo della realtà, del contesto sociale, assumerne anche le contraddizioni, ma non rendere residuale o semplicemente assistenzialistica questa domanda di relazione.
E’ il vuoto di politiche sociali, di sottovalutazione della qualità sociale degli interventi che alimenta marginalità, le cronicizza.
Ad esempio, dopo lo sgombero di Opera con alcune tende bruciate ci furono continuamente pressioni e manifestazioni cariche di rifiuto, di intolleranza in uno scontro che rischiava di diventare pesante.
Ebbene abbiamo scelto di ospitarli noi, stando con loro, portando un patto di socialità e legalità, esigendo una contrattazione forte, molte di quelle famiglie che hanno accettato di condividere con noi questo percorso, ora abitano in case lavorano.
Abbiamo scelto la strada del rifiuto dell’ideologia del capro espiatorio, ma anche quella delle vittime tout court.
E’ possibile dunque individuare e praticare risposte di inclusione sociale, prevenire e contrastare forme di devianza più o meno esplicite, proprio creando un clima di fiducia, non generica o retorica, ma realmente conquistata e resa possibile, creando ovunque un contesto positivo di ospitalità, di accoglienza,di legalità e sicurezza.
Si dice che debbono avere casa e lavoro, gli immigrati, che vanno superati campi e favelas.
Siamo d’accordo e certamente lo vediamo doveroso e urgente.
Ma chi è disposto, chiediamocelo, a concedere credito a questa domanda, dare anche nel mercato abitativo, una abitazione?
Tutte le nostre famiglie, che ora abitano in una casa, pagano l’affitto e vivono normalmente, hanno dovuto nascondere la propria identità, non farsi riconoscere nel lavoro come persone di etnia rom.
Si proclama dunque un percorso e si creano le condizioni perché questo percorso non venga reso possibile o comunque difficilissimo.
Ecco perché dobbiamo riconoscere che il linguaggio duro, la spinta a generalizzare il rifiuto non favorisce la dura contrattazione, che è decisiva per dare vita a percorsi positivi.
Abbiamo e continuiamo a segnalare illegalità e questo si può stando nel mezzo, recuperando credito e fiducia, abitando anche con loro.
Si vuole, parrebbe, qualche volta che il problema rimanga, si toglie quel respiro sociale fiduciario che non nega la paura, ma vi inserisce possibilità di superarlo.
La sfida è questa, proprio quando si rafforza un impianto legislativo, che si vuole forte, di vivere contestualmente una fiducia nel sociale, non solo residuale o visto solo come controllo funzionale soltanto a rafforzare la spinta espulsiva.
Anche nel decreto che nomina i prefetti commissari è detto che non è solo per l’emergenza i rom, ma anche per le altre questioni degli stranieri, ma si individua anche che per superare un’emergenza forte di disagio abitativo, si indicano anche obiettivi rivolti al piano delle relazioni sociali, dentro le nostre istituzioni (scuola, mondo produttivo, sanità).
Come è possibile se il respiro generalizzato è di rifiuto, se i linguaggi diventano carichi di logiche solo espulsive?
Le titolazioni di alcuni giornali fanno paura.
Da noi sono ospiti molte donne che hanno sostenuto nelle case delle nostre famiglie una cura agli anziani.
Sono spesso poi lasciate in strada, appena l’anziano assistito muore, perché non servono più.
Sono solo, sembrerebbe, utili donne che poi vivono drammi forti: si può intravedere qualche spiraglio di seria considerazione che chiede di abbassare i toni, sentirsi interrogati da questa presenza che non può essere solo utile?
Non basta il criterio della forza, della repressione.
Non basta la legge, la magistratura ingolfata, un penale che non è più minimo, un carcere che diventa l’istituzione finale che contiene.
Si può fare tutto questo, discutere all’infinito, ma non si può permettere la crescita di un clima di rifiuto, di violenza subita e invocata.
Con uno slogan potremmo dire che “deve finire la campagna elettorale”.
Quanta economia sommersa vi è e chiediamoci perché, e lo sappiamo, la stragrande maggioranza di immigrati è regolarizzata ex post.
Lo sappiamo che i flussi evidenziano una presenza che chiede di interrogarsi insieme, non renderlo solo un problema di ordine pubblico, favorire cittadinanza amministrativa, patti internazionali forti e significativi, dare credito al fatto che il sociale non solo è protezione civile, ma può essere la sfida vera perché l’intervento di prevenzione e repressione della criminalità, micro e macro, si possa avviare e diventi possibile.
Non abbiamo bisogno di un sociale buonista, che lasci spazio a una gestione dell’ordine pubblico senza l’assunzione di responsabilità politiche sul piano delle regole sociali.
Non si può affrontare a far crescere come un’onda difficile da governare che il vero e unico problema sia il clandestino, genericamente chiamato senza avvertirne la complessità.
Si pensi ai richiedenti asilo, ai ricongiungimenti, ai permessi scaduti, ai consolati che ritardano visti (e l’azienda non può aspettare e quindi diventano persone che lavorano, ma che perdono il permesso di soggiorno).
Dentro i drammi di morti, che si dovrebbero evitare, proprio per dare credito a questo sforzo legislativo, si chiede che il linguaggio, spesso ossessivamente di rifiuto e di semplificazione fuorviante dei problemi, ceda il passo.
E allora permettetemi un’ultima considerazione: in un Paese dove la giustizia penale ha dato così modesta prova di efficienza, assistiamo quasi ad una misteriosa riuscita del tentativo di orientare il bisogno di sicurezza prevalentemente sulla giustizia penale, per di più intesa nella sua accezione più ristretta: ad ogni emergenza si risponde con un aumento della pena e con un’introduzione di nuovi reati.
E così, mentre tutti riconoscono che il problema è sempre quello irrisolto, di processi rapidi e di pene certe, si finisce in un groviglio inestricabile dove il rapporto tra il valore collettivo e misura della punizione perde qualsiasi ragionevolezza.
Insomma, la domanda di sicurezza richiede tempi lunghi, ma anche un forte lavoro di convincimento educativo, fatto di legami sociali, di rottura dell’indifferenza, di respiro di vita, di dignità e cura delle vittime.
Anzi, proprio partendo dalle vittime, dalla loro domanda di risarcimento e di giustizia si richiede un sistema sociale carico di legami, di responsabilità, una cultura che parli ancora di fiducia, di ospitalità una visione della pena non solo carcerariocentrica.
Non vorrei che la mia e le esperienza di tanti venissero catalogate solo nel capitolo testimonianza e/o emergenza umanitaria.
E’ una scelta che esige di non essere abbandonata o resa residuale.
E’ una domanda forte di prossimità, di una stagione matura e consapevole della complessità, ma anche dell’irrinunciabile esigenza di una solidarietà competente e alleata davvero con la magistratura, perché insieme cultori e diffusori di legalità e giustizia: ma non si può far insinuare una mentalità che chiama reati una condizione di vita, di appartenenza etnica.
In Casa della Carità viviamo con ansia e con inquietudine questa fase, ma non cessiamo di stare nel mezzo, di continuare ad ospitare e regalarci esperienze positive, di non cedere a allarmismi, di continuare ad operare con le Istituzioni, Prefetto compreso.
Si può non vedere più necessari neppure i campi nomadi, si può essere costruttori e gestori di patti condivisi, di regole.
L’importante è misurarsi sul concreto senza deleghe.
Per favore, sgomberiamo insieme l’insinuazione che chi rischia con la passione per la giustizia sia tollerante di fronte all’illegalità.
E’il contrario.
Per questo chiediamo norme gestibili, possibili e monitoraggi continui, risorse ed un alto livello di sperimentazione, di cooperazione internazionale.
In Romania, ad esempio, si possono costruire percorsi insieme, senza generalizzare, ma nel concreto.
Si interrompa anche quel clima di assedio che incrina o favorisce scontri ideologici o demagogici fatti da persone che, a volte ci pare, vorrebbero che il problema rimanga perché è rendita di consenso.
Si discuta, si scelga.
A noi compete consegnarvi l’urgenza di non abbandonare la fiducia nel sociale, nella logica solidale e pacifica.
Non è ingenuità ma è coraggiosa assunzione di responsabilità.
E’ fiducia ancora una volta che sradicare la cultura del nemico, bonificare i giacimenti di odio e rancori generali, non renderli luoghi usati per consenso e strategie politiche sia possibile in un Paese dove si può ancora proclamare una carità colma di giustizia e dove vi è una magistratura che va messa in condizione di condannare chi commette reati e di operare.
Ma, e chiudo davvero, quel clima collaborativo che viene richiesto chiede di riportarsi al pragmatico, che misura le norme sull’efficacia e la praticabilità e dà credito alle istituzioni che si assumono responsabilità e che non possono che far crescere cultura di pace e di giustizia.
Ma allora bisogna comprendere che educarsi alla legalità significa anche non assecondare facilmente l’equazione “regolare=legale”, perché molte delle azioni criminose sono organizzate e messe in atto da persone italiane o straniere con permesso di soggiorno e molte delle azioni “delittuose” prosperano in un clima di valori e di coscienza civile debole, fragile e connivente rispetto a fenomeni che attraversano anche il disagio (droga, mercato del sesso, usura, violenza, ecc).
E allora se questa è una fase politica e culturale che vuole ritrovare punti comuni, ascoltiamoci davvero ed interrompiamo quei toni da “scaldamuscoli” che da troppo tempo imperversano nelle notizie, nei commenti e nelle priorità dichiarate nei talk show televisivi.
Prevenire significa educarsi e render sempre più minimo l’utilizzo del penale e soprattutto riuscire a far sì che il carcere non diventi una cloaca, dove scaricare le persone pensando che si possa buttare via la chiave.
E questo vale anche per i diciotto mesi, messi in un luogo che non si potrà gestire solo con il contenimento e dove il cambiamento di nomi dà vita ad un indirizzo che non condividiamo.
Ed allora mai e poi mai dimentichiamo quanto dice un aforisma zingaro: “non bisogna mai mettere un uomo nella condizione di non aver niente da perdere”.
Devo dire che, pur avendo seguito con un certo interesse, il dibattito sulle intercettazioni, mi sono anche rammaricato che questo intervento di don Virginio Colmegna, non avesse avuto neanche un commento. Indegnamente, lo faccio io il commento. Magari andrò oltre l'intervento, ma fondamentalmente vi ho letto due cose, che, allo stato larvale e semiconscio, ho sempre pensato. Una è che, se vuoi aiutare una persona (Rom, Clandestino o altro), devi smettere di pensare a lui come un poveraccio morto di fame a cui fare l'elemosina, ma considerarlo proprio come te e responsabile proprio come te ("costituzione di un'ospitalità fondata su patti, su regole condivise" - "rifiuto dell'ideologia del capro espiatorio, ma anche di quella delle vittime tout court"). L'altra è che il tema degli stranieri clandestini è stato, è e sarà un argomento di consenso facile ("Si interrompa anche quel clima di assedio che incrina o favorisce scontri ideologici e demagogici fatti da persone che, a volte ci pare, vorrebbero che il problema rimanga perché è una rendita di consenso").
RispondiEliminaL'inciviltà del tempo presente si misura, malgrado l'avvertimento di voci così alte e generose dall'"elevare a reato una condizione di vita, di appartenenza etnica". Se non sono leggi razziali, poco ci manca. Il meccanismo di cattura del consenso è lo stesso: la politica e la legislazione ora parla lo stesso linguaggio dei bar (è anche comprensibile che si inneschino certi meccanismi di guerra tra poveri stando pigiati in luoghi degradati delle città... la paura di girare in certi luoghi insicuri si associa mediante falsa rappresentazione di causalità, allo straniero, al povero, al reietto).
Ecco ho ripetuto concordando e sottoscrivendole molte parole di questo post. Lo condivido tutto.
Un affettuoso saluto a tutti.
I.