di Gian Antonio Stella
(Giornalista)
da Corriere.it del 9 maggio 2009
Il caso del «respingimento». Il Consiglio dei rifugiati: a un centinaio spettava il soccorso. Tra Europa e Africa Tripoli non ha mai riconosciuto la Convenzione internazionale.
Roma - Chissà quanti erano, tra quei clandestini ributtati in Libia, ad avere diritto allo status di rifugiati. Uomini, donne e bambini in fuga da regimi assassini che forse sono già stati ammassati in un container e stanno ora viaggiando attraverso il deserto per esser scaricati in mezzo al Sahara. Bobo Maroni, fiero della scelta, ha detto che se vogliono chiedere asilo possono farlo lì.
«Anche in Libia c’è un Cir, un centro italiano per i rifugiati, aperto a tutti», ha detto il ministro dell’Interno. Sapete quante persone ci lavorano? Una. E solo da lunedì. E senza mezzi. E senza il riconoscimento di Tripoli. Che del resto non ha mai riconosciuto manco la Convenzione di Ginevra sui rifugiati.
È chiarissima quella carta ginevrina del 1951. Ha diritto all’asilo chi scappa per il «giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche».
Altrettanto netto è l’articolo 10 della Costituzione: «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Vogliamo prendere una storia a caso, dall’inferno dei campi libici? Ecco quella di una donna eritrea, cristiana, nel documentario «Come un uomo sulla terra» di Andrea Segre: «Ero in prigione con un’amica eritrea incinta, la rabbia le aveva deformato il viso. Il marito cercava di difenderla perché il poliziotto le premeva la pancia col bastone dicendole: ‘Hai in pancia un ebreo, andate in Italia e poi in Israele per combattere gli arabi’».
Un’altra donna: «Preferivamo morire piuttosto che doverci togliere la croce al collo. Piangevamo, se questa era la volontà di Dio l’accettavamo, ma la croce non la volevamo togliere. Cristiani siamo e cristiani rimarremo. E loro ci sbattevano contro il muro. Mentre gli uomini venivano picchiati noi urlavamo. Gli uomini venivano frustati sotto la pianta dei piedi fino a perdere i sensi».
Situazioni agghiaccianti. Denunciate già nel 2004 da una Missione tecnica in Libia dell’Unione europea, dove si parlava di abusi, arresti arbitrari, deportazioni collettive ...
Confermate nel febbraio 2006 dalla deposizione del prefetto Mario Mori, il direttore del Sisde, in una audizione al Comitato parlamentare di controllo: «I clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi ...».
La visita al centro di accoglienza di Seba lo aveva turbato: «Prevede di ospitare cento persone ma ce ne sono 650, una ammassata sull’altra senza rispetto di alcuna norma igienica e in condizioni terribili».
Per non dire di certe deportazioni nei container blindati come quella raccontata da Anna («Presto sotto il sole di luglio il container diventò un forno, l’aria era sempre più pesante, era buio pesto. I bambini piangevano. Due giorni di viaggio senza niente da bere, né da mangiare. Alcuni bevevano le proprie urine») in «Fuga da Tripoli / Rapporto sulle condizioni dei migranti in transito in Libia», a cura dell’Osservatorio sulle vittime delle migrazioni «Fortress europe». Osservatorio secondo il quale in soli cinque anni «dal 1998 al 2003 più di 14.500 persone sono state abbandonate in mezzo al deserto lungo la frontiera libica con Niger, Ciad, Sudan ed Egitto. Molti deportati, una volta abbandonati nel deserto hanno perso la vita».
E per non dire ancora degli stupri, come nella testimonianza di Fatawhit: «Ho visto molte donne violentate nel centro di detenzione di Kufrah. I poliziotti entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti a tutti. Non facevano alcuna distinzione tra donne sposate e donne sole. Molte di loro sono rimaste incinta e molte di loro sono state obbligate a subire un aborto, fatto nella clandestinità, mettendo a forte rischio la propria vita».
Forzature? Lasciamo la risposta al comunicato ufficiale del Servizio Informazione della Chiesa Italiana: «Non possiamo tollerare che le persone rischino la vita, siano torturate e che l’85 per cento delle donne che arrivano a Lampedusa siano state violentate».
Per questo i vescovi non hanno dubbi: è «una vergogna» che siano state respinte persone che «hanno già subito delle persecuzioni nei rispettivi Paesi». Posizione ribadita dall’Osservatore Romano: «Preoccupa il fatto che fra i migranti possa esserci chi è nelle condizioni di poter chiedere asilo politico. E si ricorda anzitutto la priorità del dovere di soccorso nei confronti di chi si trova in gravi condizioni di bisogno».
Questo è il nodo: la scelta di tenere verso gli immigrati in arrivo una posizione più o meno dura, compassionevole o «cattiva», come ha teorizzato tempo fa Maroni, spetta a chi governa. Ed è giusto che sia così.
La decisione di «fare di ogni erba un fascio», rifiutare ogni distinzione e respingere chi arriva senza neppure concedergli, per dirla coi vescovi, almeno la possibilità di dimostrare che ha diritto all’asilo, è però un’altra faccenda.
Che non solo rinnega una storia piena di esuli politici (da Dante a Mazzini, da Garibaldi ai fratelli Rosselli a don Luigi Sturzo) ma, secondo Laura Boldrini e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, fa a pezzi le regole vigenti poiché «tutti gli obblighi internazionali» e anche la legge italiana «vietano tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo».
Quanti erano, su quella barca respinta, quelli che avrebbero avuto diritto ad essere accolti? Risponde Christopher Hein, Direttore del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati: «Generalmente tra i disperati che arrivano a Lampedusa quelli che chiedono diritto d’asilo sono il 70% ma di questi solo la metà ottiene lo status di rifugiato. Gli egiziani o i maghrebini, per esempio, difficilmente lo chiedono. Del resto difficilmente lo otterrebbero. Gli stessi cinesi non lo chiedono mai. Ora, poiché tra i passeggeri di quella nave riportati in Libia non c’erano maghrebini, egiziani o cinesi, è presumibile che almeno il 70% avrebbe chiesto asilo. E di questi, con ogni probabilità, la metà ne aveva diritto. Il che significa che l’Italia ha respinto almeno un centinaio di persone alle quali la nostra Costituzione garantiva il soccorso».
Non possono farlo adesso? «La vedo dura. In tutta la Libia, dico tutta (non sappiamo neppure quanti siano i centri libici di detenzione, pare 25) abbiamo una persona. Che si è insediata da quattro giorni. Senza avere ancora il riconoscimento delle autorità. Veda un po’ lei ...».
A dire la verità G.A Stella scrive sul Corrie e non su Repubblica: sarebbe, forse, il caso di coreggere il titolo (a meno che non vi sia qualche preselezione automatica...)
RispondiEliminaPer Anonimo delle 0.10.
RispondiEliminaGrazie mille della segnalazione.
Abbiamo corretto l'errore.
Non c'è nessuna "preselezione", ma solo una distrazione del webmaster, che ieri ha formattato e impaginato molti articoli tutti insieme.
La Redazione
"Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati;
RispondiEliminanoi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini;
noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell'anima prima che dalla morte anonima.
Noi non ritorneremo.
Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe parlare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all'uomo di fare all'uomo".
Se questo è un uomo. Primo Levi.
Verrà un giorno in cui ci
vergogneremo di essere stati quello che oggi siamo diventati.
Come oggi ci vergognamo di essere stati fascisti... almeno una buona parte del Paese