di Giuseppe D’Avanzo
(Giornalista)
da Repubblica del 20 maggio 2009
E’ giusto ricordare che, se Silvio Berlusconi non si tosse fabbricato l’immunità con la “legge Alfano”, sarebbe stato condannato come corruttore di un testimone che ha protetto dinanzi ai giudici le illegalità del patron della Fininvest.
Condizione non nuova per Berlusconi, salvato in altre occasioni da norme che egli stesso si è fatto approvare da un parlamento gregario.
Le leggi ad personam, è vero, sono un lacerto dell’anomalia italiana che trova il suo perno nel conflitto di interessi, ma la legislazione immunitaria del premier è soltanto un segmento della questione che oggi l’Italia e l’Europa hanno davanti agli occhi.
Le ragioni della condanna di David Mills (il testimone corrotto dal capo del governo) chiamano in causa anche altro, come ha sempre avuto chiaro anche il presidente del consiglio.
Nel corso del tempo, il premier ha affrontato il caso “All Iberian/Mills” con parole definitive, con impegni che, se fosse coerente, oggi appaiono temerari: «Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conoscevo neppure l’esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario» (Ansa, 23 novembre 1999, ore 15.17).
Nove anni dopo, Berlusconi è a Bruxelles, al vertice europeo dei capi di Stato e di governo.
Ripete: «Non conoscevo Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l’Italia» (Il sole24ore.com; Ansa, 20 giugno 2008, ore 15.47).
E’ stato lo stesso Berlusconi a intrecciare consapevolmente in un unico destino il suo futuro di leader politico, «responsabile di fronte agli elettori», e il suo passato di imprenditore di successo.
Quindi, ancora una volta, creando un confine indefinibile tra pubblico e privato.
Se ne comprende il motivo perché, nell’ideologia del premier, il suo successo personale è insieme la promessa di sviluppo del Paese. I suoi soldi sono la garanzia della sua politica; sono il canone ineliminabile della «società dell’incanto» che lo beatifica; quasi la condizione necessaria della continua performance spettacolare che sovrappone ricchezza e infallibilità.
Otto anni fa questo giornale, dando conto di un documento di una società internazionale di revisione contabile (Kpmg) che svelava l’esistenza di un «comparto estero riservato della Fininvest», chiedeva al premier di rispondere a qualche domanda «non giudiziaria, tanto meno penale, neppure contabile: soltanto di buon senso. Perché questi segreti, e questi misteri? Perché questo traffico riservato e nascosto? Perché questo muoversi nell’ombra? Il vero nucleo politico, ma prima ancora culturale, della questione sta qui perché l’imprenditorialità, l’efficienza, l’homo faber, la costruzione dell’impero – in una parola, i soldi – sono il corpo mistico dell’ideologia berlusconiana» (Repubblica, 11 aprile 2001).
Berlusconi se la cavò come sempre dandosi alla fuga.
Andò a farsi intervistare senza contraddittorio a Porta a porta per dire: «All Iberian? Galassia off-shore della Fininvest? Assolute falsità».
La scena oggi è mutata in modo radicale.
Se il processo “All Iberian” (condanna e poi prescrizione) aveva concluso in Cassazione che «non emerge negli atti processuali l’estraneità dell’imputato», le motivazioni della sentenza che ha condannato David Mills ci raccontano il coinvolgimento «diretto e personale» di Silvio Berlusconi nella creazione e nella gestione di «64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest».
Le creò David Mills per conto e nell’interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle “fiamme gialle” corrotte), Mills mentì in aula per tener lontano Berlusconi dai guai, da quella galassia di cui l’avvocato inglese si attribuì la paternità ricevendone in cambio «enormi somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali», come si legge nella sentenza.
È la conclusione che ha reso necessaria l’immunità.
Berlusconi temeva questo esito perché, una volta dimostrato il suo governo personale sulle 64 società off-shore, si può oggi dare risposta alle domande di otto anni fa, luce a quasi tutti i misteri della sua avventura imprenditoriale.
Si può comprendere come è nato l’impero del Biscione e con quali pratiche.
Lungo i sentieri del «group B very discreet della Fininvest» sono transitati quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che hanno ricompensato Bettino Craxi per l’approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi (se non si vuole dar credito a un testimone che ha riferito come «i politici costano molto ... ed è in discussione la legge Mammì»). E ancora, il finanziamento estero su estero a favore di Giulio Malgara, presidente dell’Upa (l’associazione che raccoglie gli inserzionisti pubblicitari) e dell’Auditel (la società che rileva gli ascolti televisivi); la proprietà abusiva di Tele+ (violava le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le “fiamme gialle”); il controllo illegale dell’86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l’acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; la risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma; gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente.
Sono le connessioni e la memoria che sbriciolano il «corpo mistico» dell’ideologia berlusconiana: al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c’è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.
Questo è il quadro che dovrebbe convincere Berlusconi ad affrontare con coraggio, in pubblico e in parlamento, la sua crisi di credibilità, la decadenza anche internazionale della sua reputazione.
Magari con un colpo d’ala rinunciando all’impunità e accettando un processo rapido.
Non accadrà. Il premier non sembra comprendere una necessità che interpella il suo privato e il suo ufficio pubblico, l’immagine stessa del Paese dinanzi al mondo.
Prigioniero di uno stinto narcisismo e convinto della sua invincibilità, pensa che un bluff o qualche favola o una nuova nebbia mediatica possano salvarlo ancora una volta.
Dice che non si farà processare da questi giudici e sa che non saranno «questi giudici» a processarlo.
Sa ché non ci sarà, per lui, alcun processo perché l’immunità lo protegge.
Come sa che, se la Corte Costituzionale dovesse cancellare per incostituzionalità lo scudo immunitario, le norme sulla prescrizione che si è approvato uccideranno nella culla il processo.
Promette che in parlamento «dirà finalmente quel che pensa di certa magistratura», come se non conoscessimo la litania da quindici anni.
Finge di non sapere che ci si attende da lui non uno “spettacolo”, ma una risposta per le sue manovre corruttive, i metodi delle sue imprese, i sistemi del suo governo autoreferenziale e privatistico.
S’aggrappa al solito refrain, «gli italiani sono con me», come se il consenso lo liberasse da ogni vincolo, da ogni dovere, da ogni onere.
Soltanto un potere che si ritiene “irresponsabile” può continuare a tacere.
Quel che si scorge in Italia oggi – e non soltanto in Italia – è un leader in fuga dalla sua storia, dal suo presente, dalle sue responsabilità.
Un leader che non vuole rispondere perché, semplicemente, non può farlo.
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