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sabato 27 febbraio 2010

Il tappo e la toga, ovvero della nebbia a Roma





di Marco Travaglio
(Giornalista)




da Il Fatto Quotidiano del 26 febbraio 2010



Un tempo al porto delle nebbie di Roma giravano soldi in cambio di sentenze.

Dunque, in questo senso, la Procura di Roma non è più il porto delle nebbie, almeno fino a prova contraria.

Ma forse è anche peggio: perché le cose che un tempo si facevano a pagamento oggi si fanno gratis.

Nonostante la buona volontà e la professionalità di molti magistrati, il pesce puzza dalla testa, anzi nella testa: perché il guaio è nella testa di chi è alla testa della Procura.

L’altro giorno Carlo Bonini ha raccontato su Repubblica come l’inchiesta romana sulla Protezione civile fu ibernata per mesi e mesi dal procuratore aggiunto Achille Toro, in piena sintonia col capo Giovanni Ferrara, nonostante le insistenze del pm titolare del fascicolo e della Guardia di Finanza che chiedevano invano l’autorizzazione a intercettare i Bertolaso Boys.

Era già successo quando i carabinieri volevano intercettare gli spioni dello staff Storace durante le regionali 2006.

Allora provvide la Procura di Milano a scoprire quel che Roma non voleva sentire. Stavolta ci ha pensato Firenze.

Roma, mai.

In base ai verbali dei pm e dello stesso Ferrara, ascoltati a Perugia, Bonini ricostruisce due frasi pronunciate da Ferrara nella primavera 2009 per motivare il no alle intercettazioni su Anemone e
Balducci: “mancano i gravi indizi di reato per la corruzione” (si è poi visto che gli indizi abbondavano) e c’è pure una questione “di opportunità” nell’imminenza del G8 per evitare un danno all’immagine dell’Italia.

Si spera che il procuratore smentisca soprattutto la seconda frase, perché tradisce una concezione della Giustizia che non è prevista dalla Costituzione repubblicana. Anzi, ne è esclusa.

In Italia i pm hanno l’obbligo di indagare su ogni notizia di reato senza preoccuparsi dell’opportunità politica e dell’immagine del Paese.

L’aggiunto Toro, potentissimo crocevia di interessi alla Procura di Roma (basta leggere il libro di Gioacchino Genchi), se l’è data a gambe quando ha capito che, diversamente dal caso Unipol, rischiava di bruciarsi le penne.

Se Ferrara, come pare desumersi da quella frase, condivideva quel concetto protettivo, castale, tutto politico e per nulla giurisdizionale della Giustizia, dovrebbe andarsene anche lui.

Mentre Toro e Ferrara ibernavano il caso Bertolaso e neutralizzavano gravissimi scandali berlusconiani come i voli di Stato e il caso Saccà, partivano in quarta contro Genchi, senza competenza e senza reati, in piena sintonia col Copasir di destra e di sinistra.

Qualcuno dovrà pure spiegare perché la Procura più importante d’Italia, sotto la cui competenza ricade la stragrande maggioranza dei delitti del Potere, in 15 anni non sia riuscita a portare a termine un processo degno di questo nome a carico di colletti bianchi di un certo peso.

Perché, avendo sotto gli occhi un Potere con percentuali di devianza da Chicago anni 30, non ha quasi prodotto altro che archiviazioni.

Perché procure marginali come Potenza o remote come Napoli (caso Saccà), Milano (caso Storace), Firenze (Bertolaso & C) scoprono più reati commessi a Roma di quanti ne scopra la Procura di Roma.

Lamentarsi dopo per i presunti furti di competenza lascia il tempo che trova, quando prima si fa poco per indagare e molto per sopire e troncare.

Sono vent’anni che sentiamo accusare di “politicizzazione” i pm più attivi d’Italia.

Tutti, tranne i vertici della Procura di Roma, che sono proprio i più politicizzati, visto che nella Seconda Repubblica hanno seguitato a comportarsi come nella Prima: forti coi deboli e deboli coi forti.

Più che una Procura, un ministero.

Infatti nessun politico ha mai osato attaccarli, nessun governo perseguitarli con ispezioni o azioni disciplinari.

Infatti il Csm ha cacciato galantuomini come De Magistris, la Forleo, i salernitani Nuzzi e Verasani, e non ha mai sfiorato la palude di Piazzale Clodio.

L’Anm, che in quei casi taceva o addirittura applaudiva, su Roma non ha niente da dire?

Se, come dice Mieli, sta saltando il tappo, è bene che salti anche quello della magistratura.

E Toro seduto non basta.

Bisogna guardare un po’ più in su.


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La foto del Procuratore Ferrara è tratta da Euronews.





venerdì 26 febbraio 2010

Mills: il processo, in breve.


La corruzione si perfeziona nel momento in cui si verifica la messa a disposizione del relativo prezzo, non in quello successivo nel quale l'utilità viene in concreto impiegata dal pubblico ufficiale, come invece era stato ipotizzato.

Nello specifico caso risultava che la messa a disposizione datava novembre 1999 sebbene solo nel febbraio del 2000, con una movimentazione ulteriore, il prezzo della corruzione veniva utilizzato da chi l'aveva (già) ricevuto.

Sul punto, in verità, non si era registrato un apprezzabile contrasto giurisprudenziale sicché la circostanza che la Cassazione abbia deciso a Sezioni Unite dev'essere riferibile a questioni diverse da questa.

In definitiva il reato si è prescritto nel novembre del 2009, appena pochi giorni dopo la pronuncia della sentenza in grado d'appello (27.10.2009), assommando a dieci anni dal fatto il termine massimo per chiudere simili processi.

Tenuto conto dei termini che la legge accorda alle parti per proporre l'impugnazione non vi era, quindi, il tempo materiale per evitare la prescrizione del reato.




mercoledì 24 febbraio 2010

Un po' di musica


Per iniziativa di una nota casa discografica compaiono nei negozi le riedizioni in vinile delle opere di Fabrizio De Andrè.

Tra le ultime uscite l'album “Storia di un impiegato”.

Alla fine del lato A - nostalgia, eh? - un brano dal titolo “Sogno numero due” la cui ultima strofa suona:

Ascolta
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la legge.

Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?

Vuoi essere assolto o condannato?




Era il 1973.


martedì 23 febbraio 2010

Magistrati in politica: favorevole o contrario?


Chissà come mai il dibattito sull'(in)opportunità che i magistrati entrino in politica si risveglia sempre in occasione di certe candidature e non di altre.

Quella del dott. Nicastro nelle file dell'Italia dei Valori in Puglia ha, ad esempio, provocato la reazione dell'ANM che così si è espressa sull'argomento:
"La Giunta dell'Anm, riconoscendosi nelle dichiarazioni del presidente Luca Palamara, ribadisce che il tema della credibilità della magistratura non può essere disgiunto da quello dell'inopportunità della partecipazione alla vita politica dei magistrati nei luoghi dove abbiano esercitato la giurisdizione, per evitare il rischio di indebite strumentalizzazioni dell'attività svolta.
Il diritto all'elettorato passivo non può essere negato ai magistrati. Tuttavia, la Giunta auspica una seria riflessione, anche attraverso la programmata revisione del codice deontologico, sulle modalità di accesso del magistrato alla vita politica e amministrativa e sul rientro in servizio di coloro che abbiano svolto un mandato elettorale. Roma, 17 febbraio 2010"



In realtà è sin troppo agevole obiettare che desta ben maggiori preoccupazioni la candidatura di un magistrato in un territorio nel quale egli sia pressoché sconosciuto alla popolazione, poiché è evidente in tal caso che le sue speranze di essere eletto non possono che poggiare sull'apporto di voti deciso dal partito. Non sarà, cioè, il magistrato a portare consenso al partito col quale si candida, ma il partito ad assicurare l'elezione del togato. E in cambio di cosa?
E', allora, proprio l'inspiegato successo di quei magistrati - ignoti sino a poco prima delle elezioni - a destare il sospetto che la loro fortuna politica sia dipesa da oscuri servigi resi in precedenza allo schieramento politico nel cui ambito sono stati proposti.

Tra le due ipotesi, quindi, è la seconda a “sorprendere” maggiormente.

Quale la soluzione, allora?

Verosimilmente sono da scartare perché inutili, se non addirittura dannose, le “mezze misure” e quindi o si accetta il sacrificio – da prevedere con legge costituzionale – del diritto di elettorato passivo dei magistrati stabilendo che essi non possano candidarsi alle elezioni se non a pena di decadenza dall'ufficio, oppure è meglio lasciare le cose come stanno.

lunedì 22 febbraio 2010

Guerra tra Procure 2: un film già visto che non vale il prezzo del biglietto.


E' di oggi la notizia della reazione della Procura di Roma nei confronti di quella di Firenze, accusata di scorrettezza (si veda, ad esempio, qui)

Come sapete questo Blog ha assistito in anteprima alla proiezione cinematografica che ha avuto come protagonisti le Procure di Salerno e di Catanzaro. Una fiction che le prime critiche avevano subito stroncato come frutto di una sceneggiatura male orchestrata nella quale i ruoli di vittime e di carnefici erano stati preventivamente assegnati e la cui regia è apparsa dilettantesca.


L'epilogo era quindi scontato e la trama per nulla affascinante.

Eppure alcuni di coloro che avevano denotato impegno per la riuscita di quella impresa stanno per raccoglierne i frutti.

La qual cosa incoraggia, dopo la sciagurata “opera prima”, sceneggiatori e regista a tentare un improbabile sequel di un vero fiasco cinematografico sotto gli occhi di tutti, con l'unica diversità rappresentata dai ruoli oggi interpretati dalle procure di Firenze e di Roma e da un certo incremento del numero delle pagine dell'inchiesta (20.000 contro 1.300) che i cittadini non avrebbero dovuto conoscere.

Come sapete il manifestino cinematografico dell'ANM sulla violazione del "riserbo" è già affisso da alcuni giorni.

Ma chi è il produttore di questi flop?

sabato 20 febbraio 2010

Nolite iudicare, ovvero della singolare protesta degli avvocati contro i giudici stakanovisti.


Sembra incredibile ma invece è vero.

A questo link troverete la surreale protesta dell'Unione delle Camere Penali perché il Tribunale di Nola ... lavora troppo, tenendo quattro udienze alla settimana per definire delicati processi contro imputati di gravi reati, per evitare prescrizioni e scarcerazioni.

Quali le doglianze degli avvocati che additano la violazione del diritto di difesa?

Esaminiamole.


Quattro udienze alla settimana che si protraggono fino a tarda sera ostacolerebbero – testualmente - “la capacità di apprensione e di valutazione dei contenuti del dibattimento, non solo dei difensori, ma anche e soprattutto dei componenti del collegio”.
Ora - a parte l'altruismo denotato dalla preoccupazione che il collegio non sia in grado di apprezzarne i contenuti – è singolare che il difensore impegnato in un dibattimento penale non abbia già studiato e metabolizzato tutti gli atti delle indagini preliminari a sua disposizione da mesi, se non da anni, e si accinga all'istruttoria “orale” come se fosse a digiuno della materia processuale. E' vero invece che, salvo rare eccezioni, i testimoni che vengono esaminati in dibattimento hanno già reso in precedenza dichiarazioni al PM nella fase delle indagini, debitamente raccolte nei verbali a disposizione delle parti che hanno avuto tutto il tempo di esaminarle. In dibattimento, quindi, quei dichiaranti verranno esaminati sulle medesime circostanze già ampiamente note ai difensori ed al PM (le parti) ed ignote solo al collegio giudicante.

Lamentano, in secondo luogo, di essere costretti al “controesame” del testimone senza avere le copie delle dichiarazioni che quel teste ha reso nello stesso dibattimento. La pretesa è paradossale e contrasta con i caratteri di immediatezza ed oralità che costituiscono proprio l'essenza, la ragione profonda che giustifica l'esistenza del “dibattimento”, concetto che non evoca una schermaglia cartacea, bensì orale. La relativa documentazione serve soltanto al controllo della decisione nei successivi gradi di giudizio (le impugnazioni).
Tanto ciò è vero che la legge non prevede affatto che sia soddisfatta la singolare pretesa dei penalisti italiani di avere la “trascrizione simultanea” di quanto avviene in dibattimento; tuttavia non manca loro l'influenza politica per provocare l'ennesima riforma del processo penale che introduca “il dibattimento scritto”, una contraddizione in termini che farebbe sobbalzare qualsiasi studioso del processo penale.

Vi sono, infine, altri impegni professionali ai quali far fronte: mica difendo solo questo imputato, io ho altri processi! Al riguardo esistono misure organizzative che fanno carico tanto al difensore quanto al tribunale che ha la direzione del dibattimento. Nei limiti del possibile, e tenuta in principale considerazione l'esigenza di definire il dibattimento in tempi utili ad evitare la prescrizione del reato e l'eventuale liberazione di imputati pericolosi per la collettività, non vi è motivo per non assecondare le esigenze dei professionisti che tuttavia soccombono se risultano incompatibili con la primaria finalità del processo, che è proprio quella di pervenire a “sentenza” e cioè di farlo il dibattimento.

Insomma, ci si metta d'accordo una volta per tutte: se il processo è “lungo” la colpa è dei giudici “fannulloni”, se è “breve” la colpa è dei giudici stakanovisti.

I magistrati in difesa del loro "lodo".

Abbiamo già affrontato il tema in passato, ad esempio nel post Finalmente curabili le sindromi da immunità (male) acquisita?.

Al di là della dubbia compatibilità costituzionale della previsione introdotta dall’art. 32 bis della l. n. 195 del 1958, in vista del rinnovo del CSM per il quale si voterà a luglio, abbiamo sottoposto ai candidati di sottoscrivere una petizione per l’abolizione dell’immunità prevista da una legge ordinaria che esenta i consiglieri del CSM da ogni responsabilità per come essi esercitano il loro mandato.


In sostanza nessuna conseguenza civile e penale per i voti espressi sulle più svariate questioni, dal conferimento di un incarico direttivo, al trasferimento coatto di un magistrato, alla reiterata inottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo.

Finora nessuno dei candidati ha sottoscritto quell’invito.

Anzi, qualcuno - inneggiando all'irresponsabilità - ha obiettato che l’eliminazione dello “scudo” indebolirebbe il governo autonomo della magistratura. La qual cosa lascia supporre l’intendimento di violare la legge.

E’ davvero singolare vedere i magistrati arroccati in difesa di una prerogativa della quale non esitano a denunciare l’incostituzionalità quando essa risulti invece posta a presidio dei politici.

Non mancheremo di aggiornarvi via via che i candidati al CSM dovessero esprimersi contro l’ingiustificato privilegio.

giovedì 18 febbraio 2010

Un criptico comunicato dell'ANM


Figura sul sito dell'ANM il comunicato che è possibile leggere di seguito.
Esso è stato diramato in coincidenza dell'annuncio delle dimissioni del procuratore aggiunto di Roma Achille Toro, coinvolto nelle indagini sulla Protezione Civile per un'ipotesi di rivelazione del segreto d'ufficio.
Persino molti magistrati non ne hanno ancora compreso l'esatto senso e si stanno interrogando sul “messaggio” che si è inteso con esso veicolare.
Lo sottoponiamo all'attenzione dei lettori affinché se ne facciano un'idea.

MAGISTRATURA E QUESTIONE MORALE
Le recenti indagini presso la Procura della Repubblica di Firenze rappresentano l'occasione per ribadire che la deontologia professionale, la correttezza e il riserbo nei comportamenti rappresentano baluardi della credibilità della magistratura, in relazione ai quali si impone un costante impegno complessivo e coerente di autoriforma. E', pertanto, indispensabile che tali questioni, in quanto esprimono valori fondamentali della giurisdizione, trovino concreta e tempestiva risposta nell'organo di governo autonomo, anche attraverso la scelta di una dirigenza professionalmente adeguata.

Roma 17 febbraio 2010
(inserire qui il resto dell'articolo)