Pagine

domenica 19 settembre 2010

A Reggio deve venire Zù Ntònu




di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza)




Alla proposta del Direttore Cosenza, vorrei provare anch’io, da quisque de populo, a dare una risposta di adesione argomentando una piccola visione delle cose.

Tornare dalle vacanze è reimmergersi nella normalità della vita quotidiana con i suoi problemi e anche con il suo fascino. Nel momento di vacanza, però, ci si astrae, si pensa si osserva. In alcuni giorni ho rivisto facce e pensieri del conscio e dell’inconscio.

Ho rivisto Zù Ntònu, uomo retto, arava la terra, aveva un lavoro andava alla cantina a giocare a carte e bere un bicchiere di vino, non ha mai fatto mancare nulla a suoi figli e alla sua famiglia così come non ha negato mai un saluto a Don Ciccio.

Ha sempre detto buon vespero al signore che passava. Suo figlio Peppino è emigrato, ora all’America guadagna una bella jobba per lui e la sua famiglia e, mi ricordo da bambino, aveva anche la doccia nel bagno.

Zu Ntònu ha sempre votato per la democrazia o per i socialisti, anche se quelli della democrazia o i socialisti sapevano bene chi era Don Cicco, quando si parlava di Don Ciccio o di qualche pezzo grosso, Zu Ntònu diceva figliu, pensa a ti fa a vita tua, cane non mangia cane.

In un momento di ritorno alla realtà, ho mutato ricordo ho rivisto un politico amico mio e di Zù Ntònu, era lì ammiccante e altero; doveva fare voti, essere eletto.

Era ossessionato e consumato dal dubbio, dall’incertezza: se dove fare un favore era a disposizione.

Sapeva bene che intorno a lui giravano molti amici di Don Ciccio, così, senza correre rischi, l’importante era fare il favore ad un amico di un amico di Don Ciccio, lui così sapeva che quel politico, comunque, non era contrasto.

Ho anche rivisto molti amici miei e di Zù Ntonu, negli anni 80, frequentare locali di proprietà di Don Ciccio – in qualche modo doveva spenderli i suoi soldi – normalmente, senza dubbi e, soprattutto, senza divieti genitoriali.

Mi sono ricordato di quando dovevano fare un palazzo dove c’era la casa di Zù Ntònu, uomo retto, andò Don Ciccio, costruì un bel palazzo, a lui diede due appartamenti; era proprio un bel palazzo, comprò un appartamento anche il maresciallo.

Mi sono rivisto, a volte, in dubbio, come Zù Ntònu, se ammiccando a Don Ciccio, o comunque rispettandolo, potevo, forse, vivere meglio.

E’ il dramma di questa terra, o forse della nazione, avere il dubbio che un amico degli amici forse è meglio averlo.

Al tramonto alle mie spalle mi è riapparsa Pinuccia, la nipote di Zù Ntònu, abbracciata al nipote di Don Ciccio, uscivano con macchine grosse la sera, Pinuccia era bella, ma nessuno di noi poteva permettersi di guardarla e lei, mi ricordo, era molto felice di essere temuta e guardata di nascosto.

Nessuno le ha mai detto, guarda che quello è il nipote di Don Ciccio, nemmeno Zù Ntònu, onesto lavoratore.

Non capivo perché. Una sera ho abbracciato di nuovo Zù Ntònu ho provato a dirgli che la sinergia tra le parti migliori delle istituzioni e della società, unite alla programmazione di percorsi di legalità da parte della politica, avrebbero potuto evitare il ripetersi dei suoi drammi; battersi per il ripristino dei valori della legalità soprattutto costruendo anticorpi all’interno della classe dirigente onde evitare l’infiltrazione nella politica degli uomini delle cosche era assolutamente necessario; insomma gli ho sbattuto in faccia la verità, gli ho spiegato che tutto quello che ha determinato l’imbarbarimento della situazione calabrese che perpetua lo sfruttamento delle classi deboli e l’intangibilità dei poteri mafiosi rafforzata dall’umanità grigia dei sodalizi criminali da domani troverà forti contrasti e non sarà più possibile; mi ha guardato, un po’ stranito, e mi ha chiesto cosa volessi dire.

La sua vita, i suoi sogni, in realtà, si sono fermati, con le continue richieste di elargizione di lavoro per suo figlio Peppino poi con la sua partenza, da quel momento non ha più avuto proiezione è come se il tempo si fosse fermato, e il tempo in cui lui salutava Don Ciccio e il Padrone è divenuto eterno, in fondo “I calabresi mettono il loro patriottismo nelle cose più semplici, come la bontà dei loro frutti e dei loro vini. Amore disperato del loro paese, di cui riconoscono la vita cruda, che hanno fuggito, ma che in loro è rimasta allo stato di ricordo e di leggenda dell’infanzia”.

Zù Ntònu non ha mai potuto vedere suo figlio percorrere strade da lui già percorse, lui che per un posto di lavoro ha dovuto chinare il capo, lui, che vede da allora gli stessi Nazareni (salvo variazioni sul nome di battesimo) elargire il futuro, è divenuto immutabile, insensibile, ha continuato a votare, quando ci và, per la democrazia o per i socialisti e non ha mai negato un saluto a Don Ciccio, né ha pensato di non comprare qualcosa da lui.

Si comprare qualcosa da lui, perché da un po’ di tempo, Don Ciccio non gira più in coppola, in fascia tricolore o in 3.20, oggi, lui vende, costruisce, trova libri rari, va a teatro.

Ad un certo punto l’ho proprio odiato, l’ho preso per il collo e gli ho detto: Zù Ntò, ma a che ti serve arare la terra, non far mancare niente a tuoi figli, se poi compri tutto da Don Ciccio che ti dice di votare per la democrazia e i socialisti e Peppino deve andare all’America per la jobba? Tu sei il primo che deve venire a Reggio, non mancare mi raccomando.


venerdì 3 settembre 2010

Chiesto il rinvio a giudizio per tre magistrati che fermarono le inchieste di Luigi De Magistris




di Antonio Massari
(Giornalista)




da Il Fatto Quotidiano del 3 settembre 2010


La procura di Salerno: “Inchieste tolte illegittimamente”.
Su “Why not” e “Poseidone” si scatenò la guerra con l’ufficio giudiziario di Catanzaro


Le inchieste “Why Not” e “Poseidone” furono sottratte illegalmente a Luigi De Magistris, nel 2007, quando era ancora un pm della procura di Catanzaro: è questa la tesi della Procura di Salerno che, dopo aver chiuso le indagini, ha chiesto il rinvio a giudizio di tre magistrati calabresi, del parlamentare del Pdl Giancarlo Pittelli, dell’ex sottosegretario alle Attività produttive Pino Galati (Udc) e dell’uomo forte di Comunione e liberazione in Calabria, Antonio Saladino.

Le prime risposte giudiziarie sul “caso De Magistris” arriveranno il 3 novembre, quando il gip Vincenzo Pellegrino deciderà sulle richieste dei tre pm (Rocco Alfano, Maria Chiara Minerva e Antonio Cantarella) che hanno “ereditato” l’inchiesta dai pm Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani, poi puniti, con il trasferimento, dal Csm.

Chiesta l’archiviazione invece – secondo il Mattino, che per primo ha pubblicato, ieri, la notizia – per altri quattro magistrati – Enzo Iannelli, Alfredo Garbati, Domenico de Lorenzo e Salvatore Curcio – indagati per favoreggiamento e omissione in atti d’ufficio: s’erano rifiutati di trasmettere gli atti di Poseidone e Why Not ai pm salernitani (Nuzzi e Verasani) che stavano indagando sulla sottrazione dei fascicoli a De Magistris. Un rifiuto che sfociò, prima, nel sequestro degli atti, operato dai pm salernitani. E portò poi, proprio a causa del sequestro, alla punizione di Nuzzi, Verasani e del loro capo Luigi Apicella.

Oltre che sulla richiesta di archiviazione, però, il gip dovrà deciderà sul rinvio a giudizio degli altri magistrati: l’ex procuratore capo Mariano Lombardi (fu lui ad avocare Poseidone a De Magistris), il procuratore generale reggente Dolcino Favi (avocò l’inchiesta Why Not) e il procuratore aggiunto Salvatore Murone.

Le indagini della procura di Salerno ipotizzano, tra vari reati, anche la corruzione in atti giudiziari.

A trarre vantaggio dalla revoca di Poseidone, secondo l’accusa, furono Pittelli e Galati che, negli atti della chiusura d’indagine, appaiono come “istigatori” delle “condotte illecite” di Lombardi e Murone.

“L’inevitabile stagnazione delle attività istruttorie in corso”, aveva scritto l’accusa nella chiusura dell’inchiesta, portò a “favorire le persone implicate nelle indagini, in particolare Pittelli e Galati i quali, in un più ampio contesto corruttivo (…) s’erano adoperati per far ricevere sia a Lombardi, sia a suo figlio Pierpaolo Greco, denaro o altre utilità”.

Illegale anche l’avocazione di Why Not: de Magistris, aveva iscritto nel registro degli indagati l’ex ministro Clemente Mastella (poi archiviato dalla procura di Catanzaro).

Favi avocò l’inchiesta ipotizzando, per de Magistris, un “conflitto d’interessi”, poiché Mastella aveva avviato un’indagine disciplinare sul pm. “Conflitto d’interessi” che, secondo la procura salernitana, non s’è mai verificato, tanto da sostenere che “veniva attestata, in un atto pubblico, una situazione contraria al vero”.

Per questo filone sono indagati Favi e Saladino che, all’epoca, era il principale accusato (poi condannato) nell’inchiesta Why Not.

“La procura di Salerno – ha commentato De Magistris, oggi europarlamentare dell’Idv – conferma che Why Not e Poseidone mi furono sottratte illegalmente, in seguito ad un accordo corruttivo, tra i vertici degli uffici di Procura e alcuni indagati”.

“Nonostante il Csm fosse informato da tempo – prosegue – sulle gravi commistioni e le illegalità che interessavano i vertici degli uffici giudiziari di Catanzaro, non ha mai ritenuto di dovere intervenire. Oggi Murone è il titolare dell’inchiesta sugli attentati al procuratore generale di Reggio Calabria. Quello stesso Csm ha invece dimostrato una solerzia straordinaria quando, al termine di processi disciplinari farsa, ha proceduto all’esecuzione professionale mia e dei colleghi di Salerno”.

Pittelli replica: “De Magistris dovrebbe sapere, ma sarebbe pretendere troppo dalla sua cultura giuridica, che la richiesta di rinvio a giudizio rappresenta soltanto un’ipotesi di accusa tutta da verificare. La parte più interessante di tutta la storia deve essere ancora scritta. E la verità, su gruppi e manipoli, non tarderà a ristabilire gli esatti contorni della più vergognosa impostura mai verificata in ambito giudiziario-politico”.

Nell’attesa che la “vergognosa impostura” evocata da Pittelli venga dimostrata, o quanto meno accennata, bisogna registrare questa storia annovera la punizione, da parte del Csm, di almeno quattro pm. Ai quali va aggiunta Clementina Forleo che, (anche) per aver difeso De Magistris durante Annozero, fu prima incolpata e poi trasferita (per incompatibilità ambientale) dalla Procura di Milano.

Oltre alle richieste di rinvio a giudizio (e di archiviazione), quindi, in questa vicenda pesa anche il ruolo del Csm dell’epoca, soprattutto se consideriamo che in questi giorni, altri tre pm, confermano (nelle sue parti essenziali) l’impianto accusatorio di Nuzzi e Verasani e, con esso, il “complotto” per sottrarre, in maniera illegale, le indagini all’ex pm napoletano.



Ladri di speranza e di vita





di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)





da Il Fatto Quotidiano online dell’1 settembre 2010


Nel mio ultimo post qui ho cercato di illustrare le ragioni per le quali è un errore gravissimo ridurre il tema della legalità alla questione della impunità per il dott. Berlusconi e i suoi amici e sodali.

La legalità non è solo “dare una giusta pena” a chi viola la legge.

La legalità – o, come nel caso del nostro Paese, l’illegalità – caratterizza e qualifica – o squalifica – tutta la vita della società e le sue speranze di futuro.

Forse due esempi possono rendere più convincente quanto ho scritto nei giorni scorsi.

Il figlio di una mia cara amica ha ventiquattro anni. Si è laureato in fisica, materia che amava, nonostante tanti gli dicessero che sarebbe stato più facile avere un futuro economicamente sostenibile dedicandosi ad altri studi.

Dopo la laurea ha fatto uno stage negli USA, alla fine del quale ha scritto un articolo che è stato ospitato su una rivista scientifica.

All’Università di Losanna hanno letto l’articolo e lo hanno invitato per un colloquio, dopo il quale gli hanno fatto un contratto da ricercatore e gli hanno affidato un intero laboratorio del quale oggi è responsabile.

Nel frattempo ha anche ottenuto un posto di ricercatore all’Università di Harvard, al cui concorso aveva partecipato; posto al quale ha dovuto rinunciare, avendo già “firmato” per Losanna.

E’ pacifico che tutto questo è stato possibile perché a Losanna e ad Harvard hanno un tasso di legalità decisamente molto più alto che in Italia.

In Italia, purtroppo, nessuna università si sogna di “invitare” di sua iniziativa un valente studioso né di dare un posto di ricercatore a un giovane non raccomandato da nessuno e, addirittura, straniero.

In Svizzera e negli Stati Uniti, per contro, nessuno si sogna proprio di dare il posto di ricercatore all’amante del professore invece che a uno studioso capace: verrebbe subito denunziato e immediatamente rimosso e condannato.

L’altra vicenda che voglio raccontare è quella di una azienda che produce sacchetti di polietilene (i sacchetti di plastica della spesa).

Aveva evaso tasse per un miliardo di lire.

Accertamento tributario, ricorso giudiziario, mia sentenza che condanna la società a pagare la somma evasa.

Nel corso del giudizio di appello arriva uno dei condoni del dr Berlusconi e la ditta estingue il suo debito pagando solo il 20% del dovuto.

Tutti pensano che la questione qui sia solo il furto – ai danni di noi tutti contribuenti – degli ottocento milioni condonati.

Ma non è così.

Nella piccola cittadina in cui opera l’azienda in questione adesso ci sono due aziende che producono sacchetti per la spesa.

Una – onesta – che ha sempre pagato le tasse.

Questa azienda ha costruito il suo capannone e acquistato i macchinari per la produzione facendo un mutuo in banca e paga le rate mensili di questo mutuo.

Dunque, quando vende i suoi sacchetti li fa pagare a un prezzo che comprende una piccola quota destinata al mutuo.

L’altra azienda – disonesta – il capannone e i macchinari se li è comprati con i soldi che ha evaso dalle tasse. Con i soldi nostri.

Questa azienda non ha mutui da pagare e può vendere i suoi sacchetti a un prezzo un po’ più basso di quelli dell’altra.

Quindi, l’azienda disonesta in breve tempo metterà fuori mercato l’azienda onesta.

Così come l’impresa che ottiene gli appalti delle opere pubbliche non per merito ma per sporchi legami – di tangenti, di puttane o di altro – con questo o quel Ministro, Assessore, Sottosegretario, Sindaco, ecc. mette in breve tempo fuori mercato le imprese che non pagano tangenti e si impegnano a migliorare la qualità del loro prodotto.

In definitiva, l’illegalità devasta le strutture portanti della società.

Non ha alcun senso parlare di riforma dell’università e degli appalti se non si persegue con sincerità e determinazione la legalità.

Qualunque sistema presuppone il rispetto delle regole su cui si fonda.

La legalità, l’efficienza delle Procure e dei Tribunali (proprio l’esatto opposto del programma degli ultimi enne governi in carica nel nostro Paese) sono il presupposto indispensabile di qualunque modello sociale.

La Svizzera e gli Stati Uniti sono paesi con le loro colpe, alcune anche gravi. Con cose che funzionano e altre che non funzionano.

Ma lì possono sperare. Perché hanno ancora studiosi scelti per le loro qualità, imprese che lavorano per i loro meriti, politici che sono stati davvero “eletti”.

Che speranza può avere, invece, un paese come il nostro, nel quale, grazie all’impunità assicurata a tutti i ricchi e potenti, le elìte universitarie hanno come uniche qualità le parentele baronali, gli imprenditori sono capaci solo di assumere puttane per conto terzi e i politici vanno avanti con la forza dei ricatti a mezzo stampa?

Un paese così dovrebbe desiderare la legalità più di ogni altra cosa. Un paese così dovrebbe pretendere che la legge non si tocchi e che si ricreino le condizioni perché essa sia applicata.

Un paese così dovrebbe rendere assolutamente impensabile qualsiasi ulteriore attentato a quel poco di legalità che resta.

Invece il nostro Parlamento è da anni impegnato sui temi della giustizia, ma non per ottenere ai cittadini più giustizia, ma ai delinquenti più impunità.

Tutte le leggi e i progetti di leggi portati avanti da molti anni a questa parte servivano e servono solo a proteggere chi vive di illegalità e nella illegalità.

E a neutralizzare il lavoro dei giudici e della giustizia, ridotta a un cumulo di macerie, salvo poi stupirsi ipocritamente quando questo o quell’assassino tornano liberi per gli effetti di questa o quella legge “SalvaSilvio” o “SalvaCesare” o “SalvaMarcello”.

Tutti i popoli hanno le loro difficoltà, ma a Losanna e ad Harvard un giovane competente presenta i suoi titoli e gli viene riconosciuto ciò a cui ha diritto.

In Italia un giovane competente può solo allenarsi a leccare il c… al politicante di turno e anche così difficilmente avrà il posto, posto che “non gli spetta”, perché in Italia non ci sono più diritti, ma solo “promesse del padrone”.

E, dunque, non ci sono più speranze, ma solo illusioni.




mercoledì 1 settembre 2010

Un Processo breve per incanto





di Massimo Vaccari
(Giudice del Tribunale di Verona)







In questi ultimi giorni è tornato prepotentemente alla ribalta il dibattito sul c.d processo breve, dopo che il governo ha annunciato l’intenzione di far approvare in tempi rapidi il disegno di legge relativo, che è stato licenziato dal Senato a gennaio di quest’anno, anche alla Camera.

Le ricadute che questa ennesima riforma, se entrerà in vigore nella sua attuale versione, avrà sul processo penale sono già state illustrate da autorevoli esperti su alcuni quotidiani. Meno noti sono gli effetti negativi che essa potrà avere nel processo civile e ritengo pertanto opportuno offrire qualche spunto di riflessione al riguardo, sulla base della mia esperienza di magistrato dedito al settore civile.

Innanzitutto è opportuno chiarire che il disegno di legge in esame non modificherà il codice di procedura civile ma la legge 89/2001, meglio nota come legge Pinto, che riconosce un indennizzo a chi abbia subito un processo di durata non ragionevole.

In estrema sintesi la legge sul processo breve intende fissare in due anni, aumentabili a tre, il periodo massimo entro il quale dovrà svolgersi ciascuno dei vari gradi del giudizio civile (primo grado, appello e cassazione), prendendo come momento iniziale quello della prima udienza e come momento finale quello del provvedimento che definisce il giudizio.

Una volta scaduto tale termine, senza che vi sia stata una decisione da parte del giudice, il processo proseguirà normalmente ma la sua durata non sarà più ragionevole e la parte interessata potrà chiedere l’indennizzo previsto dalla Legge Pinto, a condizione che in precedenza abbia presentato al giudice competente un’istanza di sollecita definizione del giudizio di cui lamenta la lentezza.

E’ questa istanza che, in concreto, secondo le intenzioni del legislatore, dovrebbe determinare l’accelerazione del giudizio perché, nel caso in cui venga presentata, il giudice sarà tenuto a fissare le udienze che fossero necessarie ad intervalli non superiori a quindici giorni l’una dall’altra.

Ora tale meccanismo non tiene conto che la durata dei processi civili dipende non solo dall’atteggiamento delle parti e del giudice ma anche da una serie di variabili imprevedibili e oggettivamente ineliminabili, come la complessità dei fatti da accertare, il numero delle parti, i vizi procedurali che si possono verificare nel corso di essi. E’ proprio per questo motivo che, attualmente, per stabilire se un processo abbia avuto una ragionevole durata o meno non si può prescindere dall’esame del caso specifico.

La nuova disciplina invece non considera le peculiarità di ciascun processo e la sua applicazione sarà vieppiù problematica in quei processi che richiedono una ampia attività probatoria, che è impossibile contenere in tempi predefiniti, se non a rischio di lacune ed errori.

In questi casi le norme approvate dal Senato, se non modificate, comprimeranno non solo i tempi del giudizio ma anche il diritto di difesa delle parti che avessero interesse, o necessità, di una attività istruttoria approfondita e in tempi congrui, ma che non potranno opporsi alla istanza di accelerazione del processo, non essendo previsto il loro consenso sul punto.

In questa prospettiva anzi l’istanza di accelerazione potrà essere strumentalizzata dalla parte che, sapendo di aver torto, non volesse far accertare compiutamente i fatti.

Ancora il progetto di legge rischia di provocare disparità di trattamento difficilmente giustificabili.

Il giudice, infatti, potrà trovarsi nella situazione di dare la precedenza a cause di valore modesto, a scapito di altre più rilevanti, sotto il profilo economico o sociale, qualora solo nelle prime venisse presentata l’istanza di accelerazione.

E’ facile prevedere, poi, che, qualora le istanze dovessero essere numerose, sarà pressoché impossibile rispettare i termini fissati dal disegno di legge, perché dovranno essere tutte trattate con pari celerità, con l’ulteriore conseguenza che per tutte maturerà il diritto ad ottenere l’indennizzo previsto dalla legge Pinto.

A fronte di tali molteplici inconvenienti davvero non si vede quali possano essere i benefici della disciplina attualmente in gestazione, tanto più se si considera che, solo a luglio del 2009, è entrata in vigore una riforma del codice di procedura civile che ha, tra le principali finalità, quella di abbreviare i tempi del giudizio civile (basti pensare alla possibilità per il giudice di comminare sanzioni pecuniarie alla parte che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, alla riduzione dei termini per lo svolgimento di determinate attività processuali, alla introduzione del processo sommario).

Peraltro molti commentatori hanno convenuto che nemmeno quest’ultima modifica normativa servirà ad ovviare ai ritardi della giustizia civile che spesso, anche se non sempre, sono obiettivamente intollerabili.

Infatti, a determinare le attuali condizioni della giustizia civile, come è stato evidenziato più volte a più livelli, concorrono, da un lato, l’elevato tasso di litigiosità degli italiani e, dall’altro, la cronica carenza del personale di cancelleria, un criterio di distribuzione degli uffici giudiziari sul territorio superato e, per alcuni distretti di corte di Appello, l’inadeguatezza degli organici dei magistrati rispetto al numero degli abitanti.

Per incidere su tali fattori occorrono interventi strutturali ed organizzativi profondi di cui non vi è traccia nel disegno di legge sul processo breve.


Come si uccide un’inchiesta






di Gabriella Nuzzi
(Giudice del Tribunale di Latina)





da Il Fatto Quotidiano del 6 agosto 2010


Ho scelto di percorrere in questi mesi la strada della riflessione e del silenzio.

Non certo per timore, né per rassegnazione. L’esame introspettivo degli eventi consente di trovare soluzioni, le migliori possibili, per sé e per gli altri.

Di fronte all’ingiustizia, e più di tutto se gli è inflitta, un magistrato, che sia davvero tale, non cerca vie di fuga, né comodi ripari. Perciò, ho continuato a credere nella magistratura e nel suo operato.

La Grande Bugia della guerra tra le procure di Salerno e Catanzaro, creata ad arte per sottrarre a me e ai colleghi salernitani le inchieste sugli uffici giudiziari calabresi e privarci delle funzioni inquirenti, non può non trovare risposte giuridiche e giudiziarie.

Macigni e ostacoli sulla verità

Quando il 2 dicembre 2008 furono eseguiti il sequestro probatorio del fascicolo “Why Not” e le perquisizioni ai magistrati che l’avevano gestito a colpi di stralci e archiviazioni, si accusarono i Pubblici ministeri salernitani di aver redatto provvedimenti “abnormi” ed eversivi, manifestando in tal modo “un’eccezionale mancanza di equilibrio, un’assoluta spregiudicatezza nell’esercizio delle funzioni ed un’assenza del senso delle istituzioni e del rispetto dell’Ordine giudiziario”.

Con queste motivazioni, l’8 gennaio 2009, su proposta del capo dell’Ispettorato Arcibaldo Miller, il ministro della Giustizia Alfano richiese, in via d’urgenza, alla Sezione Disciplinare del Csm, presieduta da Nicola Mancino, l’applicazione di “misure cautelari” disciplinari nei miei confronti, del collega Verasani e del procuratore Apicella.

Intervento preannunciato in Parlamento dal sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo ai suoi amici di partito On.li Amedeo Laboccetta & C., che, in difesa dei calabresi, chiedevano la testa del dott. De Magistris e di noi altri suoi “sodali”.

L’intero mondo politico-giudiziario, spalleggiato dalla grande “libera” stampa, che scatenò una tempesta mediatica, condannò la nostra scelta investigativa come un atto di “terrorismo giudiziario”, un attacco “senza precedenti” alle istituzioni democratiche, ispirato al perseguimento di fini personalistici e politici, di pericolosità tale da esigere una repressione esemplare e immediata.

La Prima Commissione del Csm presieduta da Ugo Bergamo avviò il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, poi sospeso in attesa degli esiti disciplinari.

L’Associazione Nazionale Magistrati accettò di buon grado l’epurazione, nell’illusione di una futura pace dei sensi.

La santa inquisizione del Duemila

Dopo appena dieci giorni, con un processo da Santa Inquisizione, ci strapparono le funzioni inquirenti, allontanandoci dalla nostra Regione. Una cortina di silenzio e indifferenza s’innalzò intorno al “caso Salerno”.

I magistrati calabresi inquisiti, autori del contro-sequestro del “Why Not”, instaurarono un procedimento penale a nostro carico e del dott. De Magistris, trasmettendolo poi alla Procura di Roma che, con l’Aggiunto Achille Toro, si mise a investigare liberamente sulle nostre vite private, senza alcun fondamento.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione presiedute dal dott. Vincenzo Carbone chiusero in gran fretta il capitolo disciplinare con una pronuncia sommaria, storico esempio di come sia possibile, in tema di etica giudiziaria, affermare tutto e il contrario di tutto.

Si aprirono a nostro carico ulteriori procedimenti penali e disciplinari, branditi come clave, affinché ci sentissimo sotto perenne minaccia.

Il 19 ottobre 2009, la stessa Sezione Disciplinare, su relazione dell’avv. Michele Saponara, accolse l’azione disciplinare promossa dal Procuratore generale della Cassazione Esposito, infliggendo a me e al collega Verasani la sanzione della perdita di anzianità (rispettivamente, sei e quattro mesi) e del trasferimento d’ufficio di sede e funzione.

Non è stato facile resistere a tanta violenza morale.

Una violenza frutto di arbitrio, che ha indecentemente calpestato ogni regola, senza arretrare neppure di fronte al riconoscimento giurisdizionale della legalità e necessità dei nostri comportamenti.

La delegittimazione, l’isolamento, l’eliminazione sono metodi di distruzione mafio-massonici.

E noi abbiamo pagato per aver osato far luce sulla massoneria politico-giudiziaria.

Da allora, pazientemente, ho atteso che a parlare fossero i fatti.

E i fatti, nel tempo, come tasselli di un incomprensibile puzzle, si stanno lentamente ricomponendo.

Logge, cappucci e grandi vecchi

Alcuni di coloro che hanno concorso alla nostra epurazione pare avessero incontri con presunti appartenenti ad un’associazione segreta.

Dunque, di fronte a innegabili evidenze, parlare oggi di consorterie massoniche interne anche agli apparati giudiziari non è più atto eversivo o scandaloso.

Ampi dibattiti si sono aperti sulla “questione morale” delle nostre istituzioni.

L’Associazione Nazionale Magistrati, rimembrando proprio la nostra vicenda, ha stigmatizzato la “caduta nel vuoto” delle sue richieste di rigore, gridate a gran voce.

Sicché contro l’ennesima ipocrisia del “sistema” s’infrange oggi il mio silenzio.

Mi rivolgo agli illustri attivisti del correntismo giudiziario, quelli che mai sono stati sfiorati da un dubbio o da un ripensamento, trovando superfluo finanche articolare il pensiero.

Esprimano, nella loro purezza, e possibilmente con cognizione di causa, una posizione precisa su ciò che di illecito è stato compiuto ai nostri danni, sull’“etica” che l’avrebbe ispirato, sulle scandalose ingiustizie di un “sistema” che, ancora oggi, incredibilmente, avalla l’impunità, lasciando che i potenti, corrotti o collusi, continuino a rimanere ai loro posti o peggio, siano premiati.

Non sono i loro rappresentanti più degni a spartirsi gli scranni del nostro “autogoverno”, a decidere nomine, promozioni, trasferimenti, punizioni disciplinari?

O forse l’associazionismo sta dissociandosi da se stesso?

Non vi sono oggi “questioni morali” che non lo fossero anche ieri.

E allora occorre ripartire da zero, passando attraverso un profondo mea culpa.

Questa pericolosa caduta libera di credibilità può arrestarsi soltanto con il ripristino del primato del Diritto e il ripudio definitivo delle logiche di appartenenza e protezionismo.

Solo proponendosi tali obiettivi e scegliendo figure di guida autorevoli, per integrità, indipendenza e competenza, l’Ordine giudiziario può sperare in un autentico rinnovamento morale, nell’interesse supremo del popolo e della democrazia.



Uomini e bestie





di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)





da Il Fatto Quotidiano online del 28 agosto 2010


E’ veramente difficile vivere e discutere in un Paese in cui all’impunità giudiziaria – ormai sostanzialmente totale per ricchi e potenti – si aggiunge quella disgustosa impunità morale per la quale il Capo del Governo può tranquillamente porre come condizione alla prosecuzione della legislatura il fatto che si sfasci quel pochissimo che resta della giustizia per salvare lui e i suoi amici e sodali da processi penali nei quali sono imputati per vergognosi reati commessi non da politici, ma da privati cittadini.

A questo punto del percorso sulla china dell’autodistruzione collettiva, la quantità di menzogne e imposture che vengono diffuse e ripetute come se fossero la cosa più normale del mondo è talmente grande che tentare di ricostruire un senso comune in qualche modo ancorato alla realtà appare come un’impresa titanica.

Un aspetto di tutto questo che vorrei sottolineare qui è quello relativo al fatto che la gente viene indotta a credere che la questione della legalità si possa ridurre al se dare o no un salvacondotto al dott. Berlusconi e ai suoi amici.

La questione, insomma, sembra solo la seguente: ritenete accettabile o no che il dott. Berlusconi, l’avv. Previti, il sen. Dell’Utri, l’on. Verdini, il tentato Ministro Brancher, il Sottosegretario Bertolaso e il folto stuolo dei loro parenti, amici e donnine di piacere varie la facciano franca?

Messa così, tanti (sia pure sbagliando e di grosso) pensano che in fin dei conti non si tratta di cosa troppo importante. E si rendono di fatto disponibili a consentire quella impunità.

Si rendono complici di essa, come lo sono stati per anni e molto attivamente quei “finiani” che oggi “scoprono” cosa hanno contribuito a costruire e blindare. Mentre ancora si dichiarano disponibili a un “Lodo Alfano costituzionale” (??!!).

La tragedia è che la questione non è affatto quella.

Il tema della legalità, il fabbisogno di legalità di un paese non è affatto problema riducibile alla giusta pena per chi commette reati.

La legge serve a caratterizzare e qualificare la vita stessa dell’intera comunità.

Perché i rapporti fra le persone possono essere regolati solo in due modi. Non esiste – nonostante provino con tutte le loro forze a farcelo credere – una “terza via”.

I rapporti fra le persone in qualsiasi società possono essere regolati solo o dalla legge o dalla forza.

O si farà secondo le regole o si farà come vuole il più forte.

O l’appalto lo vince l’impresa in grado di fare il lavoro meglio e con meno spesa, o lo vince l’impresa che ha i soldi per pagare le mazzette pretese dal politicante di turno e la spregiudicatezza per pagare una donna a un amministratore pubblico che non riesce ad avere una vita sentimentale e sessuale decente.

O il posto di primario ospedaliero si dà al medico più titolato e più capace o a quello che ha la tessera del partito più potente.

O gli appalti per la ricostruzione de L’Aquila si danno all’impresa più titolata, o li prende l’imprenditore che è capace di ridere sulla morte dei terremotati ed è pronto a pagare questo e quello e magari comprare case all’insaputa (!!??) dei beneficiati.

E così via.

In una società complessa la forza, in alternativa alla legge, ha moltissime facce.

C’è la forza delle armi dei mafiosi, ma c’è – ed è molto più diffusa – quella del denaro, quella dell’appartenenza a un partito o a un ceto sociale (perché siamo ancora ampiamente classisti) o a una razza (perché siamo sempre più schifosamente razzisti) e così via.

Dunque, o c’è e si riesce a fare applicare la legge o vince sempre il più forte.

E questa è la distinzione fra una società di umani e un branco di bestie.

Fra le bestie vince il più forte, il più cattivo, il più spregiudicato. Il caimano.

Fra gli umani chi ha ragione o ha più ragioni.

Dunque, chi ci toglie la legge – abrogandola o vanificandola, rendendola nei fatti inapplicabile o inutile (come fa da anni massicciamente la classe politica al potere) – ci toglie umanità e speranza. Ci trasforma in bestie.

Perché una società senza legge e senza giustizia non ha niente di umano.

Né gli ipermercati e le new town possono rendere umane bestie che ridono alle tre di notte, mentre la radio comunica che decine di persone muoiono sotto le macerie di un terremoto.

In qualunque altro paese il Capo del Governo, per restare al suo posto, promette più giustizia, più legalità, la persecuzione degli evasori fiscali, la cacciata dal Governo e dal Parlamento di corrotti e magnacci.

Nel nostro paese il Capo del Governo, per restare al suo posto, promette, nella sostanza, l’esatto contrario.

Questo ci dice molte cose su di lui, ma anche su tutti noi.

In qualunque altro paese un mafioso assassino viene chiamato “mafioso assassino” e i giudici che lottano contro il crimine “eroi”.

Nel nostro paese è il mafioso assassino a essere definito eroe dal più intimo collaboratore del Capo del Governo e il Capo del Governo in persona pensa dei giudici: «Questi giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana» (Silvio Berlusconi, 4 settembre 2003).

La crisi del nostro paese a questo punto è definita da questo problema: individuare facilmente e in maniera tendenzialmente condivisa la “razza umana”, così da potere distinguere agevolmente un uomo da una bestia.

E poterci così rendere conto che, da furbi che crediamo di essere, ci siamo fatti rubare – sotto il naso e con la nostra complicità –, per la seconda volta in un secolo, la dignità, la speranza, la vita stessa.