di Giovanni Genovese - Magistrato
Capita frequentemente, negli ultimi tempi, di sentirsi
chiedere da amici e conoscenti un parere sulla vicenda Palamara.
Viene chiesto un parere personale, ovviamente, ma anche e
soprattutto di conoscere cosa ne pensino gli altri magistrati “comuni”.
Sospettavano? Sapevano? Sono tutti collusi? Perché quasi
nessuno dentro la magistratura ne parlava?
La risposta a queste domande non è semplice, ed è anche
imbarazzante.
Come si fa a spiegare che tutti sapevano qual era il reale
meccanismo di governo della magistratura, ma pochissimi osavano dirlo a voce
alta?
Che anche quando quel qualcuno parlava, riceveva tanti “hai ragione”
sussurrati nei corridoi, ma quasi nessuna pubblica approvazione?
E che dire delle varie tornate elettorali, in cui, se
qualche candidato autenticamente indipendente trovava il coraggio di proporsi,
anziché raccogliere il consenso di una “maggioranza silenziosa” gli rimanevano
solo le briciole, anche quando il gioco era scoperto, anche quando il
malcontento era teoricamente il segno distintivo più comune fra i magistrati?
Eppure, era proprio dall’atteggiamento dalle correnti che
traspariva il segnale di un generale malcontento. C’erano i loro proclami, le
lettere di intenti, i programmi (sempre solo teorici) a dimostrarlo: la
situazione esistente era percepita come sempre più insostenibile.
Tutte
facevano a gara a proporre questa o quella riforma, a chiamarsi fuori da
logiche spartitorie, ad auspicare l’abbandono di certe prassi come le nomine a
pacchetto, il salto dall’ANM al CSM, il rinvio di certe nomine a tempi
“politicamente” più opportuni. Riforme da attuare sempre domani, perché oggi,
per un motivo o per un altro, non era mai il momento giusto.
Tutto questo non era però sufficiente a scalfirne
l’influenza.
Le correnti sono sempre rimaste in piedi, anche quando
questo sembrava apparentemente contrario ad ogni logica perché anacronistico,
logoro, ormai quasi apertamente indifendibile.
La facciata è sempre la stessa: c’è bisogno di “centri di
elaborazione culturale”, in cui far emergere il “pluralismo” che esiste fra i
magistrati e garantire adeguata rappresentanza nei luoghi dell’associazionismo
e dell’autogoverno.
Perché questa narrazione sia sostanzialmente falsa è
argomento sul quale parecchio ci sarebbe da dire.
Ma quello che qui si vuole evidenziare è: perché il sistema
non è mai crollato sotto il peso del malcostume? Perché, insomma anche i
simpatizzanti “comuni” delle correnti non le hanno abbandonate, quando hanno
capito a cosa servivano davvero, a quali interessi fossero piegate?
La risposta ha poco a che fare con meccanismi istituzionali
o convinzioni politiche, e molto invece con la natura umana e la cultura etica
del Paese.
Perché i magistrati non sono cosa diversa dal corpo sociale;
sono donne e uomini con i loro interessi, le loro preoccupazioni ed
aspirazioni.
Semplicemente, ai magistrati non conveniva denunziare il
sistema, o per meglio dire ne avevano timore.
Denunciare significava esporsi al rischio di un disciplinare
cieco e rigido.
Significava mettere da parte le ambizioni di carriera.
Significava dover rinunciare alla “telefonata”. Perché
spesso nella carriera di un magistrato viene il momento di dover fare “la
telefonata”, quella che evita un guaio, risolve un problema o dà la spinta
giusta.
E quindi, perché votare un indipendente che non ha la merce
giusta, che non può garantire anche solo la tranquillità lavorativa che, per i
più, è davvero l’unica aspirazione professionale?
Non è un mistero che, nel settore privato, non sempre tutti
i diritti dei lavoratori vengono rispettati. I dipendenti che non hanno la
fortuna di avere il datore di lavoro giusto sono spesso costretti a sottostare
a piccole o grandi ingiustizie, ad evitare di puntare i piedi su determinate
situazioni per fare in modo che una vittoria tecnica di oggi non diventi una
ritorsione domani.
Chi “governa” l’impresa, dunque, non sempre può essere
additato, anche se magari, ad esempio, non rispetta tutte le regole sulla
sicurezza nei luoghi di lavoro.
Dentro la magistratura il meccanismo non è diverso.
Chi “governa” i magistrati è colui che li giudica in sede
disciplinare, che decide sulle loro valutazioni di professionalità, che nomina
i semidirettivi, i direttivi, i fuori ruolo. Se questo meccanismo viene assunto
dalla correnti, sono loro a diventare intoccabili.
Avere la consapevolezza di essere, anche solo con il
silenzio e con il voto (se non si scelgono forme di partecipazione più
penetranti), un meccanismo di un ingranaggio certamente distorto, ma in qualche
modo influenzabile, è più rassicurante che sperare in un cambiamento futuro e
incerto, che magari viene auspicato, ma che nell’immediatezza potrebbe esporre
a rischi.
La sicurezza, dunque: questa è la molla che spinge il comune
magistrato ad affidarsi alle correnti.
Ci sono gli ambiziosi, certo, quelli per cui la magistratura
è solo il primo passo verso altri lidi, quelli che vogliono essere chiamati
“Signor Presidente”, Signor Procuratore” o “Signor Consigliere”, ma sono una minoranza.
La maggioranza è composta da gente laboriosa, spesso
appassionata del proprio lavoro (in percentuali nettamente superiori rispetto
ad altre categorie) e soprattutto onesta. Questo aspetto, in particolare, va
ribadito: la magistratura, con le dovute eccezioni, è fondamentalmente sana.
Le cause non si vincono e non si perdono con la corruzione,
i traffici, “la telefonata”: sono tutte dinamiche estranee al normale andamento
della giustizia.
Ci sono le mele marce, ovviamente, ma sono appunto
eccezioni, che non possono assolutamente contare su di un diffuso clima di tolleranza,
come invece l’emergere delle recenti vicende potrebbe far temere all’opinione
pubblica.
Magistrati seri e onesti, dunque, sulla cui deontologia si
può contare nell’esercizio della giurisdizione, cioè tutte le volte in cui la
loro attività è rivolta verso l’esterno.
Ma quando l’attività dei magistrati è rivolta all’interno,
quando cioè si tratta dell’autogoverno, le cose cambiano.
Temendo di poter subire conseguenze personali, i magistrati rivelano
i propri limiti, tornando ad essere semplici donne e uomini con le loro
preoccupazioni ed aspirazioni.
“La telefonata”, cui nessuno si sognerebbe mai
di rispondere quando amministra la giustizia, se a farla fosse una delle parti
o un imputato o chi per loro, diventa invece un mezzo possibile e moralmente
lecito se si concorre per un semidirettivo o un direttivo (soprattutto se lo si
ritiene “meritato”), o se si è ricevuto un esposto e si cercano rassicurazioni
(anche se si ha la coscienza a posto), o ancora se un incidente di percorso può
mettere a rischio la propria valutazione periodica di professionalità.
Quando è il cittadino a chiedere giustizia, oppure è lo
Stato ad esercitare le sua pretesa punitiva, non ci sono altri poteri a fare da
intermediari fra lui e chi deve decidere. Gli avvocati esercitano la loro
funzione tecnica, ma il giudice decide secondo la legge ed il suo personale
convincimento: questa è una conquista culturale prima ancora che istituzionale,
alla quale ben pochi magistrati sarebbero disposti a rinunciare.
Ma quando è il magistrato a dover essere “giudicato” (nel
senso più ampio di tale termine) dal proprio organo di autogoverno, fra lui ed
il CSM c’è un terzo incomodo con cui bisogna fare i conti: il sistema delle
correnti.
In un meccanismo dominato dalle correnti, che si sono arrogate
la funzione di tramite fra i magistrati e l’autogoverno, appare naturale
ricorrere alla “telefonata”. Chi sta dall’altra parte del telefono può negare o
concedere quello che si chiede. Se non lo si chiede, non verrà concesso.
La convenienza, dunque, dettata per una minima parte
dall’ambizione, ma per la grande maggioranza dei magistrati dall’insicurezza.
Il timore non tanto di non poter fruire di chissà quali
vantaggi, ma di poter subire penalizzazioni ingiuste.
Questa è la merce che le correnti possono offrire, e che ne
garantisce la sopravvivenza.
Non l’orientamento politico o quello culturale, non i
convegni, ma la sicurezza.
Ed è questo il motivo delle parole che non sono state dette.
Più forte della paura, permettetemi di dirlo, c'è la Dignità e la voglia di verità e giustizia, dice Nino Di Matteo. Purtroppo più forte della dignità e della voglia di verità e di giustizia, per una larga, infima quantità di individui "i miserabili", c'è la Voglia dell'interesse, anche quello più infimo e ripugnante.
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RispondiEliminaLa cronaca giudiziaria degli ultimi anni ha evidenziato "mele marce" a Palermo, Messina, Bari, Taranto, Latina, Roma, Piacenza, Cremona, Alessandria, Sanremo, Imperia, Aosta, Venezia, Tempio Pausania ( e qualcosa certamente dimentico), più altri casi oggetto di denuncia ma archiviati; particolarmente sfortunata pare essere la sezione fallimentare.
Dal punto di vista metodologico, l'approccio può essere duplice; o il sistema è tutto sommato nell'insieme "sano" e, per usare parole di Palamara, ha gli anticorpi per reagire e prontamente individuare le mele bacate, o i casi menzionati sono l'agghiacciante punta di un iceberg ben più vasto.
Sempre dal punto di vista metodologico, se sono fondati gli studi, i quali ci dicono che nel nostro Paese i fenomeni di corruzione in genere emersi in sede giudiziaria sono risibili rispetto alle sue reali dimensioni, se ne deve convenire che, o la magistratura riesce a tenere duro rispetto alla debacle generale e riesce sconfessare i modelli predittivi validi per il resto della popolazione, o essa, tragicamente, non vi si sottrae e allora quella lista geografica è destinata ad allungarsi in modo raccapricciante.
Si giustifica troppo e si parla solo di " telefonata!" per procedere in carriera che può capitare, ma quando il prezzo da pagare può essere quello di corrompersi nel giudizio su certi fatti magari legati a politici avversi a certe correnti ,allora il giudice compie un illecito c' è un dolo ed allora dal momento che il giudice deve essere super partes, deve andare a fare un altro mestiere e sanzionato seriamente ed essere rimosso. Non può fare il giudice
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