di Nicola Saracino - Magistrato
L’art. 323 del Codice Penale è stato, alla fine, abrogato.
Com’è noto dava vita ad una vera “star” tra i reati ascrivibili ai pubblici ufficiali, ovvero l’abuso del potere commesso per favorire o danneggiare qualcuno o comunque la mancata astensione nell’ipotesi di conflitto di interessi.
Da cittadino sarei alquanto preoccupato se fosse vero che saremo completamente sprotetti di fronte alla prevaricazione del potere.
Ma che l’abuso non sia più reato non significa affatto che sia una condotta lecita.
Resta sicuramente illecita, sotto tutti i profili tranne quello penale.
Se un atto “sviato” arreca danno alle casse pubbliche l’autore ne risponderà contabilmente e dovrà risarcire l’erario.
Se danneggia un privato è oggi previsto il risarcimento del danno anche se lesivo di un interesse legittimo.
Per me, dunque, non cambia moltissimo se è vero che sul versante penale l’efficacia dell’azione della magistratura è stata alquanto deludente.
Solo nel cinque per cento dei procedimenti penali avviati sull’ipotesi dell’abuso d’ufficio sfociava in condanna.
Sono i dati che più volte il Ministro Nordio – mai smentito - ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica per giustificare il definitivo martirio dell’art. 323 c.p. , già ridotto in brandelli da precedenti riforme poste in essere da forze politiche antagoniste rispetto a quelle oggi al governo del Paese.
In sostanza per giungere al misero risultato di cinque condanne si impegnavano le forze di cento procedimenti.
Ma, soprattutto, per punirne cinque se ne massacravano “processualmente” novantacinque.
Ecco allora che qualche riflessione autocritica da parte della magistratura sarebbe opportuna, perché all’eliminazione della “primadonna” dei reati contro la pubblica amministrazione ha fornito un formidabile concorso.
Quante volte al tg abbiamo sentito “aperta indagine per abuso d’ufficio contro Tizio …".
Tantissime volte.
A quanto pare solo cinque volte su cento abbiamo avuto notizia che Tizio è stato condannato per quel delitto.
I magistrati, che tanto piangono il trapasso dell’art. 323 del codice penale, si trincerano dietro alle difficoltà tecniche della prova dell’abuso d’ufficio.
Il che è senz’altro vero.
Perché l’illiceità da punire penalmente non era la semplice illegittimità dell’atto amministrativo, ma la volontà “cattiva” che l’aveva determinata (per l’appunto, quella di favorire o danneggiare qualcuno).
Prima ancora della difficoltà della prova, allora, doveva prendersi atto della difficoltà di formulare l’ipotesi e le denunce superficiali che si limitavano a segnalare illegittimità amministrative andavano cestinate se non offrivano un qualche elemento immediatamente indicativo di quella “volontà cattiva”.
Invece la magistratura ha iscritto ogni segnalazione come ipotesi di reato.
Come se si dovessero traslocare dal tribunale amministrativo regionale alle procure della Repubblica tutte le pratiche delle impugnative di atti amministrativi denunciati per vizi di legittimità, migliaia e migliaia, non basterebbero i camion.
Di qui la desolante percentuale di “successo” delle ipotesi accusatorie che avevano dato origine ad un numero abnorme di procedimenti penali.
La deterrenza, vale a dire la capacità di sconsigliare condotte scorrette (in questo caso dei pubblici ufficiali), di renderle non convenienti per l’aspirante reo, è senz’altro uno degli scopi delle norme penali.
E’ un effetto lecito e voluto direttamente dalla legge penale quando minaccia la sanzione.
Insopportabile, al contrario, la minaccia di dover subire un processo anche quando nessuna “cattiva volontà” ispiri l’azione del pubblico ufficiale.
Novantacinque su cento hanno dovuto subire il danno mediatico, economico, morale ed anche politico di iniziative processuali sfociate in nulla di fatto.
Questa particolare deterrenza non è fisiologica, non è nella legge ed in effetti frena non già l’illecito, ma la stessa azione della pubblica amministrazione.
Sicché fa davvero sorridere l’affermazione di qualche procuratore della Repubblica secondo la quale da domani non potrà aiutare il cittadino che lamenti abusi: andrebbe ricordato a quel procuratore che le sue risposte erano assai carenti anche prima dell’abrogazione del delitto, rispondeva bene solo nel cinque per cento dei casi.
Nessuno si fascerà il capo, forse cinque su cento.
Se poi la pretesa della magistratura fosse quella di impaurire i “sudditi” con la minaccia di coinvolgimento in processi destinati comunque all’archiviazione o all’assoluzione, ecco allora che può tacciarsi proprio quell’aspirazione di essere “abusiva”.
In definitiva l’abuso è morto per l’abuso che se ne è fatto.
Risorgerà?
Non è escluso, cambia la maggioranza e cambia la legge, è nelle regole democratiche.
Ma servirà un legislatore accorto ed una magistratura meno incline a mascherare ogni sua inefficienza dietro al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: ho sbagliato ma ero obbligato …
L'accertamento della volontà "cattiva", elemento psicologico del reato sussiste per tutti i reati. Certamente l'art. 43 va applicato secondo i casi e le circostanze: sempre per i legibus soluti, mai per i nemici.
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