di Lavinia Spaventi
(Giudice del Tribunale di Sorveglianza di Roma)
Come è ormai chiaro ai lettori di questo blog, è stata avviata da parte di una (per ora) piccola componente della magistratura una riflessione critica sul sistema giustizia.
Negli ultimi tempi sembra che la magistratura italiana, nella maggior parte dei casi, non sia più in grado di cogliere i bisogni dei cittadini e di soddisfarli, dove soddisfarli significa dare una risposta alla loro istanza di giustizia in tempi rapidi con motivazioni soddisfacenti (nulla più).
Come magistrato anche io voglio partecipare alla riflessione, pormi delle domande senza sottrarmi dall’assunzione delle responsabilità che competono all’ordine a cui appartengo.
A ciascuno la propria parte di responsabilità: siamo fermamente convinti che la magistratura italiana non possa assolutamente permettersi l’autoreferenzialità, ma debba con umiltà mostrarsi pronta a fare autocritica e a rimuovere qualunque ostacolo che si frapponga alla rinascita di un nuovo scambio vitale tra i cittadini e i giudici.
Una struttura che non è in grado di controllare se stessa, di rilevare le crisi, di porvi rimedio, è destinata al collasso: questo è un dato di comune esperienza.
D’altra parte il rispetto verso la nostra funzione non può certo essere preteso sulla base del valore nominale del nostro ruolo: deve essere guadagnato, giorno per giorno, processo dopo processo, fascicolo dopo fascicolo, essere umano dopo essere umano, sul campo che è l’udienza, il processo, il provvedimento decisorio.
Individuare le nostre responsabilità e attivarsi perchè le cause delle crisi di efficienza siano rimosse: ecco i compiti che la magistrura oggi non può più eludere.
É vero, si tratta di una rivoluzione culturale, innanzitutto: la necessità di riguadagnare il rispetto dei cittadini deve tornare a far parte della nostra anima di magistrati. Noi esistiamo perché la società ha bisogno di noi, perchè esistono i dissidi, le divergenze, le “crisi di cooperazione”, le fratture nella convivenza civile provocate dai reati.
La sentenza che arriva con anni di ritardo, la prima udienza in corte di appello fissata dopo tre anni dalla data di deposito del ricorso, la condanna definitiva che arriva a dieci anni dal fatto non sono risposte ai bisogni della società, sono un’offesa al cittadino: sono offensive perchè sono inutili.
I motivi di una risposta di giustizia che arriva in ritardo possono essere legati alla stessa architettura delle norme processuali (si veda la lucida e chiara analisi di Bruno Tinti, su questo blog, sul perché la condanna penale in Italia, se arriva, è quasi un miracolo); oppure ai numeri oggettivamente elevati di procedimenti giurisdizionali incardinati in un ufficio giudiziario, in relazione al numero di giudici chiamati a decidere (presso il Tribunale civile di Roma, nell’anno giudiziario 2005/06 sono stati iscritti 181.654 procedimenti, e sono state adottate 194.674 sentenze di I grado, con un numero complessivo di giudici civili pari a 191 e un numero di professionisti iscritti al consiglio dell’ordine degli avvocati di circa 17.000 unità. Fonti: www.giustizia.it, dati statistici del Ministero della Giustizia; www.cosmag.it organico dei Tribunali; www.ordineavvocati.roma.it); a volte derivano da carenze di organico e di mezzi.
Su queste variabili il magistrato non ha potere di intervento, può solo attivarsi come individuo (spiegando con calma e pazienza tali fatti in ogni occasione in cui venga interpellato sul punto) e come categoria (con iniziative dell’Associazione volte a creare una sorta di “ufficio stampa”) affinché venga offerta una corretta informazione all’esterno rispetto a tali circostanze.
Ciò non toglie che possa accadere – e accade non così di rado - che i ritardi della risposta di giustizia siano colpa dei magistrati stessi, che si nascondono dietro riserve pluriannuali, e dei loro capi, che non controllano preventivamente e successivamente affinché ciò non accada o non accada più.
Su questo punto la magistatura tutta deve iniziare a fare autocritica e trovare quanto prima dei rimedi efficienti.
Chiunque abbia dimestichezza con il nostro lavora sa che la produttività di un giudice e di un Tribunale è il risultato di una serie di variabili, tra le quali, l’organizzazione del lavoro è una delle più rilevanti.
Questo principio, che sembra un’ovvietà in qualunque settore privato, da noi fa molta fatica ad affermarsi: si tollerano male da parte dei magistrati i controlli sull’organizzazione del proprio lavoro (si badi bene, si parla di controlli sul modo di gestione del proprio carico di lavoro, non sul merito della funzione giurisdizionale, in ordine alla quale non possono esservi controlli, di nessun tipo, se non per il tramite delle impugnazioni), e gli stessi controlli molto spesso mancano da parte di chi dovrebbe effettuarli.
Fino a quando l’episodio clamoroso fa scoppiare il caso: il cittadino inoltra un esposto, saltano fuori riserve mai sciolte e sentenze mai depositate, parte una lentissima e inefficientissima procedura disciplinare che, dopo molto tempo, forse, si concluderà con una sanzione che lascia il tempo che trova, nell’ottica della necessità di recuperare efficienza nel sistema nel suo complesso. Un caso emblematico è raccontato in questo blog, nell'articolo "I magistrati non riescono a rendersi conto delle loro inefficienze".
Nella peggiore delle ipotesi il collega sanzionato viene peraltro trasferito in un altro Tribunale senza che possa essergli impedito di andare a fare danni anche lì.
Non solo dunque mancano i controlli, ma manca anche una risposta celere all’inefficienza.
Non solo manca una risposta celere all’inefficienza ma manca la predisposizione di modelli organizzativi che prevengano il verificarsi di episodi di inefficienza.
Oggi il buon funzionamento di un Tribunale, di una Procura sono rimesse alla buona volontà del magistrato dirigente, il Presidente o il Procuratore capo, alla sua indole, al modo in cui interpreta la dignità del suo ruolo di capo, ma non ad altro.
Questo significa che purtroppo frequenti sono i casi in cui i capi degli uffici giudiziari non sono in grado di controllare, dirigere, organizzare.
Ciò accade (anche) perchè troppo spesso sono stati selezionati dal C.S.M. con criteri inadeguati, ovvero tramite lo scambio di favori del correntismo, fenomeno nefasto, noto a qualunque magistrato italiano, che determina le nomine sulla base dell’appartenenza e non della onesta e limpida valutazione dell’effettiva capacità organizzativa e direttiva del dirigente.
Al di là di qualunque logica elettorale e di corrente, sarebbe quindi auspiucabile che venissero adottate dal C.S.M. iniziative volte a creare dei modelli di organizzazione e un sistema di controlli interni che possano prevenire o, nella peggiore delle ipotesi, porre rimedio in tempi celeri alle crisi di efficienza degli uffici giudiziari.
Tra le possibili strade, potrebbe essere utile la predisposizione del carico massimo e minimo di lavoro in ciascuna funzione. Tali soglie dovrebbero essere stabilite, per ciascuna funzione (giudice civile, tutelare, fallimentare, lavoro, penale, Gip, Gup, Pm, magistrato di sorveglianza, giudice minorile e così via) nel dettaglio più specifico possibile e tenendo conto della densità demografica del distretto o del circondario, del tipo di criminalità, della economia del territorio. Essere giudice civile a Milano non è lo stesso che in un piccolo centro rurale; fare il Pm a Napoli non è lo stesso che a Verbania. L’individuazione e la predeterminazione di tali parametri è senz'altro un compito molto difficile, ma non impossibile: la nostra è una realtà complessissima, e se è vero che giuridicamente siamo tutti uguali per dettato costituzionale perchè il cuore della nostra attività di giudice è uguale per tutti i magistrati (e guai se non fosse così), non è vero che in concreto svolgiamo lavoro “uguale” dal punto di vista qualitativo e quantitativo.
Con un minimo e un massimo predeterminato anche la distribuzione dei ruoli negli uffici tra i magistrati non potrebbe essere più squilibrata, al contrario di quanto accade oggi, soprattutto nei confronti degli uditori assegnati alla prima sede di servizio (che avrebbero a loro tutela il dovere di rispetto da parte del dirigente del limite massimo) e verrebbe subito in evidenza la scarsa produttività (tramite il confronto tra quanto effettivamente prodotto e il limite minimo). Ovviamente può accadere che il minimo possa non esser rispettato se sopravenissero particolari esigenze di famiglia o di salute o quant’altro. Altrettanto nulla esclude che il massimo possa essere superato se vi è interesse da parte del magistrato a lavorare di più.
Sarebbe inoltre opportuno prevedere un esplicito dovere del capo dell'ufficio di predisporre modelli organizzativi per il suo ufficio, di individuare meccanismi di rilevazione delle inefficienze, di segnalare le carenze strutturali e di organico in maniera sistematica, di monitorare a scadenza fissa e ravvicinata (es: ogni tre mesi) il rispetto dei parametri minimi e il rispetto dei termini di deposito di tutti i magistrati, di chiedere immediate spiegazioni scritte sul ritardo del magistrato (con dovere di quest’ultimo di documentare, in quel momento, quando si verifica il ritardo, eventuali circostanze personali impeditive, lutti, malattie, depressioni etc etc); di adottare senza indugio misure volte a evitare che il ritardo si protragga ulteriormente.
Sarebbe poi necessario prevedere rimedi immediati per affrontare la crisi: sarebbe opportuno che innanzitutto il capo e poi gli altri magistati del tribunale vengano chiamati a partecipare alla ridistribuzione del lavoro arretrato (magari il capo dovrebbe partecipare alla ridistribuzione con una quota maggiore di lavoro in più, come "sanzione" per non aver saputo adottare un modulo organizzativo interno che PREVENISSE la crisi). Ciò servirebbe a attivare un sistema di controlli reciproci tra colleghi che disincentiverebbe l’omertà verso il collega nullafacente.
Sarebbe indispensabile un periodico controllo dell'operato dei capi da parte dei loro capi, anche tramite questionari di gradimento da parte dei sottoposti (ovvero i magistrati stessi), dei cancellieri, degli avvocati, e del pubblico.
Così come sarebbe indispensabile prevedere corsi di formazione su organizzazione e gestione delle risorse desinati ai capi degli uffici.
Sarebbe auspicabile una rimozione – prima della scadenza dell’incarico - dei capi che si siano rivelati non idonei ad assicurare il buon funzionamenteo dell’ufficio.
L’insieme di queste iniziative non inciderebbe certo sul correntismo nelle nomine, ma selezionerebbe a monte gli aspiranti alle cariche direttive: se l’incarico direttivo è – come è oggi – una sine cura, raggiunta una certa età molti magistrati sono oggi invogliati a presentare domanda, avendo da guadagnare prestigio e, di solito, meno lavoro.
Ma se dirigere un Tribunale o una Procura diventasse un lavoro duro, responsabilizzato, sanzionato nella sua non efficienza (con lavoro in più per il capo e addirittura rimozione se poi dovesse rivelarsi non idoneo a organizzare e dirigere), solo chi è veramente motivato farebbe domanda.
Abbiamo avuto ampia prova che i giudici spesso non sono in grado di autogestirsi il ruolo, che i controlli ispettivi e la risposta disciplinare sono casuali, aleatori, tardivi, inefficaci, che i dirigenti troppo spesso non sanno cosa accade nel loro Tribunale, che sono i primi a spogliarsi del lavoro per una maleintesa concezione del potere direttivo loro attribuito.
Ritengo che sia ora che le cose cambino.
Anche perchè, si ricordi, la responsabilità del fatto che un capo, non in grado di svolgere la sua funzione direttiva, gestisca male un ufficio giudiziario risiede in capo al Consiglio Superiore della Magistratura che non è stato in grado di valutarne le capacità dirigenziali nel momento in cui ha votato la sua nomina.
Siamo quindi chiamati tutti, dall’ultimo magistrato di prima nomina alle vette del nostro autogoverno, ad assumerci le nostre responsabilità.
Condividendo le parole del magistrato Lavinia Spaventi vi invito a guardare l'interessante servizio di Report del maggio scorso "A norma di legge".
RispondiEliminahttp://www.report.rai.it/R2_popup_articolofoglia/0,7246,243%255E1072244,00.html
Vi troverete la conferma che anche con le norme ed i mezzi attuali si può offrire ai cittadini un servizio migliore. Lo ha saputo fare Mario Barbuto, Presidente del Tribunale di Torino, del quale ho conosciuto e apprezzato la passione per il lavoro in occasione di alcune sue docenze.
Grazie e buon lavoro a tutti
F. Testore (Torino)