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mercoledì 23 gennaio 2008

Il volto mafioso delle istituzioni


In attesa di trattare più approfonditamente alcuni aspetti della “vicenda De Magistris”, definito un “cattivo giudice” da Letizia Vacca, componente del C.S.M. “in quota” ai Comunisti Italiani, riportiamo qui una notizia di pochi giorni fa che potrebbe aiutare anche la prof. Vacca a inquadrare meglio il concetto di “cattivo giudice”.

Si tratta della condanna in primo grado (dunque, non definitiva, essendo la sentenza soggetta alle ordinarie impugnazioni) di due importanti magistrati a cinque e sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e favoreggiamento della mafia.

Si tratta dell’ex Capo dei Gip di Messina (Marcello Mondello) e di un ex Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia (Giovanni Lembo).

Come accade ormai troppo spesso, questa notizia, come altre, purtroppo, è passata nel quasi assoluto silenzio dei media.

E’ stata quasi solo sussurrata.

Viene ritenuto clamoroso sui giornali che Luigi De Magistris “motivi troppo” un decreto di perquisizione (vedremo in altro articolo come questa sia uno dei motivi di condanna di Luigi al C.S.M.) e passano sotto silenzio i magistrati concorrenti e favoreggiatori della mafia.

Al solito, se si mette una stringa di ricerca su Google, si scopre che nessuno dei giornali e dei media di rilievo ha ritenuto “interessante” la notizia, che si trova solo in siti underground (ma d’altra parte è stata taciuta anche una condanna di Andreotti!).

Vi diamo la notizia a mezzo di un articolo scritto per noi da Marco Benanti, che ringraziamo di cuore per averci fatto questo “regalo”.

Questo articolo è l’occasione di dirvi di Marco.

Un giornalista coraggioso e indipendente (per questo ha vinto anche il premio Rocco Chinnici), che, ovviamente, vive il suo lavoro e la sua vita fra mille difficoltà in un regime nel quale l’informazione libera non è considerata virtù.

Per saperne di più su Marco, è sufficiente digitare “Marco Benanti” su Google.

Noi intanto vi segnaliamo due articoli su Peacelink e su Il Barbiere della Sera.

Nell’articolo di Marco si parla di un altro uomo impegnato in tante difficili battaglie, che per quelle ha pagato e paga “prezzi pesanti”: l’avv. Ugo Colonna.

Le vicende di Marco e dell’avv. Colonna ci sembrano emblematiche del fatto che non possiamo tirarci indietro e non possiamo credere di essere gli unici a pagare, per la giustizia e la verità, prezzo troppo cari.

Ha scritto Bertold Brecht:

“I deboli non combattono
quelli più forti lottano forse per un’ora
quelli ancora più forti lottano per molti anni
ma quelli fortissimi lottano per tutta la vita.
Costoro sono indispensabili



________________


di Marco Benanti
(Giornalista)


Può l’Antimafia istituzionale fare il gioco della mafia?

Può un “pentito” fare il doppio-gioco, approfittare della sua condizione per ottenere vantaggi e favori, con la complicità di chi dovrebbe perseguire i reati?

Si può impunemente calunniare chi denuncia il vero, in particolare proprio queste deviazioni?

Il Palazzo di Giustizia è solo un ufficio pubblico al servizio del cittadino o può diventare un centro di potere, anche al di sopra della Legge che dovrebbe servire?

Questi ed altri quesiti hanno avuto una prima risposta dalla sentenza del Tribunale di Catania, chiamato a pronunciarsi sulle presunte “deviazioni” di alcuni giudici messinesi.

Un prima “risposta” lo precisiamo, che necessita naturalmente delle motivazioni e poi dei successivi gradi di giudizio.

Comunque, i dati di partenza sono piuttosto pesanti.

Qual è stato il responso di primo grado?

Due magistrati condannati per reati – a vario titolo – di mafia.

La prima sezione penale del Tribunale di Catania, presieduta da Francesco D’Alessandro, ha condannato i magistrati Giovanni Lembo e Marcello Mondello, rispettivamente a cinque e sette anni di reclusione.

La sentenza, arrivata dopo sei anni di dibattimento, ha completato il giudizio di primo grado sui fatti divenuti celebri, a cavallo fra la fine del vecchio millennio e l’inizio del nuovo, con il nome di “Caso Messina”, correlato con il “Caso Catania”, non fosse altro perché i due distretti di Corte d’Appello sono rispettivamente competenti in caso di ipotesi di reato commessi da magistrati.

La sentenza emessa la sera del 10 gennaio scorso ha del clamoroso, come del resto eclatanti erano stati fin dall’inizio gli sviluppi di una vicenda giudiziaria che aveva visto coinvolti magistrati, carabinieri, capimafia, imprenditori, falsi pentiti e altro ancora.

Questo è stato l’esito: il dott. Giovanni Lembo, all’epoca dei fatti sostituto procuratore nazionale antimafia, è stato condannato per favoreggiamento aggravato dal fine di agevolare l’associazione mafiosa Cosa Nostra, a cinque anni di reclusione e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; il dott. Marcello Mondello, che al tempo era il capo dell’ufficio Gip presso il Tribunale di Messina, è stato condannato a sette anni di reclusione con interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione mafiosa (la famiglia messinese di Cosa Nostra); il pentito Luigi Sparacio, per fatti commessi mentre era titolare di programma di protezione e mentre veniva considerato una sorta di nuovo Buscetta dalla Procura Nazionale Antimafia e dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Messina, è stato condannato a sei anni e quattro mesi di reclusione quale capo, insieme ai boss Michelangelo Alfano e Santo Sfameni, dell’articolazione messinese di Cosa Nostra; il maresciallo del Ros Antonio Princi (principale collaboratore del dott. Lembo) è stato condannato a due anni di reclusione per minaccia in danno del pentito Vincenzo Paratore finalizzata alla commissione del delitto di calunnia e proprio per calunnia (per la quale Paratore è stato dichiarato non punibile perché costretto dal dott. Lembo e dal maresciallo Princi) in danno dell’avvocato Ugo Colonna, che agli occhi della mafia messinese e dei suoi protettori istituzionali aveva avuto la colpa di aver disvelato i fatti del “caso Messina”, facendo partire con la sua denuncia il processo definito con la sentenza del 10 gennaio.

Lembo, Princi e Mondello, inoltre, sono stati condannati al risarcimento dei danni in favore dello Stato, da liquidarsi in sede civile.

Princi deve inoltre risarcire anche l’avvocato Ugo Colonna, parte civile, e il pentito Paratore e deve pagare loro le spese processuali (45 mila euro a Colonna, assistito da Salvatore Li Destri, e 20 mila euro a Paratore, difeso da Fabio Repici).

Gli imputati sono stati difesi dagli avvocati Renato Milasi, Luigi Giacobbe, Carlo Zappalà e Carmelo Passanisi.

I pm Antonino Fanara e Federico Falzone, lo scorso ottobre, avevano chiesto 14 anni e 3 mesi per Lembo, 12 anni per l’ex capo dei Gip di Messina, Marcello Mondello, 6 anni per Sparacio, 5 anni per Princi e 2 anni per Paratore.

Una vicenda scomoda e intricata, che ha visto protagonisti anche personaggi insospettabili.

E’ il caso di Giovanni Lembo, già Sostituto della Procura Nazionale Antimafia, come dire un magistrato di vertice nella lotta a Cosa Nostra, in quella sorta di SuperProcura retta prima da Bruno Siclari e poi da Piero Luigi Vigna, che lo sospese al momento dell’arresto.

Che, evidentemente, non sapeva nulla di quanto avrebbe fatto il dott. Lembo.

Già, perché sul dott. Lembo la Pubblica Accusa non ha fatto sconti, anzi: aveva chiesto quattordici anni e tre mesi, per sanzionare il suo operato dentro l’amministrazione della Giustizia.

Doveva rispondere anche di concorso esterno in associazione mafiosa il magistrato, ma per questo capo d’imputazione è stato assolto.

Al centro delle vicende di questo processo la gestione piuttosto allegra del “pentito” Luigi Sparacio.

Un mafioso doc, questo Sparacio, che per anni avrebbe goduto di un trattamento di estremo favore grazie alla complicità di apparati dello Stato: in sostanza, una falsa collaborazione, avallata istituzionalmente.

Si sarebbe arrivati, secondo l’Accusa, davvero a cose impensabili e inquinamenti giudiziari.

In mezzo ci sono anche acquisti gratis di alimentari, in più uno stipendio passato dallo Stato, nel 1994, di sette milioni mentre lo stesso avrebbe avuto a disposizione seicento milioni in contanti, un soggiorno in albergo, al costo di 240 mila lire al giorno, con vitto, alloggio e magari le telefonate gratis.

Nel 1994, se la passava davvero bene Sparacio: del resto, lui ama la bella vita, tanto da sfoggiare orologi per trecento milioni e ancora da poter disporre di immobili di lusso, di una fiammante Ferrari.

Poi, tanto per gradire, mentre era in vacanza acquistava mobili antichi per decine di milioni e pagava in contanti.

Questo era il “collaboratore” Sparacio.

Peccato che ha accumulato qualche annetto di reclusione; i Pm hanno fatto il conto: circa 270 anni di carcere.

Sparacio, però, dopo la falsa collaborazione, ha cominciato a dire la verità.

Ma non gli è servito a molto: per lui, la Pubblica Accusa ha chiesto sei anni di carcere e il Tribunale ha anche aumentato la condanna.

Anche per la sorte dell’ex capo dei Gip di Messina Marcello Mondello, oggi in pensione, i Pm catanesi sono andati con la mano pesante: il Tribunale lo ha riconosciuto colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa, condannandolo a sette anni.

In questo processo, c’erano ancora due imputati Michelangelo Alfano e Cosimo Cirfeta, che adesso non possono essere giudicati perchè morti in circostanze misteriose: suicidatisi a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro.

Ma cos’è il “Caso Messina”?

C’è per la Procura di Catania una commistione di interessi tra alcuni giudici dell’antimafia e l’associazione mafiosa facente riferimento a Michelangelo Alfano – Luigi Sparacio – Santo Sfameni. La posizione di quest’ultimo è stata stralciata.

Uno spaccato, fatto di perbenismo, di propaganda a buon mercato e di tanto malaffare, forse poco conosciuto fuori da Messina, che smentisce tanti luoghi comuni sulla provincia cosiddetta “babba”.

Un quadro, quindi, davvero grave: che, comunque, non sarebbe emerso se non fosse intervenuto un personaggio che ha pagato in prima persona e paga ancora oggi (la Commissione Nazionale Antimafia, di recente, la bloccato la sua nomina a consulente con motivi speciosi, malgrado lui avesse rinunciato alla difesa dei pentiti) per il suo impegno professionale e civile.

Il processo per il “Caso Messina” è anche e soprattutto il processo che vede per protagonista l’avv. Ugo Colonna, parte civile nel procedimento: un legale difensore di molti collaboratori di giustizia, che se vede durante un processo qualcosa che non va non fa spallucce, ma lo denunzia.

Ha assistito a tanti processi, da quelli sulle stragi a inchieste di mafia e ‘ndrangheta sullo Stretto e si è accorto che alcuni soggetti che ufficialmente facevano parte dell’Antimafia in realtà facevano il gioco della mafia per mezzo del proprio potere.

Colonna ha denunciato tutto, malgrado le maldicenze e le calunnie subite, non ultima quella di “orchestrare” i collaboratori.

Ha pagato Colonna: nel novembre del 2004 venne arrestato dalla Procura di Catanzaro con un capo d’imputazione inverosimile.

L’ accusa era di avere usato violenza al corpo giudiziario, reato per cui dal 1945 non era mai stato condannato nessuno.

In particolare fu accusato di avere delegittimato con le sue denunzie due giudici, Enzo Macrì e Francesco Mollace.

E come finì?

Scarcerato dopo nove giorni. Si mobilitò l’intero arco istituzionale da Centaro di Forza Italia a Vendola di Rifondazione: lo stesso Carlo Azeglio Ciampi, che già nel 2000 lo aveva definito “l’Ambrosoli del Sud”, si espresse a suo favore.

Alla fine, la Cassazione gli ha dato ragione e i Pm di Catanzaro hanno chiesto finalmente l’archiviazione.

Totalmente estraneo, quindi, Colonna a simili incredibili accuse: questo atto di vile aggressione è stato ricordato anche dalla Pubblica Accusa nel processo di Catania.

Il PM Fanara ha parlato, al riguardo, di un elemento di inquinamento probatorio.

Ecco, sullo sfondo di questo processo c’è anche il modo – talora davvero disinvolto – di agire di taluni pezzi della magistratura: un dato negato da tanta pubblicistica conformista, ma ben conosciuto da chi frequenta i Palazzi di Giustizia.

Del resto, il processo di Catania, competente per i reati commessi dai giudici messinesi: due città, una che “controlla” l’altra, in realtà molto simili, dove il Potere, anche quello giudiziario, vive stagioni fatte di ombre.

Naturalmente, gli imputati hanno sempre respinto con decisione le accuse: durante l’ultima udienza, poi, sono arrivate le spontanee dichiarazioni di Princi, Mondello e Lembo.

Una difesa accorata del proprio operato, con accenti di grande impatto sulla folta platea presente in aula, dove, però, qualcuno non ha trattenuto sorrisi ironici per le parole ascoltate.

Come quelle del dott. Lembo: “non trovo nessuna colpa in quest’uomo” ha tuonato il magistrato, citando le parole di Pilato a proposito di Gesù, al termine di un intervento durato quasi due ore, nel corso del quale ha evocato anche la preghiera del magistrato di Niccolò Tommaseo, che il dott. Lembo ha detto di tenere accanto al muro del suo studio.

Grande emozione, poi, al momento della lettura del dispositivo, alla presenza di molti magistrati, avvocati, giornalisti (locali) ed esponenti della società civile catanese. In attesa delle motivazioni (che dovranno arrivare in novanta giorni) e dell’appello, c’è un altro aspetto da segnalare, che rende ancora più fosca la faccenda.

Il giudice Mondello, ritenuto vicino alla mafia dal Tribunale di Catania, è lo stesso che nel 1990 prosciolse i palermitani Gerlando Alberti jr. e Giovanni Sutera nel processo per l’assassinio della diciassettenne Graziella Campagna, avvenuto il 12 dicembre 1985 in provincia di Messina.

Su quella tragica vicenda è stato realizzato per la Rai dal regista e sceneggiatore Graziano Diana un film televisivo, interpretato da Beppe Fiorello, insieme a tanti altri bravi quanto poco celebrati attori.

La messa in onda di quel film, programmato su Rai1 per il giorno 27 novembre 2007, è stata, però, sospesa dal direttore generale a seguito di un’iniziativa del Ministro Mastella.

Ci voleva silenzio – si disse – per non turbare i giudici che stanno per decidere il secondo grado del processo, che si celebra adesso solo perché i giudici del primo grado hanno depositato la sentenza emessa l’11 dicembre 2004 con quasi due anni di ritardo.

Un’altra “edificante” pagina di giustizia all’italiana.

8 commenti:

  1. Bell'articolo, ma manca la descrizione dei fatti, anche quelli di profilo non penale, per i quali sono stati condannati.
    Solo così si capiscono i meccanismi di queste vicende.

    saluti
    Marco Bertoli

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  2. "Al Presidente del Consiglio dei Ministri On.le Prof. Romano PRODI
    Come Ti è noto, il 18 gennaio scorso il Tribunale di Palermo ha pronunciato sentenza di condanna per favoreggiamento e rivelazione di segreto nei confronti del Presidente della Regione siciliana.
    I fatti addebitati al Presidente Cuffaro ed accertati dal Tribunale con la sentenza di primo grado, emergono nella loro estrema gravità, non solo per come attestato dalla pesante pena irrogata (cinque anni di reclusione e interdizione perpetua dai pubblici uffici), ma soprattutto in quanto si tratta di comportamenti di favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio su indagini riguardanti affiliati mafiosi. Al riguardo mi preme sottolineare due considerazioni.
    In primo luogo, la condivisione sulle modalità per intervenire sulla vicenda, facendo puntuale applicazione di quanto già l’ordinamento vigente impone. Infatti, al riguardo, l’articolo 15, comma 4-bis della legge 19 marzo 1990, n. 55, prevede la sospensione di diritto, anche in caso di condanna non definitiva...
    Come è noto, il percorso istituzionale prevede che il Presidente del Consiglio dei Ministri, sentiti il Ministro per gli affari regionali e il Ministro dell’interno, adotta il provvedimento che accerta la sospensione.
    Tale esito discende, per fatti di gravità acclarati, dall’esigenza di garantire la tutela dell’interesse pubblico, leso dalla permanenza in carica e dallo svolgimento delle relative funzioni istituzionali da un soggetto rispetto al quale è stato accertato il venir meno di un requisito essenziale per continuare a ricoprire un ufficio pubblico elettivo. Ma, soprattutto, mi preme mettere in evidenza una seconda considerazione.
    Come Ministro della Repubblica, e soprattutto come cittadino, sono sconcertato dalla reazione che ha caratterizzato il comportamento del Presidente della Regione Sicilia rispetto alla sentenza che lo ha condannato e che, a chiunque abbia dignità e rispetto verso le istituzioni, avrebbe dovuto suggerire soltanto di prendere la decisione di dimettersi...
    Ritengo che il Governo non possa rimanere inerte rispetto alla vicenda in questione e che sia indispensabile l’adozione di misure concrete, in conformità a quanto previsto dall’ordinamento, volte ad assicurare il primato della legge ed il pieno rispetto del principio di legalità, restituendo, in tal modo, credibilità ed autorevolezza alle istituzioni dello Stato...
    Si tratta di un adempimento doveroso, per il rispetto che tutti dobbiamo alle istituzioni e alla legge. Ma, ancora prima, per il debito morale che ancora dobbiamo saldare con le tante, troppe vittime della mafia e con i loro congiunti...
    Mai come in questa vicenda l’esigenza di fare, e far presto, costituisce la doverosa forma di adempimento della legge che deve distinguere una classe dirigente degna di questo appellativo da una solo ipocrita e meschina. Sono convinto che non sei sordo a queste esigenze, e in maniera condivisa sapremo esprimerne la risposta più convinta e degna del rispetto che si deve a chi ha preferito sacrificarsi alla mafia, più che rivelarle segreti d’ufficio." Antonio Di Pietro

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  3. Per dare una informazione tecnica completa ai lettori, con riferimento alla lettera di Antonio Di Pietro riportata nel commento delle 8.29, va detto che la norma citata da Di Pietro è stata abrogata dall'art. 274 del D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267 e sostituita da altra identica, contenuta nell'art. 59 dello stesso D.L.vo 267/2000, che, dunque, è la norma da citare.

    Va detto anche che forse il caso Cuffaro non integra i requisti previsti da quella norma (per saperlo occorrerebbe disporre della sentenza).

    La Redazione

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  4. X Uguale per tutti del 24 gennaio 2008 9.14

    Quindi vuol dire che Di Pietro sta facendo più che altro propaganda elettorale?

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  5. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati.
    (Berthold Brecht)

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  6. Per Salvatore D'Urso.

    Salvatore chiede:
    "Quindi vuol dire che Di Pietro sta facendo più che altro propaganda elettorale?"

    No. Nient'affatto.

    Vuol dire solo che non si è documentato bene e, quindi, cita una legge abrogata e le attribuisce un contenuto diverso da quello che ha.

    In pratica, mette in atto un'ottima iniziativa, ma con una certa approssimazione nel "costruirne il fondamento".

    Tutto qui.

    La nostra precisazione non intendeva essere "critica" o "ostile". Anzi, un plauso ad Antonio (che molti di noi hanno conosciuto e frequentato quando era in magistratura).

    Ma è importante chiarire gli aspetti tecnici di queste cose, perchè altrimenti la "controparte" avrà modo di contrastare agevolmente l'iniziativa.

    Per scherzarci su e sdrammatizzare, se vai a caccia è meglio che controlli che il fucile sia carico.

    La Redazione

    P.S. - Per chi ne avesse curiosità, riportiamo la parte pertinente delle norme che abbiamo citato sopra.

    Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267

    Art. 59

    "Sospensione e decadenza di diritto.
    1. Sono sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell'art. 58:
    a) coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all'art. 58, comma 1, lettera a), o per uno dei delitti previsti dagli articoli 314, primo comma 316, 316- bis , 317, 318, 319, 319- ter e 320 del codice penale;
    b) coloro che, con sentenza di primo grado, confermata in appello per la stessa imputazione, hanno riportato, dopo l'elezione o la nomina, una condanna ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per un delitto non colposo;
    c) coloro nei cui confronti l'autorità giudiziaria ha applicato, con provvedimento non definitivo, una misura di prevenzione in quanto indiziati di appartenere ad una delle associazioni di cui all'art. 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall'art. 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646. La sospensione di diritto consegue, altresì, quando è disposta l'applicazione di una delle misure coercitive di cui agli articoli 284, 285 e 286 del codice di procedura penale (...)".

    Art. 274

    1. Sono o restano abrogate le seguenti disposizioni:
    (...)
    p) articoli 15, salvo per quanto riguarda gli amministratori e i componenti degli organi comunque denominati delle aziende sanitarie locali e ospedaliere, i consiglieri regionali, 15- bis e 16 della legge 19 marzo 1990, n. 55;
    (...)"

    RispondiElimina
  7. "Occorre andare avanti sulla via di un processo di moralizzazione che conduca a una nuova qualità e sobrietà della politica,che scongiuri il riaccendersi di una gara perversa a chi impieghi più mezzi per l'affermazione propria e del proprio partito, che eviti il riprodursi di un circolo vizioso tra politica e affari ma anche l'emergere di nuovi fenomeni di conflitto tra interessi privati (personali e di gruppo) e interessi pubblici nell'esercizio di funzioni di governo, e insieme l'affiorare di una concezione e di una pratica della politica come "sport per i ricchi". Si impone a tal fine non solo una nuova normativa sul finanziamento dell'attività dei partiti e dei candidati - e quindi sul controllo dei rispettivi bilanci - ma anche una ridefinizione dello status dei partiti e dei movimenti politi, un sistema di vigilanza (in diversi ambiti e a diversi livelli della vita pubblica: come si sta sperimentando negli Stati Uniti) sulla "eticità" dei comportamenti sia dei politici in senso stretto, a cominciare dai parlamentari, sia di altri soggetti pubblici."-
    Tratto da: Giorgio Napolitano : Dove va la Repubblica - Rizzoli 1994
    A chi spettano queste riforme ai cittadini ? Alla Magistratura?
    Alessandra

    RispondiElimina
  8. Inaugurazione anno giudiziario 2008
    Prodi. " I giudici sono soggetti soltanto alla legge ma essa deve essere interpretata e applicata ai fatti concreti che devono essere accertati e provati non si applica per i nemici e non si interpreta per gli amici.
    La sanzione penale deve essere solo una estrema ratio e non si può applicare a ogni fenomeno di malcostume anche politico".
    Sento odore di nuove leggi autoassolutorie.
    Alessandra

    RispondiElimina

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