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lunedì 30 giugno 2008

Il ragazzo col cerino in mano



di Giuseppe Bianco
(Sostituto Procuratore della Repubblica di Firenze)


Edy Pinatto, dopo ben tre disciplinari per il ritardo degli otto anni, è stato destituito dalla magistratura.

La pena più severa .

Nulla da dire: gli argomenti del Procuratore Generale erano insuperabili. Otto anni sono una cosa grossa. Difficile giustificare.

Certo, nella sua requisitoria c’erano forse un po’ troppe condanne morali, troppi aggettivi.

Cose di cui tutto sommato non c’era bisogno, visto che il collega il proprio torto lo aveva ammesso.

Ci sono momenti in cui una parola in più guasta.

Quando l’altro si arrende, la spada si ferma.

Questione di misura, forse, di sfumature.

Ma il fatto c’era e non si discute.

Però – se è sicuramente giusta la condanna di Pinatto – possiamo chiederci se è giusta la condanna del SOLO Pinatto?

Ragioniamo.

Non c’è forse una norma di buon senso che – dai secoli dei secoli – consiglia di far fare le cose più difficili ai più esperti?

E la ragione di questa norma non è forse proprio quella di evitare che – messi a fare le cose più difficili – i più inesperti finiscano “nel pallone”, come ha detto lo stesso severo Procuratore Generale?

Domanda: ma in quella Gela di tanti anni fa, non c’erano giudici più navigati di Pinatto a cui affidare quel pesantissimo maxiprocesso?

Si sapeva da mesi che si sarebbe dovuto celebrare.

Perché non si chiese a tempo debito l’applicazione di giudici più anziani ed attrezzati, magari fuori distretto?

E’ davvero giusto un sistema che assiste indifferente al fatto che un simile dibattimento venga caricato sulle spalle di alcuni piccoli uditori?

Di queste omissioni, di questa indifferenza, di questa mancanza di governo delle cose – i cui effetti nefasti vediamo solo oggi – chi risponderà, chi mai chiederà conto a qualcuno, qualcuno che magari in questi anni continuava a far carriera mentre il povero Pinatto restava sempre più solo nel suo pallone?

Ma al di là di tutto questo, è giusta – ANCHE nel quantum – la stessa sanzione della rimozione?

Voi direte che è giusta e sacrosanta perché otto anni sono troppi.

Bene, forse la rimozione non è eccessiva in assoluto. Lo è però se rapportata ad altre decisioni del Consiglio: per caso, qualcuno si ricorda più della collega che disertava l’ ufficio per malattia e fu scoperta invece a fare crociere e regate in giro per i sette mari?

Cose di qualche mese fa.

In quel caso la rimozione non vi fu.

Pure, si trattava di cose odiose.

Cose che Pinatto, il timido, l’ impacciato, il ritardatario cronico; Pinatto, incapace di scrivere una sentenza per otto anni ma capace anche di stare fino a notte fonda in ufficio, anche di sabato, anche di domenica, per tentare disperatamente di spalare fascicoli su fascicoli, prontissimo a sostituire chiunque, a fare i turni di urgenza sempre e comunque – per testimonianza unanime di chi lo conosce bene – non avrebbe mai fatto.

Essere incapace di scrivere in tempo una sentenza è più grave, più odioso, più insultante che fare le cose della collega/velista?

E’ più pericoloso per la democrazia, per la salvezza del paese?

L’immagine della magistratura è offesa più dai deboli che dai velisti?

In tutto questo, qualcuno ci dica se su questa sentenza così severa ha inciso l’enorme pressione mediatica che si era creata.

Qualcuno ci dica se nella valutazione disciplinare si siano posti il problema dei precedenti o dell’uniformità dei giudizi.

E se si vorranno accertare altre responsabilità oltre a quelle di Pinatto.

Insomma, la condanna di Pinatto è giusta. Ma non giustissima.

E qualcosa manca nella nostra capacità di organizzare la macchina delle sentenze, che in larghissima misura dipende dalla politica, ma che in piccola dipende anche da noi.

Ed anche quella piccola, piccolissima parte è cosa importante.

Tanto importante che ora tutti dovrebbero chiedersi: ma se oggi – nell’ anno di grazia 2008, dopo dieci anni dai fatti – in una Gela qualsiasi ci si trovasse nella stessa situazione – un maxi processo alle porte e solo un pugno di uditori disponibili – si rifarebbe la stessa cosa? Si manderebbero ancora allo sbaraglio dei ragazzi o non piuttosto si cercherebbero giudici più navigati, magari in tutta la Sicilia?

E se oggi – certo, certissimamente – si farebbe così, perché così non si fece allora?

Insomma, il collega è stato mandato in campo ed ha perso la partita.

Ma dove erano gli allenatori? Dov’era il presidente? Dove i giornali? Dove i politici? Dove i censori di oggi?

Quali che siano le colpe di Pinatto – e non sono poche – il sistema che ora lo scomunica con ignominia è lo stesso che tanti anni fa assistette cinico ed indifferente alla sua sovraesposizione di povero ed ultimo uditore giudiziario.

Alla fine , questa condanna dà l’idea di una giustizia giusta e severa ma orba, che fulmina l’ultimo rimasto col cerino in mano ed altro non vuol sapere.

Qualcuno dirà che Pinatto non è stato l’unico ad essere mandato allo sbaraglio.

E’ capitato anche ad altri e di quegli altri molti se la sono cavata egregiamente.

Ma non siamo tutti uguali.

Alcuni di noi sono meno forti.

Occorre aspettare, lasciare maturare, fare crescere.

Ecco perché risponde a criteri di semplice saggezza essere graduali nelle prove, nelle fatiche.

Ecco perché quell’incredibile prova processuale DOVEVA essere sostenuta da magistrati più esperti.

La scena di questo ragazzo in ginocchio, da altri mandato allo sbaraglio, sicuramente colpevole non di mala fede ma delle sue gravi e invincibili debolezze, ormai oggetto dello scherno e del disprezzo di un intero stadio inferocito è una scena triste.

E’ la scena di una strega che stiamo bruciando sul rogo per nascondere i nostri demoni interiori.

Non c’è niente di edificante, niente di cui andare fieri.

Ecco perché occorre che ognuno di noi, almeno per un minuto, provi a mettersi dalla parte della strega.

E si chieda se davvero quella strega ha tutte le colpe.

Se non ci sia qualcosa di vero in quello che ha provato a dire, completamente sola, davanti allo stadio urlante.


Se mi tagliano lo stipendio, faccio fallire lo stato



di Giuseppe Bonfiglio
(Giudice del Tribunale di Patti)


L’art. 69, 1° comma, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 25 giugno 2008, n. 147, prevede una corposa riduzione degli stipendi dei magistrati (1).

Non sono entrato in Magistratura per i soldi.

Mi sono trovato a gestire - sono di prima assegnazione - un ruolo di 2.600 cause per oltre un anno.

Adesso (essendomene state sottratte 500) il ruolo conta 2.100 cause circa. In materia civile.

Solo per chi non avesse mai fatto civile nella sua vita professionale - perché chi l'ha fatto capisce di cosa parlo senza bisogno di parole -, puntualizzo che un ruolo di questa entità comporta un impegno lavorativo INIMMAGINABILE.

Si tratta di scrivere non soltanto sentenze, ma altri provvedimenti che, al crescere del ruolo, si moltiplicano a centinaia (si pensi a: liquidazioni perizie, ordinanze riservate, anche in materie assai complicate; cautelari in corso di causa; risposte a istanze isolate; decreti ingiuntivi).

Ripeto: questi ulteriori provvedimenti ammontano a centinaia: e non sto ricorrendo a un'iperbole.

Queste ultime due settimane le ho trascorse in ferie. Ferie maturate lo scorso anno e non godute.

Le ho impiegate interamente - sì, interamente - per scrivere sentenze e ordinanze e provvedimenti vari, restando tutto (tutto) il giorno in ufficio, fino a notte fonda.

Per notte fonda intendo: da mezzanotte e mezza fino all'una e mezza.

La signora del bar di fronte al Tribunale quando sono entrato nel suo locale, verso le 23:00, a prendermi una bottiglia di acqua fresca (il mio sollievo notturno, nel caldo afoso di questi giorni, insieme con la vista del mare del sud), mi ha guardato - sorpresa - spalancando gli occhi, sapendo che quella era solamente una pausa (di qualche minuto) che preludeva al rientro in ufficio.

Meno sorpreso - perché appartiene al pubblico dei soggetti che intuiscono quanto lavoro ci vuole per fare certe cose - è stato l'avvocato che casualmente ho incrociato rientrando a piedi a casa, qualche notte prima, dal Tribunale: sempre verso l'una.

Rispetto al mio primo anno di esercizio delle funzioni, in virtù dell'esperienza, ho velocizzato il mio lavoro, cercando però sempre, nei limiti delle mie forze, di mantenere un certo livello di qualità (si ha ragione a diffidare delle produttività abnormemente elevate: in genere vi corrispondono schifezze).

Per soddisfazione personale (studiare non mi annoia) e a beneficio del sistema complessivo (la percentuale di appelli e reclami avverso le mie sentenze e ordinanze è in termini percentuali insignificante).

Chi me lo fa fare?

Chi me lo fa fare, di trattenere in riserva e in decisione più di quello che chiunque potrebbe scrivere, sapendo di espormi a qualche rilievo in sede ispettiva?

Ora non è il caso che vi tedi sulle mie motivazioni personali. Anche per non ripetere l'errore di chi già la sta buttando sul piano delle sensazioni soggettive.

Se qualcuno pensa di essere sovraretribuito, troverà certamente e facilmente il modo per disfarsi di una quota del suo stipendio, destinandola a organizzazioni che cercano di migliorare il mondo.

Espongo però un dato oggettivo: assumendo in decisione più cause di quante sentenze posso scrivere, accumulerò sicuramente dei ritardi.

Si tratta però di ritardi altrettanto sicuramente inferiori, e di molto nei casi più numerosi, rispetto a quelli di definizione dei processi relativi.

Nessuno pensi che la mia è una condizione isolata.

Essa corrisponde a quanto vedo accadere normalmente (con margini di oscillazione fisiologicamente diversi) ai magistrati del mio distretto.

Una cosa è lavorare molto senza speranza di aumenti commisurati all'entità complessiva del lavoro svolto. Altra cosa è lavorare molto con la minaccia di un taglio alla retribuzione.

In tale ultimo caso, sarò mio malgrado costretto a rivedere tutto il mio piano di lavoro.

Le udienze (in cui assumo le prove) non dureranno oltre le 14:00 (non di rado ho tenuto udienza fino alle 17:00 e oltre e poi ho continuato a lavorare scrivendo).

Le prove che non potranno essere assunte entro questo orario, saranno rinviate di qualche anno (per chi non avesse mai fatto civile in vita sua: un ruolo del tipo di quello descritto in apertura, comporta mediamente la necessità di assumere centinaia di prove orali: anche senza doppie lauree in statistica o in matematica si capisce quale può essere la distribuzione nel tempo - negli anni - dei rinvii).

Non tratterrò una decisione o una riserva in più rispetto alle sentenze e alle ordinanze che posso scrivere in un orario di lavoro ragionevole. Avendo cura di redigere, se i miei colleghi producono 100 sentenze all'anno, 101 sentenze.

Voi tutti immaginate i rischi esponenziali a cui le casse dello Stato (non so perché continuo a scriverlo in maiuscolo ...) si espongono con l'incremento della durata dei processi: cause Pinto a go-go (2).

Nessuno potrà mai rimproverarmi se faccio (soltanto) un grammo in più del lavoro che si può esigere da me. Per quanto mi riguarda, lo Stato (e con lui gli enti locali) può cominciare a vendersi pure i computer con cui lavoro. Stenderò le sentenze a mano.

Spero vivissimanente, ardentemente (e non so con quale altro avverbio sottolineare e corporificare questa mia speranza) che i dirigenti dell'ANM riescano a:

- fare comprendere al governo che, a fronte dei risparmi risibili, il taglio degli stipendi potrebbe determinare il tracollo del bilancio statale, per altri motivi (verrà un giorno in cui i magistrati si stancheranno di "mettere la pezza", di rimediare alle mancanze degli altri poteri statali?);

- ideare, coordinare e attuare SUBITO (perché domani è troppo tardi) una forma di protesta incisiva e dura (nel rispetto delle norme ovviamente), relegando in secondo piano i comunicati (non si vive di soli comunicati occasionali).

E' inutile girarci intorno: la proposta di ridurre gli stipendi rientra nel più generale disegno, perseguibile e di fatto perseguito su molteplici livelli, inteso a mortificare socialmente, a indebolire, a prostrare nell'animo, a schiacciare nella dignità i magistrati.

L'esempio involutivo del ceto degli insegnanti è sotto gli occhi di tutti.

__________________


(1) D.L. n. 112/08

Art. 69, comma 1

«A decorrere dal 1° gennaio 2009 la progressione economica degli stipendi prevista dagli ordinamenti di appartenenza per le categorie di personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, si sviluppa in classi ed aumenti periodici triennali con effetto sugli automatismi biennali in corso di maturazione al 1° gennaio 2009 ferme restando le misure percentuali in vigore».

(2) La legge 24 marzo 2001, n. 89 – comunemente nota come “legge Pinto” – attribuisce a colui che ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata del suo processo, il diritto ad una equa riparazione.
Il diritto all’equa riparazione nasce in ogni caso di violazione del diritto alla ragionevole durata, sia essa consumata in un processo civile, penale, amministrativo, contabile, tributario o militare.


sabato 28 giugno 2008

Il piccolo D'Alema





di Benny Calasanzio Borsellino



Qualche minuto fa il Csm ha assolto la dottoressa Clementina Forleo, Gip di Milano, dall’accusa di aver violato i suoi doveri di giudice per le indagini premiliminari nell’ordinanza con la quale chiedeva alle Camere di utilizzare le intercettazioni che riguardavano alcuni parlamentari parecchio sfigati: il senatore Luigi Grillo di Forza Italia, per la vicenda Antonveneta; e per quella delle scalate Bnl e Rcs, Massimo D’Alema, Piero Fassino e Nicola Latorre del Pd, Salvatore Cicu e Romano Comincioli di Forza Italia.

La Forleo aveva scritto nell’ordinanza che i politici coinvolti “appaiono non passivi ricettori di informazioni pur penalmente rilevanti né personaggi animati da sana tifoseria per opposte forze in campo, ma consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata”.

Il Procuratore generale della Cassazione aveva chiesto la condanna della Forleo alla censura e, come pena accessoria, aveva indicato il trasferimento in un altro ufficio.

Per una volta, il Cms dice tutt’altro: assoluzione perché il fatto non costituisce illecito disciplinare.
Cosa vuol dire?

Che Clementina Forleo aveva tutto il diritto di scrivere quelle considerazioni emerse dalle intercettazioni per motivare la richiesta di via libera (urgente) alle Camere.

Per adesso si può solo gioire a metà però: nelle prossime settimane il Csm dovrà decidere su altri due procedimenti contro di lei per il quale è stato richiesto il trasferimento (uno relativo alle dichiarazioni che la Forleo aveva rilasciato su presunte «pressioni» ricevute da «ambienti istituzionali» e un’altra azione disciplinare promossa dal Pg di Cassazione e inerente la gestione di un procedimento a carico di Farida Bentiwaa, accusata di terrorismo internazionale, processo sul quale il gip aveva avuto contrasti con il procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro).

Ho come la sensazione però che la vera prova è stata superata.

La dottoressa Forleo è uscita pulita e indenne da una guerra che le hanno scatenato contro gli schieramenti politici.

Toccando la politica si muore, le avrà detto qualcuno.

Oggi mi sembra che a soccombere siano finalmente coloro che si credevano intoccabili, potenti e stimati.

Ora rimangono il piccolo D’Alema, il piccolo Fassino, l’infimo Latorre.

E rimane un grande giudice che dopo essersi difesa per un anno esatto, speriamo possa tornare a fare al meglio il proprio lavoro.

Ad ore invece l’altra sentenza, quella relativa al procedimento a carico di Luigi De Magistris.



“Siamo beceri forte …”



di Riccardo Paternò


dal blog Cose di tutti i giorni


Clementina Forleo non sarà trasferita.

Il CSM ha deciso contro l’accusa che la riteneva colpevole di volere utilizzare per il caso Unipol intercettazioni in cui comparivano D’Alema, Fassino e Latorre.

Ebbe persino l’ardire di definire i suddetti complici degli intrallazzi bancari di quella stagione avventuriera.

Apriti cielo!

Da quel momento la poveretta ne ha passate di tutti i colori e altrettante gliene hanno dette, da indegna a matta delirante.

I tre moschettieri ebbero il sostegno di tutto il mondo politico, Berlusconi incluso (finalmente nella stessa barca! Non ci poteva credere, in fondo era la conferma di quanto lui diceva da sempre, e ancora oggi dice).

Invece niente, le accuse di protagonismo e malafede erano baggianate, il livore del potere tradotto in efficaci titoli mediatici. La Forleo aveva semplicemente formulato una legittima ipotesi accusatoria che sarebbe stata poi vagliata nelle sedi opportune.

L’ho vista prima in tv, Clementina. Sorridente e rilassata, una voce fresca ed emozionata, una bella donna.

Quello che il sistema si è permesso con lei non l’avrebbe fatto con un maschio.

La nostra è una società maschilista sverniciata di rosa pallido, quanto basta per essere progressisti.

Donne prese in mezzo.

Mi vengono in mente la coraggiosissima teste Omega e quell’altra donna che lavorava in segreteria alla facoltà dove uccisero Marta Russo.

Ebbe contro tutto il sistema accademico per avere testimoniato contro gli assassini Scattone e Ferraro.

Siamo beceri forte, altroché.

Tornando a noi, francamente non vedo gran differenza tra il fumus persecutionis di Previti & Co. e il modus operandi di D’Alema e soci.

Sfumature a parte, il succo è che questi signori sono in grado di interrompere la normale procedura processuale, una cosa che io non potrei mai fare.

Certo, i toni di D’Alema sono più british, ma poi neanche tanto.

Perché quando uno si comporta così, col cipiglio di lesa maestà, alla fine finisce comunque per assomigliare ad un indignato generale sudamericano.

La verità è che il potere è potere e non tollera l’insubordinazione, né tanto meno di essere messo sotto scacco.

Ringraziamo, dunque, queste donne che ci aiutano ad essere una società più civile, erigiamo loro un monumento.

(…)


L'intervista a Clementina



di Giuseppe Guastella
(Giornalista)


da Corriere.it del 28 giugno 2008

Milano – È da poco terminata la seduta della commissione disciplinare del Csm. Clementina Forleo è stata assolta e il vice presidente Nicola Mancino ha rimarcato l’autonomia del Csm.

Dottoressa Forleo, contenta?
«Questa prima decisione mi rasserena e mi ripaga di tante amarezze e affanni di questo ultimo anno, da quando da ottimo magistrato sono diventato un cattivo magistrato ».

Il primo procedimento finisce bene.
«Partiva tutto da qui, quantomeno cronologicamente. Da questo procedimento sono venuti a cascata anche gli atri due in una successione immediata. Ho dovuto lottare, ma considero questa non tanto una vittoria mia personale, quanto una vittoria della giustizia».

Cosa glielo fa pensare?
«È stato ribadito il principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Un principio per cui continuerò a lottare. Costi quel che costi».

I procedimenti di fronte al Csm che la riguardano sono diventati motivo di scontro politico. Crede che questo abbia influito su di essi?
«Non faccio nessuna valutazione di ordine politico».

Parliamo dell’assoluzione, è stata assolta. Come la interpreta?
«Era la prima volta che si contestava l’abnormità di un provvedimento che, come ha spiegato bene il mio difensore Maurizio Laudi, conteneva commenti proporzionati alla importanza della vicenda. Il dottor Laudi ha dimostrato in modo brillante come quelle telefonate fossero tutt’altro che penalmente irrilevanti, così come i ruoli di D’Alema e Latorre, che all’epoca parlarono di spazzatura e di suk arabo senza che nessuno intervenisse in mia tutela. Il mio giudizio era appropriato. D’altronde i fatti giudiziari che sono seguiti, come la richiesta di utilizzo delle intercettazioni presentata dalla Procura di Milano al Parlamento europeo, confermano le mie considerazioni».

Ora ci sono altri due procedimenti da affrontare.
«Ho sempre avuto fiducia nella giustizia. Averne, prima o poi paga. Certo, se si ha l’onestà e la dignità per andare avanti senza cedere dinanzi a nulla, la verità viene sempre fuori. E siccome il tempo è galantuomo, spero che anche il pm Luigi de Magistris abbia giustizia».

Come mai in questo momento pensa proprio a lui?
«Abbiamo storie diverse ma un comune destino».

Quale destino?
«Credo che lo abbiano capito ormai tutti. Abbiamo entrambi toccato i poteri forti e stiamo pagando per questo».

Come si sente ora?
«Rincuorata. La decisione della commissione mi ha dato più coraggio. Torno a lavorare come sempre nel mio ufficio».

L’accusano di fare la vittima e di mancare di equilibrio.
«Si da il caso che stia trovando riscontri investigativi quanto da me doverosamente denunciato alle autorità competenti, e non certo ai media, a supporto di numerose lettere minatorie e di un proiettile che ho ricevuto ».


venerdì 27 giugno 2008

Clementina assolta!




da Repubblica.it del 27 giugno 2008



Csm, assolta Clementina Forleo “Paga avere fiducia nella giustizia”.
La sezione disciplinare chiude la vicenda del gip di Milano e della scalata Unipol.
La motivazione: “Il fatto non costituisce illecito disciplinare”.


Roma - “Il fatto non costituisce illecito disciplinare”. Il gip di Milano Clementina Forleo è stata assolta dalla sezione disciplinare del Csm dall’accusa di aver violato i suoi doveri per i contenuti dell’ordinanza con la quale, nel luglio del 2007, chiese alle Camere l’autorizzazione all’uso di intercettazioni che riguardavano alcuni parlamentari nell’ambito della vicenda Unipol.

“Avere fiducia nella giustizia prima o poi paga” commenta la Forleo che non sarà trasferita come aveva chiesto il rappresentante dell’accusa, il sostituto pg della Cassazione Federico Sorrentino.

Alla Forleo, infatti, veniva imputato “un abnorme e non richiesto giudizio anticipato” su alcuni questi parlamentari che pure non erano indagati, “ledendo i loro diritti ed esorbitando dalle sue competenze”.

Il riferimento è a Massimo D’Alema e Nicola La Torre che la Forleo aveva definito “consapevoli complici di un disegno criminoso” ipotizzando per loro il possibile concorso nel reato di aggiotaggio.

E descrivendoli come “pronti e disponibili a fornire i loro apporti istituzionali in totale spregio dello stato di diritto”.

Accuse a cui il difensore di Forleo, il Procuratore di Asti Maurizio Laudi, aveva risposto con la richiesta di assoluzione, ritenendo del tutto infondate le accuse nei confronti della sua assistita.

Che, davanti alla sezione disciplinare del CSM, si era limitata a pronunciare poche parole: “Spero, credo e voglio credere che la legge sia uguale per tutti”.

L’eventualità di un trasferimento da Milano, però, è sempre possibile. Il plenum del Csm, infatti, nelle prossime settimane sarà chiamato a decidere se dare il via libera al trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale del gip di Milano proposto dalla prima commissione del Csm e relativo alle dichiarazioni che la Forleo aveva rilasciato su presunte “pressioni” ricevute da “ambienti istituzionali”.

Inoltre, nei confronti della Forleo, pende anche un’altra azione disciplinare promossa dal Pg della Cassazione e inerente la gestione di un procedimento a carico di Farida Bentiwaa, accusata di terrorismo internazionale, processo sul quale il Gip aveva avuto contrasti con il procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro.

Oggi la Forleo si gode l’assoluzione. E rivolge un pensiero al suo collega De Magistris, il magistrato, coinvolto in un procedimento disciplinare, titolare dell’inchiesta Why Not che vedeva coinvolto Clemente Mastella: “Siccome il tempo è galantuomo spero che anche lui abbia giustizia”.


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Sull’abnormità della contestazione disciplinare dalla quale Clementina oggi è stata assolta abbiamo riportato su questo blog un articolo del prof. Franco Cordero - Il giudice e le intercettazioni – che vi proponiamo di rileggere.

I cortocircuiti interni della magistratura


Versione stampabile



di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)



da Micromega n. 4/2008


L’appropriazione indebita dei meriti

Cosa fa la magistratura associata con i magistrati integerrimi e coraggiosi quando questi vengono assassinati si sa benissimo: si appropria dei loro meriti, dando luogo all’abuso per il quale quando qualcuno si permette di chiedere conto “alla Magistratura” di qualcosa di cui debba vergognarsi, essa invoca la memoria dei suoi martiri, dicendo che “la Magistratura ha pagato a caro prezzo il suo eroismo”.

Ma non è la verità, perché non è “la Magistratura” ad essere o essere stata “eroica” e men che meno ad aver pagato prezzo alcuno per nulla; a farlo sono stati alcuni singoli magistrati, che prima di essere assassinati erano stati clamorosamente e rumorosamente isolati dai loro colleghi. Per tutti, basti citare qui le vicende del Procuratore di Palermo Gaetano Costa, lasciato solo a firmare dei fermi particolarmente “impegnativi”, e del Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, che lasciò un diario con le prove del suo isolamento da parte dei vertici degli uffici giudiziari di Palermo. Ma certo è significativa anche la storia del Sostituto Procuratore Giangiacomo Ciaccio Montalto: all’indomani del suo assassinio un collega del suo stesso ufficio è stato arrestato perché a casa gli sono stati trovati un’arma con la matricola abrasa e un mucchio di soldi incartati in un giornale. E il Procuratore Capo, vi chiederete? Promosso Presidente di Sezione in Cassazione! E in Cassazione, come Sostituto Procuratore Generale, è andato anche il Procuratore di Palermo Giammanco, che faceva fare anticamera a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Dunque, si sa benissimo cosa fa “la Magistratura” con i magistrati integerrimi DOPO che sono morti.

Non sempre si riflette su cosa aveva fatto prima dell’omicidio e su cosa fa quando l’omicidio non accade.

La vicenda di Luigi De Magistris è un occasione per riflettere su questo.


La persecuzione disciplinare

Ho già esposto analiticamente proprio qui, su Micromega (nel numero 2/2008), le ragioni per le quali la sentenza disciplinare che ha condannato Luigi De Magistris e che contiene tutti gli addebiti che sono riusciti a immaginare a suo carico non convince per nulla e appare tecnicamente infondata.

Una sentenza, per di più, emessa al termine di un processo dall’esito preannunziato (il Consigliere del C.S.M. Letizia Vacca che annuncia trionfalmente alla stampa che Luigi De Magistris è «un cattivo magistrato» e «va colpito» (!?)) e dalle dinamiche peculiari (sorprendente rapidità del tutto; rifiuto di attendere l’esito delle indagini in corso a Salerno, ben note allo stesso C.S.M. per averne acquisito alcuni atti; il Vicepresidente Mancino che rivela il segreto della camera di consiglio, informando la stampa che la decisione è stata presa all’unanimità).


La richiesta di archiviazione di Salerno

Su tutto questo interviene adesso la Procura di Salerno che chiede l’archiviazione delle accuse a carico di Luigi De Magistris con un provvedimento di poco meno di mille pagine che, analizzando minutamente ogni cosa, non lascia scampo a chi aveva giocato tutto sul frastuono e le invettive.

Da quel provvedimento emerge fra l’altro che:

1) Il contesto ambientale nel quale Luigi de Magistris ha svolto per anni la propria attività di P.M. era oltremodo “difficile”, caratterizzato da pesanti intrecci tra magistrati di punta degli uffici calabresi (ivi compresi gli stessi vertici degli uffici requirenti di Catanzaro) e persone sottoposte ad indagini da parte dello stesso Luigi (ivi compresi altri magistrati, soprattutto lucani).

2) Da quel medesimo contesto è scaturita una vasta, articolata e provata (sì, provata!) attività di aggressione e delegittimazione di De Magistris e del suo operato, attuata con denunce ed esposti diretti non solo alla Procura di Salerno, non solo agli organi disciplinari, ma a chiunque, ivi comprese le più alte cariche dello Stato (è davvero impressionante la lettura, nel primo capitolo della richiesta di archiviazione, della quantità di esposti, denunce, interrogazioni, querele etc. che hanno investito il collega in un arco di tempo relativamente breve).

3) In tale contesto, De Magistris si è trovato nella singolare condizione di non poter fare affidamento – all’infuori della P.G. che lo coadiuvava nelle indagini – praticamente su nessuno, stanti gli acclarati rapporti dei suoi superiori gerarchici con soggetti sottoposti a indagini, “colorati” da episodi forse interpretabili anche come interferenze nelle indagini stesse.

4) Sotto tale profilo, il provvedimento dei P.M. salernitani contiene un passaggio significativo che lascia intendere che la storia non è finita e potrebbero esserci ulteriori sviluppi (solo pochi giorni fa i giornali hanno dato conto dell’iscrizione nel registro degli indagati del dr Dolcino Favi, autore dell’avocazione che un autorevole collega ha definito “impensabile”).

5) Tutto ciò premesso, pur nella condizione di delegittimazione e isolamento in cui ha operato, non è emerso che Luigi De Magistris si sia reso responsabile non solo e non tanto dei reati a lui addebitati, ma neanche di mere “irregolarità” o violazioni di norme processuali o deontologiche: insomma, il giudizio complessivo sul suo comportamento è di estrema correttezza e scrupolosità.

6) Sul punto i P.M. di Salerno hanno approfondito alcune delle vicende per le quali Luigi è stato condannato in sede disciplinare, evidenziando come quel giudizio fosse in realtà fondato non su una valutazione parametrata al rispetto delle regole processuali e ordinamentali, ma piuttosto su una generica (nonché a volte pregiudiziale e apodittica) valutazione negativa proprio del merito della sua attività giurisdizionale, in contrasto con uno dei capisaldi teorici in tema di limiti al sindacato disciplinare sull’attività dei magistrati.

7) Ancora, con riferimento ad alcune vicende particolarmente sbandierate da “media” e commentatori con la litania sui “cattivi magistrati” (mi riferisco alla nota vicenda dei fermi non convalidati o a quella ancor più famosa della perquisizione asseritamente “ipermotivata”, ma gli esempi possono moltiplicarsi), si è sottolineato, talora anche con l’autorevole avallo della Cassazione, come grossolani errori e macroscopiche illegittimità, semmai, si rinvengono negli atti posti in essere da quei magistrati che in alcuni casi hanno sconfessato le ipotesi investigative e gli atti di Luigi (ma di questi nessuno ha detto se sono “buoni” o “cattivi magistrati” …).

8) Anche quanto alle famose “fughe di notizie”, non solo è stata ribadita l’estraneità ad esse di De Magistris (ma ciò era già riconosciuto dallo stesso C.S.M.), ma ne è stato correttamente sottolineato il carattere di oggettivo pregiudizio alle indagini da lui svolte, specie quando intervenivano in momenti “caldi” dell’attività investigativa: con buona pace, anche in questo caso, di chi ha accusato Luigi di “protagonismo”.

9) Sono emersi contatti quanto meno ineleganti tra persone sottoposte a indagini da parte di Luigi e magistrati del C.S.M., ivi compreso forse anche l’estensore della sentenza di condanna emessa nei confronti dello stesso Luigi.

10) Alla luce di tutto ciò, si sarebbe tentati di attribuire un significato sinistro alla fretta con cui il C.S.M. ha voluto aprire e chiudere il giudizio disciplinare a carico di Luigi De Magistris, comprimendone gli spazi di difesa al punto da non voler neanche attendere questi pochi mesi, che oggi avrebbero consentito un giudizio più completo, che tenesse conto delle circostanze sopra indicate (peraltro ben note al C.S.M., essendo state rappresentate sia da Luigi che dai magistrati di Salerno, auditi nel corso del processo disciplinare e le cui dichiarazioni il P.G. D’Ambrosio, di cui dirò più avanti, ha cercato di non fare ammettere agli atti).

Ho tratto questa sintesi del provvedimento di Salerno da una mail del collega Raffaele Greco che si concludeva con un interrogativo: perché – scriveva su una mailing list di magistrati – oggi, mentre è in corso il congresso dell’A.N.M. e mentre si torna a discutere delle criticità del nuovo ordinamento giudiziario, specie con riguardo all’assetto delle Procure, solo pochissimi magistrati (che si contano sulle dita di una mano) si sentono di intervenire in maniera chiara su questa vicenda?

L’interrogativo non ha avuto NESSUNA RISPOSTA.


Il cancro che consuma la magistratura dall’interno

Alla ineludibile domanda sul perché la magistratura associata tutta taccia sul “caso De Magistris”, sopportando l’enorme prezzo che ciò le fa pagare in termini di totale discredito interno (presso i magistrati della “base”) ed esterno (presso l’opinione pubblica), la risposta è che vi è costretta.

L’A.N.M., le sue correnti, i maggiorenti del potere interno alla magistratura non possono parlare, perché troppi legami con gli ambienti – ancora una volta interni ed esterni al “caso” – glielo impediscono.

Si va al Consiglio Superiore della Magistratura mediante elezioni. Il consenso elettorale è gestito da gruppi – detti “correnti” – che rappresentavano molti anni fa aree culturali e ideologiche e si sono ridotti oggi quasi esclusivamente a collettori di voti.

Le correnti legittimano se stesse agli occhi dell’opinione pubblica mantenendo in vita – con un autentico accanimento terapeutico – l’Associazione Nazionale Magistrati, che oggi ormai non è altro che un involucro che serve solo a dare copertura alle correnti, unica realtà esistente.

L’A.N.M. è talmente cannibalizzata dalle correnti che da anni qualunque sia l’esito delle elezioni interne per i suoi organi direttivi, le correnti si spartiscono con un numero uguale di seggi la sua Giunta Esecutiva Centrale.

Con l’alibi dell’“unità associativa”, infatti, per moltissimi anni l’A.N.M. è stata governata da giunte unitarie, nelle quali ciascuna corrente aveva lo stesso numero di componenti indipendentemente dai voti ottenuti dalla base. In sostanza, le elezioni erano “per finta”.

La giunta attualmente in carica costituisce una novità, ma una novità “zoppa”: la Giunta dell’A.N.M., infatti, per la prima volta dopo molti anni non è unitaria, ma è comunque composta alla pari da tre correnti su quattro.

La circostanza che alle ultime elezioni del C.D.C. due delle quattro correnti abbiano subito una flessione di voti del 24% è rimasta sostanzialmente irrilevante e le due correnti in questione compongono ugualmente con lo stesso numero di componenti la Giunta.

Le correnti designano i candidati al C.S.M. e ne ottengono l’elezione.

Accade nella magistratura una cosa assai simile a ciò che accade in Parlamento: gli eletti più che eletti sono “designati”.

La programmazione del consenso, anche con appositi cartelli elettorali fra distretti, e la gestione delle liste elettorali è tale che le correnti offrono al voto un numero di candidati molto vicino a quello che pronosticano di potere fare eleggere e veicolano il consenso nel modo per loro più utile.

Gli eletti al C.S.M. sono poi talmente legati al gruppo che li ha fatti eleggere che:

- ormai nel C.S.M. non ci sono il Consigliere Tizio e il Consigliere Caio, ma, paradossalmente, scimmiottando il Parlamento, i “gruppi consiliari”;

- ormai i resoconti del Consiglio sono scritti con riferimento ai gruppi correntizi e non ai singoli consiglieri: “E’ stata approvata la tal delibera: ha votato a favore MD e contro Unicost”.

Per mantenere e incrementare il consenso della base ciascuna corrente “sponsorizza” i propri soci in tutti i concorsi interni, dai più rilevanti ai meno.

Così che quasi l’intero organigramma della magistratura risulta lottizzato correntiziamente.


Alcuni casi clamorosi

Perché le mie non sembrino accuse gratuite, citerò alcuni clamorosi casi recenti.

Il TAR Lazio, con la sentenza n. 3526 del 2008, ha annullato la delibera con la quale sono stati coperti 23 posti al Massimario della Corte di Cassazione (ufficio assai importante per molte ragioni), denunciando come essa fosse affetta da eccesso di potere, sviamento di potere, travisamento dei fatti, illogicità della motivazione.

In un intervento che si può leggere anche su internet, il Presidente della commissione del C.S.M., Mario Fresa, ha scritto fra l’altro: «Il monito proveniente dal Capo dello Stato, seguito con convinzione dall’ex Vicepresidente del CSM Rognoni e poi dal neo eletto Vicepresidente Mancino, secondo cui ancora oggi esiste un forte potere delle correnti dell’ANM che condiziona e rallenta le scelte consiliari per piegarle agli interessi localistici e dei gruppi organizzati, va pertanto condiviso in quanto espressione di un disagio dell’opinione pubblica e dello stesso corpus della magistratura».

E proprio con riferimento al concorso per il Massimario, ha aggiunto: «Invero, quando ho iniziato a leggere gli atti del procedimento, ho verificato che i fascicoli di più della metà degli aspiranti non erano ancora stati esaminati (…). Poiché le voci che giungevano negli uffici giudiziari riguardavano scontri su possibili nomi, è parso evidente che le divisioni riguardavano schieramenti precostituiti, a prescindere dall’esame dei profili professionali in forza dei quali quelle scelte dovevano essere effettuate. Il metodo operativo che veniva seguito (che non rappresentava una novità, attesa la mia pregressa conoscenza degli “interna corporis”) era quello della spartizione correntizia».

Nel luglio 2007 sono stati coperti nove posti alla Procura Generale della Cassazione e ben sei dei nove erano consiglieri uscenti del C.S.M. (divisi per correnti), la cui vittoria nel concorso è stata ottenuta con un metodo talmente increscioso che uno dei designati – il consigliere Francesco Menditto di MD – ha ritenuto deontologicamente doveroso non accettare quella nomina.

Altro caso particolarmente scandaloso, la designazione – in palese violazione di una legge che lo vietava espressamente – di un consigliere uscente del C.S.M. a Presidente di Sezione della Corte di Appello di Genova.

Il TAR ha annullato anche questa delibera, sottolineando l’evidente violazione di legge. Il C.S.M., sorprendentemente, pur di “non darla vinta” al magistrato danneggiato dalla delibera illegittima, non ha ottemperato alla decisione del TAR impugnandola dinanzi al Consiglio di Stato, che, ovviamente, ha respinto il ricorso con ulteriore perdita di prestigio e credibilità dell’organo di autogoverno, più incline (almeno in questo caso) a difendere interessi correntizi invece che la legge.

Nei giorni scorsi tre componenti uscenti del Comitato scientifico per la formazione dei magistrati sono stati rimpiazzati al termine del loro mandato. Erano uno di MD, uno di MI e uno di Unicost. I loro rimpiazzi sono, guarda caso, uno di MD, uno di MI e uno di Unicost.

Dunque, per quanto appaia paradossale, anche il “Comitato scientifico” è lottizzato.

In un contesto come questo, non stupisce che una delle telefonate intercettate riportate nella richiesta di archiviazione della Procura di Salerno sia quella fra uno dei magistrati inquisiti da De Magistris e un consigliere del C.S.M. al quale ella dà indicazioni e pone condizioni.

Il magistrato in questione – la dr Felicia Genovese – è stata poi, comunque, trasferita dalla Sezione Disciplinare del C.S.M..

Poiché è stata trasferita al Tribunale di Roma, sede ambitissima, alla quale moltissimi magistrati chiedono infruttuosamente di potere andare, un collega giorni fa, su una mailing list di magistrati, osservava sarcasticamente come la via più breve per un posto ambito possa essere anche farcisi trasferire punitivamente dal C.S.M..


Relazioni pericolose

In un contesto come questo, le “relazioni” interne fra capi degli uffici nominati correntiziamente e “grandi elettori” delle varie correnti e i vertici dell’A.N.M. e del C.S.M. sono talmente intrecciate e complesse da esservi troppe persone che possono esigere coperture o almeno neutralità.

E vi è poi il vastissimo capitolo delle “relazioni esterne”.

Il potere politico “interloquisce” con i vertici delle correnti.

Meno di ventiquattro ore dopo la sua nomina il Ministro Mastella ha incontrato i capi di tutte le correnti e ventiquattro ore dopo quell’incontro ha coperto i più importanti uffici apicali del suo ministero guarda caso con magistrati dai consolidati e risalenti legami alle correnti incontrate il giorno prima.

Capo dipartimento dell’organizzazione giudiziaria è divenuto addirittura un magistrato che fino a poco tempo prima era il Segretario generale di Magistratura Democratica.

I radicali hanno denunciato questa cosa, definendola suggestivamente come il progetto della “Pax Mastelliana”.

Quando ho invitato i miei colleghi a discutere di questa cosa, un magistrato che oggi ricopre una delle cariche di vertice dell’A.N.M. mi ha espressamente minacciato di querela, sostenendo che la sua corrente non aveva segnalato nessuno e che il Ministro Mastella i capi dei suoi uffici se li era scelti da sé (pensa le coincidenze).

E’ chiaro che in queste condizioni non si pone un problema di buona o mala fede dei singoli. E’ il sistema che produce inevitabilmente un conflitto di interessi e poi una cancrena.

Se il Ministro della Giustizia mi convoca perché sono il capo di una corrente e se enne capicorrente prima di me “hanno fatto carriera”, come potrò io, fossi anche santo, non pormi il problema di gestire i miei rapporti con il Ministro in un modo che mi renda, se non “gradevole”, almeno “non sgradevole” per lui?

E così dopo la “confusione” fra i ruoli interni si ha anche quella con i ruoli esterni.

Che dà luogo a situazioni paradossali che ritengo si commentino da sé.

Cito le due più recenti e significative.

Il collega Vito D’Ambrosio, che è stato in passato consigliere del C.S.M., si è dato alla politica e per dieci anni – fino al 2005 – è stato Presidente della regione Marche.

Dopo di che è rientrato in servizio nei nostri ruoli.

Cosa ovviamente più che legittima.

Sembrano ovvie, però, esigenze di opportunità che avrebbero suggerito di occuparlo in ruoli “discreti” (un ufficio collegiale, per esempio).

Invece viene assegnato alla Procura Generale della Cassazione e incaricato di sostenere l’accusa contro Luigi De Magistris al C.S.M. e, parallelamente, viene fatto eleggere al Comitato Direttivo Centrale dell’A.N.M.. Così che si trova ad essere il Presidente della sessione del C.D.C. nella quale il Presidente dell’A.N.M. Luerti si dimette – per ragioni ancora mai del tutto chiarite – dalla sua carica per sue relazioni (verosimilmente legittime, per carità) con uno dei principali indagati proprio delle inchieste di De Magistris.

Insomma, un corto circuito di relazioni veramente surreale.

La corrente di “appartenenza” di Vito D’Ambrosio è il Movimento per la Giustizia nato poco più di vent’anni fa per porre rimedio a questo stato di cose, nel quale si è invece perfettamente integrato.

Mentre il collega Massimo Russo fa la seguente “carriera”: pubblico ministero della D.D.A. di Palermo e Presidente della Sezione Palermitana dell’A.N.M.; da lì a vicecapodipartimento nel Ministero Mastella; da lì ad Assessore regionale alla Sanità nel nuovo governo regionale siciliano.

Un altro corto circuito impensabile.

Anche lui del Movimento per la Giustizia.

Il gravissimo deterioramento del contesto di riferimento e la degenerazione del potere hanno reso sempre più deplorevoli le relazioni pericolose fra magistrati e detentori di potere politico ed economico.

Il gravissimo deterioramento delle condizioni dell’amministrazione della giustizia, la sua sempre maggiore inefficienza, la sempre maggiore afflittività delle condizioni di lavoro dei giudici peones rendono ormai insostenibile e inaccettabile un sistema di gestione del potere interno che quelle inefficienze non solo non combatte, ma addirittura produce: se i capi degli uffici giudiziari vengono scelti secondo logiche di spartizione correntizia e non di attitudini e merito, come potrà mai invertirsi la deriva che sta portando al collasso gli uffici giudiziari?

Con alcuni colleghi abbiamo proposto un rimedio minimo all’intreccio di interessi – personali e corporativi – di cui ho detto: la previsione di radicali incompatibilità fra i diversi ruoli del “potere interno”.

A nostro modesto parere, a chi si candida o comunque assume cariche nell’associazione devono essere preclusi per sempre incarichi nel governo – “interno” ed “esterno” – e viceversa.

E chi si candida o comunque assume cariche in questo o in quel fronte del “potere interno” non deve continuare ad avere – come accade oggi – condizioni di favore per “carriere parallele”, che contrappongono magistrati curvi per decenni su quintali di fascicoli polverosi ad altri che passano da una Direzione generale a una commissione di concorso, da un assessorato a un posto di sottogoverno.

Queste proposte sono state respinte rabbiosamente dall’intero establishment correntizio e noi siamo stati accusati di “sfascismo”, “grillismo”, “qualunquismo”.

Nel concreto contesto contemporaneo, poi, credo che si imporrebbe una regola per la quale chi va a fare politica non possa poi tornare nei ruoli della magistratura.

Intanto, tutta l’Italia assiste al paradosso per il quale, mentre Falcone e Borsellino, morti, possono essere “usurpati” della loro storia, ottenendo che non si ricordi più che essi furono isolati e osteggiati dalla “magistratura”, De Magistris, vivo e innocente, costituisce uno scandalo insanabile che disonora la corporazione, rendendo ridicolo qualunque tentativo di recupero di credibilità con il solo ormai stantio espediente della dialettica “ANM/governo”.

Anche sotto questo profilo la situazione complessiva del sistema costituisce una novità non compresa e non prevista dai capicorrente.

In passato casi come quello di De Magistris (perché ce ne sono stati tanti) venivano risolti “spazzando via” il magistrato “scomodo”. Lo si bollava con una sentenza disciplinare adatta alla bisogna, lo si trasferiva e si attendeva che, in breve tempo, venisse dimenticato (Carlo Palermo fu mandato da Trento a Trapani e neppure dopo scampato a una strage terribile venne mai “riabilitato” e se ne andò via dalla magistratura nella disattenzione generale).

Stavolta la cosa non ha funzionato.

I cittadini calabresi avevano sopportato troppo. Gli amici della “magistratura” “disturbati” da De Magistris ne avevano fatte di troppo sfacciate. E così c’è stata una ribellione popolare.

Internet, poi, ha consentito di diffondere documenti e analisi del processo disciplinare che, per la prima volta, è stato criticato apertamente anche da magistrati, che, a prezzo di ostracismi e anatemi, hanno deciso di violare il tabù per il quale “i panni sporchi si lavano in famiglia”, ritenendo che la critica delle dinamiche dell’autogoverno non può oggi fare alla magistratura più danno di quanto gliene fanno i suoi vertici con le loro prassi distorte.

E così inesorabilmente il re è rimasto nudo e non rassegnandosi alla destituzione si aggrappa a soluzioni impossibili, come, da ultimo, dare della “pazza” a Clementina Forleo, scavalcando “a destra” la proposta di Berlusconi sui test psicoattitudinali.

Non so come finirà. Ma mi sento certo che questa classe dirigente della “magistratura” è arrivata al capolinea. Non solo perché, come era chiaro da tempo, rappresenta ormai solo se stessa e celebra congressi deserti e tristi. Ma perché si è svelato l’artificio. E molto difficilmente troverà qualcuno disposto a crederle quando si spaccerà per l’ennesima volta come tutrice dei sacri valori della giurisdizione.

Speriamo che in qualche luogo e in qualche tempo – alla fine di quest’epoca buia di illegalità al potere, di intercettazioni vietate, di indulti e sanatorie, di tolleranza zero con i morti di fame e complicità con i faccendieri di stato – la società civile torni a reclamare spazi di vera indipendenza per i giudici. Non per la “magistratura” come corporazione, ma per i singoli giudici come addetti a una funzione costituzionale.


giovedì 26 giugno 2008

Meno male che adesso non c’è Nerone

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di Andrea Falcetta
(Avvocato del Foro di Roma)




Telecamera nascosta

Con un pizzico di presunzione vorrei provare ad imitare quel poco di giornalismo d’inchiesta che abbiamo in Italia, mi riferisco in particolare alle Jene e a Striscia la Notizia.

La telecamera che fruga indiscreta nelle Aule di Giustizia, come è evidente, non è affatto nascosta, ed anzi è ben visibile a chiunque: si tratta del mio sguardo, che qui riporto.

Ecco un “ciak” di questi ultimi giorni.


Ciak 1: Meno male che adesso non c’è Nerone

Sabato pomeriggio mi cercano sul telefonino, c’è stato un arresto a Napoli, è molto tempo che non mi occupo di droga ho bisogno di ripassare il Testo Unico … telefono ai Carabinieri che hanno operato il fermo, mi dicono quel che possono, cliente beccato come si dice “con le mani nel sacco”, 17 grammi di eroina e 250 euro in tasca, fortunatamente non ha resistito all’arresto, ora è in camera di sicurezza, lunedì sarà processato per direttissima.

Grazie a Internet riesco a fare un corso di aggiornamento veloce, e scopro delle cose che non sapevo:

- dopo la Legge Fini non esiste più differenza tra hashish ed eroina, la pena è da 6 a 20 anni in entrambi i casi, ecco perché i miei ex compagni Radicali erano tanto arrabbiati, secondo me hanno ragione perchè questa equiparazione non distingue tra i diversi gradi di offensività delle due diverse sostanze stupefacenti;

- sono fortunato, mi escono sentenze del tribunale di Napoli, scopro che quell’ufficio ha da tempo elaborato una solida e coerente giurisprudenza di merito, che distingue tra “piccolo spacciatore” e trafficante vero e proprio, nel primo caso si applica il comma 1 bis dell’art 73 legge droga (da 6 a 20 anni) nel secondo caso il comma 5 (da 1 a 6 anni);

- faccio i conti che fanno gli avvocati in questi casi, come di routine, se riesco a dimostrare che è un piccolo spacciatore e lo porto al rito abbreviato riesco forse a spuntare una condanna inferiore ai 3 anni, siccome non è contestata (né potrebbe esserlo) l’aggravante dell’articolo 80 (quantità ingente), il plurimodificatonovellatomanipolatointerpretato articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario non considererà il titolo di reato come ostativo ad un affidamento in prova al servizio sociale (traduco: niente prigione);

- saluto i bambini, mia moglie, il mio fine settimana e parto, la sera sono sul posto, provo a visitare il cliente, vado alla Caserma dove un Carabiniere gentilissimo ma inesperto, dopo avere anche telefonato al pubblico ministero di turno (evidentemente un po’ confuso anche lui) mi nega di parlare con l’arrestato … fa nulla, tanto lo vedrò domani nella gabbia, e come sempre accade sicuramente la scorta si allontanerà per assicurare al nostro colloquio la dovuta riservatezza;

- i parenti (famiglia “perbenissimo” con uno solo dei 4 figli venuto su male, purtroppo capita, anzi trovandosi a Scampia uno su 4 è un record, penso a “O Professore” un bellissimo film di Sergio Castellitto che il Presidente Napolitano ha da tempo vanamente elogiato, che Mediaset ha prodotto ma mai mandato in onda, parla proprio della situazione di Scampia, ma mi rendo conto che i programmi con le veline sono più tranquillizanti e la TV commerciale si adegua), mi dicono che il ragazzo ha già riportato 6 anni fa una condanna ad anni 1 e mesi 8 per spaccio di hashish, pena sospesa, dunque è recidivo … recidiva, recidiva recidiva, mi scatta qualcosa nella mente, sulla recidiva si è discusso di recente bisogna che mi vada ad aggiornare, così torno su internet approfittando del PC della sorella dell’arrestato: ecco qui, recidiva reiterata, divieto cirielliano di consentire al giudice un giudizio di prevalenza delle attenuanti su tale aggravante, per cui anche se quei 17 grammi di eroina corrispondessero, per grado di purezza effettiva, a meno di tre dosi, il ragazzo beccherebbe comunque da 6 a 20 anni … esploro ancora la rete ormai avvezzo ad inserire le parole chiave su Google, mi concentro sul tribunale di Napoli dove domattina dovrò discutere la direttissima (questa parola mi continua a suonare strana, disarmonica, irrituale ... forse prima o poi in fondo a questo racconto si capirà per quale motivo …) … ecco … interessante … Gup di Napoli, dott. Semeraro, sentenza del 2007, il comma 5 non è attenuante ma titolo autonomo di reato, per cui non opera il divieto di prevalenza delle attenuanti, ben fatto mi dico, niente “ciriellate”, un piccolo spacciatore paga alla Giustizia il debito che gli spetta (da1 a 6 anni) e non quello che spetta ad un vero e proprio trafficante (da 6 a 20 anni);

- si, mi viene giusta, e corrisponde a giustizia sostanziale, però non sono convinto e poi non riesco a verificare se abbia retto in Cassazione … continuo a cercare … corte d’appello di Brescia, ecco, qui andiamo meglio nel senso che mi sembra più solida, mi sento più sicuro: siccome il comma 5 è attenuante ad effetto speciale (non riduzione di pena fino a 1/3 bensì pena di entità e specie diversa), la “ciriellata” non la possono fare, in quanto il divieto di prevalenza delle attenuanti è limitato alle sole attenuanti semplici e non si estende per fortuna anche alle attenuanti ad effetto speciale …;

- no anzi, illuminazione … infine illuminazione: il ragazzo è recidivo semplice (cioè ha una sola condanna per reato simile) non recidivo reiterato (non ha due o più condanne), per cui tutto questo problema non me lo dovevo porre fin dall’inizio … tutto lavoro inutile? Non direi … ho imparato una cosa nuova e questo è sempre un bene … adesso mi posso guardare in pace la partita della Turchia in albergo, riesco persino a sorridere mentre mio figlio adolescente al telefono insiste con il dire che martedì l’Italia passerà il turno … mio figlio ha un padre virtuale, sempre in giro per l’Italia, non abbiamo mai molto tempo per parlare, continuo a ripetermi che in questi rapporti è la qualità e non la quantità quella che conta … lui ha un telefonino che tiene sempre spento perché (per fortuna) non è appassionato di messaggini o musichette, lo accende soltanto (e sempre) quando io parto per lavoro, lo considera un filo diretto e forte tra di noi ... forza Italia amore mio, anzi forza azzurri, se non arrestano nessuno il giorno 17 la partita la vediamo insieme ... buonanotte;

- l’indomani, mezzora prima dell’udienza, riesco a recuperare (non dico dove né come) notizie a conferma delle mie previsioni … l’eroina che si spaccia da queste parti è tra le peggiori, 17 grammi conterranno si e no 4 o 5 dosi effettive, merda pura, si può morire di droga come tutti sappiamo, ma se abiti a Scampia muori di droga pessima se invece sei a Roma ai Parioli muori di droga vera … ci sarà differenza? No che non c’è … la differenza è tra vivere e morire non tra morire in un modo o nell’altro, con la differenza che se hai i soldi e ti droghi secondo me sei un coglione perché potresti fare tante altre cose più sane mentre se sei povero le scelte a Napoli non sono poi tante, anzi come diceva Troisi “... io aggio sempre avuta ‘na sola alternativa … quanno mai aggio ditto d’avere due alternative? Quindi: o parto ... o parto … napoletano? … si ma no emigrante …” …;

- ed ecco finalmente il campanello che annuncia l’entrata in Aula del Giudice, con la PM ho già parlato pochi minuti prima, mi ha mostrato il fascicolo, mi ha detto che trova assurdo dovere giudicare i fatti di droga per direttissima, ancora questa parola irrituale, disarmonica, ma forse sono lì per capire cosa mi disturba, ancora non lo visualizzo ma è come una nota stonata in un concerto, tra poco capirò, ne sono certo … quasi ci siamo ...;

- il Giudice convalida l’arresto (non mi oppongo, ho una dignità io, che le potrei dire? Che 17 grammi di eroina e 220 euro in banconote tutte dello stesso taglio depongono a favore di un uso personale? Via su … è in flagranza, detesto chi prova a prendermi in giro e perciò non ho nessuna voglia di comportarmi in modo che questo Giudice possa a sua volta detestare me);

- ripenso al fascicolo del PM e finalmente capisco: c’erano verbale di arresto, decreto di sequestro, narcotest (cioè si è vero si tratta di eroina) ma… mancava una cosa!!! la più importante …;

- dopo tanti anni che non mi occupavo di droga finalmente si accendono delle lucine nella mente … manca la consulenza tecnica d’ufficio !! Si cazzo, manca la CTU … … manca l’analisi qualitativa della sostanza, praticamente né il PM né il Giudice né tantomeno la Difesa siamo in grado di sapere quante dosi effettive avesse in mano il ragazzo, il che non è una differenza da poco, senza questa risposta la sua pena oscillerà in maniera del tutto indiscriminata (e ingiusta) tra un minimo di 1 anno ed un massimo di 20 anni;

- “Si sieda pure avvocato”, mi dice il Giudice mentre afferro il microfono, lo fa per mettermi a mio agio, per cortesia ed ospitalità visto che vengo da un altro Foro, ma non ci riesco non ci sono mai riuscito e spero di non riuscirci mai: io quando parlo ad un Giudice non riesco a rimanere seduto nemmeno se ne incontro uno che mi sta antipatico, rappresenta un Ufficio impersonale, quello di un luogo nel quale si celebra uno dei momenti più delicati ed importanti della nostra democrazia, qualcosa di quasi religioso, estremamente solenne ... un simile che, per delega di altri simili, giudica un proprio simile … filosofia pura? Non credo ... comunque per me è così … per cui rimango in piedi e le parlo, non è un’arringa, una discussione, è un filo di pensieri che dico ad alta voce, come se stessimo conversando …;

- ora ho capito Signor Giudice cosa non mi suonava in tutta questa vicenda, non soltanto che il legislatore (lo chiameremo così d’ora in poi, fatelo anche voi lettori, mi sembra sottilmente ironico e divertente) abbia voluto punire allo stesso modo l’uso e lo spaccio di droghe leggere e droghe pesanti, né tantomeno la questione della recidiva che elimina ogni altra attenuante e ti manda all’ergastolo, visto che la recidiva che qui ci impegna è “semplice”, cioè non “infraquinquennale” né tantomeno “reiterata” … ma mi stonava e mi stona che questo nostro illuminato legislatore abbia ordinato che per la droga si debbano fare i processi per direttissima (cioè senza indagini preliminari, cioè senza attività istruttorie preventive) … come si vede Signor Giudice che il nostro legislatore sa ben parlare al Popolo, per fargli vedere che se dipendesse da lui i processi si farebbero in 48 ore e le condanne sarebbero veloci e severe … e come si vede Signor Giudice, ne convenivo prima dell’udienza anche con il PM, che questo illuminato legislatore non capisce un’acca di diritto, non sa nemmeno che per distinguere un piccolo spacciatore (da 1 a 6 a anni) da un trafficante vero e proprio (da 6 a 20 anni) ci vuole quanto meno una perizia sulla droga … e che per affidare ed espletare questa perizia le 48 ore della direttissima non bastano …;

- le faccio una richiesta, Signor Giudice, la legge processuale ci permette di essere onesti tra noi e se il legislatore poi si arrabbia chissenefrega, io le chiedo un rito abbreviato condizionato all’espletamento di una perizia tesa a verificare la qualità della sostanza in sequestro; “Si avvocato è la cosa migliore cosa ne pensa il PM” … il PM sorride e dice che è perfettamente d’accordo con la Difesa ... poi chiede la custodia cautelare in carcere, ma siccome il ragazzo lavora sia pure saltuariamente (trovatemi a Napoli uno che lavori non saltuariamente e con busta paga), ha una famiglia perbene (che è presente in Aula e che il Giudice può guardare dritto negli occhi) e questa cosa orribile di spacciare la faceva perché quando non ha i sodi per gli alimenti la ex moglie non gli fa vedere il figlio piccolo, e siccome queste cose le ho spiegate perbene ed evidentemente sono condivise, il ragazzo va ai domiciliari nella casa familiare, il processo si farà ma non per direttissima con buona pace del legislatore.

Finita l’udienza ci tratteniamo qualche minuto discorrendo io, il giudice e il pm, azzardo un’ipotesi inquietante: se invece che tra piccolo spacciatore e trafficante ci fossimo trovati a discutere tra spacciatore e consumatore, la Procura avrebbe rischiato di incorrere in una nullità del capo di imputazione per genericità … c’è un livello di dosi al di sotto del quale si è solo consumatori, e questa livello è stabilito con decreto del Ministro della Salute … come fai a contestarmi lo spaccio se siamo in un processo per direttissima? Senza perizia come fai a dirmi quante dosi sono quelle che aveva il mio cliente, e se non me lo dici come fai a contestarmi che abbia superato la soglia minima di punibilità? Non è il mio caso di oggi, ma non credo che sia infrequente … con il risultato che imporre le direttissime può forse velocizzare un processo per droga ma anche e soprattutto esporre la pubblica accusa alla formulazione di un’imputazione fragile, perdente …

Basta.

Torno a casa, riabbraccio moglie e bambini, la sera al telegiornale arriva in tempo reale un comunicato stampa del legislatore in materia di Giustizia, e mentre il giornalista legge con aria da bravo scolaretto alle sue spalle scorrono in successione l’una dietro l’altra, molte foto di quel suo splendido faccione, c’è il legislatore che sorride, il legislatore corrucciato, il legislatore che saluta (proprio come fanno i presidenti americani), il legislatore che lavora alla scrivania, e intanto nel comunicato si dice che il legislatore è stato bravo ad accelerare i processi imponendo il rito direttissimo a molte fattispecie di reato tra cui proprio la droga, così quegli sfaticati dei magistrati eh eh li vuole vedere adesso come faranno ad inventare scuse, ora si che dovranno sbrigarsi a condannare tutta Italia tranne lui … cambio canale ma c’è sempre il legislatore, fortuna che domani sera ci sarà finalmente la partita dell’Italia, quel ragazzo è ai domiciliari, quasi sicuramente sarà condannato per spaccio con l’attenuante della lieve entità, io il giudice ed il PM tutti insieme abbiamo fatto una cosa giusta che si chiama “ragionevolezza”, deriva dall’art. 3 della Costituzione, vuol dire che ogni punizione deve essere proporzionata all’effettiva gravità del reato …

Domani sera per fortuna non vedrò foto del legislatore, gioca l'Italia e quando c’è il Calcio, il Dio Calcio, gli italiani non vogliono vedere nessuno ma proprio nessuno, né le veline né tantomeno il legislatore … io guarderò la partita con mio figlio adolescente, gli ho detto che l’Italia non passerà ma sotto sotto spero di sbagliarmi … sarà una bella serata domani sera, se l’Italia vincerà sarà ancora più bella ma la cosa più importante è che non mi chiamino all'improvviso per un’altra inutile stupida demagogica direttissima.

Guardando la partita potrò dimenticarmi delle leggi che fa il legislatore, ma non mi sento ugualmente tranquillo: ricordo una canzone di Edoardo Bennato … sento ancora la musica, quel rock forte ed ironico allo stesso tempo … come diceva quella sua canzone, ah si ora ricordo, parlava di Nerone, parlava del legislatore dell’antica Roma … diceva così mi pare: “lui comandava sopra il mondo intero/teneva tutti sotto la sua mano/e per distrarli dalle cose serie/ogni domenica li mandava in ferie/ tutti allo stadio a farli divertire/meno male … meno male che adesso non c’è Nerone”.

Buona partita a tutti.

Anche gli “eletti dal popolo” sono soggetti alla legge e devono rispettare la Costituzione


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di Uguale per Tutti


Di tutte le cose pericolose per la democrazia e la civiltà che vengono dette per coprire gli abusi del potere ai quali assistiamo ormai quotidianamente da anni, la più pericolosa ci sembra quella con la quale si sostiene l’“intoccabilità” di coloro che sono stati “eletti dal popolo”.

Si tratta di una ricostruzione pedestre e maliziosa dei principi costituzionali che, partendo da un evidente e doloso fraintendimento del concetto di “sovranità popolare”, fa trasmettere quella “sovranità” agli “eletti” (senza tenere in nessun conto, peraltro, come ormai gli “eletti” siano sempre meno “eletti dal popolo” e sempre più “designati dai partiti”: ma non è questo il problema centrale).

Illustrare quanto regresso di civiltà ci sia in questa falsa ricostruzione dei principi costituzionali richiederebbe e meriterebbe dei libri.

Si impone qui una sintesi che metta in evidenza almeno due punti.

Il primo relativo al fatto che quella politica non è l’unica forma di responsabilità e, anche quando essa c’è, non elimina tutte le altre.

Per fare un esempio banale, se un “eletto dal popolo” uccidesse la moglie, di ciò dovrebbe rispondere solo ai suoi elettori e solo “politicamente”? Oppure dovrebbe risponderne anche a tutti penalmente e, civilmente, anche alle parti offese e/o danneggiate?

La cosa orribile è che a questo punto tanti diranno: “Ehi, un momento, ma un conto è uccidere la moglie, altro conto è corrompere un testimone in un processo o evadere due miliardi di euro di tasse” (gli esempi sono presi a caso). Con ciò dimostrando che ormai non solo fra i potenti ma anche fra la gente comune si è diffusa l’idea che il codice penale abbia due facce: una per i cittadini comuni, fatta di reati percepiti come tali, e un’altra per i potenti, fatta di reati che vengono trattati più che altro come “perdonabili marachelle”.

Il secondo punto da mettere in evidenza, quello più importante e decisivo, è che in una democrazia costituzionale nessuno ha un potere assoluto, neppure il popolo, e ogni potere è soggetto alla legge e, massimamente, alla costituzione.

In sostanza, il popolo non può “delegare” ai suoi eletti certi poteri, perché quei poteri non li ha neppure lui.

Il popolo, per esempio, non può autorizzare i suoi eletti a discriminare i bianchi dai neri e neppure può ordinare ai giudici di assolvere i colpevoli e condannare gli innocenti e tante altre cose simili. E dunque queste cose che non può fare il popolo men che meno le possono fare “gli eletti”.

Abbiamo già scritto moltissime altre volte che la democrazia non è principalmente un metodo di scelta del governante, ma invece un metodo di esercizio del potere.

Per verificare la fondatezza di questo assunto, basta considerare che è più democratico un paese nel quale un governante non scelto dal popolo, ma, per esempio, nominato per successione dinastica, governi nel pieno rispetto di tutte le regole della democrazia – separazione dei poteri, soggezione di tutti i poteri alla legge, disciplina costituzionale del potere, libertà di manifestazione del pensiero e di critica, eccetera – rispetto a un altro paese nel quale un governante scelto dal popolo governi però senza rispettare le regole della democrazia – esercizio arbitrario del potere, concentrazione e non separazione dei poteri, violazione delle regole costituzionali, eccetera.

Nella gravissima deriva antidemocratica nella quale si sta inabissando da anni il nostro Paese (perché purtroppo sono molti anni e sotto molti e diversi governi che il rispetto delle regole democratiche di esercizio del potere viene considerato non imprescindibile e neppure prioritario), uno degli eventi con riferimento ai quali massima è la sproporzione fra gravità e violenza del fatto e modestia se non inesistenza della reazione è la promulgazione di leggi incostituzionali ad opera di deputati che sanno della incostituzionalità di quelle leggi.

E’ stato davvero impressionante, quando la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcune norme della c.d. Bossi Fini, sentire l’on. Ignazio La Russa dichiarare: “Non c’è alcun problema, sapevamo che quella norma era incostituzionale. Abbiamo già la soluzione del problema”.

E’ assolutamente inaccettabile che i deputati ritengano possibile violare consapevolmente la Costituzione.

Per comprendere quanto grave sia questa violazione, basti considerare che l’art. 90 della Costituzione dispone che «il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni» - si badi, solo di quelli compiuti nell’esercizio delle sue funzioni: dunque, se evade le tasse o uccide la moglie, viene perseguito – «tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione».

Dunque, se l’attentato alla Costituzione è punito anche quando a commetterlo è il Presidente della Repubblica che gode costituzionalmente della più ampia forma di impunità con riferimento alla sua attività istituzionale, non ci possono essere dubbi sulla estrema gravità della violazione consapevole e reiterata della Costituzione da parte dei parlamentari e del Parlamento.

Eppure negli ultimi anni le leggi palesemente incostituzionali varate nella piena consapevolezza di ciò sono state tante e tutte dagli effetti gravissimi sull’amministrazione della giustizia.

Né è accettabile che taluni dicano: “Ma che problema c’è: se la legge è incostituzionale ci penserà la Corte Costituzionale a eliminarla”.

Questo modo di ragionare è inaccettabile per diverse ragioni:

1. Sotto un primo profilo equivale a chi dicesse: “Va bene, io intanto mi approprio di questi milioni di euro o compio questo altro abuso. Mi rendo conto che probabilmente è reato, ma trovo inutile che voi ve ne lamentiate. Se è reato, ci penseranno i giudici a punirmi”.

La sanzione giudiziale è il “rimedio” a una patologia. Non può diventare l’alibi per il compimento consapevole e sfacciato di abusi.

2. Nella maggior parte dei casi di incostituzionalità delle leggi, per il particolare meccanismo con il quale opera (tendenzialmente in via incidentale in relazione a un processo), la Corte Costituzionale non potrà neppure essere chiamata a intervenire.

3. Nella maggior parte dei casi nei quali la Corte Costituzionale interviene le leggi illegittime hanno già avuto degli effetti e gravi.

Se – per stare al caso di maggior attualità – il Parlamento fa una legge che sospende i processi per un anno, poiché la Corte Costituzionale non impiegherà meno di un anno a pronunciarsi sull’eventuale ricorso di un giudice, quando la Corte dirà che la legge è incostituzionale e la eliminerà, essa avrà già avuto tutti i suoi effetti, essendo rimasti effettivamente sospesi per un anno tutti i processi.

Con una ulteriore e folle aggravante.

Che la legge che sospende i processi per un anno prevede che la prescrizione resti sospesa in quell’anno, mentre l’annullamento della legge per la sua palese incostituzionalità farà venir meno anche la norma che prevede la sospensione della prescrizione. Dunque, l’anno di sospensione ci sarà stato e la prescrizione avrà fatto il suo corso in quell’anno.

Ogni volta che finisce una dittatura, ci si chiede sempre come sia stato possibile che un popolo abbia consegnato se stesso a un dittatore.

La dinamica di queste storie è sempre la stessa.

Un uomo o un gruppo di uomini promette al popolo il paradiso – vincere una guerra, diventare più ricchi, togliersi dai piedi gli ebrei, eliminare i comunisti, eliminare i fascisti, affermare il paradiso comunista, avere più sicurezza nelle strade, sconfiggere il cancro, ecc. – e chiede fiducia e potere per realizzare questo paradiso.

Il popolo, avido del sogno, dà la fiducia e il potere.

E quando serve più potere, alcuni salvacondotti e leggi eccezionali, concede anche quelli.

Infine – purtroppo solo dopo molti anni e tante tragedie – si rende conto che i “poteri speciali” servivano solo o principalmente a realizzare il paradiso privato del potente o dei potenti e il paradiso collettivo era solo “pubblicità”!

Tutto ciò posto, inseriamo qui i link ad alcuni articoli di stampa sulla palese incostituzionalità delle legge che sospende i processi penali per un anno.


Articolo del prof. Valerio Onida, illustre costituzionalista ed ex Presidente della Corte Costituzionale.


Articolo del prof. Alessandro Pace, Professore ordinario di diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma.


Un articolo di stampa sul parere del C.S.M. sulla legge “bloccaprocessi/salvapremier”.


Il testo integrale della bozza di parere del C.S.M. sulla legge “bloccaprocessi/salvapremier”.


L'ossessione al governo


Versione stampabile



di Ezio Mauro
(Direttore de La Repubblica)



da La Repubblica del 26 giugno 2008


Dunque Silvio Berlusconi dice di non essere ossessionato dai giudici. Se così fosse, tutto sarebbe più semplice. Il Cavaliere è il legittimo capo del governo del Paese, ha ottenuto un forte consenso popolare, guida una maggioranza compatta di parlamentari che ha potuto scegliere e nominare personalmente, è alla sua terza prova a Palazzo Chigi, può finalmente trasformarsi in uomo di Stato. Intanto i suoi avvocati lo difendono con sapienza, libertà e ampia fantasia tecnica nel processo di Milano, dov’è imputato per corruzione in atti giudiziari, con l’accusa di aver spinto l’avvocato londinese Mills a dichiarare il falso sui fondi neri all’estero della galassia Fininvest.

Due poteri dello Stato - l’esecutivo e il giudiziario - svolgono il loro ruolo, nelle loro prerogative autonome, ed entrambi nell’interesse del libero gioco democratico, al servizio della Repubblica. Poi, l’opinione pubblica giudicherà gli esiti. Si chiama separazione dei poteri, è uno dei fondamenti dello Stato moderno, e realizza il principio secondo cui la legge è uguale per tutti, anche per chi ha vinto le elezioni e governa il Paese. Perché l’eguaglianza, come spiega Rawls, “è essenzialmente la giustizia come rispetto della norma”.

Ma si può dire che sia così? Stiamo ai fatti. Ieri Berlusconi è entrato tra applausi e invocazioni da stadio all’assemblea della Confesercenti, pronta ad ascoltare la ricetta del governo per una categoria che ad aprile ha visto i consumi in caduta libera (-2,3 per cento), con i piccoli negozi in calo del 4,1, il settore non alimentare del 3,4.

Ma il Cavaliere, dopo aver ringraziato per l’accoglienza “tonificante” ha mimato con le mani incrociate le manette, ha assicurato che “certi pm vorrebbero vedermi così”, ha spiegato che i giudici politicizzati sono “una metastasi della democrazia”, una democrazia peraltro “in libertà vigilata, tenuta sotto il tacco” dalla magistratura ideologizzata “che vuole cambiare chi è al governo, ledendo con accuse fallaci il diritto dei cittadini a essere governati da chi hanno scelto democraticamente”: mentre il Pd, difendendo i magistrati, ha spezzato il dialogo che Berlusconi ormai rifiuta, perché non vuole discutere “con un’opposizione giustizialista”.

Siamo dunque davanti alla rappresentazione istituzionale di un’ossessione. Anzi, ad un’ossessione che si fa governo, che si trasforma in legge, che rompe una politica e ne avvia un’altra. Un’ossessione che si fa verbo e carne, misura di una leadership, orizzonte di una maggioranza, cifra definitiva dell’avventura di questa destra italiana talmente impersonata dal Cavaliere da precipitare intera nei suoi incubi.

Si capisce perfettamente la scomodità di fronteggiare un processo per corruzione mentre si è appena riconquistata con un trionfo elettorale la legittimità a governare il Paese. E tuttavia questa scomodità è anche una delle prove della democrazia sostanziale di una Repubblica. Perché non è in gioco, com’è ovvio e com’è evidente, il pieno diritto e la piena libertà dell’imputato Berlusconi a difendersi con ogni mezzo lecito nel processo, facendo valere fino in fondo le sue ragioni, sperando che prevalgano. In gioco, c’è il privilegio improprio di quell’imputato, che può contare sull’aiuto del Premier Berlusconi. Un aiuto attraverso il quale il potere politico diventa ineguale perché abusando della potestà legislativa costruisce con le sue mani - le mani del Presidente del Consiglio, che sono le stesse mani dell’accusato in giudizio - un vantaggio indebito contro un altro legittimo potere della Repubblica (il giudiziario) e contro i cittadini che si trovano nelle sue stesse condizioni, ma non possono contare su quel privilegio.

Per salvarsi da un potere che opera in nome di quello stesso popolo italiano da cui ha avuto un consenso amplissimo, il Cavaliere ha infatti deciso di trasformare il suo personale problema in un problema del Paese e la sua ansia privata in un’urgenza nazionale. Dopo aver ritagliato dentro la procedura penale una misura di sospensione dei processi che ha il profilo della sua silhouette, per bloccare la sentenza in arrivo a Milano, ha provato a trasformare in decreto legge (dunque un provvedimento con carattere di necessità e di urgenza) il nuovo lodo Schifani che per la seconda volta tenta di garantirgli l’immunità penale. Com’è evidente, è proprio l’urgenza di legiferare sotto necessità impellente che rende le due norme inaccettabili, perché patentemente ad personam. È il legame tra le due misure che le svilisce a strumento di salvacondotto meccanico. È tutto ciò, più la coincidenza democraticamente blasfema tra la persona dell’imputato, del capo del governo e del capo della maggioranza legislativa che fa del caso italiano qualcosa di molto diverso dal sistema costituzionale della garanzie per le alte cariche in vigore in alcuni Paesi: dove i Parlamenti - almeno in Occidente - legiferano su tipologie astratte nell’interesse del sistema e non su biografie giudiziare specifiche per dirottarne l’esito nell’interesse privato, spinti dal calendario di un processo in corso.

A due mesi appena da un voto che aveva garantito maggioranza certa, leadership sicura, alleanze blindate, opposizione dialogante, stiamo dunque assistendo ad un incendio istituzionale in cui tutto brucia, nel rogo di un leader che ogni volta consegna i suoi talenti ad un demone, sempre lo stesso. Brucia anche l’autorevolezza del premier e la sua credibilità se non come uomo di Stato almeno come uomo d’ordine: proprio ieri, mentre attaccava i giudici in preda ad un’ira visibile, la platea plaudente dei commercianti ha cominciato a mormorare, poi a rumoreggiare, infine a gridare, con i primi fischi che solcano il miele di questa luna berlusconiana, luminosa per due mesi, e improvvisamente nera.

Dice la commissione del Csm incaricata di preparare il plenum che la norma salvapremier farà fermare oltre la metà dei processi in corso, scegliendo arbitrariamente tra i reati, introducendo casualmente uno spartiacque temporale, violando la Costituzione quando parla di “ragionevole durata” del dibattimento, fino a realizzare nei fatti una “amnistia occulta”. Sullo sfondo, per tutte queste ragioni, si annuncia un conflitto con il Capo dello Stato che ancora ieri ha chiesto rispetto tra politica e magistratura, ma senza illudersi: “Con la moral suasion lancio messaggi in bottiglia, non sapendo chi vorrà raccoglierli”.

Rotto il dialogo, perché ieri Veltroni ha chiuso definitivamente la porta, il Cavaliere è dunque solo davanti alla sua ossessione. Che non è politicamente neutra, e nemmeno istituzionalmente, perché sta producendo giorno dopo giorno una specialissima teoria dello Stato che potremmo chiamare monocratico, con un potere sovraordinato perché di diretta derivazione popolare (il governo espressione della maggioranza parlamentare) e tutti gli altri poteri della Repubblica subordinati: al punto da diventare illegittimi quando mettono in gioco nella loro autonoma funzione il nuovissimo principio di sovranità che vuole il moderno sovrano legibus solutus. I costituzionalisti hanno previsto questa forma di “autoritarismo plebiscitario”, e Costantino Mortati ha parlato di “sospensione delle garanzie dei diritti” per la necessità “di preservare l’istituzione da un grave pericolo che la sovrasta” e per la precisa esigenza “di sottrarre a controlli l’opera del capo”: ma nessuno avrebbe detto che eravamo davanti a questa soglia.

E invece, questo è un esito possibile - istintivo e necessitato più che teorizzato, e tuttavia perfettamente coerente - del populismo italiano all’opera da quindici anni, capace non solo di conquistare consenso ma di costruire un senso comune dominante, d’ordine e rivoluzionario insieme, tipico della modernizzazione reazionaria in atto. Nel quale può infine crescere senza reazioni questa sorta di opposizione dal governo tipica della destra populista, una speciale forma di “disobbedienza incivile” come atto contrario alla legge, con la maggioranza che detiene il potere politico impegnata a chiamare il popolo alla ribellione.

Questa, non altra, è la posta in gioco. Si può far finta di non vederla, per comodità, pavidità, complicità o per convenienza. Lo stanno facendo in molti, dentro il nuovo senso comune che contribuiscono a diffondere. Sarà più semplice per Berlusconi compiere il penultimo atto, l’attacco finale alla libera stampa. Poi il privilegio prenderà il posto del governo della legge, rule of law. Ecco dove porta l’ossessione del Cavaliere. C’è ancora tempo per dire di no: non tutta l’Italia è acquisita, indifferente e succube.

L'autorizzazione a procedere


di Stefano Sernia
(Giudice del Tribunale di Lecce)



Il ricorrente ripetersi di attriti talora gravissimi tra la Magistratura ed il potere politico, il quale ultimo spesso strumentalmente taccia il potere giudiziario di perseguire disegni politici tramite un abuso delle proprie funzioni, ha portato più di un collega (da ultimo, su questo blog, Nicola Saracino) ad auspicare il ritorno ad un sistema generalizzato di autorizzazioni a procedere, quale necessaria condizione per sottoporre a procedimento penale i parlamentari, rinvenendosi in tale istituto un saggio punto di equilibrio tra le necessità della giustizia e quelle del libero esercizio del mandato parlamentare nel rispetto della volontà degli elettori; l’importanza della funzione legislativa e del reciproco rispetto tra questa e potere giudiziario, e la necessità, per il bene del Paese e delle Istituzioni di evitare il pericolo di uno stato di conflitto permanente tra le stesse, imporrebbe quindi di reintrodurre l’istituto dell’autorizzazione a procedere, di cui ora si rivaluta la funzione e la saggezza.

Si tratta di osservazioni senz’altro lucide ed intelligenti, che però mi sembrano essere in larga parte condizionate più dal desiderio di rinvenire un termine allo stato di perenne aggressione della magistratura da parte del potere politico, che da una verifica razionale condotta tenendo conto di quella che è stata la concreta esperienza storica dell’epoca in cui l’istituto dell’autorizzazione a procedere vigeva.

Allorché questa era infatti generale condizione di procedibilità nei confronti dei parlamentari, quel che accadeva era che la casta politica difendeva, come ancora oggi normalmente difende, sé stessa; le decisioni sulla richiesta di autorizzazione prescindevano dal merito della fondatezza delle accuse alla stregua degli atti acquisiti (come ancora oggi spesso appaiono prescinderne nei residui casi in cui l’autorizzazione o una valutazione della Camera di appartenenza è ancora prevista), e rispondevano a logiche di appartenenza e di schieramento politico, o appunto di casta; e, per la posizione assunta negando o rilasciando l’autorizzazione a procedere, la responsabilità politica del Parlamento (rectius, dei parlamentari per il voto dato in detta sede) non fungeva affatto, come tuttora non funge, da remora ad abusi e a improponibili posizioni di “copertura” e protezione dei gaglioffi e di intralcio alla giustizia.

La ragione, semplicissima, è che la responsabilità politica è responsabilità di fronte all’elettorato, e cioè alla pubblica opinione; la quale intanto ha un potere di controllo e sindacato effettivo (e può esercitare con consapevolezza il diritto di voto) in quanto venga correttamente informata; ma non da ora (ed oggi molto peggio che in passato), l’informazione è spesso politicamente controllata e manipolata.

In un Paese in cui la lettura dei quotidiani è appannaggio di una minoranza, rivolgendosi la massa ai telegiornali, ed in cui una parte politica controlla tutte le principali reti televisive (oltre che alcuni quotidiani), che speranza vi è che la pubblica opinione, tranne che in alcune sue più avvedute frange, possa formarsi un’opinione veramente libera ed informata? E che speranza vi è, quindi, che possa sindacare le responsabilità politiche degli eletti?

Temo che, se si tornasse all’istituto dell’autorizzazione a procedere, vedremmo accadere per ogni singolo processo riguardante un parlamentare ciò che oggi accade allorché sotto processo è qualche esponente di spicco della maggioranza: a sostegno del diniego di autorizzazione si somministrerebbe al popolo dei telegiornali la trita – ma a quel che pare ancora di effetto – storia del complotto politico ordito da una magistratura politicizzata e comunista, o della ricerca politica di una via giudiziaria alla conquista del potere, ecc. ecc.: il tutto, probabilmente, in un contesto in cui la libertà di stampa (vedi disegno di legge sulle intercettazioni) sarà più imbavagliata di prima, ed i media indipendenti messi nell’impossibilità di rappresentare la vera sostanza dei fatti.

Credo pertanto che la via dell’autorizzazione a procedere non sia la via praticabile né per un più corretto uso dei poteri giudiziari nei confronti dei parlamentari, né per attenuare le occasioni di contrasto istituzionale tra potere giudiziario e potere politico.

Paradossalmente, anzi, il ritorno all’istituto dell’autorizzazione a procedere incrementerebbe nuovi e più gravi contrasti istituzionali; e mi riferisco a quelli tra Parlamento e Corte Costituzionale, essendo prevedibile che quest’ultima verrebbe sempre più spesso evocata dalla Magistratura ordinaria a risolvere i conflitti insorti con la Camera che abbia ingiustamente negato un’autorizzazione a procedere nei confronti di un proprio membro; e poiché la Corte generalmente dà ragione alla magistratura – perchè questa in genere non persegue quelle mire persecutorie che giustificherebbero il diniego dell’autorizzazione – ecco che gli strali delle parti politiche finirebbero, in quest’epoca in cui per le Istituzioni e la loro immagine si ha ben poco rispetto, per investire anche la Corte.


sabato 21 giugno 2008

Sul “conflitto” istituzionale


di Nicola Saracino
(Magistrato)


Che la legittimazione democratica discenda dal voto popolare è principio radicato nella nostra cultura; si nota, però, avanzare l’idea che il voto rappresenti l’unica fonte legittimante l’esercizio dei poteri espressivi di sovranità, in essi inclusa la giurisdizione.

La carica elettiva latu sensu “politica” autorizza il titolare all’esercizio di poteri pubblici in nome della collettività e nell’interesse generale.

Il tradimento di quel mandato è sanzionato dalla legge e la magistratura è obbligata ad intervenire.

La magistratura non trova legittimazione nel voto popolare e questo per precisa scelta del Costituente che ha evitato l’inefficacia del controllo provocata dall’omologa estrazione elettiva di controllori e controllati.

L’“irresponsabilità” politica della magistratura, quindi, è uno strumento di garanzia dell’effettività dell’applicazione della legge nei confronti di tutti coloro che vi sono soggetti.

La responsabilità dei magistrati interviene su piani diversi da quello politico, essendo essi “soggetti soltanto alla legge” e rispondendo dei reati e degli alti illeciti astrattamente ipotizzabili al pari di tutti gli altri cittadini, senza alcuno sconto, com’è giusto.

Nessuno pensa di essere infallibile; credo, anzi, che l’azione di ogni magistrato sia sorretta dalla speranza di commettere il minor numero di errori possibile, nella consapevolezza che non è umano ipotizzare di non incorrervi mai.

La delicatezza e la complessità dei compiti assegnati alla magistratura hanno imposto di attribuire valore di verità giudiziaria soltanto alle decisioni irrevocabili, prima delle quali vige la presunzione di non colpevolezza.

L’erroneo costume, purtroppo invalso nel Paese, di conferire incondizionato credito alle ipotesi accusatorie quando ancora esse non sono state oggetto di verifica nel giudizio, neppure di primo grado, ha aperto il “conflitto” tra la politica e la magistratura, poiché anche le iniziative preliminari, con le quali si avvia un’attività di verifica dell’operato di un uomo politico, sono capaci di determinare conseguenze molto rilevanti per la vita pubblica, ripercuotendosi direttamente sulle istituzioni.

Infatti le reazioni, spesso scomposte, dei soggetti di volta in volta toccati da queste attività, risultano del tutto inappropriate se poste in relazione al carattere doveroso dell’intervento giudiziario subito, reazioni che tuttavia si spiegano se correlate al danno immediato che tali iniziative cagionano e che il politico cerca di evitare.

Il costo di questo “scontro” è tutto istituzionale, giacché non può pretendersi che i cittadini si fidino e rispettino l’operato di una istituzione se l’altra dimostra un atteggiamento contrario.

Per evitare che questo accadesse il sistema era equilibrato dall’istituto dell’autorizzazione a procedere che proteggeva – si scopre oggi – valori superiori e non serviva certo a garantire l’impunità dei gaglioffi: l’eventuale diniego ricadeva, infatti, nella esclusiva responsabilità politica del Parlamento, mentre la sua concessione sgombrava il campo da ogni ipotizzabile sospetto di persecuzione nei riguardi del politico inquisito e lo obbligava, quindi, ad affrontare il processo nelle aule giudiziarie, senza farsi scudo del fumus persecutionis.

La mancanza di quell’istituto, o di analogo accorgimento, spinge oggi l’indagato – e non già il magistrato – a cercare il giudizio e il consenso della piazza, potendo orientarne a piacimento gli umori grazie al maggior controllo sull’informazione, così neutralizzando il danno politico generato dallo stesso sistema mass mediatico.

Certo, l’autorizzazione a procedere realizza un’inteferenza tra poteri diversi, ma è un’interferenza regolamentata, di sicuro preferibile al perenne clima di scontro privo di regole che connota la vita pubblica italiana.