di Giuliano Castiglia
(Giudice del Tribunale di Termini Imerese)
Negli ultimi giorni è montato sempre più il già sperimentato refrain secondo cui il c.d. “concorso esterno” in associazione di tipo mafioso è un reato NON previsto dal codice ma creato – qualcuno, suggestivamente, dice inventato – dai giudici.
Ma in Italia i giudici non creano reati per il semplice motivo che non lo possono fare; se lo facessero, violerebbero un fondamentale principio costituzionale che è quello della assoluta riserva di legge in materia di punizione penale.
Solo al Parlamento compete la funzione di stabilire in via generale ed astratta che cosa è reato ed è una fortuna che sia così.
Se fosse vero che il concorso in associazione mafiosa è inventato dai giudici, sarebbe tale anche il concorso, per esempio, in furto, in rapina, in omicidio, in violenza sessuale, in corruzione, in violenza sessuale di gruppo e via elencando.
Per comprendere come stiano davvero le cose è inevitabile affrontare il tema in termini tecnici. Qui tenterò di farlo in modo da risultare comprensibile anche ai non addetti ai lavori, ai quali questo scritto è diretto.
Come accennato, la Costituzione (art. 25, comma 2) riserva al legislatore il compito di prevedere, ossia di individuare ex ante e in generale, quali fatti costituiscono reato.
Il Parlamento, attraverso lo strumento della legge, formula previsioni astratte mediante le quali costruisce le “fattispecie di reato” o “fattispecie incriminatrici”, cioè modelli di condotte umane che sono considerate reato e che i tecnici chiamano “tipi” o – più comunemente – “fatti tipici”.
Spetta invece ai giudici, anche in questo caso per dettato costituzionale (art. 102 Cost.), stabilire ex post e in particolare, attraverso lo strumento della sentenza, se una condotta che è stata concretamente realizzata da qualcuno costituisce o non costituisce reato.
Il loro compito si articola fondamentalmente in due momenti: accertare, innanzi tutto, che cosa si è concretamente verificato, ossia qual è la specifica condotta che è stata realizzata; operare, quindi, una verifica di corrispondenza della condotta concreta rispetto alla “fattispecie” di reato prevista dalla legge, ossia rispetto al “fatto tipico”. Se la verifica ha esito positivo, la condotta concreta realizzata sarà considerata reato.
La legge penale – quella alla quale volgarmente ci si riferisce dicendo “il codice” – costruisce le singole “fattispecie incriminatrici” riferendosi agli autori che pongono in essere tutti gli elementi della fattispecie stessa.
In altri termini, le norme di legge che definiscono i singoli reati fanno riferimento a chi pone in essere la “condotta tipica”, ossia la condotta che presenta tutti gli elementi richiesti dalla legge per la configurazione del reato.
La stragrande maggioranza delle fattispecie di reato sono costruite dalla legge come fattispecie così dette “monosoggettive”, ossia fattispecie che fanno riferimento a condotte che possono essere realizzate anche da un solo soggetto.
Tali sono, per esempio, il furto (art. 624 c.p.), la rapina (art. 628 c.p.), l’omicidio (art. 575 c.p.), la violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), tutti reati che possono essere realizzati anche da un solo soggetto.
Si pone allora il seguente interrogativo: come trattare il soggetto che, pur ponendo in essere una condotta non tipica – c.d. “condotta atipica” –, cioè una condotta che non realizza alcuno degli elementi richiesti dalla legge per la configurazione del reato, tuttavia fornisce un contributo a che essi siano realizzati da altri soggetti?
La risposta è pure essa nel codice e, precisamente, nell’art. 110 c.p. ed è nel senso che il soggetto da noi considerato, cioè colui il quale pone in essere una “condotta atipica” che però contribuisce alla commissione della condotta tipica da parte di altri, deve essere trattato esattamente come chi realizza la “condotta tipica”.
Stabilisce infatti l’art. 110 c.p. che “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”.
Come si dice comunemente, l’art. 110 c.p. svolge una funzione “estensiva” della punibilità, in quanto, combinandosi con gli articoli che definiscono i singoli reati, estende la punibilità per tali reati a soggetti diversi da quelli che realizzano gli elementi costituivi dei reati medesimi e, in particolare, tra gli altri, ai soggetti che, pur non ponendo in essere alcuno degli elementi in questione, forniscono un contributo – c.d. “atipico” – alla loro realizzazione da parte di un altro o di altri soggetti.
Per rendere meglio l’idea conviene esemplificare.
L’art. 624 bis c.p., che prevede il reato di furto in abitazione, punisce “chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa”.
Pensiamo a Tizio, gestore di una bottega di ferramenta, il quale, avendo ricevuto da Sempronio le chiavi del suo appartamento per la duplicazione, ne fa una copia che, dietro compenso, consegna a Caio, il quale, a sua volta, in un periodo di assenza di Sempronio, si introduce nell’appartamento di quest’ultimo asportando i valori custoditi al suo interno.
Caio, ovviamente, ha realizzato tutti gli elementi della fattispecie del reato di “furto in abitazione” prevista dall’art. 624 bis c.p. e, se scoperto, risponde di tale reato.
Tizio, invece, non ha posto in essere alcuno di tali elementi; eppure, consegnando a Caio le chiavi dell’abitazione di Sempronio, ha fornito un contributo fondamentale per la realizzazione del reato.
Alla stregua del solo art. 624 bis c.p., egli non ha commesso alcun reato; tuttavia, poiché l’art. 624 bis, come ogni altro articolo che prevede una specifica fattispecie di reato, si combina con l’art. 110 c.p., anche Tizio, se scoperto, risponde del reato di furto in abitazione punito dall’art. 624 bis e, più precisamente, ne risponde a titolo di “concorso”.
Oltre alle fattispecie “monosoggettive” – che, come detto, rappresentano la gran parte delle fattispecie incriminatrici – la legge penale prevede alcune fattispecie plurisoggettive, ossia fattispecie incriminatrici delle quali è elemento costituivo necessario la condotta di più soggetti. Si parla, in proposito, di “reati a concorso necessario” o di “reati necessariamente plurisoggettivi”.
Un esempio di questi reati è quello di “violenza sessuale di gruppo” previsto dall’art. 609 octies del codice penale. Secondo tale articolo “la violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis” (comma 1) e “chiunque commette atti di violenza sessuale di gruppo è punito con la reclusione da sei a dodici anni” (comma 2).
Anche per questi reati, nei quali, tra gli elementi del “fatto tipico”, è presente la condotta di più soggetti, esattamente come per i reati in cui tale elemento non è presente, si pone il problema del trattamento di quei soggetti che, pur non ponendo in essere alcuno degli elementi del fatto tipico, forniscono un contributo alla realizzazione di essi da parte di altri.
Ed anche per questi reati la risposta è nell’art. 110 del codice penale. Esso, come si combina con le fattispecie monosogettive, allo stesso modo si combina con le fattispecie plurisoggettive, così estendendo la punibilità ai soggetti che, pur non ponendo in essere alcuno degli elementi costitutivi dei reati a concorso necessario, contribuiscono alla loro realizzazione da parte di altri.
L’esemplificazione, anche in questo caso, rende l’idea.
Tizio, per un motivo X che non ci interessa, ingaggia Caio, Sempronio e Filano affinché commettano atti di violenza sessuale contro Mevia. Caio, Sempronio e Filano, una notte, si introducono nell’abitazione di Mevia e, ivi riuniti, compiono atti di violenza sessuale contro Mevia.
Chi risponde della violenza sessuale di gruppo? Secondo l’art. 609 octies c.p. ne rispondono Caio, Sempronio e Filano, coloro che, riuniti, hanno partecipato agli atti di violenza sessuale contro Mevia. E Tizio, colui che non partecipa agli atti di violenza sessuale ma dà mandato perché altri (Caio, Sempronio e Filano) li pongano in essere, che fine fa? Se la fa franca?
No, se lo scoprono, non se la fa franca!
Come detto, infatti, oltre che con le fattispecie incriminatrici monosoggettive, l’art. 110 c.p. si combina anche con le fattispecie plurisoggettive, estendendo la punibilità a coloro i quali, pur non avendo realizzato alcuno degli elementi della fattispecie, hanno però fornito un contributo alla loro realizzazione da parte di altri.
Tizio, quindi, risponderà anch’egli del reato di violenza sessuale di gruppo previsto dall’art. 609 octies c.p. e, più precisamente, ne risponderà a titolo di “concorso”.
Anche il concorso – “esterno” o “eventuale” – in violenza sessuale di gruppo, dunque, attraverso la combinazione dell’art. 609 octies c.p. con l’art. 110 c.p., è previsto dal codice.
La stessa identica cosa vale per il concorso (“esterno”) in associazione di tipo mafioso.
L’art. 416 bis c.p. punisce con una certa pena “chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso”.
Ipotizziamo che Tizio, Caio e Sempronio diano vita ad un’associazione di tipo mafioso, impegnata in varie attività quali estorsioni, commercio di stupefacenti, acquisizioni di lavori dalle pubbliche amministrazioni attraverso appalti gestiti illegalmente, ecc.
Ipotizziamo poi che i tre conoscano il giudice Filano e si rivolgano a lui ogni volta che ne hanno bisogno per un problema che interessa l’associazione e rispetto al quale Filano può dare una mano. E ipotizziamo ancora che Filano sappia dell’esistenza dell’associazione e, nonostante questo, fornisca o si adoperi per fornire l’aiuto richiesto. Per esempio, chiamato a giudicare Mevio, un amministratore inserito nell’associazione, accusato di un reato punibile con la pena da 3 a 6 anni di reclusione, Filano potrebbe – non dico assolverlo pur se colpevole ma anche solo – condannarlo alla pena di 2 anni e 8 mesi riconoscendogli le attenuanti generiche anziché alla giusta pena (non inferiore a 3 anni) che comporterebbe l’interdizione (almeno temporanea) dai pubblici uffici e, quindi, la decadenza di Mevio dalla carica di amministratore.
Tizio, Caio e Sempronio rispondono del reato di associazione di tipo mafioso.
E Filano, che pur contribuendo indubbiamente alla sua vita non fa parte dell’associazione, e, pertanto, alla stregua del solo art. 416 bis, non commette alcun reato, se la fa franca?
No, anche in questo caso, Filano, se scoperto, non se la fa franca.
Infatti, anche in questo caso soccorre l’art. 110 c.p., il quale, combinandosi con l’art. 416 bis c.p., estende la punibilità per tale reato a coloro che, pur non facendo parte dell’associazione mafiosa, tuttavia contribuiscono consapevolmente alla sua vita.
Filano, dunque, risponde del reato di associazione di tipo mafioso previsto dall’art. 416 bis e, precisamente, ne risponde a titolo di “concorso” (“esterno”).
Conclusivamente, quindi, il concorso esterno in associazione mafiosa è previsto dal codice.
Affermare che esso non esiste ed è un’invenzione dei giudici significa negare l’esistenza dell’art. 110 c.p.; il generale meccanismo estensivo della punibilità previsto da tale articolo può non piacere e, in effetti, ad alcuni, tra i quali non mancano anche tecnici della materia, che ne considerano la portata troppo generica ed estesa, non piace; ma non si può dire che non esiste; dirlo è un errore; cercare subdolamente di inculcare negli italiani tale convinzione sarebbe un’impostura.
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P.S. : Per completezza, bisogna dire che l’affermazione secondo cui il concorso esterno in associazione mafiosa non esiste ed è inventato dai giudici strumentalizza talune ben più complesse e sottili posizioni espresse in dottrina circa la problematicità della combinazione tra l’art. 110 c.p. e i reati necessariamente plurisoggettivi e, segnatamente, quelli associativi. In questa sede, però, non è possibile affrontare tali questioni perché il discorso diventerebbe tecnicamente troppo complesso e non è ciò che qui ci proponiamo. Va detto, comunque, che queste posizioni hanno registrato riscontri giurisprudenziali minimi e, attualmente, non ne hanno alcuno.