di Cristiana Valentini
Professore Ordinario di Procedura Penale
Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara
Tra le varie immagini da incubo che popolano le notti dei lettori i quali, psicologicamente impreparati, si avventurino nella lettura dei media degli ultimi mesi, compare all’improvviso quella tracciata da una notizia surreale: il dr. Davigo sarà giudice nello stesso processo in cui è chiamato a testimoniare, perché il Collegio del CSM che valuterà la situazione disciplinare del dr. Palamara ha ritenuto infondata la ricusazione proposta dal difensore di quest’ultimo.
Ammettiamolo, lo scenario è davvero –come suol dirsi- kafkiano e si presta a fornire materia a sogni angosciosi.
Ma proviamo a tradurre la situazione senza giuridichese.
Dunque, è accaduto che nelle settimane scorse il Palamara –accusato di gravi illeciti disciplinari- abbia presentato una lista di testimoni da spendere a sua discolpa, testimoni tra i quali brilla di luce propria la figura di Davigo, nientemeno che uno dei giudici componenti del Collegio che dovrà giudicare il caso.
Precisiamo: Palamara non chiama Davigo a testimoniare su fatti vaghi o puramente ipotetici, anzi. Dal momento che una delle accuse mosse al dr. Palamara è di aver istigato un altro p.m., tal Fava, a presentare un esposto contro l’ex procuratore Pignatone per cose di una certa gravità, il difensore di Palamara allega a suo discolpa che il denunciante p.m. Fava, lungi dall’essere stato istigato, aveva deciso quell’iniziativa sua sponte, dopo essersi confrontato giusto con Davigo in appositi incontri (conviviali, of course, in questa vicenda in cui tutto avviene all’interno di luoghi dai nomi evocativi: Champagne, Baccanale e omologhi).
Insomma, è qui che nasce l’istanza di ricusazione: tra i testimoni indicati a discarico di Palamara c’è un uomo che destino vuole sia anche uno dei suoi giudici.
E non basta: l’accorto difensore del dr. Palamara non si è limitato ad inserire il Cons. Davigo nella lista dei testimoni, ma ha accompagnato l’istanza di ricusazione con la produzione delle dichiarazioni rese dal pluricitato Fava, per dimostrare che l’istanza di ricusazione non era basata su chiacchiere inventate da un assistito disperato, ma sulla deposizione di un magistrato della Procura della Repubblica.
Orbene, dalla lettura di queste dichiarazioni tutti capiamo bene che ciò su cui è chiamato a deporre il giudice/testimone Davigo non è robetta, visto che, a quanto risulta, prima di proporre il suo esposto al CSM il dr. Fava avrebbe narrato proprio a Davigo tutti i fatti relativi a Pignatone, e Davigo, a sua volta, avrebbe giudicato la vicenda «di indubbia rilevanza» e meritevole di «approfonditi accertamenti da parte del CSM», così sostanzialmente rassicurando Fava sulla fondatezza del suo esposto.
Per dirla altrimenti è piuttosto chiaro che -una volta accertato come il dr. Fava non fosse stato “istigato” da Palamara a depositare l’esposto, ma avesse deciso per conto proprio, addirittura previa acquisizione del parere di alto livello di un Davigo- l’accusa contro Palamara è destinata a cadere.
Siamo in presenza, dunque, non solo di una prova, ma di una vera e proprio “prova decisiva”, come recita il codice per sottolinearne il ruolo.
A questo punto, il comune cittadino che ha letto di questa vicenda nei giorni scorsi, ben comprende che il dr. Davigo non può, in alcun caso, essere giudice di questa regiudicanda; si (auto)escluderà come testimone? giurerà di dire la verità davanti a se stesso? al momento di decidere, valuterà se è stato sincero o no? Gli interrogativi retorici potrebbero continuare, ma ci fermiamo, perché qui la psiche davvero vacilla, fornendo materia ai succitati incubi, e torniamo al linguaggio dei legulei, che purtroppo s’impone, perché –a quanto pare- davanti al CSM anche l’ovvio diventa leggenda.
Apprendiamo, allora, dal provvedimento con cui il Collegio respinge l’istanza di ricusazione, che «il combinato disposto degli artt. 52 e 51, n. 4, c.p.c. prevede testualmente l'obbligo di astensione - e la conseguente facoltà della parte di chiedere la ricusazione - con riguardo al giudice che abbia (già) deposto "nella causa" come testimone, ma non per colui che, ipoteticamente, possa esservi successivamente chiamato. Siffatta conclusione risulta peraltro suffragata dalla Suprema Corte che ha chiarito come l'obbligo di astensione sia posto esclusivamente a carico di colui che abbia, (già) reso testimonianza nella stessa causa che è chiamato a giudicare (Cass. Cass. civ., sez. un., 6 luglio 2005, n. 14214). Nel caso di specie, il Cons. Davigo non ha reso testimonianza in alcun procedimento (penale o disciplinare) a carico del Dott. Palamara, né, invero, la finalità in tal senso auspicata dalla difesa del ricorrente, mediante presentazione della lista testi, può ritenersi idonea a conclamare lo status di testimone in capo al Consigliere ricusato e quindi a fondare l'istanza in oggetto».
Ora, questo breve passaggio contiene un piccolo novero di errori in diritto.
Anzitutto il primo: Davigo non è affatto “ipoteticamente chiamato” a rendere testimonianza; è già stato, niente affatto ipoteticamente, inserito in una lista testi ufficialmente depositata, sicché ci chiediamo, da giuristi: cosa indica l’avverbio “ipoteticamente”? Una svista del redattore che non s’è accorto che l’ipotesi è divenuta realtà con tanto di timbro di protocollo? O l’anticipazione di un futuro giudizio di irrilevanza, con cui ci si appresta a falcidiare la lista presentata dal difensore di Palamara? Come minimo trattasi di una frase disaccorta. Ma andiamo avanti.
A supporto della propria esegesi il Collegio del CSM richiama un precedente, fortificandosi niente meno che del dictum di una pronunzia a Sezioni Unite, ed effettivamente a consultare il massimario parrebbe che i nostri abbiano ragione; purtroppo, come ben sanno i giuristi esperti, l’Ufficio del massimario fa spesso mostra di curiosi fenomeni dove la massima partorita talvolta non possiede lo stesso DNA della sentenza genitrice; così è in questo caso, perché se si va a leggere il testo della decisione citata ci si avvede anzitutto che, lungi dall’emettere un principio di diritto, la Cassazione ha fatto sul punto un puro obiter dictum, privo di qualunque spiegazione ermeneutica e dunque di qualunque virtù interpretativa su casi analoghi; di più: la causa è stata decisa sulla scorta di tutt’altro altro principio, ovvero quello per cui la cagione di astensione/ricusazione, rappresentata dall’inserimento in lista testimoniale, si era verificata solo dopo la conclusione della causa in cui il ricusato era stato chiamato a giudicare (per la verifica, ecco la sentenza a Sezioni Unite in parte qua: l’inclusione nella lista dei testimoni «soprattutto si è verificata dopo la conclusione del procedimento disciplinare…, onde non poteva comunque essere conosciuta dall'avv. I. nel momento in cui ha partecipato alla delibera stessa»).
Ora, andiamo ai fatti e non ai supposti autorevoli precedenti; se il senso della ricusazione contemplata dall’art. 51, n. 4 c.p.p. (il giudice deve astenersi se ha deposto nella causa come testimone) fosse relativa (solo) ad un evento passato, saremmo in presenza di una fattispecie autofagica, destinata a non essere mai applicata, se non nel rarefatto caso in cui, a causa di un disaccorto cambio di giudice in corso di processo, taluno si ritrovasse a giudicare in una vicenda su cui ha deposto in precedenza quale testimone.
E allora, poiché le disposizioni di legge –da noto monito della Corte costituzionale- devono essere interpretate nel modo in cui hanno un senso e una funzione, piuttosto che in quello in cui non ne hanno alcuno, ricorriamo ironicamente ad un precedente molto più modesto, ma anche più savio di un casuale obiter delle Sezioni Unite, citando un povero Pretore che, negli ormai lontanissimi anni ’80, così pronunziava: «poiché sussiste incompatibilità assoluta tra l'ufficio di giudice e quello di testimone, il giudice, che sia indicato da una delle parti come testimone di un fatto controverso, deve, ove la prova dedotta non appaia oggettivamente inammissibile o irrilevante, astenersi ai sensi dell'art. 51, comma 1, n, 4, c.p.c.» (Pretura Saronno, 15-10-1984).
Il Pretore di Saronno ha applicato la legge, a differenza del Collegio del CSM chiamato a giudicare Palamara e ciò per un motivo molto semplice: le cause di astensione/ricusazione sono tassative, certo, ma questo non impone affatto che debbano essere interpretate solo ad litteram, perché –al pari perfino delle norme penali- esse sono suscettibili di interpretazione estensiva; il chè significa che esse possono e devono godere di una esegesi (e qui citiamo, stavolta, un vero principio espresso dalla Cassazione) «rivolta… a determinare la portata del precetto secondo il pensiero e la volontà del legislatore, anche al di là della dizione strettamente letterale, quando sia palese che lo stesso legislatore minus dixit quam voluit: infatti in questo caso, non vale invocare il divieto di applicazione analogica, poiché l'estensione non avviene per similitudine di rapporti o di ragioni, ma per la necessità logica di ricondurre alla previsione normativa ipotesi non completamente delineate e tuttavia configurabili in base alla stessa lettera della legge. In questi casi, infatti, l'interpretazione estensiva non amplia il contenuto effettivo della norma, ma impedisce che fattispecie ad essa soggette si sottraggano alla sua disciplina per un ingiustificato rispetto della lettera» (Cass., sez. II, Sentenza 29/03/2019 n° 13795).
Insomma, per dirla in breve il Collegio del CSM non ha applicato le comuni regole ermeneutiche, ma ha scelto di interpretare l’art. 51, comma 1, n. 4 c.p.c. secondo una dizione strettamente letterale, di fatto consentendo che una fattispecie ad esso soggetta (il giudice futuro testimone, id est Davigo) si sottragga alla sua sfera d’azione «per un ingiustificato rispetto della lettera».
E per far valere la natura davvero profondamente ingiustificata di questo rispetto della littera legis è sufficiente riflettere su un paio di certezze, giuridiche, da un lato, banalmente fattuali, dall’altro.
Il Giudice, ricordiamolo (usando non per caso la G maiuscola), deve offrire garanzia d’imparzialità e terzietà, a mente di Costituzione e CEDU, e come può essere terzo e imparziale un giudicante che sia chiamato a narrare (imbarazzanti) fatti a discolpa dell’accusato? E’ per questo che esistono gli istituti dell’astensione e della ricusazione, si noti.
Siamo in presenza di un provvedimento abnorme, non vi è dubbio, che anzi brilla per singolarità e stranezza di contenuto, diremmo icasticamente avulso dall’ordinamento processuale.
Ricordiamo, poi, ancora: l’inserimento del dr. Davigo in lista testimoniale con la capitolazione di prova che emerge dalla lista, lungi dal fare di lui un’“ipotesi di testimone”, ne struttura con certezza la natura di testimone/chiave, latore di una prova c.d. decisiva quanto meno per una delle accuse mosse al dr. Palamara.
E qui aggiungiamo: ma il Collegio del CSM ricorda che il Giudice (sempre quello con la G maiuscola) DEVE ammettere tutte le prove richieste, salvo che siano manifestamente irrilevanti o superflue? Ricorda il CSM che l’ammissibilità della prova (specie a discarico) è la regola e che l’inammissibilità dev’essere rigidamente motivata? Probabilmente no, non lo ricorda, altrimenti non avremmo letto che il dr. Davigo è un teste “ipotetico”.
Ma per andare sui biechi fatti (quelli che fondano la materia degli incubi), ora che questa istanza di ricusazione, fondata sulla logica prima ancora che sulla legge, è stata rigettata, ci domandiamo –cittadini e giuristi- cosa accadrà? Assisteremo al fenomeno da circo per cui il dr. Davigo, come membro del Collegio valuterà l’ammissibilità della sua stessa testimonianza? O forse dovremmo supporre che userà le sue personali cognizioni per decidere la causa?
In questo caso dimenticherebbe qualcosa: le cognizioni personali del giudice non sono fatti notori, guarda caso per lo stesso pregnante motivo per cui vi è incompatibilità assoluta tra l’ufficio del giudice e quello del testimone (Cass. civ., Sez. II, 26-10-1972, n. 3280).
La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano e non tollera interna corporis. La giustizia DEVE essere trasparente. Forse ogni tanto converrebbe rammentarlo.
Brillante intervento professoressa Valentini! Sempre puntuale e, dove serve, pungente!
RispondiEliminaLuca Marini
Magistrato in Venezia
Grazie, Professoressa Valentini.
RispondiEliminaLa sua è una folata (giammai una "corrente") di aria purissima dall'Accademia. Scritta in modo comprensibile a chiunque ed anche ironico, oltre che giuridicamente ineccepibile.
Sono convinto che se il mondo universitario ci aiutasse a denunciare tutte le storture del governo autonomo e dell'associazionismo giudiziario saremmo tutti più forti ed i cittadini, in aggiunta a noi, ne trarrebbero immenso beneficio.
Andrea Reale (magistrato)
Chiacchere inventate da un assistito disperato? No! Di giudice coinvolto in circostanze dirimenti di causa. Ipotetico testimone che pertanto sà: di essere in obbligo di astenersi, pena ricusazione. Nessuna applicazione analogica(peraltro ampiamente legittima) sussiste. E' ampiamente sufficiente l'astratta ipotesi di poter essere chiamato a testimoniare. Comunque l'art. 51 n. 4 del c. civ. lo fa ben rientrare, per diversi motivi. La verità è bene giuridico tutelato dalla Costituzione, di rango, di collocazione sistematica, gerarchicamente di gran lunga superiore alla mera presenza nel procedimento di un giudice anziché un altro! E' vero si è in presenza di situazione extra legem, e non contra legem.
RispondiEliminaTutto bello se non fosse che si ragiona a testa in giù, perché, come si diceva un tempo, c'è la norma:
RispondiEliminal'art. 197, comma 1, lett. d) c.p.p. (applicabile al proc. disciplinare) dichiara incompatibile all'ufficio di testimone "coloro che nel medesimo procedimento o hanno svolto la funzione di giudice".
Quindi la regola è che l'indicazione del giudice come testimone rende quell'indicazione inammissibile.
D'altra parte, sarebbe troppo bello (o brutto?) potersi liberare del giudice sgradito indicandolo come testimone.
un giurista
Al giurista anonimo delle 15:25 aveva già risposto il Pretore di Saronno: se l'indicazione del testimone risultasse pretestuosa non sussisterebbe l'incompatibilità. Quanto all'art. 197 cpp esso non può leggersi dimenticando tutte le altre norme, primo tra tutti l'art. 34 cpp e magari l'art. 111 Cost.(se ci si rivolgesse, a piacimento, al cpc la situazione non muterebbe). Quello che la Sezione disciplinare avrebbe dovuto spiegare - e non lo ha fatto - è il motivo per il quale la testimonianza richiesta sarebbe stata manifestamente irrilevante. Paradossalmente ha invece affermato che l'incompatibilità sarebbe scattata solo dopo l'ammissione e l'assunzione della testimonianza, così cancellando anche l'art. 197 cpp e con esso il diritto alla prova.
RispondiEliminaPerché non può certo essere il giudice a stabilire se la sua personale testimonianza vada ammessa oppure no: se Kafka avesse potuto leggere questa trama non avrebbe scritto nulla ...
Sulla questione dell'art. 197 cpp si può aggiungere che il legislatore ha pensato ai giudici giudici (i professionisti assunti per concorso) non ai giudici amministratori (elettivi) come quelli che stanno CSM i quali si occupano dell'amministrazione delle vicende dei magistrati (compresi gli esposti) e poi hanno sono posti a decidere da "giudici" su quegli stessi fatti.
RispondiEliminaQuindi l'ipotesi che ordinariamente appare "stramba" (quella del giudice-testimone o se si preferisce del testimone-giudice) assurge a regola nel giudizio disciplinare, dove non c'è alcuna garanzia di terzietà del giudice rispetto ai fatti portati alla sua conoscenza.
Felice Basile
RispondiElimina70022 Altamura (BA)
"L'ITALIA AL CONTRARIO"
RispondiEliminaGrazie, Professoressa Valentini.
La chiusura del suo articolo sottolinea in maniera inequivocabile il rispetto dei principi Costituzionali.
"La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano e non tollera interna corporis.
La giustizia DEVE essere trasparente".
Credo che bisogna rammentarlo quotidianamente, soprattutto per quei Giudici che non meritano di indossare la Toga, i quali eludendo le norme, offendono il codice civile e penale.
Felice Basile
Art. 197 c.p.p. Penso vada considerato l'elemento teleologico dell'istituto giuridico de quo, che consiste nella tutela del principio del " nel tenetur se detegere. L'incompatibilità rileva in mdo tassativo sul responsabile civile e per la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria(comma 1, lett. c). Tuttavia hanno diritto a rendere dichiarazioni come parti processuali senza il vincolo dell'obbligo della verità. In relazione alla lettera d): si tratta di soggetti sui quali sussistono dubbi sulla reale terzietà rispetto alle vicende processuali. Ciò tuttavia non esprime un'ipotesi di incompatibilità assoluta(Casi. 4616/1994).
RispondiEliminaCioé c'è una norma che dice che non si può indicare come testimone il giudice, il che chiude la questione.
RispondiEliminaPerò no. Assumete che quella norma deve soccombere perché se il giudice è un testimone utile allora si deve astenere e poi fare il testimone.
Mi sembrano certi pareri dell'ufficio studi del CSM!
Se si vuole combattere il CSM e le sue degenerazioni la prima regola è: rigore giuridico.
Un giurista anonimo
Per anonimo 6 agosto, h.16,31: La norma dice di giudice in senso astratto. Quanto qui si assume fa riferimento a soggetto in carne e ossa, in ossequio all'ordinamento informato al principio di gerarchia delle fonti di diritto. Nessuna questione è chiusa. Consiglio una buona rilettura del decennio(iniziato 20 anni fa) di intensi lavori della Corte costituzionale in riforma dell'istituto giuridico della ricusazione. Lavori che taluni in alto loco, mostrano di non ricordare, ovvero di non aver mai letto. Circostanza: unico motivo di folgoranti carriere si stile palamarico. Consiglio ancora: ove si ritiene tranciare giudizi sulle persone fisiche, farlo da "persona nota", soprattutto allorquando le argomentazioni nessun pericolo possono arrecare. Da "anonimo" vanno considerate tam qual non Essent! Voglio ricordare per mera semplice notizia, che in questo sito, senza ricorrere all'anonimato scrivono persone oggetto di gravi minacce di stampo mafioso. e combattenti della Forze della Liberazione che per la loro posizione di avanguardia, non possono permettersi il lusso nemmeno di avere paura. Costoro non possono ben gradire l'accostamento ai "pareri dell'ufficio studi del C.S.M.
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