E' la prima volta.
Sopra il video e qui sotto il testo del discorso del Procuratore Generale dott. Roberto Saieva all'inaugurazione dell'anno giudiziario a Catania.
CORTE di APPELLO di CATANIA
INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO 2021
Assemblea generale della Corte del 30
gennaio 2021
Intervento del Procuratore Generale
Roberto Saieva
Signor Presidente,
illustri rappresentanti del Consiglio Superiore della Magistratura e
dell’Onorevole Ministro della Giustizia, Autorità civili, militari e religiose,
rappresentanti del libero Foro
L’anno trascorso rimarrà
impresso nella memoria di tutti noi come l’anno – o, meglio, il primo degli
anni – della pandemia da virus COVID-19.
Nella memoria dei
magistrati, però, sarà anche l’anno in cui la diffusione di ulteriori atti della
nota indagine condotta dai pubblici ministeri di Perugia nei confronti di un ex
componente del Consiglio Superiore della Magistratura ha rivelato come lo scenario
in una prima fase emerso dall’indagine coinvolgesse un numero di magistrati
assai più consistente ed ambienti giudiziari assai più vasti di quel che si
poteva ritenere.
E’ quello scenario che
già il 21 giugno 2019 il Capo dello Stato, nel suo intervento all’Assemblea
plenaria straordinaria del CSM – l’ho ricordato nel mio intervento alla
cerimonia inaugurale del 1° febbraio 2020 – aveva definito con taglienti parole
“quadro sconcertante e
inaccettabile”, siccome
composto da un “coacervo di manovre nascoste, di tentativi di
screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare
inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il CSM,
di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato … in
totale contrapposizione con i doveri basilari dell’Ordine Giudiziario e con
quel che i cittadini si attendono dalla Magistratura”.
Oggi a nessuno è lecito
negare che all’interno dell’Ordine Giudiziario un profondo ed esteso processo
di pervertimento ha contaminato l’esercizio di poteri e facoltà, connotato lo
svolgimento della vita associativa e perfino improntato le dinamiche dei
rapporti personali.
Non che al magistrato di
media intelligenza ed esperienza condotte e metodi di cui parlo fossero ignoti!
L’indagine perugina li ha però in modo incontrovertibile documentati e l’utile
iniziativa di alcuni organi di informazione li ha resi noti anche al di là degli
alti muri che proteggono la categoria professionale, alzando impietosamente il
sipario su uno spettacolo desolante, che dovrà probabilmente essere oggetto di
ulteriori approfondimenti in relazione a recentissime divulgazioni.
Al decadimento ha
fortemente contribuito la degenerazione dei gruppi associativi, nati come
luoghi di elaborazione di idee e proposte e trasformatisi a mano a mano in
centri di puro, inflessibile esercizio di potere diretto a condizionare
l’attività del CSM e la vita interna degli uffici giudiziari, anche contro gli
associati dei gruppi antagonisti ed a scapito dei magistrati indipendenti; esso
non può tuttavia trovare la sua sola giustificazione nel prevalere della
correntocrazia e verosimilmente si spiega con il progressivo indebolimento
nella società, a tutti i livelli, dei valori civici; poiché quel che, nel bene
e nel male, la società esprime prima o poi penetra in ogni sua istituzione,
anche se separata, è sempre meno diffuso il “senso dell’essere magistrato” che
un tempo caratterizzava i componenti dell’Ordine Giudiziario.
Facendo leva sull’elemento
della integrità morale della maggioranza dei magistrati – certamente vero, anche se non è più possibile sostenere la
tesi consolatoria che quelle emerse sono isolate vicende di malcostume,
ascrivibili a poche mele marce – e attribuendo potere taumaturgico alle
iniziative penali, disciplinari ed amministrative assunte nei confronti di
alcuni, pochi protagonisti delle vicende oggetto delle investigazioni, i gruppi
associativi hanno formulato il solenne impegno di abbandonare le deprecabili pratiche
del passato e annunciato l’avvio di una nuova stagione di prassi virtuose.
Non è una speciale inclinazione
al pessimismo quella che induce ad essere scettici sull’esito di simili promesse.
L’esperienza dimostra che le istituzioni, di ogni natura, che siano interessate
da processi patologici particolarmente severi – e tale è la condizione dei
gruppi associativi giudiziari – sono incapaci di autorigenerazione e possono
rinnovarsi solo attraverso interventi esterni.
Solo una radicale riforma
legislativa che impedisca ai gruppi associativi di condizionare la selezione
dei componenti del CSM potrà far sperare che in futuro l’azione dell’Organo di
governo autonomo della Magistratura possa essere ispirata, con riferimento alle
sue diverse sfere di competenza, a principi di buona amministrazione, piuttosto
che a logiche di compromesso e prassi spartitorie tra schieramenti interni, talora
operanti in sinergia con poteri esterni all’Ordine Giudiziario.
Quanto poi a quella
generale caduta di tensione morale all’interno della Magistratura alla quale
prima accennavo, utile a contrastarla potrebbe essere un forte impegno
educativo, in particolare della Scuola Superiore della Magistratura, non
soltanto nella fase del tirocinio; presso la Scuola bisognerebbe parlare di
deontologia professionale tanto quanto si parla di diritto e di efficienza
dell’azione giudiziaria.
Utile, ma non sufficiente!
L’esercizio di un potere incisivo come quello giudiziario, connotato da vasta
discrezionalità nella interpretazione del diritto così come nella valutazione
del fatto, necessita di adeguati contrappesi. Non può esistere un potere senza
responsabilità, un potere cui non corrisponda un efficace sistema di controlli.
Quelli esistenti non lo sono
abbastanza. Occorrerebbe ridisegnare, com’era stato proposto in passato, la
mappa delle competenze per i procedimenti penali riguardanti i magistrati, che
nell’assetto attuale concede a questi ultimi una giustizia di eccessiva
prossimità; e, come pure era stato proposto, sarebbe probabilmente opportuno
prevedere un periodico obbligo di informazione al Parlamento sull’attività
svolta dai titolari dell’azione penale e disciplinare nei confronti dei
magistrati; e positivi effetti potrebbe avere una modifica delle disposizioni di
cui all’art. 18 della legge di ordinamento giudiziario che regolano le incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità dei
magistrati con esercenti la professione forense, oggi ispirate ad una
elasticità tale da vanificarne gli scopi.
Non pare tuttavia che ci
si stia avviando lungo un percorso di idonee riforme, tanto sul piano del
ridimensionamento del potere delle correnti, quanto sul piano della
individuazione di più efficaci controlli sull’attività giudiziaria.
Ho aperto l’intervento
evocando la pandemia che ha sconvolto il nostro Paese, come il resto del mondo.
Tra gli effetti del morbo che si è diffuso, certamente secondari rispetto alle
tante morti ed al disastro economico che sta provocando, ma comunque
significativi, ci sono la legislazione e l’amministrazione dell’emergenza.
I magistrati hanno in
generale fatto il loro dovere durante l’anno trascorso, al fine di coniugare,
come richiesto, l’esigenza di assicurare un accettabile livello del servizio
giudiziario, con quella di garantire la sicurezza sotto il profilo sanitario
degli operatori e degli utenti.
Lo hanno fatto tra le
difficoltà causate da una legislazione convulsa, che, per un certo periodo, ha
tra l’altro conferito poteri para-normativi ai capi degli uffici giudiziari anche
ai fini, di non poco momento, dell’adozione di linee guida vincolanti per la
fissazione e la trattazione delle udienze, con la conseguente istituzione nel
territorio nazionale, in un quadro caotico, di molteplici prassi diverse nello
svolgimento dell’attività giudiziaria, penale e civile.
Una legislazione che talora
non si è preoccupata di incidere sulle regole consolidate del rito, in
particolare di quello penale, soprattutto con riguardo al carattere della
oralità, con la previsione della celebrazione dei processi a distanza o con la
trattazione cartolare dei giudizi di appello, e pure con riguardo all’esigenza
della effettiva collegialità delle decisioni, con la previsione dello
svolgimento delle camere di consiglio attraverso collegamenti da remoto, in ossequio ad una urgenza di innovazione digitale che è
sicuramente condivisibile, ma che non può non reclamare cautela quando investe
il processo che, per dirla con Calamandrei, è creatura viva.
E lo hanno fatto il loro
dovere i magistrati – e qui mi riferisco in particolare ai capi degli uffici – tra
le difficoltà di gestione amministrativa generate per un verso dalla insistente
promozione del c.d. lavoro agile, che nel settore pubblico si è risolto nella
maggior parte dei casi in una mera finzione pietosamente negata, per altro
verso dalla necessità di corrispondere ai compiti sempre più estesi che gli
organi del Ministero della Giustizia ai capi degli uffici giudiziari hanno delegato.
Mai come durante questa
emergenza sanitaria gli organi giudiziari sono stati chiamati ad assumere
responsabilità non confacenti alla loro natura e scarsamente compatibili con il
principio della divisione dei poteri affermato nella Carta costituzionale, che nell’art.
110 attribuisce al Ministro della Giustizia e solo ad esso l’organizzazione e il
funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.
E’
speranza comune di tutti i cittadini che la pandemia cessi, ma nel mondo giudiziario,
tra gli operatori del diritto, alla invocazione della scomparsa del virus non
può non sommarsi la speranza che cessi al più presto uno stato di eccezione che
dura già da un anno e con esso tramonti la stagione dei provvedimenti di emergenza.
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Il Procuratore Generale
Roberto Saieva
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