Fin qui, sulla giustizia, c'è una riforma senza forma: manca ancora un testo, un progetto di legge timbrato dal governo. Eppure le discussioni s'accendono come cerini.
Ma senza un testo sul quale confrontarsi, di che discutono i discussant?
D'ipotesi, o al più di
proposte caldeggiate da questa o quella commissione ministeriale, e
immediatamente respinte da questo o quel partito. È l'esito d'una babele che
dura ormai da troppo tempo: qualunque idea divide prima ancora di venire
formulata.
In questa Babilonia, c'è però una
scelta che chiama in causa la ministra in carica, e insieme a lei le forze di
governo.
Dovranno decidere fra l'aspirina e il cortisone, fra una terapia minima e uno shock per curare la giustizia italiana.
Che sia malata, d'altronde, non
c'è dubbio. Un sondaggio Ipsos espone numeri eloquenti: quasi un italiano su
due (il 49%) dichiara di non avere più fiducia nella magistratura, mentre
nell'ultimo decennio il credito che circonda il potere giudiziario è sceso a
precipizio (dal 68 al 39%).
La giustizia - dice l'articolo
101 della Costituzione - viene "amministrata in nome del popolo"; ma
di questi tempi manca il popolo, resta soltanto l'amministratore.
Ed è un problema, anzi una
sciagura.
Perché il discredito offusca
l'autorità dei giudici, ne incrina la legittimazione.
E perché mette radici nella
stessa democrazia applicata alla cittadella giudiziaria, con i suoi tre
corollari: il pluralismo culturale, il metodo elettivo, il consenso come
fondamento del potere. Sennonché il potere del Csm è tutto in mano alle
correnti organizzate, che nessun sistema elettorale è riuscito mai a scalfire.
E le correnti decidono carriere, incarichi, prebende.
Dinanzi a questa crisi -
giuridica e morale - si fronteggiano due eserciti: i minimalisti e i
massimalisti.
Non sempre è agevole
distinguerli, giacché i primi spesso si travestono con i panni dei secondi, e
allora dettano riforme secondarie spacciandole per altrettanti rivolgimenti
normativi, quando si tratta in realtà d'aggiustamenti, di correzioni leggere
come cipria. I minimalisti sono conservatori, però hanno pudore a dichiararsi.
Tuttavia c'è almeno un elemento,
un indice esteriore, che li divide dai massimalisti.
Dipende dall'oggetto stesso della
riforma: la legge ordinaria o la Costituzione.
E dipende dalla profondità
dell'intervento, dalla sua attitudine a separare nettamente politica e
giustizia, anche attraverso soluzioni inedite, mai sperimentate. Come il
divieto di ricoprire funzioni giudicanti nei confronti del magistrato cessato da
una carica elettiva. O l'uso del sorteggio per formare il Csm. O il rinnovo
parziale dell'organo, allo scopo di rompere la morsa correntizia. O
l'attribuzione a un'Alta corte di giustizia del potere di decidere sugli
illeciti disciplinari dei magistrati, dato che la giurisdizione domestica ha
offerto pessime prove (nemo iudex in causa propria, dicevano i latini).
Su tutti questi aspetti la
commissione nominata da Cartabia ha detto no. Senza compromessi, senza
concessioni al fronte dei massimalisti. Proponendo viceversa l'ennesima legge
elettorale che dovrebbe trasformare in santi i diavoli. Riducendo le firme
necessarie per la presentazione delle candidature, quando il referendum di Lega
e Radicali le elimina del tutto. Aumentando a dismisura i membri del Csm (36+1,
come alla roulette).
E respingendo con toni un po' sdegnati l'idea
stessa del sorteggio, pur applicandola - contraddittoriamente - in un'ipotesi
minore (pag. 12 della Relazione).
Eppure il sorteggio, diceva
Montesquieu, rende concreta l'eguaglianza.
E i giudici formano una comunità
d'eguali, distinti solo per funzioni (articolo 107 della Costituzione).
D'altronde gli stessi costituenti prescrissero l'uso del sorteggio per il
nostro più alto tribunale, la Consulta, quando giudica sui reati del capo dello
Stato (articolo 135).
Non sarebbe una bestemmia,
quindi, estenderlo pure al Csm.
Si può fare a Costituzione
invariata, benché quest'ultima indichi il metodo elettivo: basta sorteggiare
una platea di candidati da sottoporre alle elezioni.
Per le correnti giudiziarie,
sarebbe un funerale.
Per la giustizia italiana, è un
funerale ogni riforma finta, edulcorata.
Una Babele che intende salvare la vita, con strumenti, ridicoli, insipienti, ad un cadavere in avanzato stato di putrefazione, il cui fetore si spande per tutta l'Europa. Lo fa a tutti i costi con piena coscienza di non voler fare niente. Si tratta di un sistema perfetto per una società corrotta fino al midollo. Qualsiasi piccola modifica tocca interessi stratosferici. Le spaventose sofferenze inferte ad un popolo bue, inerme fanno, da substrato alle grandi perfidie di gentaglia senza onore.
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