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sabato 30 agosto 2008

La ragazza del lago






di Giuseppe Bianco
(Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze)





Da circa due anni non posseggo un televisore. E dunque mi risparmio la televisione.

Da diversi giorni sento poco la radio.

Non compro più giornali, salvo alcune riviste (e fra queste divoro Internazionale, un settimanale di articoli esteri sui temi dell’intero mondo conosciuto, in cui all’Italia - ovviamente - viene dedicato lo zero virgola o poco più).

Internet , invece si.

E libri. Tutti rigorosamente comprati nei mercatini dell’usato, per sfuggire alla deriva asfittica dell’attuale mercato editoriale.

Guardo spesso dvd.

Internet, libri usati e dvd sono il mio personale antidoto all’autismo incipiente.

Voi direte: “Ma guarda questo ... ma che ci importa?”.

No, era solo per dirvi che ieri - appunto in dvd - ho visto La ragazza del lago.

Bellissimo.

Si tratta - per chi non lo sappia - di una vicenda ambientata in una cittadina del Nord Italia.

C’è una ragazza uccisa in riva al lago, appunto. E le indagini.

E c’è un commissario di Polizia, il bravissimo Toni Servillo. E c’è anche il Pubblico Ministero.

Per chi non lo sappia ancora, diciamo subito che secondo il codice italiano le indagini le dirige il PM.

E la polizia giudiziaria si attiene alle sue direttive.

Ovviamente, c’è una sinergia necessaria. Ognuno mette la sua esperienza.

Il PM vigila, controlla, dirige.

Facendo attenzione che vengano raccolte solo le prove utili in un eventuale processo, che vengano raccolte nel modo giusto, in modo da evitare delle invalidità.

E peraltro il PM - conoscendo la giurisprudenza dei suoi colleghi giudicanti - può meglio di chiunque capire quale sia la strategia investigativa più compatibile con quella giurisprudenza. E’ meglio prevedere le risposte difensive.

Insomma, è per tutte queste cose che il codice del 1988 volle che a dirigere le indagini fosse un magistrato.

Perché solo così - stante il complicatissimo rito processuale italiano - era ed è possibile farle senza cadere nelle trappole delle mille eccezioni e nullità del rito nostrano.

Tante ragioni. Ma soprattutto ce ne è un’altra: il PM è indipendente dal potere politico. La polizia no.

E la presenza del PM evita che in certe indagini delicate gli “ambienti del ministero” ci mettano lo zampino grosso.

Insomma, le indagini vengono svolte da PM e polizia. E il PM è figura fondamentale.

Torniamo al film.

La figura dominante è il commissario Servillo. Forte, coraggioso, acuto, ecc.

Poi c’è anche un Pubblico Ministero. Anzi - come dire? - una Pubblica Ministeressa, una donna.

La quale compare in cinque scene del film:

- nella prima - durante il sopralluogo dell’omicidio - se ne sta in disparte e dice che si sente male perchè non sopporta la vista dei morti e non è come il commissario che invece è forte e macho, ecc.;

- nella seconda azzarda una ipotesi investigativa e si becca la rispostaccia del commissario che invece è bravo ed intelligente e capisce tutto lui;

- nella terza interroga un sospettato. O meglio fa da assistente al commissario che è tanto bravo e sa lui le domande da fare (qui lo sceneggiatore s’è dimenticato l’avvocato difensore o ignorava che deve essere presente per legge);

- nella quarta il commissario è dentro la casa dell’assassino e lo sta interrogando per farlo confessare.

La Pubblica Ministeressa è invece fuori, vicino alla macchina della polizia.

Aiuta l’autista della macchina del Grande Commissario a fare la guardia alla macchina suddetta.

- nella quinta, dopo che l’assassino ha confessato, la Pubblica Ministeressa si avvicina al Grande Commissario e apre bocca solo per dirgli che è finalmente rimasta incinta di suo marito e che avrebbe piacere di invitare l’Eroe ai festeggiamenti.

In sintesi, i milioni di spettatori di questo film ne ricavano la seguente lezione subliminale:

- che le indagini le fanno i poliziotti;

- che i pubblici ministeri sono figure insignificanti buoni solo per fare compagnia agli autisti delle auto di servizio;

- e che le donne devono stare a casa a fare la calza.

Ma - domanda - se il Pubblico Ministero in quanto tale è solo un mezzo deficiente, qualcuno mi spiega perchè hanno ammazzato Livatino e Costa e Ciaccio Montalto e i tanti, tanti altri Pubblici Ministeri sulla cui figura e sul cui ricordo finiscono col buttare fango - per ignoranza più che per mala fede – perfino film come questi?

Anche attraverso queste cose passa la mortificazione della magistratura, voluta e imposta dalla videocrazia imperante.

Si esalta la figura del poliziotto, dipendente dall’Esecutivo.

E si mortifica quella del magistrato, che dal potere politico è indipendente.

Si dirà che non era certo questo lo scopo del film. Ed è vero.

E’ un bel film.

Ma la scelta dello sceneggiatore e del regista riflette un luogo comune prodotto da quindici anni di deformazione mediatica; questa si voluta da un ceto politico che vuole liberarsi da ogni controllo di legalità decente.

Non è che per caso bisogna stare alla larga anche dai dvd?

E come passerò le serate, io, povero PM mezzo deficiente?

Telecamera nascosta – Ciak 2: Il Segreto dei Servizi





di Andrea Falcetta
(Avvocato del Foro di Roma)




Si lo so che l’articolo che segue è “scomodo” e forse anche pericoloso per un pesce piccolo come me (la definizione non è mia) ma se davvero questo blog dovrà chiudere non voglio conservare il rimpianto di avere avuto un luogo in cui comunicare liberamente il mio pensiero senza averlo sfruttato fino in fondo.

Il Segreto dei Servizi

L’idiozia non è un reato e tuttavia sarebbe bello poterla processare.

Esercitiamoci qui tra noi cari amici del blog; ecco il fatto che richiama le nostre intelligenze a fungere da giudici:

-a) il settimanale Panorama (ma non erano solo i giornali di sinistra a fare queste cose deplorevoli in combutta con i magistrati comunisti?) pubblica oggi alcune intercettazioni di telefonate di Romano Prodi, principale avversario politico del Legislatore Silvio Berlusconi;

-b) fango e mondezza, come spesso accade, poca roba e sicuramente nulla di penalmente rilevante, ma come recita un famoso detto “calunniate calunniate, qualcosa resterà”;

-c) tuttavia ecco il colpo di scena: Silvio Berlusconi, invece di gettarsi a pesce sulla cosa per ottenere un vantaggio politico, nobilmente dimostra all’Italia intera di avere il senso delle regole democratiche, lui non ricorrerebbe mai a certi mezzucci per combattere il proprio avversario, immediatamente emana (a tempo di record) un comunicato stampa in cui esprime la più sincera e profonda solidarietà al suo avversario di sempre;

-d) la via per resuscitare l’iter parlamentare della riforma della legge sulle intercettazioni è quindi ormai spianata, il senso del messaggio è il seguente: “è accaduto a Prodi, può accadere a chiunque, se Berlusconi cambia questa legge non lo fa per difendere se stesso (non sarà dunque l’ennesima legge ad personam) ma per difendere un diritto che, nella sua magnanimità, riconosce persino ai propri avversari”;

-e) finalmente tutti i liberi professionisti che non pagano le tasse, i direttori di banca che hanno un’amante, le casalinghe che sottovoce bisbigliano al telefono critiche e lamentele (e certe volte persino qualche parolaccia, Dio le perdoni) contro i potenti della Politica, i Poliziotti che non hanno pagato una multa stradale insomma chiunque di noi abbia commesso almeno un peccato e perdippiù lo abbia ingenuamente confessato al telefono (cioè tutti), dormiranno sonni tranquilli, il vicino di casa, la moglie, il Fisco o il proprio Capo non saranno mai informati da qualche giornalista senza scrupoli, e ciascuno serberà per sempre, al riparo da sguardi indiscreti, il proprio “terribile” segreto.

Allora mi domando, perchè mai proprio la “parte lesa” cioè Romano Prodi appare oggi la sola ed unica voce fuori dal coro?

Ecco la sua dichiarazione pubblica: “Non vorrei che questa artificiosa vicenda avesse la finalità di favorire una riforma della legge sulle intercettazioni tale da privare la Magistratura di un prezioso strumento di indagine ... le mie telefonate, tutte le mie telefonate, possono essere pubblicate su tutti i giornali del mondo senza limite alcuno, non ho conversazioni da nascondere”.

Sarà scemo forse?

No, affatto, Prodi è tutt’altro che uno scemo, solo che ha mangiato la foglia.

Prima della guerra in Iraq fu diffuso un rapporto dei Servizi Segreti di Sua Maestà che denunziava il possesso, da parte di Saddam Hussein (subito dopo prontamente “giustiziato” da una Corte Internazionale che di diritto e di garanzie della Difesa ne capisce, o comunque ne pratica, assai poco), di armi di distruzione di massa: il giornalista inglese che aveva svelato la falsità di quel rapporto fu “suicidato”.

Anche i componenti della banda Baadher e Mahinoff (perdonate lo spelling impreciso) furono “suicidati” in Germania la notte stessa dell’arresto, tutti insieme allo stesso orario, sebbene si trovassero in celle diverse.

Una miriade di suicidi e di incidenti automobilistici (attenti ragazzi, io viaggio spesso in auto ma non sono un deficiente, ho CD disseminati a decine tra amici giornalisti, Notai e persino Magistrati) accompagna anche ogni passo in avanti verso la verità sulla battaglia aerea di Ustica, quella in cui per far fuori Gheddafi si finì per uccidere più di 80 persone.

E poi le rivolte nella ex Jugoslavia, i Governi fantoccio nel medio oriente, la diffamazione ed il clima di violenza contro galantuomini del calibro di Luigi Calabresi, insomma questi sono i Segreti dei nostri Servizi, anche se ogni tanto il migliore Agente CIA che sia mai esistito ci conferma a distanza di 25 anni (sempre 25, chissà come mai), con le sue uscite pubbliche, che avevamo capito bene e che dunque così stupidi non siamo.

Ora io mi rendo conto che un Popolo i cui libri di Storia abbiano come prima pagine le Guerre Indiane di John Wayne possa faticare ad immaginare l’esistenza di intelligenze più sottili e “scafate” (come se dice qui arRoma), e tuttavia questi primi anni di cosiddetta “globalizzazione” dovrebbero almeno avere insegnato che ogni singolo cittadino italiano, anche l’ultimo nella scala sociale, ha una cultura ed una consapevolezza delle cose impossibile da raggirare con giochetti così evidenti.

Per favore, mi rivolgo con affetto e anche qualche (sia pur sofferta) riconoscenza, a quella parte dei Servizi Segreti che ha legami troppo stretti con quella parte della CIA che a sua volta ha legami troppo stretti con il ramo secco e ormai stantio del Partito Repubblicano del Serial Killer (quello che da Governatore del Texas ha mandato sulla sedia elettrica 88 persone), e lo faccio con tutta l’umiltà che la rabbia e l’orgoglio (scusami Oriana ma secondo me eri fuori strada ed hai sbagliato) di essere Italiano mi permettono di adoperare: quando volete che in Italia sia fatta una riforma, di qualsiasi genere e su qualsiasi materia, per favore smettetela di fare questi giochini e provate invece a trovare un Politico capace di spiegarne alla gente il perchè e il percome, dialogando, perchè come si dice a Napoli “accà nisciun’è fesso …”.

Nessuna casalinga eventualmente infatuata di Raoul Bova perderebbe davvero suo marito se la cosa uscisse sui giornali, quella delle intercettazioni non è una cosa che riguarda noi cittadini lontani dal Potere, dunque inutile tentare di chiamarci dentro.

Rendetevi conto invece che questo modo di agire vi rende visibili, riconoscibili e vi fa fare la figura dei deficienti davanti a un Popolo che ha due millenni di Storia e che per la metà di questa propria Storia ha governato il mondo senza bisogno di fare tutti i morti che ha fatto l’America dei Repubblicani negli ultimi cento anni.

Se ad ogni cosa che fate per “imbonirci” vi riconosciamo, ciò vuol dire che vi abbiamo “sgamato”, quindi la domanda da porsi è la seguente: dov’è il Segreto dei vostri Servizi?

Non vi rendete conto che, andando avanti così, siamo noi che vi intercettiamo e non viceversa?

Con affetto e, come dicevo prima, una qualche (sia pur sofferta) riconoscenza.

giovedì 28 agosto 2008

L’irrinunciabile separazione dei poteri





di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)




Nel nostro Paese ormai è impossibile trattare razionalmente qualsiasi tema.

Il cosiddetto dibattito pubblico si articola ormai esclusivamente in “campagne di stampa” sfrontatamente false, nelle quali vengono urlate con una arroganza che dovrebbe riservarsi a miglior causa le menzogne più paradossali.

Appare sempre più evidente che non esiste più alcun confronto veramente democratico su nulla.

Coloro che hanno il potere ne fanno l’uso che vogliono – tendenzialmente il peggiore – e il popolo viene solo “tenuto a bada” con falsi ragionamenti, falsi problemi, false emergenze.

Questa è stata l’estate dell’annuncio della riforma tombale della giustizia.

Sono decenni che il potere politico non fa altro che riformare la giustizia – guarda caso sempre e solo nel senso di fare in modo che funzioni sempre meno – e ora si annuncia la riforma “definitiva”.

In linea con il sistema di menzogne istituzionalizzate del quale ho appena detto, l’occasione per l’annuncio è stata la scoperta da parte della magistratura di un sistema di gravissima corruzione nella sanità dell’Abruzzo, che ha portato all’arresto di diversi politici potenti.

NESSUN POLITICO ha dedicato alcuna attenzione alla corruzione scoperta. Tutti si sono concentrati sulla “inaccettabilità” (chissà perché) dell’arresto del Presidente Del Turco, dicendo chiaramente che (chissà perché) “non poteva essere colpevole”.

Il Presidente del Consiglio ha annunciato immediatamente che questo episodio era l’ennesima prova della necessità della riforma tombale.

In poche settimane è emerso che gli arresti erano del tutto legittimi e che lo stesso Del Turco non aveva nulla da dire in propria difesa (basti considerare, sul punto, che ha addirittura RINUNCIATO al ricorso al c.d. Tribunale della libertà).

A questo punto, il caso Del Turco è scomparso dai giornali (perché i giornali non hanno nessun interesse a raccontare della corruzione dei potenti), ma la riforma tombale è rimasta.

E’ difficile dire qualcosa su di essa.

Tutta l’intellighenzia del Paese, che non sogna altro che servire il potere (per averne dei benefici), continua a dire che non si può criticare una riforma che ancora non c’è.

Sarà anche vero, ma ciò che è del tutto assurdo nel nostro Paese è che si annuncino (minaccino!) riforme di enorme rilievo politico e sociale non solo senza indicarne le vere ragioni e i contenuti, ma addirittura indicando ragioni palesemente false e pretestuose.

L’unica cosa che sa fare il potere è “pubblicità”: il Presidente del Consiglio, infatti, ha trovato uno sponsor, postumo, alla riforma. Ha detto che sarà quella pensata da Giovanni Falcone. Ogni commento è superfluo.

Un’altra cosa tipicamente italiana è “far passare” riforme assurde indicando dei problemi reali, ma offrendo soluzioni che non solo non li risolvono, ma li aggravano.

Sul punto, basti considerare il discorso sul problema del C.S.M. “politicizzato”, che si dovrebbe risolvere aumentando nel C.S.M. i membri di nomina politica (anche Violante è corso a dirsi d’accordo).

Sembra veramente una barzelletta: per risolvere il problema della politicizzazione del C.S.M., lo si politicizza ancora di più.

Come se, fra l’altro, nel nostro Paese tutti gli enti controllati della politica avessero dato fino ad oggi prova di imparzialità ed efficienza!

L’altro tema è quello della obbligatorietà dell’azione penale.

Si assume che le Procure esercitino una facoltatività di fatto, dovuta alla impossibilità materiale di perseguire tutti i reati, e si propone che sia la politica a dire cosa si persegue e cosa no.

Si tratta dell’ennesimo imbroglio.

Illustrarne analiticamente le logiche perverse richiederebbe troppe pagine.

Ciò che mi preme sottolineare è solo come la separazione dei poteri sia assolutamente irrinunciabile e come sia, invece, già molto “rinunciata” e ancora di più in corso di “rinuncia ulteriore”.

Per illustrare la cosa, ricorrerò a un esempio.

Si immagini che ci siano due persone affamate e che abbiano a disposizione una pizza.

Si tratta di dividerla.

Ognuno ne vorrebbe per sé la maggiore quantità possibile e si deve trovare un criterio di gestione della divisione che dia garanzie a entrambi.

L’unica soluzione sicura è quella della “separazione dei poteri”.

Uno dei due affamati taglierà la pizza in due parti e l’altro distribuirà le fette.

Solo così è possibile essere sicuri che chi taglierà la pizza, la taglierà in parti uguali.

Sapendo che sarà costretto a subire la regola che porrà, sarà indotto a porne una giusta.

Se, invece, chi taglia le fette potesse anche scegliere come distribuirle, sarebbe molto alto il rischio che egli tagli le fette in maniera diseguale e si scelga quella più grande.

Se uno dei due affamati potrà tagliare la pizza e scegliersi la fetta, l’altro non avrà alcuna speranza di mangiarne anche solo un po’ e la sua condizione sarà quella di chi, per sopravvivere, non potrà fare altro che invocare compassione nella sua controparte.

Questo è il meccanismo della “separazione dei poteri” fra legislativo e giudiziario: alcuni fanno le leggi, altri le applicano.

Se chi fa le leggi sa che vi sarà soggetto anche lui, le farà le più eque possibili.

Se chi fa le leggi saprà, invece, che potrà anche non applicarle a se e ai suoi amici, allora farà ciò che vuole.

E’ la condizione propria dei regni prima della rivoluzione francese: allora i re, come ci è stato insegnato alle scuole medie, erano legibus soluti.

In mancanza di separazione dei poteri manca il primo dei requisiti di una democrazia.

Questo è ciò in cui già in grande misura siano, in Italia, e ciò verso con grande incoscienza e disonestà ancora di più andiamo.

E le menzogne usate per “giustificare” questo andazzo sono veramente illogiche.

L’espediente principale è quello di diffamare la magistratura.

Tutti i giornali al soldo del potere hanno condotto in questi anni e da ultimo con particolare violenza in questi ultimi mesi, una campagna di delegittimazione della magistratura tendente a far credere che la colpa di tutte le inefficienze della giustizia sia dei magistrati e che il potere giudiziario sia in mano a dei criminali.

L’argomento non regge sotto un duplice profilo, formale e sostanziale.

Sotto il profilo sostanziale, sembra succeda qualcosa di simile all’apologo del bue che dà del cornuto all’asino.

Se, infatti, fosse vero che la magistratura non dà buona prova di sé, che dire della politica?

Se ai magistrati si contestano inefficienze e faziosità, che si dovrebbe dire dei politici?

Ma ciò che è decisivo è l’argomento logico.

Tornando all’esempio della pizza da dividere in due, il fatto che, in ipotesi, uno dei due affamati o entrambi siano dei delinquenti non solo non fa venir meno l’esigenza di separare i loro poteri sulla pizza, ma anzi la rafforza.

Diceva qualcuno che anche se sulla terra fossero rimasti solo San Francesco e Santa Chiara ugualmente sarebbe stato doveroso porre una legge a regola dei loro rapporti.

Ma a maggior ragione se riteniamo che siano rimasti solo Barabba e Giuda si impone che costoro operino secondo regole.

E quanto più i due affamati della pizza risultino dei cialtroni pericolosi, tanto più sarà necessario evitare che lo stesso affamato tagli la pizza e scelga la fetta.

Quindi, anche se la magistratura, per una misteriosa e sfortunata casualità, fosse composta solo da cialtroni, l’esigenza di tenere separati i poteri resterebbe intatta e, anzi, sarebbe ancora più forte.

La separazione dei poteri, in sostanza, è IRRINUNCIABILE.

Vedere che ci avviamo a rinunciarci ancor più di quanto si è già fatto finora mi sembra veramente una terribile prospettiva.

Si badi: non per me o per i miei colleghi magistrati, ma per tutti noi come cittadini.

Sul punto, mi permetto di dire, concludendo questo sfogo, che, francamente, mi sono stufato di difendere le ragioni del diritto, della costituzione e della democrazia, come se fossero un interesse privato dei magistrati.

Si tratta di beni preziosi del popolo.

Il popolo non li riconosce come tali ed è contento di svenderli in cambio dello sgravio dell’ICI?

Faccia pure.

A me lo stipendio lo daranno uguale a prima.


Costi pubblici, profitti privati





di Tito Boeri
(Economista)




da La Repubblica del 28 agosto 2008


Adesso sappiamo cosa il governo intenda per “economia sociale di mercato”.

Non ci sarà bisogno di aspettare il verdetto della commissione di studi annunciata da Tremonti per discutere l’attualità del messaggio della scuola di Friburgo.

Economia sociale di mercato nell’accezione dell’esecutivo consiste in un metodo scientifico per socializzare le perdite e privatizzare i profitti.

Questo principio è stato seguito meticolosamente nella gestione della crisi Alitalia.

Come spiegato ieri con dovizia di particolari su queste colonne da Eugenio Scalfari e sul Corriere della Sera da Francesco Giavazzi, il piano predisposto per il “salvataggio” di Alitalia intende trasferire sui contribuenti italiani i debiti della compagnia.

Non sappiamo ancora se Bruxelles permetterà questa operazione.

E’ molto probabile che così non sia anche perché il piano viola la condizione posta dalla Commissione europea nell’autorizzare quel prestito ponte che ha permesso ad Alitalia di dilapidare in pochi mesi altri 300 milioni di euro, provenienti dalle casse dello Stato.

Il governo italiano non avrebbe dovuto permettere alcuna espansione della compagnia, mentre il piano predisposto da Banca Intesa prevede l’incorporazione di Air One.

Rimangono comunque le intenzioni.

Il piano prevede che la “good company”, scorporata dalla “bad company” venga consegnata alla cordata italiana, libera di debiti e di esuberi.

Questo ci porta al secondo terreno di socializzazione dei costi, quello forse più pesante.

Il piano prevede tra i 5.000 e i 6.000 esuberi.

Sono circa il triplo di quelli prospettati cinque mesi fa da Air France-Klm.

Oltre a perdere quella grande occasione, il governo non ha fatto nulla in questi mesi per riformare gli ammortizzatori sociali, pensando anche più in là della crisi Alitalia, con una recessione alle porte con la disoccupazione che è tornata ad aumentare.

Agli annunci di voler rivoluzionare il nostro mercato del lavoro, muovendosi nel tracciato della flexicurity è seguito solo il blitz estivo che ha impedito l’assunzione alle Poste dei lavoratori con contratto a tempo determinato che avevano fatto ricorso per violazione delle condizioni contrattuali.

In quel caso si è cambiata la legge prima che i ricorsi andassero a buon fine imponendo all’azienda l’assunzione a tempo indeterminato di molti lavoratori.

Si è voluto applicare al mercato del lavoro lo stesso metodo applicato dal nostro presidente del Consiglio nell’affrontare i suoi problemi con la giustizia: intervenire su processi in corso.

L’irruenza (al limite dell’incostituzionalità) di quel provvedimento era stata allora giustificata dalla necessità di ridurre il personale delle Poste.

Ora abbiamo però saputo che le Poste dovranno assorbire gli ex-dipendenti Alitalia.

Simile destino dovrebbe essere riservato ad altre aziende a controllo pubblico o nella stessa amministrazione pubblica verso cui il personale in eccesso della compagnia di bandiera verrà ricollocato, meglio “dirottato”, nel nome del recupero di efficienza nella gestione del personale.

E molto probabile poi che verranno, una volta di più, definiti con leggi ad hoc ammortizzatori sociali più generosi di quelli riservati ai comuni mortali per affrontare la crisi Alitalia, ovviamente a carico del contribuente.

Che il governo non si faccia problemi a ricorrere a leggi ad hoc in questo caso lo sappiamo già: intende infatti cambiare le procedure previste dalla legge Marzano per l’amministrazione straordinaria, permettendo la separazione fra la “bad” e la “good” company.

Il terzo terreno su cui si procederà a socializzare i costi è quello riservato ai consumatori-viaggiatori italiani, condannati a pagare di più per salire sull’unica compagnia (è questo il significato di bandiera?) con cui sarà loro permesso di viaggiare.

Speriamo solo che venga loro risparmiato il messaggio “grazie per avere scelto di viaggiare con noi” oggi riservato a chi si serve di Trenitalia.

Come spiegato da Andrea Boitani e Carlo Scarpa su lavoce.info, il piano di Banca Intesa contempla l’applicazione dell’articolo 25 della legge 287/90 che prevede in caso di “rilevanti interessi generali dell’economia nazionale” operazioni di concentrazione (leggi il monopolio della ricca tratta Fiumicino-Linate, la terza in Europa per volumi di traffico) che violino la normativa antitrust.

Non sappiamo se anche il testo della legge verrà cambiato.

Dovrebbe appellarsi agli “interessi generali della cordata”, anziché anche a quelli dell’economia nazionale, dato che l’intento dei “salvatori” è proprio quello di rivendere Alitalia ad Air France o altra compagnia europea, possibilmente realizzando dei profitti.

Se mai ci saranno questi profitti saranno rigorosamente privati, nel senso anche di escludere gli azionisti di Alitalia.

Non è la prima volta che per affrontare crisi aziendali si ricorre alla separazione di quelle attività che sono ancora economicamente vantaggiose dalle attività che sono cronicamente in perdita.

Ma i proventi derivanti dalla vendita della “good company” servono in casi simili a coprire i debiti della “bad company”, riducendo gli oneri per lo Stato e gli azionisti.

In questo caso la good company verrà regalata a un gruppo di imprenditori che si occuperanno di trovare il migliore acquirente.

E questo l’unico mercato che viene concesso.

Solo a loro.



Forum RAI chiusi – Lettera aperta alla Pubblica Opinione.



Pubblichiamo una lettera aperta inviataci da alcuni utenti dei Forum della Rai.


Gentili Amici,

siamo un gruppo di utenti dei forum RAI e stiamo per raccontarvi una storia di ordinaria censura.

Da un paio di anni, i forum RAI sono stati lasciati senza moderazione, cosa che ha permesso l’invasione di ogni tipo di provocatori. Abbiamo cercato di contattare la Team Community, le Redazioni, per sollecitare un intervento, senza ottenere alcuna risposta.

Qualche settimana dopo le ultime Elezioni Politiche, il forum di Anno Zero (quello da noi più frequentato) ha, improvvisamente, chiuso, senza alcun preavviso, per dar spazio al più rassicurante blog.

Nel frattempo, alcuni di noi portavano avanti una battaglia contro la “Censura Legale”, sul forum di Report. Inutile dire che le uniche risposte che ci sono arrivate sono stati ban, manomissioni delle nostre discussioni, cancellazioni delle stesse, mentre è stata garantita l’anarchia continuata a vantaggio di alcuni disturbatori, fino alla chiusura del forum.

Ci siamo, allora, trasferiti sul forum di Tg3 Politica. I provocatori, anche questa volta, ci hanno seguiti, continuando la bagarre, senza alcuna considerazione per il diritto di esprimersi di tutti.

Anche qui, la mancanza di moderazione ha permesso che fossimo insultati, sbeffeggiati, minacciati, accusati di voler rendere uno spazio pubblico terra comunista.

Scopo dichiarato: far chiudere anche quel forum.

Dopo un paio di mesi, Libero pubblica un articolo, al quale hanno fatto seguito dichiarazioni indignate di espomenti del Pdl e il silenzio dell’opposizione che non si oppone (ombra del Governo, più che Governo ombra), in cui accusa, genericamente, gli utenti del forum di Tg3 Politica di dire cose su Berlusconi che “non vorresti mai leggere”, addirittura tacciandoci di filobrigatismo e amenità simili.

Libero, senza preoccuparsi di controllare quanto andava affermando, ha, anche, citato il “Club Anti Filibusta” (uno dei gruppi di provocatori), facendolo passare per un epiteto che noi utenti “rossi” avremmo dato al Governo.

A distanza di pochi giorni, la Community RAI è risultata inaccessibile, per due giorni. Motivazione ufficiale: manutenzione. Alla sua riapertura, il forum di Tg3 Politica non esisteva più. Inoltre, non era più possibile usufruire della messaggeria privata.

Abbiamo inviato delle mail al Direttore Di Bella e alla sua Redazione, anche questa volta senza ricevere risposta.

Volendo continuare a dibattere i temi che ci stanno a cuore e salvaguardare il nostro diritto alla libera espressione, ci siamo trasferiti sul forum di Uno Mattina. Siamo durati due giorni.

Oggi, quel forum è stato chiuso e per tutti gli altri è abilitata la sola lettura.

Facciamo notare che, insieme ai forum, sono sparite pagine e pagine di nostri interventi, informazioni da noi cercate, perdendoci tempo ed energie, tutti i nostri pensieri.

A leggere il Regolamento di Rainet, che dobbiamo firmare per poter usufruire dei suoi “servizi”, sembra di leggere la Costituzione della Birmania.

Tutto è loro permesso, cancellare interventi e utenti senza preavviso, utilizzare i nostri scritti, oltre a non dire chi gestisce i nostri dati (da un anno, pare che la gestione sia affidata a Società esterne a noi ignote) e quale uso ne faccia.

Non possiamo credere che nessuno, oltre noi, si ribelli; non possiamo credere che i primi ad accettare questo vergognoso atteggiamento censorio siano i Giornalisti, proprio quelli che dovrebbero salvaguardare la libertà di Informazione.

Noi, mentre invitiamo voi tutti a unirvi a noi, in questa battaglia per la libertà e la Democrazia, dichiariamo che inizieremo, da subito, la valutazione di non acquistare i prodotti di quelle Aziende che si fanno pubblicità, sui siti della RAI, finchè non ci verrà ridato uno spazio che, essendo pubblico, appartiene a tutti.


Fabio Alemagna (nick Ambaradan e Ambaradanx)
Francesco Beato (nick frankmente)
Gastone Cagliero (nick stigas)
Massimiliano Capanna (nick marx75)
Giusy Cascio (nick Matinee)
Marisa Conte (nick Marisetta)
Renato Comolli (nick panoramix)
Laura Rivera Carnesi (nick ielauriv)
Simona Fierro (nick Simona_ReArte)
Uriele Flamigni (nick foki)
Marika Marchi (nick marikkina)
Aparecido Versolato (nick Versolato Aparecido)



mercoledì 27 agosto 2008

La Cassazione dà torto ai Mastella (e tutti fingono di non accorgersene)




di Uguale per Tutti



Il paradosso di questi tempi è che tutti danno addosso alla magistratura non per le cose di cui dovrebbe vergognarsi (per esempio la condanna di Luigi De Magistris e il trasferimento di Clementina Forleo), ma per ciò per cui dovrebbe ricevere medaglie al valore.

Dunque, invece di dare una promozione sul campo ai magistrati che hanno portato in carcere il Presidente della Regione Abruzzo, per avere posto così fine a quello che, a tutt’oggi e salvo quanto potrà emergere in futuro, appare un vergognoso sistema di corruzione in danno delle finanze pubbliche e della salute dei cittadini, si sostiene che quell’arresto è la prova che bisogna riformare la giustizia.

Si confessa, in sostanza, che l’obiettivo della riforma è impedire alla giustizia di fare giustizia. Impedirglielo – e qui è il paradosso – ancora di più di quanto già non si sia fatto con decenni di riforme tutte sistematicamente contro la giustizia.

Così, è accaduto solo pochi mesi fa – nel gennaio di quest’anno: a questo link uno scritto di Felice Lima su quelle vicende – che tre quarti del Parlamento ha applaudito un Ministro della Giustizia inquisito e marito di una inquisita, che, fingendo di farlo per motivi istituzionali, faceva cadere un Governo per un calcolo politico consistente nel credere di sapere che ciò lo avrebbe messo in condizioni di ottenere un vantaggio politico alle elezioni conseguenti.

In occasione di quella vergognosa gazzarra che ha disonorato il Parlamento e chi lo occupa, si è sostenuto – con la grancassa dei giornalisti al soldo del potere – che la signora Lonardo/Mastella era vittima di una scorrettezza dei magistrati.

Ci si è detti – come per Del Turco e come sempre – sicuri (non si sa sulla base di che e contro le evidenze documentali) che si era di fronte a una persecuzione giudiziaria.

Si sono linciati sui giornali tutti i magistrati che avevano fatto semplicemente il loro dovere.

Si sono minacciate richieste milionarie di risarcimento danni.

Il Mastella si è chiesto accorato “Quando arriverà la sentenza di proscioglimento chi mi ripagherà del sogno di essere ministro della Repubblica?” (Reuters) (come se fare il Ministro non fosse un servizio, ma, appunto, un sogno).

Come accaduto mille altre volte, anche in questo caso i fatti sono contro questa classe dirigente nemica della giustizia e amica di ogni genere di pregiudicato.

Così la Corte Suprema di Cassazione, con una sentenza depositata l’altro ieri – la n. 33843 del 2008 – ha detto che la custodia cautelare in carcere della Lonardo/Mastella era del tutto legittima e doverosa e che alla signora che tanto ci ha afflitti con le sue manfrine (invece che chiedere scusa e vergognarsi in silenzio) non risarciremo un bel nulla.

Purtroppo, piuttosto, non avremo da lei il risarcimento che ci dovrebbe.

La notizia di questa importante pronuncia della Cassazione è stata data, ovviamente, dai giornalai del potere (cioè la sostanziale totalità della stampa in giro per le edicole) a bassissima voce.

Riportiamo qui sotto l’articolo con il quale La Repubblica ha dato la notizia, con poche righe ben nascoste in DODICESIMA pagina, metà delle quali (titolo compreso) dedicate alle assurde tesi dell’indagata.

E pubblichiamo – a questo link – il testo integrale della sentenza della Cassazione, per chi volesse farsi un’idea adeguata di come e perché pretendere che il Direttore Generale di una ASL fatto nominare dal Partito nomini a sua volta due primari (di neurochirurgia e di cardiologia) indicati dal Partito non sia “fare politica”, ma sia “crimine” (nello specifico, concussione). E ciò senza dire di come sia ridotto un Paese nel quale i ferri in neurochirurgia e cardiologia non li diamo a chi li sa usare, ma a chi è amico dei Mastella.

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La Cassazione sulla moglie di Mastella: confermati gli indizi di colpevolezza. La difesa: “Non è una sentenza di condanna”. “Lonardo faceva clientelismo per conto dell’Udeur”.


di Roberto Fuccillo
(Giornalista)


da La Repubblica del 26 agosto 2008


Napoli – Sandra Lonardo Mastella faceva clientela e abusava della sua posizione di presidente del Consiglio regionale.

Non è una conclusione processuale, ma una ipotesi accusatoria di cui ieri la Corte di Cassazione ha confermato la plausibilità, riportando a galla la vicenda, che dall’arresto di lady Mastella aveva portato fino alla caduta del governo Prodi.

Si tratta delle motivazioni, depositate ieri, della sentenza con la quale a giugno la Corte aveva respinto un ricorso della Lonardo contro la decisione del Tribunale del riesame di Napoli, che a gennaio le aveva tolto gli arresti domiciliari ma confermato un provvedimento restrittivo, l’obbligo di dimora a Ceppaloni.

«Non è una sentenza di condanna, né potrebbe esserlo – fa notare subito l’avvocato Titta Madia – E un giudizio di legittimità, non di merito, non accerta i fatti concreti».

Sicchè, «in attesa dell’accertamento dei fatti, la signora Lonardo continua a rimanere serena».

Le ultime righe delle sentenza sono però nette: «I motivi con cui i difensori hanno contestato la sussistenza dei gravi indizi a carico dell’indagata devono ritenersi infondati».

La Cassazione rievoca le pressioni fatte al direttore dell’Ospedale di Caserta, Luigi Annunziata, per la nomina di due primari cari all’Udeur. Rileva che la Lonardo «in più occasioni aveva manifestato la volontà di defenestrare il direttore», giustifica i colleghi del riesame, nota che l’ipotesi di concussione è comunque sostenibile per una attività volta a «compromettere il regolare funzionamento della pubblica amministrazione».

Resta al palo la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione: i legali avevano mantenuto il ricorso, nonostante la successiva rimessa in libertà dell’ assistita, anche in vista di una richiesta in tal senso a giudizio concluso.



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La foto è tratta dal sito dell'Ansa.

La sentenza della Cassazione nei confronti della Lonardo/Mastella


Versione stampabile


Pubblichiamo il testo integrale della Sentenza della Corte di Cassazione che ha dato torto alla signora Lonardo/Mastella, affermando che la sua detenzione è stata legittima.

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Sentenza n. 33843/08

REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano

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La Corte Suprema di Cassazione
Sezione sesta penale

Composta dai Signori:

Dott. Giorgio Lattanzi - Presidente
1. Dott. Arturo Cortese - Consigliere
2. Dott. Vincenzo Rotundo - Consigliere
3. Dott. Giacomo Paoloni - Consigliere
4. Dott. Giorgio Fidelbo - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Alessandrina LONARDO, nata a S. Giovanni di Ceppaloni (BN) il 9.3.1953; contro l’ordinanza del 28 gennaio 2008 emessa dal Tribunale di Napoli; visti gli atti, l’ordinanza impugnata e il ricorso;

sentita la relazione del consigliere dott. Giorgio Fidelbo;

sentito il pubblico ministero, nella persona del Sostituto procuratore generale dott. Carlo Di Casola, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

sentiti gli avvocati Titta Madia e Severino Nappi, che hanno insistito per l’accoglimento del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. - Con ordinanza emessa il 14 gennaio 2008 il G.i.p. del Tribunale di S.M. Capua Vetere ha disposto, in via d’urgenza, la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di Alessandrina LONARDO, indiziata, in concorso con altre persone, del reato di tentativo di concussione continuata, dichiarandosi successivamente incompetente.
Il Tribunale di Napoli, in sede di riesame proposto dalla indagata, con decisione del 28 gennaio 2008 ha parzialmente riformato il provvedimento cautelare, sostituendo gli arresti domiciliari con la misura dell’obbligo di dimora.
Secondo l’imputazione provvisoria riportata nell’ordinanza la LONARDO è accusata di avere, nella sua qualità di presidente del Consiglio regionale della Campania, in concorso con il marito Clemente Mastella (segretario nazionale dell’UDEUR), nonché con Nicola Ferraro (consigliere regionale della Campania) e con Andrea Abbamonte (assessore regionale alle risorse umane della Campania), tutti appartenenti allo stesso partito politico, tentato di costringere Luigi Annunziata, direttore generale dell’Azienda Ospedaliera San Sebastiano di Caserta, nominato in tale incarico nel dicembre 2005 su indicazione dell’ UDEUR, a sottostare alle indicazioni fornite dai politici del proprio partito nelle scelte da compiere durante la sua attività direttiva.

2. - Il Tribunale ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato contestato, valorizzando una serie di intercettazioni di conversazioni telefoniche avvenute nel periodo gennaio - giugno 2007 tra i vari protagonisti della vicenda, quasi tutti politici, medici e amministratori pubblici: in particolare, oltre all’indagata, a Nicola Ferraro e ad Andrea Abbamonte, si tratta di Fernando Errico e Giuseppe Maisto (entrambi consiglieri regionali UDEUR), nonché di Luigi Annunziata, di Carlo Camilleri (esponente di rilievo dell’ UDEUR nel ter-ritorio campano e consuocero della Lonardo), di Sandro De Franciscis (presidente della Provincia di Caserta), di Massimo Agresti (medico, amico della famiglia Mastella), di Antonio Fantini. Inoltre, sono state prese in considerazione le di-chiarazioni rese da Luigi Annunziata, da Angelo Montemarano (assessore alla sanità della Regione Campania), da Felice Casucci (avvocato e consulente giuridico del Presidente della Regione Campania), da De Falco (neurologo) e da Mi-guel Viscusi (cardiologo).
In particolare, dall’ordinanza si apprende che qualche anno dopo la sua no-mina a direttore generale dell’Azienda Ospedaliera San Sebastiano, nomina voluta dal partito dell’ UDEUR al quale apparteneva, Luigi Annunziata avrebbe dato luogo a qualche malumore fra gli amici di partito, che lo accusavano di eccessiva autonomia nelle scelte di gestione dell’ente. In particolare, non avrebbe soddisfatto le richieste di Nicola Ferraro, che aveva insistito perché come primario ospedaliero fosse nominato un medico di fiducia di suo padre; lo stesso Ferraro, in altre occasioni, avrebbe richiesto di designare un certo Napoletano come capo Ufficio Tecnico e tale Fabio Sgueglia come componente del Nucleo di Valutazione dell’Azienda Ospedaliera.
Ma è la vicenda relativa alla nomina del primario di ginecologia del San Sebastiano che determina le prime vere manifestazioni di ostilità nei confronti dell’Annunziata, colpevole di non avere appoggiato la candidatura del dott. Passaretta, voluto dal Ferraro e dalla LONARDO, procedendo alla nomina del dott. Sergio Izzo, fratello di un parlamentare appartenente ad altra forza politica. Questo atto viene visto dai vertici nazionali e locali dell’ UDEUR, tra cui anche la LONARDO, come una “disobbedienza” inaccettabile, che avrebbe potuto indebolire il partito dal punto di vista politico.
Da qui l’offensiva diretta alla rimozione di Annunziata, attuata anche attraverso una campagna di stampa contraria al direttore generale.
Su iniziativa di Nicola Ferraro viene presentata un’interpellanza consiliare, in via d’urgenza, con cui si chiedono spiegazioni al governo regionale circa il possesso dei requisiti dell’Annunziata per la nomina a direttore generale. La scelta di intraprendere la via dell’interpellanza viene assunta, nella ricostruzione dell’ordinanza, dai rappresentanti locali del partito dell’ UDEUR, tra cui la stessa LONARDO; l’atto viene materialmente predisposto da Andrea Abbamonte e firmato da quasi tutti i consiglieri regionali UDEUR. Tuttavia, la discussione sull’interpellanza, fissata il 17.4.2007, non ha luogo in quanto, sempre secondo quanto ricostruito nell’ordinanza impugnata, la LONARDO e gli altri coindagati preferiscono far giungere all’Annunziata un messaggio di possibile riconciliazione, facendogli intendere, attraverso l’intermediazione di Massimo Agresti e di Felice Casucci, che l’interpellanza può essere ritirata qualora nomini De Falco e Viscusi, entrambi medici “graditi” alla LONARDO, ai posti di primariato di neurochirurgia e cardiologia dell’ospedale San Sebastiano di Caserta.
Anche in questo caso Luigi Annunziata non accetta l’imposizione e in risposta a tale atteggiamento la LONARDO ripropone la discussione dell’interpellanza, che viene fissata per la seduta del 22.5.2007.

3. - I giudici hanno, inoltre, ravvisato le esigenze cautelari nella necessità di effettuare ulteriori investigazioni e di evitare il pericolo di condotte recidivanti.
Infine, hanno ritenuto sussistente il presupposto dell’urgenza, essendo stato il provvedimento cautelare emesso dal G.i.p. del Tribunale di S.M. Capua Vetere ai sensi dell’art. 291 comma 2 c.p.p.

4. - Contro questa ordinanza l’avvocato Titta Madia, difensore di fiducia di Alessandrina LONARDO, ha presentato ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi.
A) Mancanza assoluta di motivazione in ordine ai motivi posti a fondamento della richiesta di riesame con cui si evidenziava l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza: si lamenta che i giudici del riesame non abbiano preso in minima considerazione, né confutato gli argomenti addotti a difesa dell’indagata, con cui si contestava la sussistenza degli elementi che configurano il reato di concussione, cioè l’esistenza di una minaccia, diretta o indiretta, esplicita o implicita posta in essere dall’indagata, ovvero di un’attività induttiva tesa a coartare l’altrui volontà.
In particolare, nessuna risposta è stata data alle obiezioni circa il rilievo dato ai comportamenti asseritamene illeciti contestati alla LONARDO.
B) Erronea applicazione della legge penale e omessa e contraddittoria mo-tivazione in ordine alla ritenuta sussistenza degli indizi del reato di tentata concussione; viene evidenziato come le condotte contestate all’indagata non possano essere considerate idonee a ritenere la gravità indiziaria in ordine al reato di tentata concussione.
Per quanto riguarda la telefonata del 6.3.2007 si ritiene che non possa essere considerata espressione di una condotta induttiva rivolta a coartare la volontà di Luigi Annunziata, trattandosi di una conversazione con un familiare, in cui l’indagata sfoga il proprio disappunto relativo ad un contrasto politico. L’espressione “lui è un uomo morto” avrebbe un significato metaforico, che andrebbe letto nel senso di “non voglio vederlo”.
In ordine all’incontro con Angelo Montemarano, cui ha partecipato anche Giuseppe Maisto, si sottolinea che comunque si è trattato di una espressione di sfiducia e di disistima manifestata nei confronti di Luigi Annunziata all’interno di un’ordinaria attività politica di esercizio del potere di consigliere regionale.
Con riferimento, inoltre, alla interpellanza consigliare si sottolinea la natura politica dell’atto e l’insindacabilità dello stesso ai sensi dell’art. 122 comma 4 Cost., norma che tutela anche le interpellanze consiliari. L’insindacabilità non riguarda solo l’atto in sé, ma anche le finalità per la quale l’interpellanza viene formulata. In ogni caso, si sostiene che “esprimere nel negoziato politico la forza della propria rappresentanza ovvero dell’esercizio dei propri diritti o dei poteri politici allo scopo di conseguire obiettivi politici non può essere qualificato ille-cito e tantomeno può essere ricondotto al reato di concussione”. L’interrogazione consiliare, così come tutta la condotta contestata nel capo di imputazione, non può essere ricondotta ad una attività concussiva, in quanto espressione dell’esercizio di un potere non sindacabile dal giudice penale.
Si precisa, inoltre, che la LONARDO non può essere chiamata a rispondere di quegli episodi riferiti nel capo di imputazione che riguardano esclusivamente condotte addebitabili a Nicola Ferraro (il riferimento è agli episodi relativi alle pressioni per le nomine di Napoletano, Sgueglia e del medico curante del padre del Ferraro), non essendoci alcun elemento di prova che dimostri che l’indagata abbia sostenuto tali azioni, riferibili solo al coindagato.
Con riferimento all’episodio della nomina di Sergio Izzo, si sottolinea trattarsi dell’episodio che, nella stessa ricostruzione dei giudici, suscita il disappunto della LONARDO, per cui resta del tutto irrilevante ai fini della concussione, mancando condotte induttive precedenti.
Per quanto concerne, poi, la presunta richiesta di nomina ai posti di prima-riato dei medici De Falco e Viscusi, si evidenzia come la difesa della LONARDO abbia sempre rilevato la mancanza di ogni elemento probatorio al riguardo. Nelle telefonate del 18 e del 19 aprile 2007 è lo stesso Luigi Annunziata che riferisce ai suoi interlocutori di aver saputo da Agresti che la LONARDO avrebbe voluto inserire nell’azienda ospedaliera i due medici, ma si tratta di circostanze riferite de relato e che non hanno ricevuto alcun riscontro. Al contrario, è risultato che Annunziata abbia dichiarato che i due medici gli furono segnalati da Felice Casucci, il quale, sentito anch’egli, ha riferito che il nome del De Falco non era stato fatto dalla LONARDO, circostanza confermata dallo stesso De Falco. Inoltre, si rileva che anche Agresti e Viscusi hanno dichiarato che non fu l’indagata a segnalare Viscusi, ma a farlo fu l’Agresti tramite Fernando Errico.
Infine, viene contestata anche la ricostruzione effettuata dai giudici, secon-do cui la pressione sull’Annunziata fu il risultato di un gioco di squadra, mancando in atti gli elementi idonei a dimostrare l’assunto di una responsabilità concorsuale.

5. - In data 19 marzo 2008 l’avvocato Severino Nappi, nell’interesse dell’indagata, ha depositato i seguenti motivi aggiunti.
A) Genericità del capo d’imputazione e violazione dell’art. 292 lett. h) c.p.p.: la genericità della contestazione non consente di individuare in cosa sia consistita la condotta materiale ascritta all’indagata, non comprendendosi né qua-li siano i profili di illiceità collegati alla presentazione dell’interrogazione consiliare, né quali siano state le utilità conseguite, che vengono individuate nel “determinare l’Annunziata a dirigere le sue funzioni in favore degli appartenenti al partito politico dell’ UDEUR”. Inoltre, non vi è accenno ad alcuna situazione di metus in cui si sia trovato l’Annunziata, il quale, invece, ha dato dimostrazione di assoluta autonomia nell’esercizio delle sue funzioni di direttore generale.
B) Inidoneità della condotta ad integrare gli estremi del delitto di tentata concussione: viene rilevato che l’impianto accusatorio si basa sull’interpellanza presentata in Consiglio regionale, ma non tiene conto che si tratta di un atto politico, che non riveste i caratteri dell’abuso della qualità o dei poteri richiesti dall’art. 317 c.p.
L’altro elemento presente nell’imputazione è quello della campagna di stampa, ma posto che non si rinviene alcun elemento che dimostri che la LO-NARDO abbia in qualche modo partecipato ad azioni di questo tipo, viene sottolineato come neppure in astratto sia configurabile una forma di concussione attuata con simili mezzi, prescindendo dall’abuso delle qualità di pubblico ufficiale.
Inidonea a costituire un possibile elemento del delitto di concussione è anche l’espressione attribuita all’indagata nella telefonata con Carlo Camilleri, in cui avrebbe detto, riferendosi a Luigi Annunziata, “per me è un uomo morto”, in quanto la frase non è stata diretta all’interessato, sicché non si vede come possa avere avuto una qualsiasi incidenza sulla libertà di autodeterminazione dell’Annunziata stesso, posto che non risulta che questi l’abbia appresa successivamente dal Camilleri o da altri.

6. - In data 27 maggio 2008 l’avvocato Titta Madia ha depositato una memoria difensiva, in cui dopo aver premesso che l’indagata è stata rimessa in libertà, ha precisato che persiste l’interesse al ricorso ai fini dell’art. 314 n. 2 c.p.p.
Inoltre, ha ribadito il contenuto dei motivi dei ricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

7. - Deve premettersi che in data 3 febbraio 2008 l’indagata è stata definitivamente rimessa in libertà a seguito del provvedimento con cui il G.i.p. del Tribunale di Napoli ha dichiarato l’inefficacia della misura dell’obbligo di dimora disposta dal Tribunale del riesame - sostitutiva degli arresti domiciliari che erano stati disposti dal G.i.p. di S.M. Capua Vetere, successivamente dichiaratosi incompetente - non avendo il pubblico ministero di Napoli avanzato alcuna richiesta al giudice competente per territorio, ai sensi dell’art. 27 c.p.p. Tuttavia deve escludersi che sia sopravvenuta una carenza di interesse al ricorso, in quanto il difensore di fiducia dell’indagata ha espressamente dichiarato che l’impugnazione proposta è funzionale all’attivazione del procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai sensi degli artt. 314 e seg, c.p.p., con riguardo al periodo di detenzione subito per effetto della misura coercitiva inizialmente disposta. Pertanto, in questa sede l’esame del ricorso sarà necessariamente limitato alla verifica della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, la cui eventuale mancanza potrebbe giustificare il diritto all’equa riparazione per l’ingiusta detenzione subita.

8. - Nel merito si osserva che dalla lettura dell’imputazione provvisoria e dalla stessa ordinanza impugnata i fatti che vengono addebitati alla LONARDO riguardano esclusivamente l’episodio relativo al tentativo di far nominare De Falco e Viscusi ai posti di primariato di neurochirurgia e cardiologia dell’ospedale San Sebastiano. Gli altri episodi menzionati nei numeri 3), 4) e 5) dell’imputazione, che peraltro sono contestati dalla difesa, non costituiscono fatti attribuiti alla LONARDO, ma nell’impostazione dell’accusa rappresentano altrettanti casi in cui l’Annunziata non avrebbe recepito le indicazioni provenienti dal suo partito di riferimento, fatti evocativi di un sistema di controllo da parte di alcuni appartenenti all’UDEUR nelle nomine della sanità campana, rispetto ai quali tuttavia non sono stati addotti elementi che dimostrino il diretto coinvolgimento dell’indagata. Lo stesso può dirsi per l’episodio della mancata nomina di Passaretta, a cui fa riferimento Annunziata nella dichiarazione del 2.11.2007, in ordine al quale l’ordinanza non fornisce alcun ulteriore elemento probatorio indicativo della condotta tenuta dall’indagata in tale occasione.
Si tratta comunque di episodi che, nella struttura del provvedimento impugnato, contribuiscono a dimostrare la forte pressione cui è stato sottoposto l’Annunziata da alcuni esponenti del suo partito, pressione finalizzata a far sì che venissero nominati i medici di volta in volta indicati. Ciò emerge dalle numerose intercettazioni telefoniche di cui l’ordinanza ha dato conto e dalle dichiarazioni dello stesso Annunziata.
In questo contesto si inseriscono le pressioni dirette e indirette poste in essere Ball’ indagata.
Viene messo in evidenza come la LONARDO fosse stata “delusa” in precedenza dell’Annunziata per la mancata nomina di Antonio Passaretta quale facente funzioni di primario presso il reparto di ginecologia; nella deposizione del 2.11.2007 Annunziata, oltre a riferire che l’indagata in tale occasione lo avrebbe insultato, chiamato “delinquente”, ha raccontato dei suoi vani tentativi volti addirittura a negare di avere effettuato la nomina di lzzo al posto di Passaretta, descrivendo una situazione in cui la nomina di un medico non “segnalato” dal partito di appartenenza viene percepita come un atto talmente “grave”, dalle conseguenze politiche temibili, da dovere essere negato fino in fondo.
Inoltre, si evidenzia come dalla telefonata intercettata il 6.3.2007 tra LONARDO e Camilleri risulti un obiettivo “scontento” da parte della prima per la condotta dell’Annunziata, che viene ritenuto “politicamente morto”, perché in qualità di direttore generale dell’ospedale non sarebbe stato a “disposizione”.
Ancora, i giudici danno molto rilievo all’incontro tra il Montemarano, assessore alla sanità della Regione Campania, e la LONARDO, in cui quest’ultima manifestò l’intenzione di rimuovere l’Annunziata dal suo incarico, chiedendo come potesse essere realizzato tale obiettivo dal punto di vista tecnico: nell’ordinanza tale circostanza risulta confermata dalle stesse dichiarazioni rese da Montemarano, nonché dalla telefonata intercettata il 27.3.2007 tra Maisto e Annunziata.

9. - I giudici del riesame hanno giustamente valorizzato la calendarizzazio-ne dell’interpellanza contro Annunziata: secondo i giudici si tratterebbe di una “calendarizzazione strumentale al perseguimento di interessi non istituzionali”, in quanto diretta a verificare la possibilità di un cambiamento nell’atteggiamento dell’Annunziata, al quale viene proposto il ritiro dell’interrogazione qualora accetti di nominare i due medici graditi alla LONARDO, De Falco e Viscusi. L’ordinanza evidenzia come la condotta contestata presupponga “un atto di obbedienza da parte dell’Annunziata” che avrebbe dovuto sottostare ad una indebita interferenza nelle sue competenze e come sia evidente la strumentalizzazione dell’interpellanza, atto deviato nella sua funzione e volto ad esercitare un condizionamento nelle scelte del direttore generale in ordine alla struttura cui era preposto.
Nel ricorso si esclude che vi siano elementi in atti che dimostrino un tale interessamento dell’indagata per la nomina dei due medici, ma deve osservarsi, al contrario, che l’ordinanza del Tribunale ha evidenziato e bene motivato in ordine alle “prove” acquisite. Che la LONARDO volesse imporre la nomina dei due medici De Falco e Viscusi non risulta solo dalle telefonate intercettate in data 18 e 19 aprile 2007, come assumono i difensori, ma dalle stesse dichiarazioni dell’Annunziata rese in data 2.11.2007. In tale occasione l’Annunziata ha confermato in pieno il contenuto della conversazione intercettata il 18.4.2007 con il De Franciscis, conferma alla quale i giudici attribuiscono particolare significato per valutare la credibilità del dichiarante, in quanto è avvenuta prima che nel corso della deposizione fosse messo a conoscenza della stessa telefonata intercettata. Una diversa valutazione viene invece riservata alle dichiarazioni di Casucci e di Agresti: in particolare, secondo i giudici, quest’ultimo “tenta di ridurre al massimo il suo coinvolgimento nei fatti”, pur ammettendo il suo intervento come “mediatore”. E’ evidente come nella ricostruzione dei fatti contenuta nell’ordinanza e, conseguentemente, nella valutazione degli indizi di colpevolezza assumano un ruolo fondamentale proprio le dichiarazioni dell’Annunziata, che rappresenta la principale fonte d’accusa a carico dell’indagata, fonte pienamente credibile per i giudici.
Pertanto, non può condividersi quanto affermato dalla difesa della ricorrente, secondo cui la telefonata del 18.4.2007, in cui Annunziata riferisce al De Franciscis il contenuto di una conversazione avuta con Agresti, conterrebbe una dichiarazione de relato di una circostanza appresa de relato e come tale inidonea a fondare un giudizio di gravità indiziaria. Invero, si tratta di una “testimonianza” indiretta, che non soggiace alla regola di esclusione probatoria contenuta nell’art. 273 comma 1-bis c.p.p., in quanto nel caso di specie l’Annunziata, nella ricordata deposizione, ha puntualmente indicato la persona (Agresti) da cui ha appreso la notizia relativa all’interessamento della LONARDO per la nomina dei due medici. Di conseguenza, deve ritenersi che correttamente i giudici del riesame hanno utilizzato tale dichiarazione a carico dell’indagata e, dopo averla riscontrata con l’intercettazione del 18.4.2007, l’hanno ritenuta pienamente credibile, sulla base di una motivazione che, in quanto logica e coerente, non può essere oggetto di contestazione nel merito in sede di legittimità.
D’altra parte, si tratta di una giudizio cautelare, in cui il materiale probatorio non è ancora stabilizzato, per cui non può in questa sede prendersi in esame quanto dedotto dalla ricorrente in ordine a possibile millanterie di terze persone che avrebbero parlato a suo nome: di ciò nell’ordinanza impugnata non vi è traccia, per cui resta un argomento difensivo, che potrà essere speso in altro momento.

10. - In base ai fatti così come ricostruiti, attraverso uno sviluppo motiva-zionale che non presenta incongruenze ovvero salti logici, deve riconoscersi che sussistono i gravi indizi di colpevolezza richiesti dall’art. 273 c.p.p. in relazione all’ipotizzato reato di tentativo di concussione, tenendo presente che nell’accertamento incidentale de libertate “il convincimento giudiziale è esposto al flusso continuo di conoscenze (...) suscettibili di accrescersi ed evolversi con l’apporto di ulteriori informazioni che stimolano la continua verifica della capacità dell’ipotesi accusatoria di resistere a interpretazioni alternative”. Ancora recentemente le Sezioni unite di questa Corte hanno precisato che “la qualifica di gravità che deve caratterizzare gli indizi di colpevolezza attiene al quantum di prova idoneo ad integrare la condizione minima per l’esercizio, sulla base di un giudizio prognostico di responsabilità, del potere cautelare, che non può che riferirsi al grado di conferma, allo stato degli atti, dell’ipotesi accusatoria, e ciò a prescindere dagli effetti, non ancora apprezzabili, eventualmente connessi alla dinamica della prova nella successiva evoluzione processuale” (Sez. un., 30 maggio 2006, n. 36267, P.G. in proc. Spennato). A questi criteri si sono attenuti i giudici del riesame.

10.1. - La concussione richiede, come è noto, che il pubblico ufficiale abusi della sua qualità o dei suoi poteri per costringere o indurre taluno a dare o a promettere indebitamente denaro o altra utilità.
Nessun dubbio in ordine alla qualifica soggettiva dell’indagata, dal momento che all’epoca dei fatti era presidente del Consiglio della Regione Campania e in tale veste ha posto in essere la condotta incriminata.
I difensori dell’indagata contestano, però, che ricorra la condotta di abuso cui si riferisce l’art. 317 c.p. Invero, si osserva che nella specie tale requisito è rappresentato dall’uso che la LONARDO ha fatto dei suoi poteri di presidente del Consiglio regionale nella calendarizzazione della discussione dell’interpellanza avente ad oggetto la regolarità della nomina dell’Annunziata a direttore generale dell’ospedale San Sebastiano, un uso strumentale che si rivela soprattutto nella decisione, di competenza del presidente dell’assemblea regionale, di rinviare la discussione dal 17.4.2007 al 22.5.2007, rinvio funzionale ad operare, indirettamente, una pressione sull’Annunziata al fine di ottenere la nomina dei due medici. I giudici del riesame hanno bene evidenziato, attraverso il riferimento a precisi elementi probatori, da un lato le ragioni che hanno ispirato la presentazione dell’interpellanza, dall’altro la funzione che avrebbe dovuto avere il concesso rinvio della discussione. Quanto al primo punto, risulta evidente come l’interpellanza abbia rappresentato la risposta alle condotte dell’Annunziata per non aver “ottemperato” ai dicta del partito che lo aveva voluto al vertice dell’azienda ospedaliera di Caserta: l’atto ispettivo è stato presentato dal Ferraro, materialmente redatto dall’Abbamonte, sottoscritto da quasi tutti i consiglieri regionali dell’UDEUR e corrisponde alle intenzioni della stessa LONARDO, che in più occasioni aveva manifestato la volontà di “defenestrare” il direttore generale del San Sebastiano. In sostanza, si tratta di un atto che è maturato all’interno del gruppo dell’UDEUR, pienamente condiviso dall’indagata, funzionalmente diretto ad esercitare una concreta pressione sulle determinazioni future del direttore generale per indurlo a considerare le indicazioni provenienti dal suo partito.
Che non si tratti solo di un atto sanzionatorio di carattere politico, ma che sia invece proteso ad ottenere una qualche immediata utilità lo si deduce, nella coerente ricostruzione dei giudici di merito, dall’altro elemento preso in esame, quello relativo alle ragioni del rinvio o meglio del provvisorio ritiro dell’interpellanza. Ebbene, il rinvio della discussione rivela la sua vera funzione, quella di mettere alla prova l’Annunziata, in un momento in cui stava subendo una forte pressione e il suo stesso incarico di direttore generale era messo in discussione dalla interpellanza che incombeva su di lui. E’ in questa fase che l’indagata interviene, tramite gli intermediari Casucci e Agresti, per indurre Annunziata a nominare i due medici ospedalieri, ponendo come contropartita il ritiro dell’interpellanza: scrivono efficacemente i giudici di merito che la riappacificazione con la LONARDO, che viene proposta all’Annunziata dal Casucci, può verificarsi solo “mediante un atto di obbedienza” del direttore generale, sottostando cioè all’indebita interferenza nelle sue competenze.
Si tratta di una ricostruzione in cui appaiono tutti gli elementi costitutivi del reato di concussione.
L’abuso è consistito nella strumentalizzazione da parte dell’indagata dei suoi poteri quale presidente del Consiglio della Regione Campania: in tale veste ha esercitato in maniera distorta le attribuzioni del suo ufficio, piegandone le finalità e gli obiettivi per il perseguimento di interessi particolari, estranei all’interesse pubblico, peraltro violando i principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione pubblica posti, in primo luogo, dall’art. 97 Cost. Sia la presentazione dell’interpellanza, alla quale la LONARDO ha dato il suo contributo a titolo di concorso con altre persone, sia il rinvio della discussione sono condotte caratterizzate da un evidente sviamento di potere, in quanto dirette non a verificare effettivamente la sussistenza dei requisiti per la nomina dell’Annunziata all’incarico di direttore generale, ma poste in realtà all’esclusivo fine di condizionare l’attività dello stesso Annunziata, costringendolo a nominare persone gradite al partito. Lo sviamento di potere al quale si fa riferimento prescinde dalla possibilità di inquadrare la condotta dell’agente in un atto amministrativo, così come pretenderebbe la difesa della ricorrente, in quanto la condotta abusiva non deve coincidere necessariamente né con un atto amministrativo, né con uno dei vizi tipici di esso. In questo caso, lo sviamento, inteso come uso distorto del potere, costituisce il dato sintomatico della presenza dell’abuso richiesto dalla norma incriminatrice.
Destituito di ogni fondamento è il motivo con cui la ricorrente eccepisce l’insindacabilità dell’interpellanza consiliare, invocando l’art. 122 comma 4 Cost. A questo proposito deve innanzitutto ribadirsi quanto detto in precedenza e cioè che ai fini della sussistenza del reato non assume rilievo l’atto in sé, sia esso legittimo o illegittimo, ma solo l’abuso della qualità o delle funzioni (Sez. I, 16 giugno 1986, n. 2700, A.A.). Nel delitto di concussione, l’abuso dei poteri da parte dell’agente e la conseguente induzione della vittima a dare o a promettere denaro o altra utilità prescinde totalmente dalla legittimità o meno dell’attività compiuta, in quanto il requisito oggettivo del reato può essere integrato anche attraverso un atto d’ufficio legittimo e doveroso, ma realizzato per conseguire fini illeciti, in violazione dei principi di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione (Sez. Il, 16 ottobre 2007, n. 45993, Cuccia).
In altri termini non è in questione il contenuto dell’interpellanza e, quindi, la sua sindacabilità o meno, ma la complessiva condotta dell’indagata, rivolta ad ottenere un’utilità tramite l’induzione realizzata con la presentazione dell’interpellanza. Per questi motivi, nel caso in esame, non viene in considerazione l’art. 122 comma 4 Cost., che tutela la funzione dei consiglieri regionali in relazione alle opinioni espresse e ai voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.

10.2. - Inoltre, deve ritenersi sussistente, sempre a livello di gravità indiziaria, anche l’attività di induzione. Questa non è vincolata a forme tassative, in quanto rileva solo il comportamento del pubblico ufficiale che sia caratterizzato da un abuso dei suoi poteri che valga ad esercitare una pressione psicologica sulla vittima, convincendola della necessità di dare o promettere denaro o altra utilità, per evitare conseguenze dannose. La giurisprudenza individua l’induzione in relazione a contegni e comportamenti molteplici, quali l’esortazione, la sollecitazione, la persuasione, gli impliciti messaggi comportamentali, i silenzi: si ha induzione quando il soggetto viene posto in uno stato di soggezione psicologica, comunque creata e dipendente dall’abuso della funzione, che lo determini a dare o a promettere pur di evitare un male (tra le tante v., Sez. VI, 1 ottobre 2003, n. 49538, RG. in proc. Bertolotti).
Nella specie, i “messaggi comportamentali” sono giunti all’Annunziata da più parti: ma sia il capo di imputazione, che l’ordinanza del Tribunale individuano nell’uso distorto dell’interpellanza la condotta con cui l’indagata, in concorso con altri, ha tentato di indurre Annunziata a nominare i due medici. Sia la presentazione, che il momentaneo ritiro dell’interpellanza costituiscono, come già si è detto, l’elemento materiale della condotta contestata.

10.3. - Presente nella fattispecie concreta è anche il requisito della indebita dazione o promessa di “altra utilità”, concetto che comprende tutto ciò che può rappresentare per la persona un vantaggio oggettivamente apprezzabile. Nella specie, il vantaggio è rivolto anche a terzi, cioè ai medici - estranei all’attività abusiva posta in essere dall’indagata - e avrebbe dovuto consistere nell’assicurare la loro nomina ai posti di primariato nell’ospedale di Caserta; ma soprattutto vi è anche una utilità diretta per la LONARDO e per gli altri concorrenti nel reato, che attraverso nomine di persone di propria fiducia nel campo sanitario potevano rafforzare la presenza del loro partito nelle istituzioni pubbliche, perpetuando una politica di occupazione e di spartizione clientelare nei posti di responsabilità nelle pubbliche amministrazioni, secondo criteri di appartenenza politica e non di competenza tecnica. E’ questa l’utilità che secondo i giudici del riesame ha perseguito l’indagata e la circostanza che non si trattasse di una utilità esclusivamente personale, bensì rivolta al perseguimento di una finalità per così dire “politica” non fa venire meno il reato di concussione, per carenza dell’elemento della dazione o della promessa.
La giurisprudenza di questa Corte ritiene che in tema di concussione l’espressione “altra utilità” di cui all’art. 317 c.p. ricomprende qualsiasi bene che costituisca per il pubblico ufficiale (o per un terzo) un vantaggio, non necessariamente economico, ma comunque giuridicamente apprezzabile; tale utilità quindi può consistere in un “dare”, in un “facere”, in un vantaggio di natura patrimoniale o non patrimoniale, purché sia ritenuto rilevante dalla consuetudine o dal comune convincimento (Sez. VI, 9 gennaio 1997 n. 1894, Raimondo; Sez. VI, 11 novembre 1998, n. 3513, Plotino). Nell’ampiezza dell’accezione viene ricompreso anche il vantaggio di natura politica ed infatti si è ritenuta la concussione in un caso in cui l’agente aveva ottenuto di liberarsi di un proprio avversario politico, provocandone le dimissioni con la minaccia di farlo licenziare utilizzando la capacità d’induzione, connessa con la funzione pubblica esercitata (Sez. VI, 1 febbraio 2006, n. 21991, P.G. in proc. Plotino).
Tale tipo di utilità non coincide con il vantaggio di natura istituzionale, che esclude la sussistenza del reato in quanto la prestazione, promessa od effettuata dal soggetto passivo a seguito di induzione o costrizione da parte dell’agente, giova esclusivamente alla pubblica amministrazione e persegue esclusivamente i fini istituzionali di questa, poiché in tal caso non si determina lesione per l’oggetto giuridico del reato, costituito dal buon andamento della stessa amministrazione (Sez. VI, 25 settembre 2001 n. 45135, Riccardi; Sez. VI, 27 marzo 2003 n. 31978, Molosso).
In ogni caso, nella specie non emergono elementi per scorgere finalità istituzionali nelle condotte contestate: l’utilità che si voleva ottenere era di tipo indebito, in quanto rivolta a compromettere lo stesso oggetto del bene tutelato dalla norma incriminatrice (art. 317 c.p.), che è il regolare funzionamento della pubblica amministrazione, sotto il profilo del buon andamento e dell’imparzialità, così come prescrive l’art. 97 Cost.

10.4. - Nessun dubbio, infine, sulla configurabilità del tentativo. E’ infatti pacifico che si configuri un’ipotesi di concussione nelle forme del tentativo tutte le volte in cui il pubblico ufficiale abbia compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere o ad indurre taluno a dare o a promettere denaro o altra utilità, ma senza che si verifichi lo sperato stato di soggezione della vittima. Ciò che rileva, anche in punto di accertamento della sussistenza dei gravi indizi, è la verifica della effettiva ed oggettiva idoneità intimidatoria della condotta del pubblico funzionario, restando indifferente per la configurabilità del tentativo il conseguimento del risultato di porre in stato di soggezione o di timore il soggetto concusso (Sez. VI, 5 febbraio 1996, n. 3022, Arigliano; Sez. VI, 29 settembre 2000, n. 12047, Salvatore).
Nel caso in esame la vittima ha resistito alle pressioni esercitate nei suoi confronti dalla condotta induttiva posta in essere dal pubblico ufficiale, induzione che deve considerarsi astrattamente idonea in concreto a coartare la psiche della vittima, tenuto conto delle caratteristiche dell’azione, dell’ambiente in cui è stata posta in essere e dei soggetti che vi hanno concorso, tutti personaggi di rilievo politico, locale e nazionale.

11. - In conclusione, i motivi con cui i difensori hanno contestato la sussistenza dei gravi indizi a carico dell’indagata, in ordine al reato di cui agli artt. 110, 56, 81 cpv. e 317 c.p., devono considerarsi tutti infondati.
Di conseguenza il ricorso deve essere rigettato, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 19 giugno 2008

Il Consigliere estensore - Giorgio Fidelbo
Il Presidente - Giorgio Lattanzi


I peggioristi



di Marco Travaglio
(Giornalista)



da Voglioscendere e da L’Unità del 26 agosto 2008


Lo schema ormai è un classico. Al Tappone minaccia di impalare i magistrati. L’Anm insorge, il Pdl la accusa di essere al servizio della sinistra, il Pd invita Al Tappone a non compromettere il dialogo sulle riforme «ma anche» i magistrati a non arroccarsi su posizioni corporative.

Poi arriva il Ghedini o l’Angelino Jolie di turno e dice che no, impalarli forse è troppo: si potrebbe garrotarli, come gesto di buona volontà.

A quel punto saltano su i pontieri del Pd che elogiano le «aperture» dei «moderati» Ghedini o Angelino in vista di un sereno confronto sulla Giustizia.

È accaduto per il Lodo Alfano: Berlusconi blocca 100 mila processi, poi bontà sua si accontenta di bloccare i suoi e il Pd esulta per la grande «vittoria dell’opposizione».

È riaccaduto l’altro giorno: Al Tappone, citando Falcone (che probabilmente gli è apparso in sogno), minaccia di abolire l’obbligatorietà dell’azione penale, separare le carriere e infilare qualche altro politico nel Csm. Poi Ghedini e la Bongiorno si accontentano di separare le carriere e politicizzare vieppiù il Csm.

E subito dal Pd si levano voci per la riapertura del dialogo, mentre Latorre se la prende con l’Anm («esagera») e Violante addirittura propone di portare da 1 a 2 terzi i membri laici, cioè politici, del Csm (un terzo nominato dal Parlamento, un altro terzo designato dal capo dello Stato, che potrebbe presto essere Al Tappone: geniale).

È l’eterna strategia rinunciataria e gregaria del «meno peggio» che - diceva Sylos Labini - prelude sempre a un peggio peggiore.

A parte la patologica ossessione del Cainano per la stessa parola Giustizia, non esiste alcuna ragione per modificare l’azione penale, il Csm e le carriere dei magistrati (fra l’altro già di fatto separate dalla demenziale controriforma Castelli-Mastella).

Ma stavolta, per creare dal nulla un’emergenza che non esiste, si cita a sproposito il pensiero di Falcone, ignorando l’appello della sorella Maria a leggere quel che davvero diceva Giovanni.

Per esempio i due discorsi, citati a sproposito in questi giorni, del 5.11.1988 e del 12.5.1990 (Fondazione Falcone, «Interventi e proposte», Sansoni, 1994).

Falcone criticava le derive corporative del Csm e dell’Anm e chiede ai colleghi più «professionalità e competenza tecnica» per rendere un miglior servizio ai cittadini, difendere meglio «l’autonomia e l’indipendenza della magistratura» e attuare «i valori di uguaglianza e di solidarietà sanciti dalla Costituzione».

Altro che manometterla.

La figura del «giudice impiegato», con la sua «carriera ispirata a criteri di anzianità senza demerito», finisce col fare il gioco di quei «settori esterni alla magistratura che valutano questa figura di giudice-impiegato come funzionale a certi progetti politici, che non tengono in sufficiente conto il valore essenziale per la democrazia di un controllo di legalità efficace e rigoroso nei confronti di chiunque».

Capito? Di chiunque.

«L’affermazione ricorrente di taluni settori della politica circa la ormai completa attuazione della Costituzione - diceva Falcone - va nettamente respinta: i valori costituzionali sono quotidianamente posti in discussione» mentre «è più acuta l’insofferenza di certi settori dell’economia e della politica avverso il controllo di legalità».

Col nuovo Codice di procedura, in arrivo di lì a un anno, Falcone sosteneva che il pm avrebbe dovuto specializzarsi con «una sua specifica professionalità, che lo differenzia necessariamente dalla figura del giudice».

Ma «non si tratta di esprimere preferenze o timori per un pm dipendente dall’esecutivo o per carriere separate all’interno della magistratura; anche se su questi temi ci si dovrà confrontare al più presto con mente scevra da preconcetti per elaborare e proporre le scelte ritenute più idonee».

Due anni dopo, Falcone denunciava «la forte tentazione dei partiti di occupare anche l’area riservata al potere giudiziario» che «rischia di scardinare l’assetto costituzionale della divisione dei poteri» e un «progetto di delegittimazione della magistratura» con «attacchi e sospetti sui giudici antimafia», accusati di «pretese scorrettezze nella gestione dei ‘pentiti’» e di essere «professionisti dell’antimafia».

Poi tornava ad auspicare una formazione specifica per pm e giudici, la cui «autonomia e indipendenza» vanno «tutelate», anche se «in modo diverso».

E citava «l’obbligatorietà dell’azione penale costituzionalmente garantita», proponendo di «ridiscuterla e approfondirla», ma in senso esattamente opposto a quello oggi in voga: «Negli Usa gli agenti sotto copertura (gli infiltrati, ndr), pur di raggiungere risultati utili alle indagini, possono commettere impunemente reati», mentre in Italia l’azione penale obbligatoria lo impedisce.

Non, dunque, creare zone franche per i colletti bianchi, ma, al contrario, consentire a magistrati e poliziotti di incastrarli anche con agenti infiltrati.

Così, chiudeva Falcone, «garantire la legalità - cioè la punizione dei colpevoli dopo un giusto processo - sarà una conquista autenticamente rivoluzionaria».

Parole che, se Falcone non fosse morto, o se qualcun altro le ripetesse oggi, farebbero gridare allo scandalo e al giustizialismo.

Tutto il resto sono balle.


lunedì 25 agosto 2008

Cosa pensava veramente Giovanni Falcone



A fronte del tentativo – bisogna dirlo, veramente molto deplorevole – di un politico (il Presidente del Consiglio) di strumentalizzare Giovanni Falcone per non lodevoli interessi personali, riportiamo il testo di una relazione tenuta da Giovanni Falcone il 5 novembre 1988.

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La professionalità e le professionalità


di Giovanni Falcone


da Antimafiaduemila


Relazione letta a Milano il 5 novembre 1988. Per gentile concessione della Fondazione “Giovanni e Francesca Falcone”.

Siamo corporativisti e poco professionali. Duro monito del giudice palermitano al Consiglio Superiore della Magistratura e ai magistrati carrieristi e irresponsabili. Sono necessarie “maggiore competenza tecnica e più serietà operativa”.

In un documento del 13 luglio 1988, la giunta esecutiva nazionale di Unicost, nel riconoscere che l’esercizio della giurisdizione attraversa nel Paese un periodo di straordinaria difficoltà, afferma che il solco profondo creatosi tra magistratura e società civile ha determinato le condizioni per l’esito del referendum sulla responsabilità del giudice, in cui gli elettori, “indipendentemente dalle diverse intenzioni dei promotori”, hanno trovato l’occasione per esprimere la loro protesta per il pessimo funzionamento del servizio-giustizia.

Viene ribadita in quel documento, dunque, la tesi che, attraverso il referendum, alcuni settori politici hanno strumentalizzato lo stato di insoddisfazione esistente nel Paese, per far apparire la magistratura come unica responsabile delle disfunzioni della giustizia.

Se ci si sforza, però, di analizzare la questione con obiettività, e se si abbandona per un attimo quello stato d’animo che ha indotto non pochi ad affermare che la magistratura è afflitta da una “sindrome permanente da stato di assedio”, non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza margini di equivoco, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell’elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non sia svolta attualmente con la necessaria professionalità, e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati.

Ora, non vi è dubbio che le cause profonde della crisi della giurisdizione sono molteplici e, in buona parte, non addebitabili alla magistratura, investendo lo stesso modello di sviluppo politico e l’assetto complessivo dei pubblici poteri in Italia; ma ciò non sembra una buona ragione per non tenere conto del chiarissimo risultato referendario, eludendo ulteriormente i problemi e continuando ad addossare al potere politico tutte le responsabilità della crisi, senza nemmeno tentare di individuare e di fronteggiare quelle che sono direttamente riferibili alla magistratura.

Occorre, dunque, interrogarsi sul ruolo del giudice nella società attuale con animo sgombro da vecchi preconcetti ed evitando, soprattutto, di crearne nuovi.

E frutto di un nuovo preconcetto mi sembra l’affermazione di un collega che io stimo moltissimo (Elvio Fassone), secondo cui “le nuove spiagge – professionalità, terzietà – lasciano egualmente scontenti; quella, la professionalità, si è logorata prima di venire chiarita (al di là delle connotazioni più ovvie, che non vanno oltre alla competenza tecnica e alla serietà operativa ...); la seconda, la terzietà, ha insegnato che essere Tertius è bello quando Primus e Secundus giocano alla pari, non quando uno stritola l’altro”.

A me sembra, invece, che per evitare che il valore della professionalità possa essere ritenuto ormai logorato prima ancora di essere chiarito, sia necessario un fecondo dibattito per individuare quei contenuti che una società civile, sempre più allarmata dalle disfunzioni della giurisdizione, giustamente pretende.

E, in proposito, si potrebbe cominciare dal rilievo che le connotazioni ovvie del concetto di professionalità – e cioè la competenza tecnica e la serietà operativa – sono appunto quelle di cui, secondo un convincimento largamente diffuso nella società, la magistratura non è attualmente dotata in misura adeguata.

E’ vero che, prima, i giudici non sbagliavano meno di adesso e che, per converso, la gravità e complessità dei compiti di cui attualmente è investita la magistratura è incomparabilmente maggiore del passato.

Ma ciò significa non altro se non che proprio la professionalità in senso tecnico del giudice è quella di cui la società più acutamente avverte l’insufficienza.

Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo soddisfacente; il che riguarda direttamente gli attuali criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l’aggiornamento professionale ed i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti.

Una seria riflessione sui motivi dei queste disfunzioni – che tendono ad allontanare sempre più dalla magistratura il consenso sociale, favorendo così certe manovre dirette al depotenziamento del controllo della legalità – non può che partire dalla constatazione che si sono attutite quelle spinte ideali che, un tempo, avevano reso l’azione della magistratura centro di propulsione essenziale per l’effettiva applicazione dei valori solidaristici indicati dalla Costituzione.

Nei tempi, ormai non più recenti, in cui l’Associazione nazionale dei magistrati conduceva indimenticabili battaglie per eliminare dall’ordinamento giudiziario forme di progressione in carriera, che si risolvevano in un pesante condizionamento, autoritario e verticistico, dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, era ben chiaro a tutti che la lotta non era diretta a creare inammissibili privilegi, ma a consentire l’attuazione nell’ordinamento dei valori di uguaglianza e di solidarietà sanciti dalla Costituzione.

Se questo panorama è radicalmente mutato e se i valori costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza sono in crisi, ciò dipende, a mio avviso, in misura non marginale anche dalla crisi che, ormai da tempo, investe l’Associazione dei giudici, rendendola sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi e sempre meno il luogo di difesa e di affermazione dei valori della giurisdizione nell’ordinamento democratico.

E la crisi profonda dell’associazionismo dei magistrati ha pesantemente influito sulla stessa funzionalità delle istituzioni; le correnti dell’Associazione nazionale magistrati – anche se, per fortuna, non tutte in egual misura – si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura, e quella occupazione delle istituzioni da parte di partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata anche in seno all’organo di governo autonomo della magistratura; con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica.

La caccia esasperata e ricorrente al voto del singolo magistrato e la difesa corporativa della categoria sono divenute, in alcune correnti più delle altre, le attività più significative della vita associativa e, al di là di mere declamazioni di principio, nei fatti il dibattito ideologico è scaduto a livelli intollerabili.

Le conseguenze sono state di enorme portata ed hanno investito direttamente la stessa professionalità del giudice.

Era inevitabile, infatti, che correlativamente al progressivo affievolirsi del dibattito culturale ed ideologico, tendesse a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato-impiegato; e cioè del magistrato-burocrate, il quale, intimidito dagli attacchi esterni alla sua indipendenza ed indifeso per la sostanziale inerzia dei propri organismi rappresentativi si rifugia nelle comode e tranquillanti certezze di una carriera ispirata al criterio dell’anzianità senza demerito.

Bisogna riconoscere che, in presenza di una situazione di sfascio della giustizia, è certamente comodo delegare ad altri le responsabilità derivanti da scelte impegnative, poiché, prima o poi, se si saranno sapute evitare le “grane” derivanti da casi giudiziari perigliosi, si riceverà il “premio” di un posto semidirettivo e, alla fine, probabilmente, anche del tanto sospirato incarico direttivo.

Il magistrato, attualmente, viene ammesso in carriera sulla base di un bagaglio culturale meramente nozionistico, e ai criteri passati di accertamento della professionalità, certamente censurabili, ne sono stati sostituiti altri del tutto insoddisfacenti.

I criteri di accertamento negativo della professionalità non hanno funzionato, se non in casi insignificanti, e l’affinamento delle qualità professionali, in definitiva, è affidato esclusivamente al senso di responsabilità ed alla buona volontà del singolo.

Si aggiunga che i trasferimenti, le assegnazioni di funzioni e le nomine ai posti direttivi sono effettuati con riferimento assolutamente prevalente alle aspettative del magistrato, e solo in minima parte tengono conto delle sue specifiche attitudini e della sua esperienza professionale; non c’è da sorprendersi, quindi, se l’organizzazione degli uffici e le esigenze di razionalizzazione del lavoro restano affidate, in modo del tutto casuale, alla buona volontà ed alle eventuali capacità organizzative del dirigente dell’ufficio, che, ovviamente, non necessariamente coincidono con la sua preparazione professionale.

Ai deprecati fenomeni della carriera e del carrierismo sono subentrate carriere di altro tipo, in funzione di controllo dell’elettorato, con la conseguenza che, anziché privilegiare le qualità professionali e l’attitudine specifica a svolgere determinate funzioni, si tende a preferire chi assicura una migliore resa in termini elettorali.

Non c’è da meravigliasi, dunque, se la “legittimazione consensuale” della magistratura da parte del corpo sociale sia venuta progressivamente meno, in presenza di atti e comportamenti che appaiono segno inequivoco di quella “separatezza” della magistratura che, isolandola, l’ha esposta sempre più ad attacchi diretti ad indebolirne l’autonomia e l’indipendenza.

Valori questo, che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa.

In questo clima, la delega di rappresentatività a coloro, sempre gli stessi, che saranno in grado di assicurare queste prospettive rassicuranti, è un passaggio obbligato e naturale; e, di più, è favorito in tutti i modi da quei settori esterni alla magistratura che valutano questa figura di giudice-impiegato come funzionale a certi progetti politici, che non tengono in sufficiente considerazione il valore essenziale per la democrazia di un controllo di legalità efficace e rigoroso nei confronti di chiunque.

Questa analisi comincia a farsi strada in sede associativa.

Nel richiamato documento del 13 luglio 88, la corrente di Unità per la Costituzione afferma: “Le correnti dell’Associazione devono saper superare le logiche di schieramento incrementando il confronto di opinioni ideali e culturali, non trasformandosi in apparati di potere che soffocano le voci dissenzienti, trasformano le assemblee in rituali formali e inutili, concentrano quasi tutto il loro impegno nei momenti elettorali, per condizionare totalmente la composizione degli organi rappresentativi, e utilizzano l’arma del clientelismo”.

Che fare, allora, per porre rimedio a questa situazione che, oltre a mortificare la professionalità, isterilisce l’azione della magistratura e la rende non all’altezza dei gravosi compiti che la competono?

Mi sembra da condividere la tesi che la crisi della giurisdizione sia direttamente collegabile alla attuale crisi della politica, e cioè alla incapacità della stessa di dominare una realtà sociale complessa, contraddittoria ed in continua e spesso tumultuosa trasformazione.

Ciò determina inevitabilmente, come è stato autorevolmente osservato, la crisi del diritto, e cioè dello stesso concetto di norma giuridica come espressione fondamentale dell’azione statale, e la sua trasformazione in strumento provvisorio ed incompleto di soluzione dei conflitti, che dovranno poi trovare adeguata e concreta soluzione in sede applicativa.

La scomparsa di una domanda di giustizia omogenea e compatta e la sua trasformazione in una serie di istanze, spesso contraddittorie e confliggenti e, tuttavia, parimenti tutelate dalla Costituzione (ad esempio, tutela dello sviluppo economico e tutela dell’ambiente; tutela dei lavoratori e tutela della libertà di circolazione), determina necessariamente la trasformazione del ruolo del giudice in garante, puntuale e rigoroso, dei valori solidaristici ed emancipatori della Costituzione.

In questa fedeltà alla Costituzione consiste, a mio avviso, al di là delle specifiche professionalità del giudice la vera essenza della professionalità; professionalità che presuppone e si avvale della competenza tecnica, ma che non si esaurisce in essa, e che comporta un continuo e faticoso controllo della legalità, alla luce dei principi costituzionali.

L’affermazione ricorrente di taluni settori della politica, circa la ormai completa attuazione della Costituzione, deve essere, dunque, nettamente respinta, i valori costituzionali sono quotidianamente posti in discussione, e non è senza significato che queste affermazioni di segno opposto siano divenute più insistenti in un periodo storico in cui è più acuta l’insofferenza di certi settori dell’economia e della politica avverso il controllo di legalità, che, pur tra mille contraddizioni ed inesperienze, è portato avanti dalla asfittica macchina giudiziaria.

Se tutto ciò è vero, l’azione puramente difensiva dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura, che corre il rischio di scadere in una difesa di privilegi inammissibili per uno Stato democratico, va trasformata in attività propulsiva e dinamica, per riaffermare in concreto il suo valore di strumento indispensabile per la tutela della legalità.

E la professionalità del giudice in questa ottica, costituisce problema fondamentale.

Occorre rendersi conto, infatti, che l’indipendenza e l’autonomia della magistratura – come è dimostrato da quanto sta accadendo in questi giorni – rischia di essere gravemente compromessa se l’azione dei giudici non è assicurata da una robusta e responsabile professionalità al servizio del cittadino.

Ora, certi automatismi di carriera e la pretesa inconfessata di considerare il magistrato – solo perché ha vinto il concorso di ammissione in carriera – come idoneo a svolgere qualsiasi funzione (una sorta di superuomo infallibile e incensurabile) sono causa non secondaria della grave situazione in cui versa attualmente la magistratura.

La inefficienza dei controlli sulla professionalità, cui dovrebbero provvedere il Consiglio superiore della magistratura ed i Consigli giudiziari, ha prodotto un livellamento dei valori della professionalità dei magistrati verso il basso.

E qui non si tratta di auspicare il ritorno di anacronistici criteri elitari per la formazione professionale della magistratura, ma, molto più semplicemente ed umilmente, riconoscere che, attualmente, nel nostro Paese, in uno dei più difficili mestieri, quello del giudice, la formazione professionale è regolamentata in modo tale da non assicurare in modo efficiente il servizio-giustizia.

In qualsiasi azienda è un criterio addirittura elementare quello secondo cui il personale va adeguatamente selezionato, formato professionalmente e, quindi, destinato a quegli impieghi in cui le sue specifiche attitudini e professionalità possono essere maggiormente utili.

Per quanto concerne il servizio-giustizia, invece, questi concetti spesso non vengono tenuti in adeguata considerazione; eppure, se vige anche nella materia il principio della adeguatezza dei mezzi rispetto ai fini perseguiti, non si riesce a comprendere come si possa prescindere dalla idoneità professionale del personale, che è chiamato in concreto ad assicurare il controllo di legalità, nel modo più efficiente e, nel contempo, più rispettoso dei diritti del cittadino.

Al riguardo, un severissimo banco di prova sarà l’introduzione di quella autentica conquista di civiltà che è il nuovo codice di procedura penale.

Si afferma, infatti, fondatamente, che la riforma avrà esito positivo se, oltre alle indispensabili strutture materiali,vi sarà il necessario adeguamento delle “strutture mentali” di coloro, principalmente magistrati ed avvocati, che sono chiamati a rendere realtà viva ed operante un modello di processo che appare coerente e convincente soprattutto sotto il profilo della tutela delle libertà del singolo, ma che rappresenta una svolta radicale rispetto ai principi ed alle prassi precedenti della giustizia penale.

Per quanto concerne la magistratura, si respira il clima di preoccupazione e, nello stesso tempo, di eccitazione e di tensione morale caratteristico dei momenti più importanti della nostra giovane democrazia.

Segno, questo, che, nonostante i guasti provocati dalla degenerazione della vita associativa e dagli attacchi indiscriminati contro di essa, la magistratura è ancora un corpo sano e autenticamente democratico.

E sono sicuro che i magistrati faranno per intero il loro dovere per consentire alla riforma di avere completa e rapida attuazione.

Ma ciò non deve valere a sottovalutare che le strutture organizzative e la stessa formazione professionale dei magistrati necessitano urgentemente di un ripensamento e di una rielaborazione per renderle adeguate alla riforma.

E, soprattutto, va tenuto ben presente che la nuova struttura del processo penale, di tipo dispositivo, imporrà sostanziali modifiche nella formazione professionale del pubblico ministero rispetto a quella del giudice.

Si ha un bel dire quando si afferma che il nuovo processo penale italiano è un tertium genus rispetto ai modelli di tipo accusatorio ed inquisitorio, e che il nuovo pubblico ministero dovrà, comunque, ispirarsi alla deontologia e alle strutture mentali del magistrato.

Se non si terrà conto, infatti, che la connotazione come parte del pubblico ministero e la sua maggiore incisività nella ricerca e nella formazione della prova richiedono inesorabilmente una sua specifica professionalità, che lo differenzia necessariamente dalla figura del giudice (di cui correlativamente è stata accentuata la terzietà), si correrà il rischio concreto di formare dei pubblici ministeri professionalmente poco idonei e, quindi, di non assicurare un efficace funzionamento della giustizia penale.

Non si tratta di esprimere preferenze o timori per un pubblico ministero dipendente dall’esecutivo o per carriere separate all’interno della magistratura; anche se su questi temi ci si dovrà confrontare al più presto con mente scevra da preconcetti per elaborare e proporre le scelte ritenute più idonee.

Si tratta, invece, di prendere atto responsabilmente che le attitudini ed i compiti specifici del pubblico ministero, richiesti dal nuovo modello di processo penale, comportano una sua specifica formazione professionale, che coincide solo in parte con quella del giudice e che anzi, in punti qualificanti, ne diverge nettamente.

Una prima significativa indicazione in questo ordine di idee è data dal nuovo testo dell’art. 190 dell’ordinamento giudiziario introdotto dal D.P.R. 22 settembre 1988 n. 449, che, pur ribadendo la unificazione della magistratura nel concorso di ammissione, nel tirocinio e nel ruolo di anzianità, ne stabilisce la distinzione relativamente alle funzioni giudicanti e requirenti, e prevede che, per il passaggio di funzioni, occorre che il Consiglio superiore della magistratura, previo parere del Consiglio giudiziario, abbia accertatola sussistenza di attitudini alle nuove funzioni.

Forse sarebbe stato meglio, a mio avviso, prevedere, fin dall’inizio, anche mantenendo ferma l’unicità del tirocinio, un meccanismo idoneo, nella scelta della sede, ad assicurare la copertura dei posti senza automatismi e sulla base delle accertate attitudini dei neomagistrati alle specifiche funzioni; ma, probabilmente, l’introduzione di una siffatta normativa avrebbe ecceduto i limiti della delega.

E non si può negare che, attualmente, può essere problematico, in determinati casi, l’accertamento delle attitudini alle diverse funzioni.

Ma è importante che finalmente si cominci a comprendere che il concetto di professionalità non è un criterio astratto, ma un principio che va verificato ed applicato in concreto, sulla base delle specifiche attitudini ed esperienze professionali del magistrato.

Qualcosa, dunque, comincia a muoversi nella direzione di una maggiore razionalità dell’organizzazione del servizio-giustizia e, com’era facile prevedere, data la situazione di stallo in cui versa la magistratura associata, l’iniziativa del potere politico non è stata affiancata da un’adeguata ed attenta elaborazione in sede associativa.

Non ho notizia circa soddisfacenti ed adeguati dibattiti ed elaborazioni in sede associativa dei problemi della professionalità del giudice; ed è singolare che ciò avvenga in un momento in cui in sede legislativa si moltiplicano le iniziative che incidono in modo determinante sulla professionalità.

E, al riguardo, mi sembra grave che l’Associazione nazionale magistrati si stia muovendo con notevole ritardo in ordine ad un disegno di legge, già approvato in sede referente dalla Camera dei deputati, con cui si introducono nuove norme sui consigli giudiziari, sulla temporaneità degli uffici direttivi e monocratici e sulla reversibilità delle funzioni; su ognuno di questi temi di estremo interesse per l’assetto e per la funzionalità della magistratura, sono state adottate soluzioni di notevole portata, che non hanno ancora ricevuto, per quanto è a mia conoscenza, una presa di posizione ufficiale dell’Associazione nazionale magistrati, né, tanto meno, sono state adeguatamente vagliate in sede associativa.

Pur essendo impossibile, in questa sede, un esame ex professo del disegno di legge in questione, mi sembra doveroso richiamare l’attenzione, anzitutto, sulla introduzione nei Consigli giudiziari dei membri laici e, cioè, di avvocati eletti dal foro di appartenenza, e sulla notevole espansione delle attribuzioni di questi organismi.

In proposito, mi sembra doveroso di esprimere la mia convinta adesione a questa apertura ai contributi di una categoria, quella degli avvocati, che per la sua specifica professione è posta in grado di valutare, forse meglio di altri, i problemi locali della giustizia e di verificare la laboriosità e la capacità professionale dei giudici.

Mi sembra, invece, che si debba nettamente dissentire dalle soluzioni adottate in tema di temporaneità degli incarichi semidirettivi e direttivi e di reversibilità delle funzioni.

Apparentemente, si è dato ingresso al principio della temporaneità degli incarichi direttivi, con ciò esaudendo istanze associative che, per vero, non mi sembra che siano state coltivate con eccessivo impegno né, tanto meno, adeguatamente elaborate.

Senonché, il tipo di soluzione scelta, a mio avviso, costituisce l’ennesima conferma che nel nostro Paese nulla è più definitivo del provvisorio.

E’ previsto, infatti (art. 20), che i titolari di incarichi direttivi durino in carica cinque anni, con la previsione del conferimento di un ulteriore incarico direttivo in sedi giudiziarie del medesimo o di altro distretto di Corte di appello; sono previste, inoltre, unzioni di collaborazione direttiva (gli attuali incarichi semidirettivi), conferite anch’esse per un termine quinquennale e parimenti rinnovabili per un ulteriore quinquennio (artt. 26 e 27).

E così, fra incarichi di collaborazione direttiva ed incarichi direttivi veri e propri, il magistrato potrebbe svolgere funzioni, lato sensu, direttive, per un ventennio; considerato, pertanto, che ben difficilmente - dati gli attuali criteri adottati dal Consiglio superiore della magistratura - un magistrato può aspirare ad un incarico del genere prima dei cinquant’anni, non mi sembra che la situazione sia granché diversa rispetto a quella attuale.

Anzi, credo che le cose potrebbero ulteriormente aggravarsi: poiché, infatti, il disegno di legge non introduce alcun elemento di novità sulla valutazione delle attitudini all’esercizio di tali funzioni, ancora una volta potrebbero prevalere nel conferimento di tali incarichi criteri scarsamente riguardosi delle attitudini e, cioè, della specifica professionalità del candidato rispetto all’incarico da ricoprire.

Se si ritiene veramente che la temporaneità degli incarichi direttivi sia una scelta idonea per indurre spinte corporative ed assicurare una migliore funzionalità del servizio-giustizia, occorre che le scelte siano coerenti rispetto al fine e non perpetuino gli inconvenienti lamentati; e ciò, a mio avviso, è esattamente l’opposto di quanto avverrebbe sulla base della soluzione legislativa proposta.

Sconcertante, poi, mi sembra l’art. 29 del disegno di legge. Secondo tale articolo, il magistrato può chiedere l’assegnazione a diverse funzioni o il trasferimento ad altra sede, dopo un biennio dall’effettivo esercizio delle precedenti funzioni e, decorso un ulteriore quinquennio, il Consiglio superiore della magistratura, entro 180 giorni, deve assegnarlo ad altra funzione nella stessa sede e, ove ciò non sia possibile, trasferirlo ad altra sede. Non si discute che vi siano casi – meno infrequenti di quanto si possa pensare – di magistrati che trascorrono l’intera carriera, o comunque lunghissimi periodi, nella medesima sede, senza che possa farsi praticamente nulla per ovviare a situazioni che, spesso, producono conseguenze sgradevoli per la stessa immagine della amministrazione della giustizia.

E non è parimenti discutibile, a mio avviso, che un ripensamento della inamovibilità dei giudici, al fine di garantire una più efficace e razionale utilizzazione del personale della magistratura, ormai si imponga.

Ma la soluzione che si vuole introdurre è assolutamente in contrasto con qualsiasi esigenza di razionalizzazione del lavoro, mortifica la professionalità, costituisce grave gesto di sfiducia nella magistratura nel suo complesso ed è in contrasto con la norma, sopra richiamata, di cui all’art. 190 dell’ordinamento giudiziario.

Ancora una volta, si sceglie l’adozione di misure automatiche, che penalizzano l’attività della stragrande maggioranza dei magistrati che svolgono il loro difficile lavoro con correttezza e con impegno, per non adottare misure coraggiose che, nel concreto, pongano fine a situazioni inaccettabili o servano ad una migliore funzionalità della giustizia.

Mi sembra incredibile che una norma come quella di cui sopra non abbia ancora provocato la forte reazione della magistratura associata e che non siano stati ancora posti in luce, col necessario risalto, i gravissimi pericoli, specie in vista dell’applicazione del nuovo codice di rito penale, per l’aggravamento delle disfunzioni della giustizia.

Con una norma siffatta – che, per quanto mi risulta, sarebbe unica nel suo genere per gli impiegati civili dello Stato – ogni seria programmazione del lavoro giudiziario verrebbe compromessa; e verrebbero definitivamente mortificate quelle esigenze di specifica professionalità che, a parole, tutti affermano di volere perseguire.

Il Consiglio superiore della magistratura non sarebbe certamente in grado di far altro che occuparsi dei trasferimenti e delle assegnazioni di funzioni, e le spinte corporative troverebbero ulteriore linfa cui attingere.

Ecco, a mio giudizio, un chiarissimo esempio di come certe riforme, in nome di principi astrattamente condivisibili, se non adeguatamente vagliate, possono produrre danni gravissimi; ed ecco, altresì, la conferma della scarsa incisività dell’Associazione dei magistrati che, ripiegata su se stessa, non riesce ad elaborare idee e progetti concreti su cui confrontarsi in vista di riforme che rischiano di essere compiute nel peggiore dei modi.

Occorre, dunque, che, partendo dal principio-guida che l’indipendenza e l’autonomia della magistratura sono il necessario presupposto per una amministrazione della giustizia efficiente, ci si misuri, nel concreto, coi problemi esistenti, abbandonando sterili ed astratte posizioni di principio e, per converso, pretendendo il rispetto effettivo dell’indipendenza e dell’autonomia.

Bisogna abbandonare principi irreali, come quello della onniscienza del giudice, e rendersi conto che, in una realtà complessa come quella attuale, solo la specializzazione del giudice può consentire di comprenderla e dominarla.

Negare la specificità delle conoscenze e delle attitudini richieste per le varie funzioni del giudice, significa favorire la permanenza di situazioni di insoddisfacente professionalità che si risolvono nella attuale scarsa resa del servizio-giustizia.

E ciò determinerebbe l’allargamento ulteriore del solco fra la magistratura e la società; e il pericolo, sempre più immanente, di soluzioni inevitabilmente lesive dell’indipendenza e dell’autonomia del giudice.



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La foto è tratta da
Iovogliourlare