Più volte nelle interviste
televisive o in quelle rilasciate alla carta stampata il dott. Luca Palamara ha
affermato che il sistema delle correnti escludeva da qualsiasi nomina i
magistrati che non appartenevano, che non erano intranei ai gruppi associativi,
nel senso che non venivano nemmeno valutati, presi in considerazione. In buona
sostanza, il sistema nei fatti non li riconosceva nemmeno quali soggetti
legittimati a partecipare ai concorsi interni.
Non
solo, perché il dott. Eugenio Albamonte ha dichiarato recentemente al Corriere
della sera, in relazione alla sua nomina qualche anno fa a magistrato
segretario del CSM, che ciò avvenne secondo la prassi di scegliere i magistrati
segretari tra i più fidati appartenenti alle singole correnti riunite nei
rispettivi gruppi consiliari (Io fui nominato secondo le regole, e secondo la
prassi di scegliere i segretari del Csm non solo per competenze e
professionalità ma anche in riferimento ai gruppi rappresentati in Consiglio -
intervista rilasciata a Giovanni Bianconi e pubblicata in data 21/6/20), cioè a
dire che quei posti, benché messi a concorso, erano e sono in ogni caso
riservati ai magistrati che abbiano dimostrato fedeltà alla corrente.
Dunque,
una prassi assolutamente contra legem, perché in violazione dei principi di
buon andamento e di imparzialità della P. A., sanciti nell’art. 97 della Carta
costituzionale.
Ora,
nel nostro codice penale l’art. 323 punisce il pubblico ufficiale che
nell’esercizio delle sue funzioni, violando norme di legge o di regolamento,
intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale
ovvero arreca ad altri un danno ingiusto; sempre che il fatto non costituisca
un più grave reato.
Dunque,
affinché possa configurarsi l’abuso d’ufficio, è necessario che il pubblico
ufficiale violi una norma di rango primario (la legge) o secondario (il
regolamento) al fine di procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale anche ad
un terzo ovvero un danno ingiusto (che non deve essere necessariamente
patrimoniale).
Per
meglio comprendere la questione di cui si discute, qualche considerazione deve
essere svolta innanzitutto con riferimento a quella che gli addetti a lavori
chiamano doppia illiceità o doppia ingiustizia, nel senso che il giudice deve
compiere una duplice valutazione, sia con riferimento alla condotta che
all’evento.
Ciò non toglie che tale vaglio possa fondarsi sulla stessa
violazione di legge o di regolamento, che viene valutata da due angoli
prospettici diversi. Anche in questo caso, infatti, non vi sarebbe
sovrapposizione del giudizio di illiceità, essendo diverso l’oggetto (in un
caso la condotta, nell’altro l’evento), con la conseguenza che l’ingiustizia
del vantaggio patrimoniale o del danno potrà derivare dalla violazione delle
stesse norme di legge o di regolamento che hanno caratterizzato la condotta di
abuso del pubblico ufficiale.
Va evidenziato che sul punto si registrano
significative aperture della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 13426/2016,
n. 48913/2015, n. 11394/2015).
Nel
caso delle nomine di cui si discute non vi è dubbio che la prima violazione va
rinvenuta con riferimento all’art. 97 della Costituzione, che sancisce i
principi di buon andamento e di imparzialità della P. A. (come può funzionare
al meglio la macchina giudiziaria se le nomine vengono effettuate in base alla
appartenenza e non al merito? Come può dirsi imparziale una pubblica
amministrazione che seleziona i suoi procuratori della Repubblica o i suoi
presidenti di Tribunale sulla base della appartenenza, escludendo a priori i
magistrati estranei alle logiche inquinate del sistema correntizio?), prima
ancora che negli atti di normazione primaria e secondaria che disciplinano la
materia.
L’altro
aspetto che va sia pure sinteticamente approfondito è quello della
intenzionalità del dolo, nel senso che, per potersi configurare l’abuso
d’ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale intenzionalmente deve volere
procurare a sé o ad altri un vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto; è
necessario cioè che il p. u. abbia realizzato la condotta con l’intenzione, o
meglio, al fine di conseguire un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero di
arrecare ad altri un danno ingiusto.
Dunque,
la prova della intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza
che la volontà dell’agente sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio
patrimoniale o il danno ingiusto.
Anche
qui viene in soccorso l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di
Cassazione, che ha elaborato una serie di cosiddetti indici fattuali, che sono
rivelatori della intenzionalità del dolo: così, ad esempio, la «macroscopica
illegittimità dell’atto compiuto», l’«evidenza, la reiterazione e gravità delle
violazioni», ovvero la «competenza dell’agente» o ancora i rapporti
intercorrenti tra il pubblico agente e il soggetto favorito. Ebbene, anche da
una analisi superficiale emerge che quegli indici sintomatici si rinvengono
tutti nel caso delle nomine effettuate dal CSM, come disvelate pubblicamente
dal dott. Palamara e dal dott. Albamonte: la prassi citata da quest’ultimo,
così come la confessione del primo sopra sintetizzata, individuano un sistema
di nomine macroscopicamente contra legem; altrettanto deve dirsi per la
reiterazione delle nomine con quei meccanismi distorti, tanto da non costituire
atti sporadici, ma un vero e proprio sistema fondato su logiche clientelari;
gli atti sono emanati da un organo costituito da soggetti quantomai competenti,
i consiglieri superiori (scelti dai vertici delle correnti tra i magistrati
migliori e supinamente eletti dal corpo elettorale); i rapporti di tipo
clientelare intercorrenti tra i consiglieri riuniti in gruppi correntizi ed i
soci appartenenti alle varie correnti, tra i quali vengono divise le nomine, a
scapito dei magistrati non inseriti nel sistema.
Orbene,
se le affermazioni del dott. Albamonte dovessero corrispondere al vero, con
riferimento alle nomine dei magistrati segretari ci troveremmo davanti ad un
plateale abuso d’ufficio, connotato sia dall’ingiusto vantaggio patrimoniale
(tenuto conto del cospicuo incremento della retribuzione, rispetto ai colleghi
di pari anzianità che svolgono attività giurisdizionale), sia dall’altrui danno
(cagionato, oltre alla P. A., a tutti i magistrati non appartenenti al sistema
delle correnti, che sono stati pretermessi).
Lo
stesso deve dirsi per gli incarichi fuori ruolo, anche essi normalmente
preclusi ai non associati, laddove comportino un incremento stipendiale (cosa
che avviene nelle maggior parte dei casi).
Tuttavia,
l’abuso è configurabile anche in tutte le altre ipotesi, sotto il profilo del
danno intenzionalmente cagionato ai pretermessi. Cerchiamo di capire perché.
Alla
luce di quanto abbiamo finora evidenziato, si potrebbe sostenere che
l’obbiettivo del sistema è quello di piazzare i soci di corrente, non quello di
danneggiare i pretermessi estranei alle correnti, per cui, mancando la
intenzionalità del danno, non sarebbe configurabile il reato di cui all’art.
323 c. p.
Una
siffatta impostazione non può essere condivisa, perché l’evento
intenzionalmente voluto dal p. u. deve essere inteso in senso complessivo,
comprensivo cioè sia del vantaggio non patrimoniale conseguito dal nominato,
che del danno cagionato al pretermesso. In questi casi il p. u. vuole l’evento
nel suo complesso, costituendo l’ingiusto vantaggio procurato al socio piazzato
e l’esclusione aprioristica del concorrente, che non appartiene al sistema, due
facce della stessa medaglia. In altri termini, la nomina del magistrato
inserito nel circuito correntizio passa necessariamente attraverso la
pretermissione del collega estraneo ai gruppi associati, che pur partecipando
formalmente al concorso non viene nemmeno preso in considerazione.
Vi
è dolo intenzionale, in conclusione, non solo quando l’esclusione del
magistrato estraneo alle correnti costituisce l’obiettivo principale
dell'attività voluta dal consigliere superiore, ma anche quando tale
pretermissione era solo il mezzo per un ulteriore obiettivo (il piazzamento del
socio di corrente), ovvero quando era solo la conseguenza secondaria che si è
dovuta necessariamente realizzare per poter piazzare i propri sodali.
Anzi,
la complessiva lettura dei fatti emersi dalla indagine perugina, peraltro
confessati dal dott. Palamara, consente di affermare che l’esclusione dei
magistrati non affiliati alle correnti costituisca l’in sé del sistema, il
pilastro su cui lo stesso si regge; non un male sopportato, quale prezzo da
pagare per la perpetrazione del sistema, quanto piuttosto un male
pervicacemente voluto!
Naturalmente,
del reato di abuso d’ufficio sono chiamati a rispondere in concorso, quali
istigatori che hanno rafforzato il proposito criminoso dei consiglieri
superiori (che allo stato godono della immunità per i voti espressi
nell’esercizio della funzione), sia i questuanti direttamente interessati (di
cui le chat rivenute nello smartphone del dott. Palamara danno ampio conto),
sia gli intermediari ed i capibastone correntizi, che hanno interferito nelle
nomine, sponsorizzando - talora anche in maniera assillante, come emerge ancora
una volta dalle chat pubblicate - il consigliere superiore o il gruppo
consiliare di riferimento.
Non si sopporta una giustizia corrotta, bisogna lottare x non ci siano personaggi così meschini
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