Mentre il Governo si appresta ad introdurre l'ennesima eccezione per trattenere fuori ruolo oltre ogni limite di tempo uno dei mille magistrati assunti alle sue dipendenze (in sostituzione di altrettanti del governo precedente) riportiamo un intervento di Andrea Mirenda che pone l'accento sulla più urgente delle riforme che darebbe un senso, vero e sostanziale, al principio della separazione dei poteri.
Irrimediabilmente offuscato se un capo di gabinetto o un direttore di un ente nominato politicamente va a fare il capo di una procura della repubblica.
Ma questa "separazione delle carriere" è scomoda per tutti e non è all'ordine del giorno, neppure di questo Governo.
Ecco il testo.
In disparte ogni valutazione sul merito delle decisioni, ovviamente riservata al giudice dell'impugnazione, credo che la vicenda Apostolico o quella fiorentina ci offrano, comunque, una preziosa opportunità per discutere serenamente, senza contingenti fini strumentali, intorno al valore etico e deontologico della cosiddetta "apparenza di indipendenza".
Una raccomandazione, questa, puntualmente recepita anche in sede unionale, a riprova del suo preciso valore fondativo in ambito giurisdizionale.
Molti sono i pericoli di appannamento dell'apparenza di indipendenza, non solo - come oggi certa stampa vorrebbe far credere - quando il magistrato manifesti, in piazza o sui social e in modo più o meno scomposto, il proprio pensiero civile e politico; invero, questo principio entra in crisi - forse con non minore intensità - anche quando il magistrato si pone in condizioni di percettibile subalternità al potere politico e/o amministrativo, come sovente accade nelle ipotesi più esposte di "fuori ruolo".
Immaginiamoci, ad esempio, i casi del Capo di gabinetto, del Direttore Generale o del Sottosegretario presso una delle tante articolazioni ministeriali.
Siamo davvero certi che questi magistrati, per quanto tecnicamente valorosi, non palesino una chiara opzione politica ai danni non solo della separazione dei poteri ma anche, e ancor più, della terzietà
della toga?
Ecco, mi permetto di osservare che l'oramai ineludibile dibattito consiliare su questi temi troverebbe grande giovamento se preceduto da quello franco, non paludato e orizzontale, tra noi tutti, giudici e pubblici ministeri, anche alla luce dei principi costituzionali e comunitari che presiedono alla materia.
Il giudice, in sintesi, deve o no apparire indipendente? E se sì, quali le manifestazioni, quali i comportamenti idonei a mettere a rischio questo valore? Quali i ragionevoli limiti interni alla libertà di manifestazione di pensiero del giudice, tenuto conto che chi - come noi - ha poteri immensi non può
razionalmente rivendicare i medesimi diritti degli altri cittadini, secondo l'adagio elementare "tanti poteri/tanti doveri"?
E soprattutto, nel Terzo Millennio, c'è ancora bisogno del pensiero engagé di noi magistrati?
Una società civile globalizzata e "di rete", capace di interrogarsi e di elaborare una vastità di opinioni immaginabile solo vent'anni fa, ha ancora bisogno del faro togato?
Oppure quel faro rischia di essere, in questo tempo liquido, solo velleitario fattore di confusione e disorientamento ordinamentale?
Ecco, penso che un simile dibattito sarebbe di grande giovamento per tutti noi Consiglieri; ci aiuterebbe a mettere a fuoco, oltre ogni furbizia e autoreferenzialità correntizia, un tema che - se abbandonato al suo destino randomico - sarà foriero di gravi conseguenze generali.
Andrea Mirenda
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