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giovedì 28 febbraio 2008

Il C.S.M. a servizio di chi?



di Vincenzo Agosto
(Avvocato del Foro di Catanzaro)



Con l’intento di tenermi aggiornato stamattina mi sono ritrovato a leggere la sentenza 28/2008 emessa dalla Corte Costituzionale il 21 febbraio 2008 e la cui lettura è consentita a tutti cliccando qui.

Ebbene, ammetto che, non avendo distinto l’oggetto della decisione prima di aprire il collegamento, mi ero accinto a leggere stancamente e anche un po’ annoiato, perché l’ennesima pronuncia della Corte Costituzionale relativa a un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato mi appariva priva di un concreto interesse ed ero quasi in procinto di abbandonare la lettura quando ho compreso l’esatta ed effettiva portata della questione sottoposta al vaglio del Giudice delle Leggi: si trattava della pronuncia relativa alla assunta insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, comma 1 della Costituzione, di alcune opinioni espresse dall’allora deputato e ministro delle telecomunicazioni Maurizio Gasparri nei confronti del G.I.P. del Tribunale di Milano dott.ssa Clementina Forleo in seguito a una decisione resa dal magistrato, decisione con la quale taluni imputati erano stati assolti dall’accusa di terrorismo internazionale, e che, per essere storicamente precisi, deve ricordarsi essere stata dapprima sconfessata dalla Suprema Corte di Cassazione e successivamente ribaltata dalla Corte di Appello di Milano.

Orbene, prima di giungere al cuore della questione, ritengo sia opportuno riepilogare succintamente meglio gli eventi per coloro che non ne avessero memoria, tentando, poi, di semplificare su quanto la Corte Costituzionale era chiamata a decidere per permettere anche a quanti sono privi di una specifica preparazione giuridica di comprendere compiutamente il merito e la portata della questione.

Per brevità e con l’intento di non essere fuorviante, ritengo si possa riferire la vicenda estraendo un brano dagli atti parlamentari della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati il cui testo integrale è possibile leggere a questo collegamento:

«La dottoressa Forleo si è resa evidente, per la prima volta, alle cronache nazionali per avere il 24 gennaio 2005, emanato una sentenza nella quale – all’esito del giudizio abbreviato celebrato a carico di alcuni imputati, accusati di violazione delle leggi sull’immigrazione, di ricettazione e di associazione con finalità di terrorismo – ha ritenuto di non ravvisare la sussistenza di quest’ultimo reato.

Come è ben noto a tutti, i motivi che hanno portato la Forleo ad escludere, nei confronti dei sopraddetti imputati, le ipotesi di associazione con finalità di terrorismo risiedono nell’avere costei distinto la nozione di «terrorismo» da quelle di «resistenza» o di «guerriglia».

Avendo ritenuto sussistere la seconda e la terza ipotesi, e non la prima, nel caso di specie attinente alla situazione irachena, il magistrato ha pronunciato una sentenza di assoluzione.

[…]

Anche l’onorevole Gasparri è intervenuto a commentare la pronuncia in oggetto, con delle dichiarazioni alle agenzie Ansa e Adnkronos in data 25 gennaio 2005, e con un comunicato stampa del Ministero delle Comunicazioni in data 6 febbraio 2005»
.

In conseguenza di tali dichiarazioni, il G.I.P. Forleo sporse querela nei confronti del membro del Parlamento per il reato di diffamazione a mezzo stampa e il Tribunale di Roma aprì un procedimento penale, richiedendo alla Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati di potere procedere nei confronti di Gasparri.

Poiché l’Assemblea dei deputati si espresse ritenendo insindacabili le espressioni usate in quanto asseritamente formulate dal parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, il G.I.P. del Tribunale di Roma propose ricorso alla Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza sopra richiamata, ha stabilito «che non spettava alla Camera dei deputati affermare che i fatti per i quali pende un procedimento penale a carico del deputato Maurizio Gasparri davanti al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma […] costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione», annullando quindi «la delibera di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati».

Fin qui una ordinaria ricostruzione degli eventi e uno scolastico chiarimento su una vicenda giudiziaria, per cui probabilmente il lettore si domanderà cosa vi sia di interessante in questo scritto.

Ebbene ammetto che ciò che mi è apparso degno di nota non è stata la decisione (che a una prima lettura mi pare adeguatamente e correttamente argomentata), quanto l’inquietante contenuto delle dichiarazioni rese dall’onorevole Gasparri che hanno dato luogo al procedimento penale e che oggi appaiono in qualche modo profetiche visto il procedimento in corso innanzi al C.S.M. nei riguardi della dott.ssa Clementina Forleo, tra l’altro avviato, se la memoria non mi tradisce, per la richiesta avanzata dallo stesso magistrato di autorizzazione all’utilizzo di alcune intercettazioni nei confronti dell’onorevole e attualmente ancora ministro D’Alema, dell’onorevole Fassino e di altri deputati.

Riporto tali affermazioni per come nella sentenza annotate e citate anche negli atti della Giunta per le autorizzazioni: «una decisione incredibile, sconcertante e allarmante, fuori da ogni schema razionale, basata su una scelta ideologica. Oggi vive gente che si trova al di fuori del mondo e che non si ricorda che c’è stato un evento terribile come l’11 settembre [...] il Governo deve valutare con urgenza l’emanazione di norme che impediscano a GIUDICI IRRESPONSABILI di lasciare a piede libero degli autentici terroristi [...] IN OGNI CASO IL C.S.M. DEVE INTERVENIRE PERCHÉ UN MAGISTRATO CHE HA FATTO QUESTE COSE È UN PERICOLO PER LA SICUREZZA ED È UNA PERSONA CHE NON PUÒ SVOLGERE QUELLA FUNZIONE».

Eccoci dunque giunti alla vera essenza di questa notazione.

A me pare gravissimo dovere riscontrare che quanto richiesto da Gasparri con modalità finite davanti al giudice penale si stia avverando nel procedimento a carico della dott.ssa Forleo davanti al Consiglio Superiore della Magistratura, evidentemente supinamente appiattito sulle posizioni dei politici e sulle loro necessità.

A me pare incredibile che il Consiglio Superiore della Magistratura, che, quale organo di autogoverno dei giudici di rilevanza costituzionale, dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza dagli altri poteri dello Stato (vedasi Wikipedia), faccia sostanzialmente proprie le esternazioni di Gasparri, traducendole in un procedimento disciplinare a carico di un magistrato.

Infine gli interrogativi, le perplessità e le preoccupazioni.

Saprà il G.I.P. del Tribunale di Roma sopportare il dubbio che quanto accaduto alla Forleo e a De Magistris non accadrà anche a lui?

Saprà il C.S.M. resistere alla tentazione di rendersi gradito al politico di turno?

Saprà il rappresentante del popolo inquisito non cedere all’ormai facile espediente della rimozione del magistrato che indaga?

Saprà la Magistratura rimarginare il proprio tessuto affrontando con serenità i procedimenti in cui risultano implicati soggetti dediti alla politica?

Queste le domande conseguenti ai procedimenti portati a termine nei confronti di De Magistris e ancora in corso riguardo alla Forleo (con un esito per la verità oramai scontato) da un C.S.M. evidentemente incapace di comprendere che la capziosità con cui ha agito ha sì permesso di raggiungere nell’immediato un definito e predeterminato obiettivo spazzando via due “cattivi” magistrati, ma ha anche irrimediabilmente minato per il futuro la magistratura, i cui componenti non potranno più operare obiettivamente, essendo consci che i procedimenti, siano essi di rilievo penale o civile, nei quali siano parte rappresentanti del popolo potrebbero condurli ad analoga sorte già spettata ai loro colleghi.

Concludo.

Vedete, io credo che quando un avvocato in un momento storico nel quale sarebbe ben facile e assai redditizio scagliarsi contro i magistrati si ritrova piuttosto a difenderli non in virtù di un rapporto professionale, ma perché ne avverte l’urgenza civica, in tal modo sovvertendo le non scritte regole ben note anche a chi abbia avuto rapporti seppure minimi con qualsivoglia ambiente giudiziario, allora probabilmente qualcosa di angosciante, critico e grave è avvenuto, o si sta ancora verificando.


Altre considerazioni tecniche sulla sentenza del C.S.M. nei confronti di Luigi De Magistris: il capo B)


Facendo seguito al post con il quale Felice Lima ha trattato la parte della motivazione della sentenza disciplinare nei confronti di Luigi De Magistris relativa al capo di incolpazione contraddistinto dalla lettera “E” (post che può essere letto a questo link), e al post con il quale Francesco Siciliano ha trattato il capo di incolpazione contraddistinto dalla lettera “C” (post che può essere letto a questo link) pubblichiamo uno scritto di Nicola Saracino che analizza la parte della sentenza relativa al capo di incolpazione contraddistinto dalla lettera “B”). Un altro scritto di Nicola, sul capo di incolpazione contraddistinto dalla lettera “G”, può essere letto a questo link.

_______________

di Nicola Saracino
(Magistrato)



Mi occuperò del capo della sentenza disciplinare nei confronti di Luigi De Magistris relativo all’incolpazione contraddistinta dalla lettera B).

L’incolpazione è stata formulata nei seguenti termini testuali (l’intero atto di incolpazione può essere letto a questo link):

«B) della violazione degli artt. 1 e 2, 1° co. lett. a), g), e u) del D.Lgs. 109/2006 per avere, con grave e inescusabile negligenza, emesso, nell’ambito del procedimento penale n. 3750/0321-n. 444/05-21, denominato “Toghe lucane”, in data 5.6.2007, un decreto di perquisizione locale nei confronti del dr Vincenzo Tafano, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Potenza, ed altri, eseguito il successivo 7.6.2007, connotato da gravi anomalie, quali l’evidente non pertinenza della motivazione (attestata altresì dal successivo annullamento del Tribunale del riesame con ordinanza in data 3.7.2007) nella parte in cui richiamava procedimenti penali sforniti di qualsivoglia attinenza ai reati ipotizzati, con conseguente illegittima diffusione dei relativi atti di indagine, e violazione del diritto alla riservatezza delle persone impropriamente nominate, tra le quali due magistrati del Tribunale di Potenza, che si ipotizzava avessero una relazione extraconiugale fatto, pur se eventualmente fondato, del tutto indifferente sia ai fini indiziari sia ai fini della motivazione dell’atto».

La difesa di Luigi De Magistris sul punto è stata la seguente (l’intera memoria difensiva può essere letta a questo link):

«In ordine alla contestazione di cui al capo B) evidenzio:

Infondatezza dell’addebito. Si tratta di decreto di perquisizione particolarmente motivato in cui tutti gli elementi ivi indicati rappresentavano i fatti allo stato da contestare agli indagati, nonché le fonti di prova poste alla base del provvedimento emesso. Decisi di effettuare una discovery ampia per consentire agli indagati di conoscere subito le contestazioni e le fonti di prova, per garantire loro di potersi difendere immediatamente in modo compiuto, così come rappresentai allo stesso Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Potenza al momento dell’esecuzione dell’atto da me curato personalmente unitamente alla polizia giudiziaria. Ricordo perfettamente che rappresentai al dr Tufano le ragioni dell’articolata motivazione sostenendo che si trattava degli elementi fino ad allora raccolti e che mi sembrava corretto consentire alle persone coinvolte, tenuto anche conto del ruolo istituzionale ricoperto, di difendersi punto per punto.

Nella mia esperienza professionale, non più breve, pensavo bisognasse eventualmente difendersi da addebiti con riferimento a provvedimenti privi di motivazione e non certo per atti con motivazioni troppo articolate. Certo ogni scelta è opinabile, criticabile, impugnabile nelle sedi giurisdizionali, forse in questo caso vi è stato uno zelo per esigenze di garanzie, ma non credo certo si tratti di un provvedimento abnorme.

Non mi risulta, contrariamente a quanto sostenuto dal Procuratore Generale della Corte di Cassazione nell’atto di incolpazione, che il decreto di perquisizione nei confronti del dr Tufano sia stato annullato dal Tribunale del Riesame (ricordo solo a me stesso, comunque, che le perquisizioni non si annullano, semmai i sequestri effettuati a seguito delle perquisizioni: probabilmente si tratta di meri refusi in cui si sono imbattuti sia il Ministro della Giustizia che il Procuratore Generale della Corte di Cassazione).

Non è vero che non vi sia adeguata motivazione sulla pertinenza così come indicato nelle imputazioni formulate dall’Ispettorato del Ministero della Giustizia. Un’attenta e non superficiale lettura dell’atto fa evidenziare l’esatto contrario, si tratta di provvedimento motivato anche con riguardo alla pertinenzialità della motivazione e delle cose da ricercare. Sul punto è sufficiente ricordare, a mero titolo esemplificativo, a dimostrazione della correttezza dell’operato dell’Ufficio, che nel verbale analitico di sequestro espletato all’esito della perquisizione al dr. Tufano, alla sua costante presenza, sono stati indicati gli atti acquisiti con riferimento al decreto di perquisizione e nessuna obiezione è stata sostanzialmente evidenziata con riferimento alla pertinenza del materiale appreso. E’ sufficiente leggere il verbale di perquisizione e sequestro per rendersi conto del modo con cui hanno operato il PM e la Polizia Giudiziaria.

Con riferimento all’annullamento del Tribunale del Riesame si evidenzia che solo un indagato – l’avv. Labriola – ha presentato istanza di riesame e che, quindi, gli altri indagati hanno ritenuto di prestare acquiescenza al provvedimento e non sottolineare alcuna censura nella fase incidentale del procedimento penale. Non posso che rilevare che è nell’essenza stessa della “vita” del procedimento penale che un provvedimento possa essere annullato, confermato o riformato. Potrei dire che spesso la Corte di Cassazione ha accolto miei ricorsi contro decisioni del Tribunale del Riesame di Catanzaro (da ultimo il mio ricorso, proprio nel procedimento penale cd. toghe lucane, contro l’annullamento da parte del Tribunale del Riesame dei sequestri successivi alle perquisizioni, nei confronti degli indagati dr.ssa Genovese e dott. Cannizzaro), così come altre volte la stessa Suprema Corte ha respinto miei ricorsi: mi sembra assolutamente ovvio tutto questo.

Non corrisponde al vero la circostanza che vengono richiamati procedimenti penali sforniti di qualsivoglia attinenza ai reati ipotizzati (ogni elemento indicato nel decreto aveva ed ha una valenza indiziaria, salvo che gli organi disciplinari non vogliano sostituirsi al giudice naturale per legge, peraltro ad indagini in pieno svolgimento) e quindi, di conseguenza, alcuna illegittima diffusione di atti d’indagine vi è stata.

Non vi è stata violazione del diritto alla riservatezza in quanto quest’Ufficio ha ritenuto di inserire le dichiarazioni di Magistrati del distretto della Corte d’Appello di Potenza che hanno fatto propalazioni che, a loro dire, anche con riferimento alla indicata relazione extraconiugale, servivano a comprendere compiutamente la ricostruzione dei fatti-reato per cui si procedeva e l’andamento di alcuni processi. Non è questo il caso di pubblicazioni, ad esempio, di stralci di intercettazioni dal contenuto privato e personale che non sono di alcun rilievo penale, si tratta, invece, di dichiarazioni di un magistrato del Tribunale di Potenza che sono state da lui rilasciate, con assunzione di responsabilità, con riferimento a condotte criminali che quest’Ufficio stava ricostruendo, con particolare riguardo a rapporti tra magistrati ed esiti di processi penali».



La sentenza – che può essere letta integralmente a questo link – tratta la questione alle pagg. 14-19, nei seguenti termini testuali:

«Con riferimento al capo B)

- che in data 5.6.07 il dott. De Magistris ha emesso decreto di perquisizione locale nel procedimento n. 3750/03 relativo a V. Tufano, G. Labriola, L. Fasano, F. Bubbico ed altri (cfr. doc. pag. 3262 faldone fascicolo generale proc.to n.10/07 R.O.);

- che il Tufano risulta indagato in ordine al reato di cui agli artt.110-323 c.p. mentre il Labriola in ordine ai reati di cui agli artt. 319 ter-321-416 c.p. (cfr. pag. 1 del decreto);

- che nella parte iniziale del provvedimento si premette che la procura della Repubblica di Catanzaro sta svolgendo indagini su un sodalizio in grado di condizionare l’attività delle istituzioni attraverso la collusione di intranei alle stesse (magistratura, forze dell’ordine, amministrazioni locali e ministeri);

- che il provvedimento prosegue quanto al Tufano rappresentando che egli appare essere “il punto di riferimento di taluni avvocati e magistrati al fine di esercitare le proprie funzioni per danneggiare altri magistrati ed altri avvocati che, nell’ambito delle loro funzioni si sono trovati ad avere a che fare con i “poteri forti” operanti in modo anche occulto in Basilicata”; quanto al Labriola che lo stesso è in grado attraverso radicate collusioni all’interno della magistratura di influire sull’andamento di procedimenti giudiziari, perseguendo interessi affaristici ed occulti (cfr. pag. 2);

- che nella parte relativa agli elementi emersi nei confronti del Tufano (cfr. pag. 2 e ss.) sono riportate le dichiarazioni rese dal dott. A. Iannuzzi, g.i.p. del tribunale di Potenza nell’audizione del 30.3.07 ed in un esposto depositato il 12.5.07;

- che nelle predette dichiarazioni il dott. Iannuzzi riferisce di un accanimento nei suoi confronti del procuratore generale Tufano, autore di rilievi ingiustificati nei confronti del suo modo (ma anche di quello di altri) di esercitare la funzione giurisdizionale (sempre in relazione a vicende giudiziarie contraddistinte dal coinvolgimento di personalità di rilievo) ma inerte rispetto ad altri fatti ritenuti ben più gravi (cfr. pagg. 8-18);

- che con specifico riguardo alla parte dell’incolpazione relativa ad una relazione extraconiugale tra magistrati, nel decreto si riporta una affermazione in cui, il dott. Iannuzzi, premesso che “al dott. Tufano sembra essere sfuggita un’altra circostanza” riferisce, premettendo ancora, sia pure come “condizionale d’obbligo”, un “sembra”, di una relazione sentimentale intercorrente tra un giudice ed una pubblico ministero di Potenza impegnati nello stesso processo ed indicati nominativamente;

- che la circostanza appare riferita in quanto ritenuta indicativa della non equanimità del procuratore generale “particolarmente attivo e solerte nel segnalare presunte violazioni” del detto g.i.p., ma non altrettanto pronto ad evidenziare un altro fatto grave in quanto idoneo a compromettere l’immagine di chi esercita la funzione giurisdizionale, che deve essere caratterizzata da terzietà ed indipendenza;

- che il decreto prosegue con la indicazione degli elementi di riscontro alle dichiarazioni del dott. Iannuzzi (cfr. pagg. 18 e ss.);

- che tra i predetti elementi non se ne indicano di relativi alla citata relazione sentimentale ed alla conoscenza della medesima da parte del procuratore generale (né alla loro eventuale esistenza si fa cenno nella memoria difensiva); che il giudice asseritamente coinvolto nella relazione sentimentale, con missiva del 3.7.07 diretta al CSM ha negato (cfr foglio 2797 faldone n. 3-4 proc. n. 10/07 R.O.) di aver avuto alcuna relazione sentimentale con la collega pubblico ministero, nonchè chiarito e documentato (cfr successivo foglio 2940 relativo a missiva diretta al presidente del tribunale di Potenza recante timbro del 7.2.07) di aver ricevuto a gennaio 2007 una lettera anonima del seguente tenore “si prega astenersi altrimenti foto e registrazioni con dott.ssa (segue cognome). Proc. Basilischi grazie” e di averla trasmessa al presidente del tribunale rappresentandogli la sua assoluta serenità, rimettendo a lui comunque ogni decisione e chiedendo la trasmissione dell’anonimo alla procura della Repubblica di Catanzaro;

- che sia il giudice sia la pubblico ministero hanno rappresentato il (intuibile) nocumento subito a livello sia personale sia professionale, dalle dichiarazioni del dott. Iannuzzi e dalla loro diffusione (cfr la memoria-esposto del giudice riportata a pag. 155 e ss. della relazione ispettiva del 8.9.07 nonché la richiesta del 23.7.07 di apertura pratica a tutela della pubblico ministero a foglio 5251 faldone n. 6 proc. n. 10/07 R.O.);

- che ancora, con specifico riferimento alla parte di incolpazione inerente all’avvenuto richiamo di “procedimenti penali sforniti di ... attinenza ai reati ipotizzati”, con conseguente impropria indicazione di persone, dalla lettura del decreto è facile individuare la circostanza, richiamata anche dal procuratore generale nella sua requisitoria, relativa alle dichiarazioni del tenente colonnello dei Carabinieri S.P. (cfr pagg. 107 e ss.); che infatti nel decreto sono riportate le dichiarazioni rese dall’ufficiale relative ad indagini svolte nel 1994/95 con riguardo ad “orge che a suo dire (della collaboratrice M.T.B.) si sarebbero svolte a Policoro”; dichiarazioni nelle quali si fa espressamente il nome, quali persone che erano state indicate come partecipi, del Labriola e di un altro avvocato (anch’egli parte del procedimento penale come chiarito nell’arringa difensiva) nonché di un magistrato che “parve ... essere descritto e riconoscibile” anch’egli indicato nominativamente e parte nel procedimento (cfr pag. 14 della relazione della procura di Salerno a foglio 244 del faldone n. 1 da cui risulta l’iscrizione nel registro notizie di reato lo stesso 5 giugno 2007);

- che nel rendere le dette dichiarazioni l’ufficiale rappresenta che le indagini relative al magistrato, all’avvocato ed al Labriola, andarono a Salerno (pag. 111) che “... concluse archiviando questo procedimento in quanto, sempre che io ricordi, non emergevano ipotesi di reato perché fare orge non è reato, consumare droga non è reato” (pag. 109);

- che ancora il predetto, che pur dà conto degli esiti di alcune attività di indagine da lui poste in essere “limitate perché chiaramente non potendo indagare sui professionisti citati”, si esprime in termini dubitativi sui fatti: “... se erano vere queste orge ...”, “... posso dare una spiegazione, un motivo per cui sparirono tutte quante queste videocassette, se c’erano” (cfr pagg. 109-110);

- che il decreto prosegue riportando le dichiarazioni rese all’epoca dalla M.T.B. e relative anche a fatti di evidente rilevanza penale, quelle del suo convivente collaboratore di giustizia (che parla di quello che la donna gli ha riferito) nonché quelle rilasciate al P.M. il 11.5.07 da S.S, detenuto a Melfi, che dichiara (laconicamente): “E’ vero quanto ha raccontato la M.T.B.” per averlo saputo da terza persona;

- che nella detta memoria l’interessato ha rappresentato in sintesi

a) che si tratta di un provvedimento particolarmente motivato in cui tutti gli elementi indicati, oltre a rappresentare i fatti allo stato da contestare nonché le fonti di prova, hanno una valenza indiziaria

b) che ha deciso di effettuare una discovery ampia per consentire agli indagati di conoscere subito le contestazioni e le fonti di prova per garantire loro la difesa

c) che pensava di doversi eventualmente difendere da addebiti riferiti a provvedimenti privi di motivazione e non certo per atti con motivazioni troppo articolate

d) che non vi era stata violazione del diritto alla riservatezza essendosi ritenuto di inserire le dichiarazioni di magistrati che avevano fatto propalazioni che, a loro dire, anche con riferimento alla indicata relazione extraconiugale, servivano a comprendere la ricostruzione dei fatti-reato per cui si procedeva;

_________


che l’art. 1 del vigente decreto legislativo 23.2.06 n. 109 sancisce che il magistrato esercita le funzioni con imparzialità, correttezza, diligenza, riserbo ed equilibrio, rispettando la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni; che il successivo art. 2 prevede come illecito disciplinare i comportamenti che violando gli indicati doveri, arrechino ingiusto danno ad una delle parti; che nella vigenza dell’abrogato art. 18 R.D.L.vo 31.5.46 n. 511 questo giudice ha avuto ripetutamente modo di occuparsi del problema della sindacabilità disciplinare del provvedimento giurisdizionale;

- che secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale se il principio di indipendenza della magistratura sancito dagli artt. 101 e 104 della Costituzione esclude la sindacabilità degli atti posti in essere dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni – motivo per cui l’inesattezza tecnico-giuridica del provvedimento giudiziario, censurabile con i mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento, non può di per sé costituire illecito disciplinare – tuttavia detta insindacabilità viene meno qualora il provvedimento per scarso impegno, approssimazione, insufficiente ponderazione, limitata diligenza ovvero per una determinazione arbitraria in quanto determinata da dolo o colpa grave, risulti al di fuori delle finalità che gli sono proprie;

- che con più specifico riguardo al caso di specie la giurisprudenza di legittimità (cfr Cassazione civile, sezioni unite, 27.5.99 n. 318) ha avuto modo di chiarire che:

a) i provvedimenti giudiziari possono richiedere l’indicazione di fatti relativi a soggetti che possono risultare danneggiati dalla diffusione di notizie lesive della riservatezza o dell’onore; diffusione tuttavia lecita ove necessaria per la redazione del provvedimento e per l’esplicazione del potere giurisdizionale

b) la valutazione circa la necessità o meno dell’indicazione di un fatto costituisce oggetto di un giudizio che può essere compiuto solo dal magistrato che emette il provvedimento e non può essere sindacato in sede disciplinare

c) l’insindacabilità viene però meno ove il provvedimento sia basato su una grave o inescusabile negligenza; in questo caso oggetto della censura non è il provvedimento quale risultato dell’attività intellettiva bensì il comportamento del magistrato che nell’adottarlo dia prova di trascuratezza e non esplichi la massima diligenza;

- che dunque il sindacato disciplinare non deve riguardare la scelta del dott. De Magistris di riportare le circostanze descritte in premessa, ma resta da vagliare se egli abbia prima usato la necessaria diligenza nei relativi accertamenti; che a tal proposito è indubbio che, quanto più elevata è la capacità lesiva dell’onore e della riservatezza di un fatto, maggiore deve essere la diligenza esplicata nella sua verifica;

- che con riguardo alla circostanza della “relazione sentimentale”, va rilevato che essa è riportata a livello di “sentito dire” e che dal provvedimento non risultano posti in essere ulteriori accertamenti; che detta circostanza si presentava in tutta evidenza gravemente lesiva della riservatezza dei due interessati (a livello sia delle relazioni interpersonali di ciascuno di essi sia della dignità professionale);

- che anche con riguardo alla dichiarazione, che sembrerebbe potersi definire “retorico-dubitativa”, circa la conoscenza o meno da parte del dott. Tufano della relazione sentimentale, dal decreto non risulta siano state poste in essere verifiche;

- che tuttavia anch’essa era evidentemente lesiva della dignità e dell’onore del procuratore generale Tufano;

- che infatti o lo stesso non vedeva quello che era evidente (circostanza tutt’altro che commendevole per l’autorità distrettuale requirente di vigilanza) oppure, ancorché vedesse, lasciava correre un fatto lesivo dell’immagine della magistratura;

- che proprio detta capacità lesiva avrebbe dovuto indurre il dott. De Magistris alla massima diligenza nell’effettuare ulteriori accertamenti al fine di ridurre al minimo il rischio di errore nella divulgazione del dato e nella valutazione della sua utilità ai fini motivazionali (dandone poi conto nel provvedimento unitamente alle ragioni delle sue, insindacabili, scelte);

- che se questo fosse avvenuto il predetto avrebbe potuto sia riportare sia vagliare il fatto che il giudice in questione aveva ricevuto un anonimo ricattatorio e di ciò aveva reso edotto il presidente del tribunale con missiva avente data certa anteriore alle dichiarazioni del dott. Iannuzzi e con la quale si chiedeva di informare la competente procura della Repubblica (con conseguente possibilità di una più completa lettura sia delle “notizie” circa la relazione sia dell’adombrato connivente silenzio del procuratore generale);

- che dunque il dott. De Magistris ha riportato nel decreto di perquisizione le affermazioni in questione, lesive della dignità, dell’onore e del decoro delle persone senza porre in essere (o almeno senza darne conto) gli accertamenti necessari;

- che in tal modo lo stesso è venuto meno ai doveri di cui al citato art. 1;

- che tale mancanza ha arrecato danno al dott. Tufano, in quanto la circostanza riferita ha gettato sul predetto discredito con riguardo all’esercizio dei compiti di vigilanza di sua precipua spettanza ed, evidentemente grave, danno ai due magistrati indicati come “sentimentalmente uniti”;

- che ancora il danno arrecato sia al procuratore generale sia agli altri due magistrati appare ingiusto;

- che esso infatti sarebbe stato giustificato se, una volta compiuto un accertamento del fatto caratterizzato da adeguata diligenza, il dott. De Magistris, dandone conto, lo avesse giudicato tale da integrare, sia pure unitamente ad altri elementi, il “fondato motivo di ritenere” che l’art. 247 cp.p. indica come presupposto della perquisizione (a differenza dell’art.332 del codice abrogato che utilizzava il verbo “sospettare”);

- che diversamente la sommarietà dell’accertamento e così la violazione del dovere di diligenza – inescusabile in considerazione del rilievo che le affermazioni evidentemente assumevano per tutte le persone coinvolte – incidendo sulla possibilità di vagliare adeguatamente quanto rappresentato, ne rende ingiustificato il richiamo ed ingiusto il danno che ne è conseguito; che tuttavia va rilevato che la disposizione incriminatrice di cui alla letta) dell’art. 2 comma 1 del decreto legislativo n. 109 del 2006 sanziona espressamente solo i comportamenti nei confronti di una delle parti; che dunque, ancorché la limitazione appaia di difficile comprensione (meritando i terzi tutela almeno al pari delle parti) il danno arrecato ai due magistrati non assume rilevanza disciplinare;

- che così per tale parte del decreto l’incolpato va ritenuto responsabile della violazione di cui all’art. 2 comma 1 letta) limitatamente alla persona del dott. Tufano;

- che con riguardo alla seconda delle circostanze richiamate in premessa va rilevato che il dott. De Magistris ha ritenuto di riportare dichiarazioni relative al coinvolgimento di persone in fatti risalenti ad oltre dieci anni fa, omettendo (o perlomeno non dandone conto nella motivazione del provvedimento) accertamenti sull’archiviazione segnalatagli;

- che poiché nelle dichiarazioni rese da M.T.B. la partecipazione a “feste” era evidentemente connessa al compimento di reati, la notizia di un’archiviazione – attesi l’epoca delle originarie dichiarazioni, il carattere prudentemente dubitativo delle dichiarazioni dell’ufficiale dei carabinieri e quello “de relato” delle affermazioni del detenuto, la competenza di autorità giudiziaria del tutto estranea alle vicende – avrebbe imposto il vaglio delle relative risultanze (quanto meno per verificarne la loro insoddisfacente capacità persuasiva in relazione alle informazioni acquisite dall’ufficiale e dal detenuto);

- che dunque anche in questo caso l’interessato ha riportato dichiarazioni da cui sarebbe chiaramente derivata la lesione dell’immagine di più persone, senza porre in essere (o almeno senza darne conto) tutti gli accertamenti possibili che la peculiarità del caso rendeva necessari;

- che in questo modo lo stesso è venuto meno ai doveri indicati nell’art. 1 del decreto legislativo n. 109 del 2006 incorrendo nei confronti delle parti indicate, per lo stesso ordine di considerazioni già sviluppate, nella medesima violazione;

- che infine, con riguardo alle spiegazioni fornite, oltre a quanto osservato finora, va rilevato che esse non sono dotate di valenza giustificatrice; che infatti per un verso appare non conforme al nostro sistema processuale affidare alla perquisizione, mezzo di ricerca della prova caratterizzato dalla sorpresa e destinato a divulgazione (nel caso di specie prevedibilmente molto ampia) prima che l’interessato possa rappresentare le proprie ragioni, la finalità di discovery a fini di difesa; per un altro il sindacato sulla rilevanza disciplinare della condotta del magistrato che abbia adottato un provvedimento va effettuato, nei limiti consentiti, non con riguardo al minore o maggiore “pondus” di quest’ultimo, bensì al rispetto da parte sua dei doveri, in primis quello di diligenza, indicati dalla legge».


Tre sono le fattispecie disciplinari contestate dalla Procura Generale; si tratta, in particolare, di quelle previste dalle lettere a), g), ed u) dell’art. 2 del D. L.vo n. 109 del 2006 che si riportano per comodità di lettura.

Illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni.

1. Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni:

a) fatto salvo quanto previsto dalle lettere b) e c), i comportamenti che, violando i doveri di cui all’articolo 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti;


g) la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile;


u) la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui;


Di seguito le maggiori perplessità suscitate dalla lettura della motivazione del relativo capo di condanna della sentenza emessa dalla Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.


Con riferimento all’art. 2 lett. a)

L’accusa aveva congetturato il danno alla riservatezza di persone impropriamente nominate nel decreto di perquisizione riferendosi ai due magistrati tra i quali s’era ipotizzata una relazione sentimentale, soggetti che, tuttavia, non erano “parte” nel procedimento istruito dal dott. De Magistris; la condanna, inopinatamente, è intervenuta per il danno arrecato ad altra persona, non specificamente indicata dall’accusa, vale a dire il Procuratore generale di Potenza, che sarebbe stato indebitamente esposto al discredito dato dall’insinuazione di essere venuto meno ai propri doveri di vigilanza per non aver prestato attenzione alla (ipotetica) relazione amorosa di due magistrati (Pm e Giudice) che avevano svolto le loro funzioni in uno stesso processo.

Pur volendo omettere il giudizio sulla scarsa plausibilità di tale “discredito”, nel contesto di un procedimento penale che vedeva il P.G. di Potenza accusato di addebiti ben più gravi, l’“aggiustamento” del tiro operato dalla Sezione disciplinare dipende dalla presa d’atto (non esente da recriminazioni) che il discredito arrecato a terzi proprio non rientra nella norma incriminatrice invocata dall’accusa; tuttavia tale adattamento dei fatti presta il fianco al rilievo di cui s’è detto, potendo paragonarsi quanto verificatosi all’ipotesi dell’imputato tratto a giudizio per rispondere del delitto di diffamazione in danno di Tizio e condannato, invece, per diffamazione in danno di Caio.

Solo rimarcando che la tipizzazione dell’illecito disciplinare, unitamente alla previsione dell’obbligatorietà dell’esercizio della relativa azione, impongono una rigorosa applicazione del principio di contestazione dell’addebito – funzionale all’esercizio del diritto di difesa e rispettosa della separazione delle funzioni dell’accusa da quelle giudicanti – diviene agevole cogliere il vizio processuale della mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 521 c.p.p.).


Con riferimento all’art. 2, lett. G)
( la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile)

La sentenza evita accuratamente di indicare la norma di legge violata in relazione alla quale valutare la “gravità” della trasgressione e la sua origine da “ignoranza” o “negligenza inescusabile”; si limita, invece, alla generica allegazione del dovere di diligenza di cui all’art. 1 del d. lgs. n. 109 del 2006.

Tale ultima disposizione, tuttavia, è priva di contenuto autonomo (se non ci fosse nulla cambierebbe nel mondo giuridico) e ripete il precetto da fonti normative diverse dal codice disciplinare: affermare, com’è stato fatto, che è stato violato l’art. 1, senza indicare la diversa norma trasgredita, costituisce artificio logico sintattico di nessun significato.

Del resto se il riferimento implicito riguardasse la motivazione “non pertinente” o “sovrabbondante”, dovrebbe obiettarsi che tali patologie sfuggono alla catalogazione dei vizi della motivazione posta dall’art. 606 lett. e) c.p.p., che vi include soltanto la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità.


Con riferimento all’art. 2 lett. U)
(la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui)

Questa figura di illecito disciplinare colpisce, alternativamente:

a) la “divulgazione”, anche colposa, di atti coperti dal segreto o dei quali, sebbene non segreti, sia in ogni caso vietata la pubblicazione;

b) la violazione del dovere di riservatezza sugli affari trattati quando possa ledere, indebitamente, diritti altrui.


Se si eccettua il riferimento all’anticipazione della c.d. discovery, che il giudice disciplinare reputa impropria, nessun cenno si coglie all’art. 2, co. 1 lett. U), e in questa parte la sentenza sembra affetta da totale mancanza di motivazione ex art. 606, lett. e) c.p.p..

Col termine discovery, mutuato dal gergo anglosassone, si designa il momento nel quale la conoscenza delle carte processuali, di formazione unilaterale, è consentita alla controparte.

Alla discovery non è associata la generale conoscibilità degli atti d’indagine, tanto è vero che la loro pubblicazione è vietata e punita sino alla conclusione del dibattimento d’appello (art. 114 c.p.p.).

La non coincidenza dei due concetti non autorizza, pertanto, ad affermare che una discovery anticipata implichi anche divulgazione degli atti “disvelati” all’indagato.


E’ utile, comunque, sapere che la legge disciplina solo il tempo nel quale la discovery (totale o parziale) è imposta; il tempo nel quale essa è consentita è, invece, lasciato alla discrezionalità dell’inquirente, nulla impedendogli di sottoporre l’indagato ad interrogatorio sin dall’inizio delle indagini e quindi contestargli gli elementi esistenti contro di lui (art. 65, 1° comma, c.p.p.).


Diversa dalla discovery è la “pubblicazione” dell’atto, in quanto quest’ultima ne determina la conoscibilità generale, non limitandola alla persona sottoposta alle indagini.

L’art. 329, comma 2, c.p.p. stabilisce, al riguardo, che «Quando è necessario per la prosecuzione delle indagini, il pubblico ministero può, in deroga a quanto previsto dall’articolo 114, consentire, con decreto motivato, la pubblicazione di singoli atti o di parti di essi. In tal caso, gli atti pubblicati sono depositati presso la segreteria del pubblico ministero».

Se, in forza della disposizione citata, può disporsi la pubblicazione degli atti, a maggior ragione è consentita la pubblicazione del loro contenuto quando ciò si riveli utile allo scopo.

Nella vicenda concretamente rimessa al giudizio della Sezione disciplinare, tuttavia, si nasconde un equivoco di non poco conto.

Infatti non è stata disposta dal dott. De Magistris alcuna “pubblicazione” di atti segreti o dei quali era vietata la pubblicazione, né vi è stata “divulgazione” degli stessi ad opera del magistrato; si registra soltanto l’indicazione del contenuto di tali atti in un provvedimento giudiziario (decreto di perquisizione) che pur dovendo portarsi a conoscenza dell’indagato non è, solo per questo, destinato ad essere divulgato, come invece sorprendentemente affermato dal Giudice disciplinare.

La condotta disciplinarmente punibile esige che la divulgazione, anche colposa, sia opera diretta del magistrato e che la stessa riguardi (non già il loro contenuto ma) proprio gli “atti coperti dal segreto o dei quali sia vietata la pubblicazione”.

La distinzione tra pubblicazione dell’atto e pubblicazione del suo contenuto è talmente nota alla giurisprudenza che risulta imbarazzante dilungarsi sullo specifico punto.

Per giustificare la condanna non è invocabile neppure lo schema alternativo nel quale si manifesta l’illecito della lett. U), vale a dire quello della violazione del dovere di riservatezza; questa disposizione, all’evidenza, non riguarda il compimento di specifici atti processuali, ma serve a reprimere l’indebita propalazione a persone che non devono esserne informate di fatti dei quali il magistrato sia venuto a conoscenza nell’esercizio delle sue funzioni, siano essi, oppure no, destinati a rimanere segreti.


Altre considerazioni tecniche sulla sentenza del C.S.M. nei confronti di Luigi De Magistris: il capo C)


Facendo seguito al post con il quale Felice Lima ha trattato la parte della motivazione della sentenza disciplinare nei confronti di Luigi De Magistris relativa al capo di incolpazione contraddistinto dalla lettera “E” (post che può essere letto a questo link), pubblichiamo uno scritto di Francesco Siciliano che analizza la parte della sentenza relativa al capo di incolpazione contraddistinto dalla lettera “C”. Altre analisi tecniche, di Nicola Saracino, sui capi di incolpazione contraddistinti dalle lettere “B” e “G”, possono essere lette a questo link e a quest'altro.
______________


di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza. Legale di Ammazzatecitutti)



Mi occuperò del capo della sentenza disciplinare nei confronti di Luigi De Magistris relativo all’incolpazione contraddistinta dalla lettera C).

L’incolpazione è stata formulata nei seguenti termini testuali (l’intero atto di incolpazione può essere letto a questo link):


«C) della violazione degli artt. 1, 2, 1° comma, lett. n) del D.Lgs, 109/2006 per aver gravemente mancato ai propri doveri di correttezza e rispetto delle norme anche regolamentari disciplinanti il servizio giudiziario adottate dagli organi competenti emettendo il decreto suddetto senza preventiva informazione del Procuratore della Repubblica, capo dell’Ufficio e magistrato codelegato alla trattazione del procedimento; violazione da ritenersi grave per la rilevanza del provvedimento – emesso a carico di un Procuratore Generale della Repubblica, di un ex parlamentare, di un alto funzionario della Polizia di Stato, del Presidente di un Consiglio dell’Ordine degli Avvocati – per il clamore che avrebbe sicuramente suscitato e per i prevedibili dirompenti effetti che avrebbe avuto sull’amministrazione della giustizia penale in Basilicata».

La difesa di Luigi De Magistris sul punto è stata la seguente (l’intera memoria difensiva può essere letta a questo link):

«In ordine alla contestazione di cui al capo C) evidenzio:

Infondatezza dell’addebito. Non corrisponde al vero la circostanza di non avere informato il Procuratore della Repubblica, al quale riferii, invece, che mi sarei recato in Potenza ad espletare le perquisizioni ed al quale feci anche avere copia del decreto di perquisizione. Dissi al Procuratore che non ritenevo necessaria la sua firma in quanto il fascicolo, come d’intesa, era sempre seguito direttamente da me personalmente e, quindi, entrambi concordavamo sulla necessità che lo tenessi informato degli atti più delicati e che egli intervenisse, formalmente, solo ove necessario. Non ha mai manifestato obiezioni rispetto al mio operato».


La sentenza – che può essere letta integralmente a questo link – tratta la questione alle pagg. 14-19, nei seguenti termini testuali:

«con riferimento al capo C)

- che il 15.9.07 con missiva ed il 19.9.07 in sede di audizione presso l’ispettorato, il procuratore della Repubblica di Catanzaro dott. Lombardi ha dichiarato che il dott. De Magistris era coassegnatario con lui stesso dei procedimenti n. 444/05 e 3750/03 (riuniti il 3.5.07 ed in cui il capo dell’ufficio era subentrato al procuratore aggiunto dott. Spagnolo il 10.7.06); che il detto sostituto aveva sempre provveduto a riferirgli della loro evoluzione; che era stato preavvertito dell’iscrizione del procuratore generale di Potenza dott. Tufano ma non dell’emissione del provvedimento di perquisizione nei confronti del medesimo; che secondo le norme interne dell’ufficio il sostituto non aveva l’obbligo di preavvertire della perquisizione; che nel caso di coassegnazione non svolgeva attività di diretta conduzione delle indagini che venivano eseguite invece dal coassegnatario che doveva riferirgli circa tutte le emergenze (cfr verbale audizione e missiva del 15.9.07 in allegato 6 bis faldone fascicolo generale proc. n. 10/07 R.O.);

- che sentito dalla procura generale presso la Corte di Cassazione il 20.11.07 il dott. Lombardi ha ulteriormente chiarito che venne a conoscenza del decreto di perquisizione nei confronti del procuratore generale di Potenza dott. Tufano solo la mattina di giovedì 7 giugno quando, mentre il dott. De Magistris era già a Potenza ad eseguire personalmente l’atto, trovò sul tavolo una busta chiusa su cui c’era un post-it con scritto “da dare al procuratore Lombardi giovedì mattina presto!” di mano del dott. De Magistris, nonché di aver qualche giorno dopo espresso al sostituto le sue perplessità sull’opportunità dell’atto, lamentando anche la mancata informazione (cfr doc. pagg. 209-210 faldone n. 1 – dalla verbalizzazione risultano l’esibizione dell’originale della lettera e del post-it e la loro produzione in copia);

- che nel rispondere ad una richiesta circa le disposizioni adottate in ordine alle modalità di collaborazione tra i magistrati coassegnatari di procedimenti, il procuratore Lombardi con missiva del 18.9.07 ha spiegato che la coassegnazione è disposta quando vi è necessità di garantire una sinergia di interventi e che la stretta operatività dei magistrati interessati e la continuità di contatti quasi quotidiani non lo hanno indotto a disciplinare la materia con provvedimenti specifici (cfr doc. allegato 6 bis fascicolo faldone generale proc. n. 10/07 R.O.);

- che all’udienza del 14.1.08 il dott. Lombardi, nel sostanzialmente ripetere quanto già detto, ha precisato che era implicito che i coassegnatari dovessero “procedere di pari passo consultandosi ed affrontando insieme i passaggi più impegnativi”; che il dott. De Magistris gli aveva fornito un supporto informatico sul quale erano riportate le dichiarazioni di parecchi magistrati della procura della Repubblica di Potenza, che non è che si fosse lamentato del fatto di non essere stato avvertito prima ma che aveva parlato con il sostituto della sostanziale inutilità dell’atto;

- che all’udienza del 11.1.08 è stato sentito il maresciallo della G. di F. Luigi Musardo (già ascoltato dalla Procura Generale il 23.11.07 – pag. 226 faldone n. 1) che ha riferito che prima del 7 giugno era stata predisposta una copia in più del decreto, messa in una busta e consegnata ad una impiegata perché fosse consegnata al procuratore; che il 6 precedente, mentre si recavano in auto a Potenza il dott. De Magistris telefonò all’impiegata raccomandandole la consegna della busta;

- che nell’occasione il Musardo alla domanda “De Magistris tentò di contattare con un cellulare il procuratore, ma vi riuscì solo dopo alcuni tentativi ... conferma?” ha risposto affermativamente;

- che la conferma è evidentemente relativa alla seguente dichiarazione rilasciata il 23.11.07: “ricordo che, poco prima e durante la perquisizione, il dott. De Magistris tentò di contattare con il cellulare il procuratore Lombardi ma vi riuscì solo dopo alcuni tentativi andati a vuoto. Ovviamente poiché stavo procedendo alla perquisizione non sentii quello che disse”;

- che nella memoria l’incolpato ha rappresentato di aver informato il procuratore della Repubblica che si sarebbe recato a Potenza ad espletare le perquisizioni; che gli aveva fatto avere copia del relativo decreto e gli aveva detto di non ritenere necessaria la sua firma in quanto il procedimento era da lui seguito personalmente; che entrambi concordavano sulla necessità che lo tenesse informato degli atti più delicati e che egli intervenisse, formalmente, solo ove necessario; che non erano state sollevate obiezioni;
__________

- che il procuratore Lombardi, quando ha riferito circa la condotta del dott. De Magistris nella conduzione del procedimento coassegnato, si è espresso in termini positivi, evidenziando che il sostituto aveva sempre provveduto a riferirgli della sua evoluzione, che era stato preavvertito dell’iscrizione del procuratore generale di Potenza, che secondo le norme interne non vi era un obbligo di avvisarlo della perquisizione;

- che ancora il dott. Lombardi in dibattimento ha sfumato la dichiarazione precedentemente resa, chiarendo che non si era lamentato con il sostituto della mancata informazione ma aveva parlato con lui della sostanziale inutilità dell’ atto;

- che in passato, con riguardo ad altro episodio analogo lo stesso aveva rappresentato all’aggiunto Murone, in favore del sostituto, di essere stato informato di una perquisizione (cfr sub capo d’incolpazione H e, con riguardo al complessivo, positivo atteggiamento del dott. Lombardi nei confronti del sostituto pag. 60 della relazione ispettiva del 3.10.07); che dunque il dott. Lombardi appare credibile quando dichiara di non aver saputo del decreto di perquisizione se non la mattina del 7, giorno dell’ esecuzione del!’ atto;

- che inoltre l’affermazione è verosimile in considerazione dell’appunto scritto nel “post-it” (in ordine al quale il procuratore ha reiteratamente riferito senza contestazioni dell’interessato);

- che invero lo specifico riferimento temporale al giovedì mattina, cioè al giorno stesso della perquisizione - che peraltro ne rende assolutamente improbabile l’apposizione da parte di qualcuno del personale - acquista un senso solo ove del decreto il procuratore non avesse avuto precedentemente notizia;

- che infatti se fosse stato diversamente la busta avrebbe potuto essere consegnata in qualsiasi momento successivo alla sua predisposizione (e certo prima del giorno 7 atteso che il dott. De Magistris ed i suoi collaboratori erano partiti il 6 precedente);

- che d’altra parte dalle dichiarazioni del maresciallo Musardo non emergono circostanze tali da apparire incompatibili con detta ricostruzione;

- che chiarito il fatto, va rilevato che ai sensi dell’art. 3 del decreto legislativo n. 106 del 20.2.06 il sostituto procuratore della Repubblica deve richiedere ed ottenere l’assenso del capo dell’ufficio solo per il fermo di indiziato di delitto e per la richiesta di misure cautelari personali o reali e che inoltre il procuratore Lombardo ha rappresentato di non aver disciplinato la materia relativa ai doveri derivanti dalla coassegnazione;

- che dunque è da escludere che la condotta oggetto di addebito sia riconducibile alla lett. n) contestata, la quale riguarda l’inosservanza di norme regolamentari o disposizioni sul servizio giudiziario (e tanto meno a violazione di legge);

- che tuttavia va rilevato che dalla coassegnazione, perché essa abbia un significato ed un’utilità, non può non derivare un generale dovere di leale e corretta collaborazione, che si estrinsechi in primo luogo nella utile, quindi tempestiva, comunicazione delle iniziative investigative tra coassegnatari; che in tal senso questo giudice, sia pure nella vigenza dell’abrogato art. 18 del R.D.L.vo 31.5.4.6 n. 511, ha avuto modo di affermare che configura un illecito disciplinare la condotta del sostituto procuratore il quale, con riferimento ad un procedimento penale di particolare delicatezza, abbia avanzato richiesta di rinvio a giudizio omettendo di sottoporla alla sottoscrizione del sostituto coassegnatario (cfr sentenza n. 131/04 reg. dep. nella quale si rappresenta l’importanza di non vanificare la funzione stessa della duplice assegnazione che è “quella di dare quanto meno maggiore ponderazione alle iniziative processuali adottate”);

- che detto dovere di collaborazione è evidentemente maggiore quanto più rilevante è l’atto da compiere;

- che nel caso di specie il dott. De Magistris, non ha dato tempestivo avviso al coassegnatario dott. Lombardi della perquisizione, così ponendo in essere un comportamento in violazione del dovere di correttezza; che la non correttezza della condotta appare ancor più chiara ove si consideri che l’incolpato, disponendo la consegna del provvedimento il giovedì mattina, quindi in sostanziale contestualità con il compimento dell’atto, ha posto in essere un comportamento mediante il quale, come detto dal procuratore generale nella requisitoria “l'ha avvertito in modo che non fosse avvertito”;

- che la violazione è certamente grave ove si consideri l’evidente rilievo assoluto della perquisizione, posta in essere nei confronti del procuratore generale della Repubblica di Potenza;

- che dunque l’interessato deve essere ritenuto responsabile del comportamento contestatogli, ricondotto alla fattispecie disciplinare di cui all’art. 2 comma 1 lett. d) del decreto legislativo n. 109 del 2006».



Nelle indicate pagine della sentenza in commento si valuta il comportamento del dott. De Magistris per non avere informato, o averlo informato in modo informale e tardivo, il Procuratore della Repubblica dott. Lombardi (attuale componente della Corte di Appello di Messina nonché della Commissione Tributaria Regionale di Catanzaro) della perquisizione a carico di una persona quantunque indagata ma di “rilievo assoluto”.

Su tale mancata preventiva informazione il dott. Lombardi aveva chiarito in sede di audizione che non aveva adottato alcuna direttiva in proposito e cioè che non aveva instaurato alcun dovere di informazione del capo dell’ufficio.

Sul punto la sentenza si sofferma sul concetto e sullo scopo della coassegnazione riprendendo le dichiarazioni del dott. Lombardi, il quale, non aveva ritenuto di disciplinare la predetta ma, con missiva, aveva chiarito che doveva considerarsi implicito che i coassegnatari dovessero procedere di pari passo in modo da dare maggiore ponderazione alle iniziative processuali adottate.

La Sezione Disciplinare , tuttavia, nonostante tale situazione, si è arrestata dinanzi alla lettera della legge il D.L.vo n. 106 del 20.2.2006, che a proposito del rapporto gerarchico tra capo dell’ufficio e sostituti costituisce l’obbligo dell’informazione a carico del sostituto per le richieste di misure cautelari e reali attesa la necessità del visto (restius: assenso) del Capo dell’Ufficio, ma, nel contempo, ha individuato egualmente una condotta sanzionabile disciplinarmente ai sensi della lettera d) dell’art. 2 comma 1 della legge.

Per dare corpo a tale affermazione di responsabilità il C.S.M. tuttavia non si sofferma sul concetto di correttezza di cui alla lettera d) invocato, ma interpreta la coassegnazione una volta nel senso del rapporto gerarchico oggi introdotto dal D.L.vo 106/2006 e un’altra nel senso di coassegnazione tra sostituti in cui non rileva il rapporto gerarchico.

In altri termini il C.S.M. a corredo dell’affermazione del comportamento non corretto dell’incolpato richiama da un lato il rapporto di gerarchia con il titolare dell’azione penale che deve richiedere il preventivo assenso per le misure cautelari (in cui evidentemente non vi sarebbe un problema di lealtà di collaborazione ma la necessità normativa dell’assenso) e dell’altro un precedente di mancanza di leale collaborazione tra sostituti, caso questo, nel quale si trattava non di un atto di indagine ma dell’atto conclusivo della medesima.

Così facendo, tuttavia, la Corte confonde e trasfonde sul medesimo piano due problemi diversi.

In altri termini nel caso del decreto di perquisizione, non ponendosi un problema di preventivo assenso dell’atto da parte del Capo dell’Ufficio coassegnatario ex lege, il problema sta evidentemente nella necessità di informare il medesimo della perquisizione, non nella preventiva informazione e nell’eventuale assenso.

Ciò poiché, si è detto, il preventivo assenso del Capo dell’Ufficio è richiesto per atti diversi dal decreto di perquisizione.

Ciò posto, ai fini della violazione del dovere di correttezza, il C.S.M. avrebbe dovuto soffermarsi sul concetto di abituale o grave scorrettezza nei confronti di altri Magistrati con riferimento alle modalità in cui è avvenuta l’informazione dell’atto adottato comunque data al Capo dell’Ufficio e non sulla mancanza della previa informazione.

Opinando diversamente si ingenererebbe nel commentatore della sentenza una interpretazione estensiva delle prescrizioni gravanti sul sostituto successivamente all’entrata in vigore del D.L.vo 106/2006.

In questo punto, quindi, la sentenza sembra illogica e comunque viziata nella motivazione per avere posto a base dell’accertamento della colpevolezza di cui alla lettera d) motivazioni attinenti a condotte inquadrabili in diverse norme di legge.

Invero la valutazione del comportamento del dott. De Magistris avrebbe dovuto essere compiuta con riferimento al paradigma della correttezza dei comportamenti nei confronti delle parti, ivi inclusi i magistrati, e non sulla previa informazione del Capo dell’Ufficio atteso che alla luce della novella del 2006 evidentemente la coassegnazione con il Capo dell’Ufficio è situazione affatto diversa dalla coassegnazione nella vigenza della vecchia normativa.

In questa fattispecie, in mancanza di una cristallizzazione di comportamenti di tipo pretorio (alludo a una giurisprudenza sugli illeciti disciplinari formatasi all’indomani della novella) il concetto di correttezza andava desunto dalle regole generali del sistema ponendo ad esempio come ipotesi di comportamento non corretto la mancata informazione del Capo dell’Ufficio (ipotesi questa di mancanza di leale collaborazione) e non anche la mancata previa informazione (ponendosi invece questa come ipotesi di sottrazione alla direzione (rectius: comando) del capo (la distinzione tra direzione e ordine è ricavabile dal tipo di atti del superiore gerarchico laddove si inferisce che nel sostituto nella nuova strutturazione della titolarità dell’azione penale non è ammesso la possibilità di agire diversamente dalle direttive – ordini – del Capo dell’ufficio pena la revoca dell’indagini, revoca che è insindacabile presso organi gerarchicamente sovraordinati).

In assenza di paradigmi di correttezza nel rapporto tra magistrati e nella specie tra Procuratore Capo e sostituto andava probabilmente ricercata la cristallizzazione di un concetto di correttezza ricavabile da altre norme di legge a nulla rilevando la valutazione fatta in raffronto al D.L.vo 106/2006 avendo tale norma novellato la titolarità dell’azione penale piuttosto che riconfermato la coassegnazione per come era strutturata nella vecchia normativa.

Sul punto si può quindi concludere chiedendo alla eventuale fase di gravame di stabilire se la coassegnazione con il Capo dell’ufficio comportasse un dovere di previa informazione anche per atti per i quali non è previsto l’assenso scritto e, soprattutto, se nella vigenza del D.L.vo 106/2006 possa parlarsi di coassegnazione o non piuttosto di delega di titolarità con poteri direzione, ipotesi questa che legittimerebbe sempre e comunque la previa consultazione del titolare del fascicolo, ma, in questo caso, forse sarebbe necessario valutare la costituzionalità della norma interpretata in modo estensivo.

Su un piano meramente storico aggiungo … IL DOCUMENTO DELLA SEZIONE DELL’A.N.M. DELLA CORTE DI CASSAZIONE SULLA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO GIUDIZIARIO«Concorsi, carrierismo e gerarchia - 20 maggio 2004 … dall’Associazione Nazionale Magistrati, Sezione Corte di Cassazione, sulla riforma dell’ordinamento giudiziario. A parte queste rivelatrici minuzie, il senso complessivo della progettata riforma dell’ufficio del pubblico ministero è reso palese dal fatto che alla separazione dei giudici dai pubblici ministeri si accompagna un sistema di accentramento e irrigidimento gerarchico degli uffici di procura, nei quali nessuna autonomia è più riconosciuta ai singoli magistrati, mentre viene istituito un rapporto di subordinazione gerarchica tra le Procure della Repubblica e le Procure generali. Al Procuratore viene riconosciuto un potere incontrollato e incontrollabile in materia di assegnazione dei procedimenti e di interferenza sulle attività inquirenti e requirenti: si tratta della reintroduzione di un fattore di possibile condizionamento occulto sull’andamento e sull’esito dei procedimenti, che si pone in contrasto con il principio di garanzia istituzionale dato dal carattere diffuso, diviso e non accentrato del potere giudiziario».


martedì 26 febbraio 2008

Condannato per mancanza di prove



di Marco Travaglio
(Giornalista)

da Voglioscendere

Ora che sono state depositate le motivazioni, si può finalmente esaminare la sentenza della sezione disciplinare del Csm che ha punito il pm di Catanzaro Luigi De Magistris con la “censura” e con il “trasferimento ad altra sede e ad altre funzioni” diverse da quelle di pm.

Censura per la “grave e inescusabile violazione di norme e disposizioni”.

Incompatibilità ambientale per aver denunciato “magistrati in servizio a Catanzaro in uffici diversi”.

Incompatibilità funzionale per il mancato “rispetto di regole di particolare rilievo” nonché per “insufficienti diligenza, correttezza e rispetto della dignità delle persone”.

Chiunque voglia leggersi la sentenza (non ancora definitiva, ora è sub judice della Cassazione), la trova su www.voglioscendere.it.

E’ impossibile sostenerlo con certezza, perché mancano le prove: ma, per le assurdità, le illogicità e le bugie contenute nella motivazione, l’impressione è che prima si sia deciso di condannare De Magistris “a prescindere”, poi si sia cercato “qualcosa” per giustificare una decisione già presa.

Del resto, l’anticipazione di giudizio di Letizia Vacca, membro laico del Pdci (“Forleo e De Magistris sono cattivi magistrati … ma non saranno colpiti solo loro”) e la dichiarazione del vicepresidente Nicola Mancino, presidente della Disciplinare, che violando il segreto della camera di consiglio ha parlato di “verdetto unanime”, gettano sulla vicenda ombre pesanti.

Così come la decisione della Disciplinare di non attendere la conclusione delle indagini della Procura di Salerno, dove De Magistris ha denunciato nel febbraio 2007 gli autori di un presunto complotto ai suoi danni e dove quel complotto sembra sul punto di essere provato (l’ha rivelato al Csm il pm salernitano Gabriella Nuzzi).

E così come la decisione della Cassazione di affidare l’accusa a un Pg, Vito D’Ambrosio che, per quanto onesto e valido, è stato impegnato in politica dal 1995 al 2005 come governatore della regione Marche col centrosinistra, coalizione di cui fanno parte diversi indagati dal pm incolpato.

Ma vediamo la sentenza, nei tre punti che han portato alla condanna. Perché, della ventina di incolpazioni contestate, ne sono rimaste in piedi sostanzialmente tre (per tutte le altre è scattata l’assoluzione: fughe di notizie, interviste, Annozero ecc.).

1) De Magistris non avvertì il procuratore Mariano Lombardi di aver iscritto nel registro degli indagati l’avvocato e onorevole forzista Giancarlo Pittelli nell’inchiesta “Poseidone”, segretando in cassaforte l’atto di iscrizione.

Si dà il caso che Pittelli non sia un indagato normale né Lombardi un procuratore normale. Lombardi infatti ha un figliastro (figlio della sua convivente) che è socio in affari di Pittelli.

E Pittelli è difensore di diversi indagati da De Magistris.

Il quale ha motivo di ritenere – come ha denunciato a Salerno – che certe fughe di notizie che hanno vanificato intercettazioni e perquisizioni provenissero proprio dal suo capo.

Insomma si trova in una situazione inedita e non prevista dalle leggi: un procuratore legato a filo doppio a un indagato.

Per proteggere il bene supremo della riservatezza delle indagini, il pm decide di non informarlo, temendo che Pittelli venga a sapere di essere indagato e mandi a monte l’inchiesta.

E che De Magistris avesse ragione a diffidare del capo lo dimostrò lo stesso Lombardi, levandogli l’inchiesta Poseidone appena seppe che era indagato il suo amico Pittelli.

Ma anziché punire Lombardi (che ha traslocato in altra sede prima del processo disciplinare), il Csm ha trasferito De Magistris.

2) Nell’ordine di perquisizione a carico del Pg di Potenza Vincenzo Tufano, indagato per abuso in “Toghe lucane”, De Magistris inserisce la testimonianza del gip potentino Alberto Iannuzzi, che accusa il Pg di aver chiuso gli occhi sul fatto che un giudice del tribunale presiedeva un processo in cui, a sostenere l’accusa, era una pm che - secondo voci insistenti – era anche la sua fidanzata. Con tanti saluti alla terzietà del giudice e con tanti auguri all’imputato.

Ma De Magistris – scrive il Csm – “non ha indicato elementi di riscontro” alle parole di Iannuzzi.
Dunque ha arrecato “danno” e “discredito” a Tufano (il discredito ai due presunti amanti, in quanto non indagati, non è – per un vuoto legislativo – passibile di accertamento disciplinare).

Una “negligenza” così “grave e inescusabile” da consentire al Csm di sindacare su un provvedimento, cosa che per legge sarebbe vietata.

Ora, fermo restando che siamo nel terreno dell’opinabilità più sfrenata, è del tutto fisiologico che durante le indagini si formulino ipotesi di accusa che proprio le indagini (e le perquisizioni) sono chiamate a confermare o smentire.

Se tutti i pm che accusano un indagato fossero trasferiti per averlo screditato, non avremmo più un solo pm in circolazione.

Pretendere che il pm parli bene dei propri indagati è forse un po’ eccessivo. Infatti l’unico che s’è visto contestare un’accusa così demenziale è De Magistris. Tufano e i due eventuali fidanzati restano ovviamente al loro posto.

3) De Magistris, “con inescusabile negligenza, dopo l’emissione ed esecuzione nei confronti di 26 indagati di un provvedimento di fermo, ometteva di richiederne la convalida al gip, determinando la conseguente dichiarazione di inefficacia da parte del gip”.

E qui, dall’illogicità, si passa alle bugie.

Nel maggio 2005 De Magistris chiede misure cautelari per 26 presunti mafiosi e narcotrafficanti.

Ma il gip ci dorme sopra un anno e si perde il fascicolo per strada.

Intanto gl’indagati rimasti liberi seguitano a delinquere: uno tenta addirittura un omicidio.

Vista l’inerzia del gip, nel giugno 2006 la polizia chiede a De Magistris un provvedimento di “fermo del pm” per gli indagati.

Il pm lo firma insieme a Lombardi il 23 giugno.

Il 12 luglio scattano gli arresti per 80 persone in varie parti d’Italia.

Due giorni dopo – come vuole la legge – il pm chiede ai gip delle varie città interessate la convalida dei fermi e altrettante misure cautelari.

E qui commette una svista, puramente formale e innocua, dovuta – spiega De Magistris – agli enormi carichi di lavoro: in calce alla richiesta, dimentica di inserire la formula di rito “chiedo la convalida del fermo” e scrive soltanto che vuole la custodia cautelare.

Ma è evidente che il provvedimento è finalizzato anche alla convalida dei fermi (visto che arriva entro 48 ore dai fermi e le richieste cautelari riposano in pace sul tavolo del gip da un anno).

Tant’è che i gip delle altre sedi capiscono tutti al volo: convalidano i fermi e lasciano gli arrestati in carcere.

Solo il gip di Catanzaro non capisce, o finge di non capire, e scarcera i fermati.

Il tutto sebbene De Magistris – accortosi della svista – abbia subito inviato una nota in cui precisa di volere la convalida.

Il pm emette un nuovo fermo per evitare la scarcerazione dei quei pericolosi individui, poi richiede convalida e manette, stavolta con la formula di rito.

Ma il gip respinge la richiesta e rimette quasi tutti in libertà.

De Magistris ricorre al Riesame che gli dà ragione su tutto, bocciando il Gip e rimettendo dentro i tipi in questione.

Per il Pg della Cassazione e per il Csm, questa è una “grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile” da parte di De Magistris (non da parte del gip che lascia liberi per un anno e poi scarcera soggetti pericolosissimi fermati due volte dal pm).

Secondo il Csm, il gip non poteva capire l’intenzione del pm perché “il deposito del provvedimento del fermo non comportava necessariamente la richiesta della sua convalida, potendo il pm anche disporre l’immediata liberazione del fermato e omettere la richiesta di convalida”.

Già: ma qui De Magistris non voleva la liberazione, tant’è che chiedeva (da un anno!) le misure cautelari. Se uno vuole scarcerare un fermato, non chiede di arrestarlo.

Infatti tutti i gip d’Italia hanno convalidato i fermi, tranne quello di Catanzaro.

Se errore c’è stato, non è affatto “grave”, almeno da parte del pm: perché, per tener dentro quei soggetti, bastava che il gip negasse la convalida dei fermi, ma applicasse le misure cautelari esplicitamente richieste dal pm.

Se invece il pm non si fosse sbagliato e avesse chiesto anche la convalida del fermo, e il gip l’avesse accolta negando – come ha fatto – le misure cautelari, i soggetti sarebbero usciti comunque (il fermo dura 48 ore, che erano già scadute).

Cosa che infatti è avvenuta con il secondo fermo e la seconda richiesta di De Magistris, respinta dal gip poi sbugiardato dal Riesame.

Dunque, se c’è un errore grave, è quello del gip (che però non è stato nemmeno indagato dal Pg D’Ambrosio e dal Csm).

Pare il teatro dell’assurdo, ma è per questo che De Magistris viene condannato e trasferito.

Non basta.

La Disciplinare sembra conscia dell’assurdità dell’addebito e, pur di rafforzare la “gravità” della “colpa”, prende a pugni la logica e il buonsenso con il seguente paralogismo: “La qualificazione ‘grave’ va posta in relazione sia all’importanza della norma violata sia al carattere evidente, indiscutibile dell’errore, come tale necessariamente conseguenza di ‘negligenza inescusabile’”.

Par di sognare: un errore innocuo e irrilevante diventa “grave” solo perché “evidente”.

Se il giudice Mario Rossi si distrae e firma una sentenza “Franco Rossi”, l’errore è “evidente e indiscutibile” e viola la norma “importante” che prevede la riconoscibilità del giudice. E’ pure grave e inescusabile? Anche Mario Rossi sarà condannato?

Al confronto Corrado Carnevale, detto “l’ammazzasentenze”, era un dilettante.

Ultima chicca. La “colpa” di De Magistris sarebbe “grave e inescusabile” anche perché il procuratore Lombardi ha detto al Csm che il pm riconobbe l’errore: e Lombardi “è credibile in quanto anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale”.

Paradosso dei paradossi.

Una cosa è grave se è grave. Se invece è irrilevante, non diventa grave perché lo dice qualcuno, tra l’altro coinvolto personalmente (Lombardi è stato denunciato da De Magistris e perciò indagato a Salerno).

E poi: se Lombardi è “anch’egli firmatario del provvedimento” ritenuto grave e inescusabile, perché è stato condannato solo De Magistris e Lombardi non è stato nemmeno processato?

Pare di essere al cabaret, invece siamo al Csm. Purtroppo.


La legge sul falso in bilancio ancora imputata d’incostituzionalità


di Andrea Falcetta
(Avvocato del Foro di Roma)


A distanza di tre anni da un primo tentativo non andato a buon fine avanti a un giudice di merito, mi si ripresenta l’occasione di spedire alla Corte Costituzionale la legge sul falso in bilancio.

In questi giorni, infatti, un mio ricorso fondato unicamente sulla relativa eccezione ha superato un primo esame di ammissibilità ed è stato rinviato a metà aprile davanti alla Suprema Corte per la discussione in pubblica udienza.

Ecco i motivi della denunziata incostituzionalità del D.Lgs. 11 aprile 2002 n. 61:

a) violazione dell’art. 76 Cost.:

Il Parlamento (L. 366/01) aveva delegato il governo a “riformulare le norme sui reati fallimentari che richiamano reati societari … coordinare ed armonizzare con queste ultime [cioè con le nuove norme di diritto penale societario n.d.r.] le norme sanzionatorie vigenti al fine di evitare duplicazioni o disparità di trattamento rispetto a fattispecie di identico valore, anche mediante l’abrogazione, la riformulazione o l’accorpamento delle norme stesse, individuando altresì la loro più opportuna collocazione …”.

Al contrario, e come ben noto, il Governo si limitò a derubricare le sanzioni penali per gli amministratori di società “in bonis”, omettendo invece qualsiasi intervento sul diritto penale fallimentare.

La Consulta ritiene che l’incompleta attuazione di una legge delega da parte del Governo, possa rilevare quale vizio di incostituzionalità allorquando essa sia di “… dimensioni tali da tradirne totalmente le specifiche finalità” (C. Cost. 218/86).

b) violazione degli artt. 3 e 27 Cost.:

Gli effetti pratici di una riforma “monca” come quella sopra descritta, sono nell’esempio che segue: Tizio amministra una società che ha un fatturato annuo di cinque milioni di euro e ne distrae uno a proprio favore: date la dimensioni economiche della società, la stessa regge il colpo e non fallisce; Caio, dal canto suo, amministra una società che ha un fatturato lordo annuo di 100.000 euro, e ne distrae 50.000 a proprio favore, la società è piccolina e fallisce.

Tratti entrambi a giudizio, Tizio se la cava con un’ammenda (reato contravvenzionale), mentre Caio rischia fino a dieci anni di carcere.

Sulla base di questo esempio ho denunziato violazione del principio di ragionevolezza, ritenendo che a seguito dell’incompleta attuazione della legge delega, condotte assolutamente identiche finiscano per essere sperequate, sotto il profilo sanzionatorio, in maniera assolutamente esagerata, a seconda che alle stesse sia seguito o meno, sotto il profilo meramente cronologico (e non necessariamente teleologico, come la realtà processuale conferma a ciascuno degli operatori), l’effettivo dissesto della società e il conseguente suo fallimento: non v’è dubbio infatti che l’unico elemento obiettivo che distingue il falso in bilancio dalla bancarotta è l’evento materiale del successivo dissesto societario, mentre la condotta del soggetto agente si materializza, nel suo aspetto esteriore, in maniera sostanzialmente identica, sia sotto il profilo omissivo che commissivo.

Alla violazione del principio di uguaglianza si aggiunge di conseguenza anche la violazione dell’articolo 27 comma III della Costituzione, giacché la sanzione penale cessa di assolvere alla propria funzione dissuasiva proprio in ragione di tanta e tanto grande disparità di trattamento tra condotte simili, se non addirittura, almeno sotto il profilo esteriore, identiche.

Se dunque a metà aprile la Suprema Corte dovesse condividere anche nel merito i motivi che ho sopra illustrato (dopo averli in questa fase ritenuti ammissibili al punto di meritare una pubblica discussione), ciò varrebbe da monito verso chi, in quegli stessi giorni, si accingerà ad assumere la guida del Paese: basta con le leggi ad personam, da chiunque esse provengano!!

Che non si facciano più leggi per difendere politici indagati (falso in bilancio: Governo Berlusconi) né per salvare le banche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (sanatoria anatocismo: Governo D’Alema).

In tal senso noi del blog ben potremo assicurare ai nostri lettori un controllo efficace e imparziale sulla conformità delle leggi che verranno rispetto ai dettati costituzionali, commentando ed elaborando teorie che possano rivendicare dignitosa attenzione nel nostro quotidiano lavoro dinanzi ai Tribunali di tutto il Paese.


Il C.S.M. e Pinocchio


di Achille

Leggendo la sentenza del Consiglio Superiore della Magistratura contro Luigi De Magistris, commentata da Felice Lima, mi è venuto in mente il Capitolo XX di Pinocchio: “Pinocchio è derubato delle sue monete d'oro e, per castigo, si busca quattro mesi di prigione” (insuperabile Collodi!).

«- Non ti capisco, - disse il burattino, che già cominciava a tremare dalla paura.

- Pazienza! Mi spiegherò meglio, - soggiunse il Pappagallo.

- Sappi dunque che, mentre tu eri in città, la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le monete d'oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento. E ora chi li raggiunge, è bravo!

Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E scava, scava, scava, fece una buca così profonda, che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non ci erano più.

Allora, preso dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.

Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d'oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a motivo di una flussione d'occhi, che lo tormentava da parecchi anni.

Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l'iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia.

Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima arte al racconto: s'intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.

A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.

Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro:

- Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione.

Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.

E lì v'ebbe a rimanere quattro mesi: quattro lunghissimi mesi: e vi sarebbe rimasto anche di più, se non si fosse dato un caso fortunatissimo.

Perché bisogna sapere che il giovane Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli, avendo riportato una gran vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di barberi e velocipedi, e in segno di maggiore esultanza, volle che fossero aperte le carceri e mandati fuori tutti i malandrini.

- Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch'io, - disse Pinocchio al carceriere.

- Voi no, - rispose il carceriere, - perché voi non siete del bel numero ...

- Domando scusa, - replicò Pinocchio, - sono un malandrino anch'io.

- In questo caso avete mille ragioni, - disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare».



sabato 23 febbraio 2008

Considerazioni tecniche (e non solo) sulla sentenza del C.S.M. su Luigi De Magistris


Versione stampabile




di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)



Il “caso De Magistris” – suggestiva mistificazione “politica” per nascondere il “caso Calabria”, mai divenuto “caso” essendo il posto di “caso” già occupato da “De Magistris” – da quando è stato fatto nascere (ed è un caso che “parte da lontano” se si pensa che le ispezioni bipartisan del Ministro Castelli prima e Mastella poi e dei loro magistrati ispettori sono durati diversi anni) non si è mai potuto trattare “nel merito”, perché ogni volta che si provava a farlo ci si scontrava contro rifiuti categorici, fondati su sussiegose dichiarazioni di fiducia nelle autorità competenti a trattarlo istituzionalmente, che si nascondevano (le dichiarazioni) dietro il “doveroso rispetto per le istituzioni” e, addirittura, da parte di tanti che non avrebbero potuto dirlo – primi fra tutti i vertici dell’Associazione Nazionale Magistrati – dietro il “non sappiamo, non conosciamo, non abbiamo elementi” e simili (come se i magistrati più impegnati nell’associazionismo giudiziario vivessero fuori dal mondo, non leggessero i giornali, non conoscessero fatti e persone).

Dinanzi alla richiesta reiterata di assunzione di una posizione responsabile sul tema, si è risposto prima “attendiamo l’esito del procedimento” e poi, avuta la sentenza, “attendiamo la motivazione”.

L’argomento era pretestuoso fin dall’inizio, perché il “caso Calabria” non può essere ridotto alle vicende del giudizio disciplinare nei confronti di Luigi De Magistris e prima e a prescindere da quel procedimento disciplinare occorreva e occorrerebbe – se qualcuno ne avesse la voglia e ne sentisse la responsabilità – discutere di cento altre cose tutte sicuramente molto gravi e sicuramente molto molto più rilevanti per l’interesse generale e lo stato della giustizia di ciò che – a torto o a ragione – si ascrive come colpa disciplinare al collega De Magistris.

Comunque sia, il 19 febbraio la Sezione Disciplinare del C.S.M. ha depositato la sentenza nei confronti di Luigi De Magistris (che può essere letta integralmente seguendo le istruzioni a questo link), assolvendolo per alcuni addebiti e condannandolo per altri.

Dunque, ora dovrebbero essere venuti meno anche i pretesti fondati sul “non sappiamo, dobbiamo attendere la sentenza, dobbiamo attendere la motivazione”.

Ora abbiamo atteso e sappiamo.

Ora, finalmente, anche l’A.N.M., le sue correnti, i colleghi “benpensanti”, i “prudenti”, i “disinformati”, tutti insomma dovranno confrontarsi con i fatti e fra questi ora anche con la motivazione della sentenza del C.S.M..

E’ ovvio che al C.S.M. è dovuto pieno e incondizionato rispetto, che è doveroso, trattandosi di un importantissimo organo di rilievo costituzionale, e da parte mia sentito. E’ altrettanto ovvio che, in democrazia, deve essere possibile anche criticare le concrete iniziative di questo organo e dei suoi componenti, per concorrere con la critica democratica alle ricadute della sua attività sulla magistratura e sul Paese.

Evidenti sono le ragioni per le quali il “caso De Magistris” trascende la vicenda personale (pur estremamente grave) del nostro collega ed è di estrema importanza generale nel frangente in cui versa oggi l’amministrazione della giustizia, apparendo come una ineludibile cartina di tornasole della gravissima crisi che l’indipendenza dei magistrati (concetto diverso dalla indipendenza “della magistratura”: indispensabile prerogativa strumentale alla imparzialità della giurisdizione la prima, privilegio corporativo, così come intesa oggi, la seconda) patisce ad opera di nemici “esterni” e, purtroppo, anche “interni” (questi ultimi molto più pericolosi e preoccupanti per ovvie ragioni).

Nel commentare questi fatti e la sentenza, non si potrà prescindere dalla circostanza che lo schema logico scelto dai vertici dell’autogoverno (istituzionale e associativo, pericolosamente frammisti) della magistratura è stato quello del richiamo al dovere di tutti di rispettare “senza se e senza ma” la legge e le regole.

Sicché, si tratta di verificare se questo rigore incondizionato sia sincero oppure costituisca un alibi pretestuoso.

Il senso del ragionamento è stato: «Non importa se Luigi De Magistris sia o no una brava persona e un bravo servitore dello Stato. Se ha violato qualche regola, qualunque regola, è un “cattivo magistrato” e “deve essere colpito».

Le espressioni “cattivo magistrato” e “dev’essere colpito” riferite a Luigi De Magistris sono state pronunciate, insieme ad altre non meno inaccettabili, dinanzi a molti giornalisti e a nome dell’intera Prima Commissione del C.S.M., dal suo vicepresidente Letizia Vacca, che, facendo ciò, ha violato e gravemente suoi specifici doveri giuridici e deontologici (per la serie: le violazioni delle regole sono tutte gravi e inaccettabili tranne quelle commesse da chi, dovendo essere di esempio, ne pretende il rispetto dagli altri ma non da sé stesso), senza che nessuna articolazione del C.S.M. né alcuno dei suoi consiglieri esprimesse una qualche forma di biasimo per tale comportamento, che certamente non giova all’immagine dell’Istituzione.

E sempre per dare il buon esempio, il vicepresidente del C.S.M. Nicola Mancino, violando altri suoi specifici obblighi giuridici di riserbo (forse “difesi” anche dai precetti di cui all’art. 326 del codice penale, a seconda che si ritenga o no coperta da dovere di segreto d’ufficio la camera di consiglio della Sezione Disciplinare del C.S.M.), non appena pronunciata da lui stesso la sentenza in questione, ci ha tenuto a dire ai giornalisti (per la serie: i magistrati non devono rilasciare dichiarazioni inopportune alla stampa, ma i componenti della Sezione Disciplinare del C.S.M. fanno eccezione) che essa è stata adottata all’unanimità.

Comunque sia, adesso si sa che la sentenza in questione esprime l’opinione unanime dei componenti della Sezione Disciplinare ed è anche questa una ulteriore circostanza che la rende particolarmente significativa.

La sentenza tratta diversi fatti e, per esigenze di brevità e di agevole comprensione anche da parte di lettori non dotati di specifiche competenze giuridiche, mi limiterò in questa occasione a trattare uno dei capi della sentenza – quello relativo alla incolpazione indicata con la lettera “E” – perché questa parte della sentenza mi appare talmente infondata – fino alla palese illogicità – da essere davvero emblematica e da porre preoccupanti interrogativi sulle scelte compiute dal C.S.M. in questa dolorosa vicenda.

Prima di esaminare il capo in questione della sentenza, è opportuno sottolineare che essa conclude un processo dalle caratteristiche peculiari.

Esso nasce “annunciato” da più di tre anni di ispezioni, disposte da due Ministri della Giustizia. Ispezioni che, in definitiva e nonostante ciò che tanti hanno detto in danno dell'onorabilità di Luigi De Magistris,
non hanno dato alcun “frutto”, se si considera che gli addebiti poi concretamente mossi al collega sono tali che potevano essere formulati anche senza nessuna ispezione.

Fermo restando, ovviamente, che più di tre anni di ispezioni (la cui logica è stata descritta in televisione, dinanzi a spettatori stupefatti, dall’allora Sottosegretario e oggi Ministro della Giustizia Luigi Scotti nel corso della trasmissione Annozero del 4 ottobre 2007. L'intera trasmissione può essere rivista a questo link), degli effetti gravi certamente li hanno raggiunti: l’acquisizione da parte di uffici governativi di dettagliate notizie su indagini giudiziarie in corso anche nei confronti di persone vicine agli uffici governativi medesimi e un – foss’anche non voluto – monito intimidatorio su magistrati inquirenti che in futuro potessero ipotizzare di farsi emuli dello zelo di Luigi De Magistris.

A fronte degli anni di “preparazione” del processo, esso è stato poi celebrato con velocità sorprendente. Sorprendente in relazione ai tempi con i quali si procede – o addirittura neppure si procede – con riferimento alle posizioni di numerosi altri magistrati “coinvolti” nella inchieste del collega De Magistris, alcuni dei quali addirittura indagati penalmente per ipotesi di reato gravissime. E sorprendente anche in relazione alle circostanze intrinseche al procedimento: il C.S.M., per esempio, ha ritenuto di NON attendere l’esito delle indagini penali in corso a Salerno, che tanta rilevanza avrebbe potuto avere sulla ricostruzione dei fatti controversi, e il Sostituto Procuratore Generale Vito D’Ambrosio (Presidente della Regione Marche per dieci anni, dal 1995 al 2005: forse non era opportuno, anche solo per ragioni di immagine, che fosse proprio lui a rappresentare l'accusa in questo processo che riguarda anche i rapporti fra giustizia e politica) si è addirittura opposto (avendo torto dal C.S.M., che ha rigettato la sua opposizione) alla acquisizione dei verbali di audizione dei magistrati di Salerno dinanzi alla Prima Commissione dello stesso C.S.M..

Il non avere atteso l’esito delle inchieste di Salerno ha, poi, dato luogo a una peculiare situazione per la quale una parte degli atti del procedimento a carico di Luigi De Magistris sono – con controversa interpretazione del diritto sul punto – segreti.

Venendo all’esame tecnico del capo della sentenza di cui ho detto, esso riguarda l’incolpazione formulata nei seguenti termini testuali (l’intero atto di incolpazione può essere letto a questo link):

«E) della violazione degli artt. 1 e 2, 1° comma, lett. g) del D.Lgs. 109/2006, perché nell’ambito del procedimento penale n. 2350/03 R.G.N.R., con inescusabile negligenza, dopo l’emissione (in data 23 giugno 2006) ed esecuzione (in data 12 luglio 2006) nei confronti di 26 indagati di un provvedimento di fermo, ometteva di richiederne la convalida al G.I.P. di Catanzaro ai sensi dell’art. 390 c.p.p., determinando la conseguente dichiarazione di inefficacia da parte del G.I.P. in data 14.7.2006».

La difesa di Luigi De Magistris sul punto è stata la seguente (l’intera memoria difensiva può essere letta a questo link):

«In ordine alla contestazione di cui al capo E) evidenzio:
Infondatezza dell’addebito. Nell’ambito del procedimento penale nr. 2350/2003 R.G.N.R. avevo depositato nel 2005 una richiesta di misura cautelare nei confronti di decine di indagati per reati molto gravi (in particolare associazione per delinquere, traffico di droga, riciclaggio di autovetture, ed altro). Il Gip al luglio del 2006 non aveva in alcun modo evaso la richiesta ed anzi per un certo periodo il fascicolo non ha avuto nemmeno un giudice titolare del procedimento; sul punto vi è stato anche un carteggio tra la Procura ed il Tribunale, tenuto conto della gravità dei fatti contestati e della pericolosità sociale dei soggetti indagati. Addirittura risulta, da quanto segnalatomi dalla polizia giudiziaria, che ad un certo punto presso quell’Ufficio non trovavano nemmeno più i numerosi faldoni costituenti il procedimento penale»
.

Questa chiamiamola inerzia dell’ufficio G.I.P. di Catanzaro non è stata finora oggetto di alcuna iniziativa disciplinare simile a quella nei confronti di Luigi De Magistris (evidentemente il “rigore” non si esige sempre e da tutti).

«Ricordo – prosegue la difesa di De Magistris – che dopo molti mesi dal deposito della richiesta di misura cautelare, nel giugno del 2006, la polizia giudiziaria mi prospettò forte preoccupazione con riferimento alla mancata pronuncia del giudice per le indagini preliminari, tenuto conto che persone pericolose rimanevano in libertà e continuavano a reiterare condotte criminose gravi. La Squadra Mobile della Questura di Catanzaro mi depositò un’informativa suppletiva, nel maggio del 2006, in cui si evidenziava l’attualità della pericolosità di soggetti per i quali vi era stata richiesta custodiale, il pericolo di reiterazione delle condotte criminose ed anche il pericolo di fuga: mi prospettarono, ad esempio, che addirittura una delle persone per le quali avevo richiesto la custodia cautelare in carcere si era, nelle more della decisione del giudice, reso autore di un gravissimo tentato omicidio. Decisi, quindi, unitamente alla polizia giudiziaria, di procedere al fermo. Il provvedimento fu eseguito in tutto il territorio nazionale e riguardava circa 80 persone. Nel circondario di Catanzaro furono eseguiti oltre 20 provvedimenti restrittivi. Nel rispetto delle 48 ore previste per la richiesta di convalida del provvedimento chiesi al GIP di emettere la misura cautelare. Per mero errore materiale, probabilmente per l’immane lavoro che pende presso il mio Ufficio, non certo per superficialità, ho dimenticato di indicare la dicitura “richiede la convalida” indicando solo che si chiedeva la misura cautelare (ma dal corpo della motivazione era evidente la natura dell’atto emesso). Che si tratti di errore meramente materiale è evidente, come l’Ufficio prospettò in una nota inviata al GIP alle ore 11.30 del 14.7.2006. Del resto non poteva che essere una richiesta di convalida del fermo del PM, in quanto la richiesta di misura cautelare già giaceva da tempo al Gip ed entro le 48 ore il PM – la stessa persona fisica, tra l’altro, che ha emesso il fermo – non poteva che con quell’atto chiedere la convalida. La logica e il buon senso, prima ancora che il diritto lo dimostrano. Che senso aveva non chiedere la convalida nelle 48 ore ma solo la misura che già era stata richiesta? Il Gip ritenne di far caducare il provvedimento, in quanto la Procura non aveva chiesto, tempestivamente, la convalida. Fu emesso dalla Procura della Repubblica – con provvedimento ovviamente anche a firma del Procuratore della Repubblica – un nuovo provvedimento di fermo per evitare che, a causa di un “cavillo”, potessero acquistare la libertà persone indagate per fatti gravi. Fu, quindi, richiesta, la convalida e l’applicazione della misura cautelare ed il GIP del Tribunale di Catanzaro, nel merito, non accolse la richiesta di applicazione della misura, se non per pochi indagati. E’ da dire, a questo punto, che numerosi altri GIP che si erano pronunciati su tutto il territorio nazionale con riferimento a circa altri 50 indagati avevano, nella quasi totalità, emesso misura custodiale evidenziando gravità indiziaria ed esigenze cautelari. Ho fatto, quindi, appello al Tribunale del Riesame che ha accolto, quasi integralmente, le mie richieste, con motivazioni dalle quali si evince come fossero assolutamente non condivisibili, nonché illogici, i provvedimenti del GIP di Catanzaro».

E va ribadito che né la Procura generale né il C.S.M. hanno ritenuto di prendere in esame la condotta del G.I.P..

La sentenza – che può essere letta integralmente a questo link – tratta la questione alle pagg. 25-27, nei seguenti termini testuali:

«con riferimento al capo E):

- che il 23.6.06 il dott. De Magistris nel proc. n. 2350/03 ha disposto, unitamente al procuratore Lombardi, il fermo di 80 persone, depositando poi il 13.7.06 al G.I.P. del tribunale di Catanzaro richiesta di emissione di ordinanza di custodia cautelare in carcere per 26 dei fermati nel relativo territorio di competenza (cfr. doc.ti sub allegato 3 bis fascicolo faldone generale proc. n. 10/07 R.O.);
- che il 14.7.06 detto G.I.P ha rilevato che la richiesta di misura cautelare non conteneva alcuna determinazione circa il fermo citato (provvedimento di liberazione o richiesta di convalida) il quale perciò, essendo decorso il termine di 48 ore, doveva ritenersi inefficace secondo il disposto dell’artt.390 c.p.p. (cfr. doc. sub allegato 3 bis fascicolo faldone generale proc. n. 10/07 R.O.);
- che il dott. De Magistris lo stesso giorno ha risposto che la richiesta di misura cautelare conteneva implicitamente quella di convalida non indicata per mero errore materiale (cfr. doc. sub allegato 3 bis fascicolo faldone generale proc. n. 10/07 R.O.);
- che sempre il 14.7.06 il G.I.P. ha dichiarato l’inefficacia del provvedimento di fermo e ordinato la liberazione degli interessati rilevando che nella richiesta di misura cautelare non vi era alcun riferimento, neanche implicito, a determinazioni circa il fermo;
- che convalida del fermo e misura cautelare erano distinti ed autonomi nonché con finalità diverse, onde non poteva parlarsi di errore materiale, configurabile solo per gli errori e le omissioni non comportanti una modificazione essenziale dell’atto;
- che il deposito del provvedimento del fermo non comportava necessariamente la richiesta della sua convalida potendo il P.M. anche disporre l’immediata liberazione del fermato ed omettere la richiesta di convalida (cfr. doc. sub allegato 3 bis fascicolo faldone generale proc. n. 10/07 R.O.);
- che in sede dibattimentale il procuratore Lombardi ha dichiarato che il dott. De Magistris gli disse che per un errore non era stata inserita la richiesta espressa di convalida del fermo, che bisognava cercare di rimediare e che si poteva proporre al G.I.P. una istanza con la quale si faceva presente che, richiedendo l’emissione di misura cautelare, si intendeva chiedere anche la convalida (a tal proposito il dott. Lombardi nel prosieguo dice: “ne parlammo sicuramente, d’altra parte non c ‘era altra scappatoia che suggerire questa suggestiva interpretazione”)
[Lombardi la definisce “suggestiva”, ma, come si dirà appresso, non lo è per niente ed è solo “giuridica e conforme alle costanti statuizioni della Corte Suprema”];
- che a riguardo nella memoria difensiva l’incolpato, dove aver evidenziato le ragioni a sostegno della necessità ed urgenza del fermo (pendenza da molto tempo di una richiesta di misura cautelare nei confronti di persone di particolare pericolosità - allarmante informativa suppletiva della polizia del maggio 2006), ha rappresentato che per mero errore materiale, probabilmente per l’immane lavoro che pendeva presso il suo ufficio e non certo per superficialità, aveva dimenticato di indicare la dicitura “richiede la convalida” ma che comunque dal corpo della motivazione era evidente la natura dell’atto emesso anche perché la richiesta di misura cautelare giaceva già da tempo presso l’ufficio del G.I.P.;
- che ai sensi dell’art. 2 lett. g) del decreto legislativo n.109 del 2006 costituisce illecito disciplinare la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
- che la qualificazione “grave” va posta in relazione sia all’importanza della norma violata sia al carattere evidente, indiscutibile dell’errore, come tale necessariamente conseguenza di una “negligenza inescusabile”;
- che l’art.390 c.p.p. dispone che entro quarantotto ore dal fermo il pubblico ministero, se non deve ordinare l’immediata liberazione dell’arrestato, ne richiede la convalida al G.I.P.;
- che la disposizione ha evidente rilievo assoluto (sostanziale e formale) in quanto finalizzata a sottoporre al vaglio del giudice, entro tassativi limiti temporali, le ragioni per le quali il cittadino è stato privato della libertà personale;
- che lo stesso interessato ha ammesso l’errore, sia pure imputandolo al carico di lavoro;
- che dalle dichiarazioni del dott. Lombardi, credibile in quanto anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale, risulta la consapevolezza, da parte del dott. De Magistris, della rilevanza dello sbaglio, al quale lo stesso prova a porre rimedio con una nota che il procuratore in dibattimento definisce “scappatoia” e “suggestiva interpretazione”
[come si spiegherà appresso, queste e non quelle siano espressioni suggestive e pretestuose] alla quale il G.I.P.:”non ci ha creduto”;
- che nella vigenza dell’abrogato art. 18 del R.D.L.vo 31.5.1946 n. 511 questo giudice ha avuto modo di affermare che l’omessa richiesta della convalida del fermo non configura illecito disciplinare ove addebitabile a disfunzione della segreteria e non al comportamento del magistrato (cfr. sentenza del 6.6.03 n.85/02 R.G.);
- che dunque nel caso di specie l’incolpato ha posto in essere una palese, quindi inescusabile, violazione di legge da ritenersi grave in primis per il rilievo della norma non rispettata;
- che d’altra parte, anche a tener conto del carico di lavoro gravante sul magistrato e della sua laboriosità, va rilevato che proprio secondo l’assunto difensivo l’atto era ormai da ritenersi necessario ed urgente per la pericolosità degli interessati, onde la considerazione che si sarebbe dovuta porre attenzione assoluta anche per evitare qualsivoglia disguido;
- che pertanto anche per questa ragione la violazione deve ritenersi grave e la condotta negligente non scusabile;
- che di conseguenza il dott. De Magistris va ritenuto responsabile dell’incolpazione ascrittagli»
.

Pur con il dovuto rispetto all’autorevole ufficio che l’ha adottata all’unanimità, sia consentito osservare che, sotto il profilo tecnico, la motivazione appare palesemente infondata e in alcuni passaggi addirittura illogica, per le seguenti ragioni.

Lo schema logico del fermo è che il P.M. lo dispone e poi entro 48 ore dalla esecuzione può scegliere fra:

A) scarcerare i fermati (perché, per esempio, dopo l’esecuzione del fermo sono sopravvenuti elementi che lo fanno apparire non più legittimo o rendono non legittima e/o non necessaria la custodia cautelare), chiedendo o no al G.I.P. la convalida del fermo;

B) chiedere al G.I.P. la convalida del fermo e l’adozione di una misura cautelare.

Nel caso di specie, De Magistris ha scelto la seconda opzione e ha chiesto al G.I.P. l’adozione di misure cautelari. Misure cautelari richieste invano, peraltro, già da molti mesi, senza avere la fortuna di ottenere alcun provvedimento dal G.I.P. (né di accoglimento né di rigetto della sua istanza).

In questa richiesta non ha scritto le parole “chiedo la convalida del fermo”.

La mancanza di questa richiesta “letterale” è però del tutto irrilevante perché era CON TUTTA EVIDENZA implicita nella richiesta di misura cautelare.

E, infatti, altri G.I.P. di altre città, destinatari della stessa richiesta di misure cautelari (perché competente per la convalida del fermo è il G.I.P. del luogo nel quale il fermo è stato eseguito), hanno convalidato i fermi e adottato le misure cautelari.

La sentenza del C.S.M., sul punto è sorprendentemente contraddittoria.

C’è scritto, infatti, testualmente che «il deposito del provvedimento del fermo non comportava necessariamente la richiesta della sua convalida potendo il P.M. anche disporre l’immediata liberazione del fermato ed omettere la richiesta di convalida».

In teoria si. Peccato, però, che nel caso concreto questo era escluso dal fatto che De Magistris chiedeva l’adozione di misure cautelari. Dunque, era documentalmente escluso che intendesse liberare i fermati.

In sostanza, la richiesta di adozione di misure cautelari era incompatibile con l’ipotesi di una volontà del P.M. di scarcerare i fermati.

E va detto – per i non esperti di diritto, perché i consiglieri del C.S.M. e tutti gli altri giuristi lo sanno benissimo – che è principio di diritto pacifico quello per il quale «l’interpretazione della domanda [da parte del giudice al quale è rivolta] deve essere diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria» (così le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, con la sentenza 13 febbraio 2007, n. 3041, e decine e decine di altre sentenze TUTTE di identico tenore, fra le quali, a titolo solamente esemplificativo, cito Cass. Sez. Lav., 4 agosto 2006, n. 17760; Cass. Sez. III Civ., 6 aprile 2006, n. 8107; Cass. Sez. III Civ. , 14 marzo 2006, n. 5442; Cass. Sez. III Civ., 20 ottobre 2005, n. 20322, e Cass. Sez. III Civ., 28 luglio 2005, n. 15802, per la quale «nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda il giudice di merito, da un lato, non è condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, dall’altro, ha il potere-DOVERE di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte e dalle precisazioni dalla medesima fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata»).

Dunque, il solo fatto che, nella richiesta di Luigi De Magistris non ci fossero le parole testuali “convalida dei fermi” non era decisivo, essendo DEL TUTTO OVVIO che egli intendeva ottenere anche quella (oltre alle misure cautelari) e, sotto il profilo tecnico, secondo la mia modesta opinione e ai soli fini che qui rilevano, se “errore” c'è stato l’ha commesso il G.I.P. e non il P.M..

E non si può omettere di considerare che l’ufficio che si pronunciava sulla richiesta del collega De Magistris era lo stesso che aveva omesso di esaminarne una identica nei lunghi mesi precedenti, con tutto ciò che – anche involontariamente – consegue sotto il profilo psicologico nel giudice che, giudicando quella istanza, sapeva di trovarsela davanti in conseguenza del mancato esame di altra identica non fatto da parte sua nei mesi precedenti.

Ma la sentenza del C.S.M. appare sorprendente e tecnicamente errata anche per altre ragioni.

Come spiegano gli stessi giudici, infatti, perché si possa ritenere sussistente un illecito disciplinare, occorre, ai sensi dell’art. 2 lett. g) del D.L.vo 109/2006 che ci sia stata da parte del magistrato «la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile».

E in questo caso ciò non c’è per due evidenti ordini di considerazioni.

Sotto un primo profilo, una volta richieste al G.I.P. le misure cautelari (cosa che De Magistris ha fatto, depositando anche il provvedimento di fermo) due soli esiti erano possibili:

- che il G.I.P. accogliesse la richiesta di misure cautelari

- che il G.I.P. la rigettasse.

Se l’avesse accolta, i fermati sarebbero rimasti in carcere anche se il fermo non fosse stato convalidato.

Se l’avesse rigettata, i fermati sarebbero stati scarcerati anche se il fermo fosse stato convalidato.

Dunque, anche se si volesse ritenere la mancanza delle parole testuali “chiedo la convalida dei fermi” come omessa richiesta della convalida, tale omissione non poteva in alcun modo essere considerata “grave”, perché DEL TUTTO PRIVA DI EFFETTI sullo stato di detenzione dei fermati.

E ciò senza dire che, in realtà, non è vero che le opzioni possibili per il P.M. in caso di fermo siano solo quelle che ho indicato sopra come A) e B). Ce n’è, infatti, una terza. Il P.M. può NON chiedere la convalida del fermo (perché, per esempio, si è convinto ex post della sua non convalidabilità per una delle possibili ragioni tecniche di ciò) anche quando chiede l’adozione delle misure cautelari.

Il che dovrebbe ritenersi quello che ha fatto Luigi De Magistris se si potesse condividere l’interpretazione data alla sua richiesta dal G.I.P..

E che il P.M. possa non chiedere la convalida dei fermi (impregiudicate le conseguenze - in altra sede e ad altri fini - di un fermo eventualmente illegittimo) lo afferma paradossalmente proprio lo stesso C.S.M., che scrive: «il deposito del provvedimento del fermo non comportava necessariamente la richiesta della sua convalida potendo il P.M. anche disporre l’immediata liberazione del fermato ed OMETTERE LA RICHIESTA DI CONVALIDA».

Omissione che il P.M. poteva decidere anche nel caso non intendesse liberare i fermati, ma chiedere per loro - come avvenuto - misure di custodia (ciò il P.M. fa quando per qualche ragione ritenga il fermo non convalidabile, impregiudicate, lo si ripete, le conseguenze in altra sede di un fermo eventualmente illegittimo).

Ma allora bisogna chiedersi: se la richiesta di convalida poteva legittimamente essere omessa e se la cosa non ha inciso né poteva incidere in alcun modo sulla situazione di custodia o libertà dei fermati, perchè quella omissione sarebbe colpevole? E perchè addirittura “gravemente” colpevole?

E purtroppo non sembra esserci una risposta giuridicamente accettabile a questa domanda.

Dovendosi per di più aggiungere che questa situazione di mancata richiesta di convalida del fermo con richiesta, però, di adozione di misure cautelari non è per niente rara nella pratica dei Tribunali.

Per la cronaca, come si evince dalla memoria difensiva di Luigi De Magistris riportata sopra, il G.I.P. nel caso di specie ha rigettato la richiesta di misure cautelari. Luigi ha fatto ricorso al Tribunale della Libertà che ha accolto quasi per intero le sue richieste (con ciò smentendo il G.I.P.!).

Ma c’è ancora dell’altro.

Probabilmente perché resisi conto della criticità del passaggio sulla “gravità” dell’addebito (per me, per le ragioni fin qui esposte, palesemente insussistente) mosso al collega De Magistris, i consiglieri del C.S.M. sono ricorsi a quello che appare con evidenza un inaccettabile paralogismo.

Per tentare di dare una motivazione all’elemento della “gravità” della colpa, scrivono, infatti, a pag. 27 della sentenza che «la qualificazione “grave” va posta in relazione sia all’importanza della norma violata sia al carattere evidente, indiscutibile, dell’errore, come tale necessariamente conseguenza di una “negligenza inescusabile”».

In sostanza, secondo la Sezione Disciplinare del C.S.M. sarebbe “grave” qualunque errore “evidente, indiscutibile” e/o qualunque errore relativo a una “norma importante”.

Se così fosse, se io intestando una mia sentenza anziché scrivere “il giudice Felice Lima” scrivessi per distrazione “il giudice Francesco Lima”, essendo l’errore “evidente e indiscutibile” esso sarebbe “necessariamente conseguenza di una negligenza inescusabile” e sarebbe per ciò stesso “grave”. “Importanti” essendo, peraltro, certamente le norme relative alla individuazione del giudice che adotta un provvedimento.

Dunque, secondo il C.S.M., un errore irrilevante, ma evidente sarebbe per ciò solo “grave”!

Il tutto contro ogni evidenza, sia di diritto sia ancor prima di lessico: “evidente” significa una cosa, “grave” tutt’altra. “Evidentemente” il C.S.M. non ha applicato la legge che parla di errore “grave” e non di errore “evidente”. E per farlo è ricorso a una circonlocuzione paralogica.

Certo, se è consentito alleggerire la trattazione del tema con una riflessione che può anche far sorridere, bisogna chiedersi come potrebbe essere giudicata la motivazione della sentenza del C.S.M. fin qui esaminata, se si utilizzassero i criteri recentemente applicati dalla Procura Generale in materia di sindacabilità nel merito dei provvedimenti giurisdizionali e l’ampia accezione del concetto di “provvedimento abnorme”, a cui si è fatto ricorso, per esempio, nel “caso Forleo”.

Infine, nella motivazione della sentenza, per cercare di dare una qualche consistenza a una motivazione che, sul punto, non solo non ne ha ma tradisce l’uso di argomenti pretestuosi, si dice che il Procuratore Lombardi ha detto che De Magistris avrebbe riconosciuto espressamente l’errore e, per dare consistenza a questo in realtà inconducente assunto, si dice che Lombardi è «credibile, in quanto anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale» (pag. 27).

In sostanza, poiché il provvedimento di De Magistris non appariva errato, si è ricorso a un “argomento” consistente nel rilevare che anche Lombardi ha detto che era errato.

Poi, per sostenere la “credibilità” del Lombardi – certamente molto discutibile sul punto, in relazione al suo coinvolgimento nella vicenda –, si dice che egli sarebbe credibile perché «anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale».

Ma, per un verso, se una cosa non è sbagliata, non lo diventa perché qualcuno dice che lo è e, per altro verso, se Lombardi è «anch’egli firmatario dei provvedimenti di fermo e di richiesta custodiale» (nel riportare sopra il brano della sentenza, ho evidenziato in neretto le parti in cui si sottolinea questa circostanza), allora è – INDISCUTIBILMENTE – anch’egli responsabile, al pari di De Magistris della forma e del contenuto di quegli atti.

Ma com’è, allora, che la Procura Generale ha mosso l’addebito a De Magistris e non anche a Lombardi?

Misteri del rigore “senza se e senza ma”!

Questa sentenza e l’intera vicenda meritano, anzi, impongono numerose riflessioni.

In questa sede io mi limito a quelle tecniche che ho esposto fin qui.

Aggiungo solo che abbiamo una Calabria che versa nella difficile situazione nota a tutti; l'amministrazione della giustizia che si connota in quella regione in maniera del tutto peculiare (magistrati arrestati per gravi delitti, altri coinvolti a vario titolo in inchieste inquietanti, ecc.); un giorno arriva un baldo giovane da Napoli e si mette d'impegno a fare il suo dovere e cosa accade?

Che nessuna istituzione di quelle teoricamente deputate al perseguimento della giustizia lo aiuta, ma ognuna per parte sua ostacola di fatto le sue indagini. Il Ministro della Giustizia ispeziona, il Procuratore Capo toglie l'inchiesta, i colleghi isolano, il Procuratore Generale f.f. avoca, eccetera.

E la Procura Generale della Cassazione (custode della disciplina dei magistrati) e il C.S.M. (custode della loro indipendenza) che fanno?

Perseguono immediatamente ed esemplarmente il baldo giovane, prendendosi anche la libertà di insultarlo a parolacce (“cattivo magistrato” da “colpire”).

A chi chiede conto di questa scelta di perseguire proprio lui e solo lui, la risposta è: la legge è legge e lui l'ha violata.

Alla domanda “chi dice questo?”, la risposta è (Mancino) “lo diciamo tutti all'unanimità”.

Alla domanda “perchè dite questo?”, la risposta è ... questa sentenza!

E l'A.N.M. (sedicente custode dei sacri valori della giurisdizione) che fa? In parte (Roma) tace opportunisticamente, in parte (Catanzaro) dà addosso al baldo giovane.

Certo si fa fatica a capire come si pretenda di coprire tutto questo parlando di “credibilità” delle istituzioni e della magistratura.

Auspico accoratamente che tutti i magistrati e, fra loro, in particolare quelli impegnati nell’associazionismo giudiziario e i Consiglieri del C.S.M. vogliano riflettere su quanto accaduto, perché il “caso De Magistris” ha segnato davvero e segnerà ancora uno snodo molto rilevante nella storia contemporanea della amministrazione della giustizia, del rapporto fra la giustizia e la politica, del rapporto fra la giustizia e il Popolo Italiano, del rapporto fra il C.S.M. e il Governo, del rapporto fra il C.S.M. e la stampa e di tanto altro.