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sabato 31 gennaio 2009

L’A.N.M. al tempo della restaurazione ovvero un tema da approfondire seriamente






di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)




Faccio appello alla pazienza dei lettori del blog: non solo infatti tornerò sul c.d. “caso Salerno/Catanzaro”, ma le mie osservazioni dovranno necessariamente essere lunghe.

La vicenda in questione – la cosa è sotto gli occhi di tutti – ha ormai assunto l’aspetto di una melassa che tutto lega e tutto nasconde: nessuno sa più individuare la fine e il principio della storia e, come nella più classica lite tra coniugi, alla fine, non si sa neppure perché il bisticcio sia mai cominciato.

Insomma, al di là delle intenzioni di questo o quello, la questione – come temevamo – è stata oggettivamente buttata in caciara, sì che quasi tutti, stringendosi nelle spalle, finiscono per tornarsene ai loro affari rinunziando a capire cosa sia accaduto o stia accadendo.

Tutti, tranne Apicella, Nuzzi e Verasani che non possono tornare ai loro affari.

Non solo non possono tornare ai loro affari, ma non c’è giorno che non vengano rosolati da questo o quell’intervento di autorevoli esponenti della magistratura associata.

E non si può pensare che si tratti di stupidità o di malvagità.

Che fare? Trattare il merito del processo non si può. Polemizzare neppure. D’altra parte tacere sarebbe vile (come si fa a non difendere chi non può rispondere?).

Proverò dunque a battere una via di mezzo la quale non soltanto suoni come difesa dei colleghi, ma soprattutto tenti di darsi conto del perché tutto ciò accada.

Per fare ciò partirò dall’intervista rilasciata il 27 gennaio scorso da Giuseppe Cascini che, oltre a esser un valente magistrato, è segretario generale dell’A.N.M. (l'intervista può essere letta integralmente a questo link).

Afferma Cascini: «Per quanto riguarda Salerno e Catanzaro non abbiamo chiesto sanzioni disciplinari né abbiamo espresso valutazioni sulle decisioni degli organi preposti a esaminare disciplinarmente queste condotte».

Non controbatto (potrebbe sembrare polemico), ma “contrappongo”. Cosa? Né più né meno quanto riportato dalla stampa nazionale.

«Non abbiamo chiesto» afferma Cascini. Scrive (prima della “condanna”) La Repubblica del 10.1.2009: «E’ stato un cortocircuito giudiziario che richiede rapide risposte» (dichiarazioni Palamara). «Abbiamo preso atto con soddisfazione della tempestiva iniziativa del C.S.M. prima e oggi del Ministro» (dichiarazioni Cascini).

«Non abbiamo espresso valutazioni sulle decisioni» afferma sempre Cascini. Riferisce (dopo la “condanna”) La Repubblica del 20.1.2009: «E’ una risposta sollecita a una pagina nera della giustizia. Il sistema ha dimostrato di avere gli anticorpi» (dichiarazioni Palamara).

Giudichi il lettore se ci sia stato auspicio prima della “condanna” e plauso dopo. Io non debbo aggiungere nulla.

Del resto a me sembra una costante dei pronunciamenti dell’A.N.M. quella di affermare di non dire mentre si dice.

Si prenda i comunicato dell’A.N.M. del 10.12.2008:
«(…) quello che è sconcertante in questa vicenda, che sconcerta noi come magistrati e come cittadini e che crediamo sconcerti l’opinione pubblica, è lo smarrimento completo e assoluto di ogni regola e di ogni ragione, di talché l’esercizio del potere giudiziario si presenta all’esterno come arbitrario, sganciato da regole, incomprensibile.
Non è nostra intenzione esprimere valutazioni sul merito del provvedimento di perquisizione e sequestro emesso dalla Procura di Salerno, sulle finalità o sulle modalità esecutive adottate.
(…) Anche in questo caso è evidente si sono smarrite regole e ragione. Un magistrato non deve mai allontanarsi dalla regola e dalla ragione: solo questi sono i fari e i punti di riferimento della sua azione»
.

Ora è del tutto evidente che ciascuno è libero di avere le sue opinioni sull’accaduto (ci mancherebbe!). Quel che suona strano è che, a un tempo, si censuri e si neghi di censurare l’operato di Apicella & C.

Dite voi che leggete se si può affermare che la vicenda sconcerta, che si sono smarrite regole e ragione, che il provvedimento si presenta come arbitrario e, al tempo stesso, proclamare che non si intendono esprimere valutazioni sul merito del provvedimento.

Apro una breve parentesi. E’ del tutto evidente che ogni provvedimento dovrebbe essere in accordo con le regole del diritto e con le regole della ragione. Ma non è questo il punto della questione.

Il punto è – deve essere – che, se non si vogliono consegnare i giudici, legati mani e piedi ai voleri della piazza o agli interessi della politica, occorre chiarire chi debba stabilire se le regole appena indicate siano state o meno osservate.

La risposta (e dunque la regola da osservare nel caso che ci occupa) è la seguente: l’inosservanza delle regole di diritto (violazione di legge) o della ragione (contraddittorietà o illogicità della motivazione) sono giudicate dal giudice dell’impugnazione e non danno luogo a responsabilità disciplinare.

La competenza del “giudice disciplinare” scatta solo nel caso di provvedimento abnorme e cioè di provvedimento del tutto al di fuori dei poteri del giudice e degli schemi del diritto. Chiusa parentesi.

Ma torniamo alla “illogicità” del comunicato dell’A.N.M..

Esso (emanato – si badi bene – ben prima della “condanna” di Apicella & C.) afferma:
«Riteniamo di dover ricordare che il dovere di motivazione dei provvedimenti giudiziari consiste nella chiara e analitica descrizione delle ragioni di fatto e di diritto sulle quali il provvedimento si fonda. E che la riproduzione integrale di atti di indagine, affastellati tra loro e non inquadrati all’interno di un percorso argomentativo logico-razionale, da un lato, non aiuta a comprendere le ragioni di fatto e di diritto su cui il provvedimento si fonda e, dall’altro, determina un’impropria diffusione del materiale investigativo. Tale materiale, peraltro, proprio perché non filtrato da un ragionamento di ricostruzione di fatti, si presta ad uso distorto da parte di mezzi di informazione, i quali, per l’autorevolezza della fonte da cui l’atto promana, amplificano la confusione tra farti accertati e mere ipotesi o allusioni. Né può sottacersi il fatto che tra il materiale riprodotto nel provvedimento vengono riportati fatti attinenti alla vita privata di persone estranee all’indagine e privi di alcuna rilevanza investigativa, così come vengono riportati sospetti, insinuazioni e accuse rivolte dal denunciante a persone estranee all’indagine e nei confronti delle quali non è stato elevato alcun addebito, e che pertanto non hanno alcuna possibilità di difendersi.
Si tratta di conseguenze dannose, estranee alla finalità dell’atto e che sarebbe stato agevole evitare.
L’ANM reputa legittimo domandarsi quale sia la finalità di un tale metodo di elaborazione dei provvedimenti giudiziari ed interrogarsi se, al di là delle intenzioni, la stessa non appaia estranea alle ragioni e alle regole del processo penale»
.

Confesso di trovarmi nel più totale imbarazzo: per un verso infatti il comunicato ripete (o meglio anticipa) le accuse mosse dal P.G. presso la Cassazione e dal Ministro, sì che confutare il comunicato vorrebbe dire entrare, da parte mia, nel merito del procedimento; per altro verso se è corretto accettare rispettosamente le incolpazioni (salvo confutarle nel processo), non si vede perché si debbano accettare rispettosamente i documenti dell’A.N.M..

Non ho la minima idea se il fatto sia voluto o sia casuale. Certo è che le cose stanno così: l’A.N.M., dicendo di non affrontare il merito della vicenda, parla del merito e con questo espediente vorrebbe impedire che altri parlino del merito. Finisce, insomma, che del merito ne parla una parte sola e a senso unico, il che non mi sembra il massimo, se è il dialogo che si vuole.

Comunque stiano le cose, tenterò ancora una volta di tenermi nel mezzo e mi limiterò a evidenziare il parallelismo (cui sopra accennavo) tra documento dell’A.N.M. e incolpazioni mosse nella sede propria ad Apicella & C. (che si possono leggere a questo link) là dove si accusano questi ultimi:

- di aver adottato una motivazione costruita da riproduzione di atti di indagine, affastellati tra loro e non inquadrabili all’interno di un percorso argomentativo logico-razionale;

- di essersi così prestati a un uso distorto da parte dei mezzi di comunicazione;

- di aver riportato fatti attinenti alla vita privata di persone estranee all’indagine e privi di rilevanza investigativa;

- di aver comunque riportato accuse rivolte dal denunziante a persone estranee all’indagine;

- di aver causato un’impropria diffusione del materiale investigativo;

- di aver, in definitiva, redatto un provvedimento giudiziario abnorme.

Resisto stoicamente alla tentazione di confutare una per una le varie accuse, e mi limito a osservare quanto appresso.

Se le accuse mosse da PG e Ministro coincidono con quelle mosse dall’A.N.M., che senso ha affermare che «esiste la preoccupazione che il giudizio [della Sezione Disciplinare n.d.r.] entri nel merito dell’indagine» (intervista Cascini)?

Ma c’è un’altra contraddizione che merita di essere rilevata.

Afferma l’intervistato: «Non credo che ciò sia successo in questo caso [e cioè: non credo che il giudizio disciplinare sa entrato nel merito della giurisdizione. n.d.r.]: aspettiamo le motivazioni».

Sorge spontanea la domanda: «Come fai a credere che non sia successo se, per saperlo, occorre attendere la motivazione?»

Sembrerebbe che – a fronte di una oggettiva convergenza politica tra A.N.M., P.G. e Ministro – si senta il bisogno di prospettare l’accaduto come legittimo e comunque di rassicurare l’elettorato (si ricordi che le “correnti” che agiscono nell’A.N.M. sono le stesse che competono per la conquista del C.S.M.) mostrando che l’A.N.M. veglia in armi a tutela del costituzionale esercizio della giurisdizione.

Sembrerebbe – detto più chiaramente – che per un verso si senta il bisogno di rassicurare i magistrati che stia trionfando la legge e, per altro verso, questo trionfo dissimuli la vittoria non della giustizia, ma della “ragion di stato”: la magistratura – si dice – è debolissima a fronte dell’“attacco” politico; il clamore mediatico deformante dell’accaduto rende impossibile ogni difesa; si prospettano, all’orizzonte, terrificanti riforme del C.S.M., dunque – sembra si concluda – dobbiamo apparire decisi e non corporativi.

E infatti il Segretario generale dell’A.N.M. afferma, fuori dai denti: «Non siamo il sindacato di una corporazione (…) L’A.N.M. spinge per il rinnovamento. Una vecchia concezione corporativa tollerava opacità e collusioni».

A me sembra che non si possa parlare di “corporativismo-sì/corporativismo-no” se non esaminando attentamente le ragioni di Apicella & C.

Se infatti fossero assolti ovvero la condanna si rivelasse, ad un esame critico, del tutto illegittima (tesi da dibattere avanti al giudice disciplinare o dell’impugnazione) ci si dovrebbe interrogare (tesi da dibattere all’interno dell’A.N.M.) non solo e non tanto se la ragion di stato abbia prevalso sulla giustizia, ma, anche e soprattutto, se l’A.N.M. abbia adempiuto al suo compito o sia stata ancora una volta – e in un senso ben preciso – corporativa.

Mi spiego.

Ha ragione Cascini: “Una vecchia concezione corporativa tollerava opacità e collusioni” (il corsivo è mio).

Forse questo “vecchio” modo di essere corporativi, quando le correnti erano altra cosa, oggi non c’è più.

Ma – ed è questo uno dei risvolti politici della storia di Apicella & C. – può dirsi che non c’è più alcuna forma di corporativismo?

Il mondo post-comunista e globalizzato è veramente un altro pianeta: i governi “nazionali” si sono ridotti a governi “locali”, con incredibile accelerazione nei cambiamenti, con evidente caduta nel controllo del potere, con inevitabile dislocazione dei poteri politici fondamentali nei centri “tecnici internazionali”, con un corrosione del principio di legalità (nel senso che mentre esiste una società globalizzata, non esiste una corrispondente legalità globalizzata).

Nella notte della caduta delle ideologie, nella quale tutti i partiti sono bigi; nel mutarsi dello scenario ove si esercita il potere politico; nel costituirsi del potere politico sempre più come “potere” piuttosto che come “politico”, sono venute meno le assonanze ideologiche (salvo – qua e là – qualche onda lunga).

L’A.N.M. è divenuta a sua volta (come a suo tempo l’U.M.I. o la Consulta del Regno che ancora era operante negli anni ‘70) un’enclave dove si confrontano soggetti (le correnti) sorte in altra epoca, su altre problematiche, con altri fini: questi soggetti, come pugili suonati, seguitano a ripetere meccanicamente comportamenti e schemi di lotta che avevano significato sul ring di un’epoca tramontata.

La distinzione tra le correnti è oggi più formale che sostanziale se si assume come parametro quella della fuoriuscita da un sistema che in nulla produce giustizia.

Intendo dire che politicamente non c’è grande differenza tra le correnti perché esse rispondono in modo sostanzialmente identico al quesito di fondo: alla domanda “volete mantenere in vita l’attuale sistema?” esse, nei fatti, rispondono sì.

Le correnti hanno dato vita a un sistema che le rende diversissime da quelle di un tempo: un sistema (che ho osato chiamare “regime” in un articolo che si può leggere a questo link, non volendo offendere nessuno ma cercando di individuare le sue caratteristiche oggettive) che, tra l’altro, rende gli apparati del tutto prevalenti sugli appartenenti.

Un tempo le correnti avevano tra loro idee diverse sulla magistratura e sul suo ruolo, ma tutte cercavano di difendere l’indipendenza in iudicando dei magistrati.

Oggi sembrerebbe che le correnti abbiano un’idea comune della magistratura e del suo ruolo, ma – questo è il tema che pongo nel modo più cortese possibile – sembra che considerino il ruolo dell’attuale C.S.M. e degli apparati ad esso collegati un bene più grande dell’indipendenza di chi è chiamato a giudicare (o a indagare).

Sembrerebbe dunque (vorrete prendere nota del garbo insito sia nell’uso del verbo “sembrare” sia nell’uso del modo condizionale) che si ammicchi al potere politico dicendo “Che bisogno c’è di cambiare, ci sono qui io a garantire il minimo di sudditanza necessario”.

Il Segretario generale è, sul punto, inequivoco.

A domanda («Il vicepresidente Mancino ha proposto una diversa composizione del C.S.M.») risponde: «Si può ragionare sulle modifiche della legge elettorale, ma ferma restando la composizione. Non siamo favorevoli alle proposte che diminuiscono il numero dei membri eletti dai magistrati».

Intendiamoci: puntualizzo e affermo di essere contrarissimo a un “nuovo” C.S.M. che, abdicando ai valori attualmente riconosciuti dalla Costituzione, costituisca un guinzaglio al collo della magistratura.

Affermo però che non sarà evitata alcuna abdicazione se il “vecchio” C.S.M. dovesse iniziare a fare quello che si vorrebbe facesse il “nuovo” C.S.M..

Detto brutalmente: se devo essere fucilato da magistrati che si dicono imparziali e dietro i quali si nasconde un potere politico ignoto, preferisco essere fucilato dal Ministro che è noto e se ne assume la responsabilità politica.

Confrontarsi su questi temi “laicamente” (senza stracciarsi le vesti perché si parla male di Garibaldi, senza sentirsi offesi, senza sentire messa in dubbio la propria buona fede, etc etc) credo possa giovare non poco al corretto assetto della magistratura e dunque la Paese.

Parlarne però non all’insegna del generalia non sunt appiccicatoria, ma alla luce del caso Apicella & C, nel concretissimo dell’esercizio del potere disciplinare che, come è noto, può, in astratto, costituire strumento di auspicabile bonifica ma anche bavaglio inaccettabile: dunque va esaminato nel concreto, con la massima attenzione e vedendo se le incolpazioni si prestino ad essere “massimate” sì da non costituire pericolo per il futuro.

Un’ultima osservazione cui non posso sottrarmi perché ce l’ho di traverso nella strozza.

Si parla, ad un certo punto dell’intervista, della necessità di recuperare immagine anche colpendo i «magistrati che non agiscono o, peggio, i magistrati collegati o collusi con ambienti di potere».

Chiede l’intervistatore: «E’ accaduto in passato?» Risponde il Segretario generale: «Mi viene in mente una vicenda collegata al procuratore Apicella. Nel 2004 fu avviato un procedimento per trasferimento di Ufficio per incompatibilità ambientale. Il fratello del procuratore era stato indagato, dal suo stesso ufficio, per appartenenza ad organizzazione criminale di stampo camorristico. Il fratello del procuratore poi fu assolto, ma il procuratore Apicella non fu mai trasferito. Il C.S.M. decise a maggioranza. Per un voto».

Ma tu guarda combinazione! Tra tanti possibili esempi – zacchete! – cosa ti ripesca la memoria? Il caso Apicella (conclusosi felicemente) di quattro anni or sono,dato che altri esempi proprio non ce n’erano!

Mica si è voluto alludere al fatto che Apicella è un tipaccio; mica si è voluto sottolineare che se non son buone le ragioni di oggi, per trasferirlo, erano buone le ragioni di ieri; mica per dire che il C.S.M. è come il vino, col tempo migliora: ieri mancò il colpo per un voto, ma vedi un po’ oggi come sono perfezionati i metodi!; mica perché l’A.N.M. “vuole morto” Apicella.

Ci mancherebbe altro. Si è parlato così tanto per fare un esempio.

Dopo tutto se al Segretario generale dell’A.N.M. fanno una domanda, dovrà ben rispondere (beninteso, senza entrare nel merito). O no?



venerdì 30 gennaio 2009

E i controllori del governo finirono sotto controllo. Le mani del “potere” su tutto.






di Gian Antonio Stella
(Giornalista)





da Corriere della Sera del 30 gennaio 2009

Corte dei conti: Per il ddl dell’esecutivo, solo 4 eletti nel «Csm» dei giudici contabili: persa la maggioranza.

«Mi ricorderò dite alle prossime elezioni!» sibila il solito prepotente al bravo sceriffo in ogni film di cowboy.

Così era il Far West. Anche nella legge italiana, però, sta per essere infilato un tarlo simile. Che rischia di divorare l’autonomia della Corte dei conti fino al punto che il governo (il controllato) si sceglierà di fatto il controllore, cioè chi deve esaminare come sono spesi i soldi pubblici.

Il tarlo, come tutti gli insetti che si rispettino, non è facile da scovare.

Proprio come il dirottamento ad «amici» di un mucchio di soldi per lavori stradali marchigiani venne infilato anni fa in un decreto sulle «arance invendute in Sicilia», anche questo tarlo è stato nascosto dove poteva passare inosservato.

Nel disegno di legge 847 noto come «Brunetta»: «Delega al governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico».

L’ideale, nella scia della popolarità del ministro in guerra coi fannulloni, per collocare un boccone che, come tutti i bocconi avvelenati, è inodore e insapore.

E’ l’articolo 9, dedicato al Consiglio di Presidenza della Corte dei conti. Il Csm, diciamo così, dei giudici contabili.

Che costituzionalmente consente anche a questa magistratura, come a quella ordinaria e a quella amministrativa, di decidere da sé della propria vita, al riparo da interferenze politiche.

Un principio ovvio e sacrosanto: chi comanda non può volta per volta scegliersi il controllore.

Dice dunque quell’articolo, inserito da Carlo Vizzini (che come presidente della commissione Affari costituzionali del Senato ha di fatto agito per il governo), che quel Consiglio di Presidenza, composto oggi da 13 magistrati contabili (i vertici della Corte dei conti più dieci eletti dai circa 450 colleghi) più due esperti nominati dalla Camera e due dal Senato (totale: 17) non va più bene.

D’ora in avanti dovranno essere 11, con un taglio dei giudici eletti da 10 a 4 e le «new entry» del segretario generale della Corte e del capo di gabinetto, che in certi casi possono pure votare.

Somma finale: i rappresentanti scelti dei colleghi precipiterebbero da 10 su 17 (larga maggioranza) a 4 su 13 (netta minoranza).

Ma non basta. La perdita di potere del «Consiglio», sempre più esposto agli spifferi politici, sarebbe aggravata da una grandinata di poteri in più concessi al presidente.

Come quello di stabilire l’«indirizzo politico-istituzionale».

Vale a dire: puntiamo di più su questi o quegli altri reati, concentriamoci di più su questi o quegli altri sprechi. Quindi meno su questo e quello.

Peggio: il presidente «provvede» o «revoca» come gli pare «gli incarichi extraistituzionali, con o senza collocamento in posizione di fuori ruolo o aspettativa».

Traduzione: diventa il padrone assoluto della distribuzione ai suoi sottoposti («tu sì, tu no») dei soldi extra e delle carriere parallele.

Cosa vuol dire? Moltissimo: il capo di gabinetto di un ministro cumula insieme lo stipendio nuovo (senza più il tetto di 289 mila euro inserito da Prodi e abolito da Berlusconi) con quello vecchio di magistrato «parcheggiato» altrove.

E un solo «arbitrato» (quella specie di giustizia parallela, più veloce, su alcuni contratti pubblici) può regalare a un giudice guadagni di centinaia di migliaia di euro.

Il che significa che il nuovo presidente, dicendo solo «tu sì, tu no», può cambiare letteralmente la vita dei suoi «dipendenti». Diventando il Dominus assoluto. Senza più il minimo controllo, scusate il bisticcio, dell’organo di autocontrollo, ormai esonerato.

Poteri pieni. Totali.

Un progetto pericoloso, attacca l’opposizione.

Il controllo, denuncia Felice Casson, «verrebbe a essere asservito e subordinato ai governi centrali e locali».

Il coordinamento dei magistrati ordinari, amministrativi e contabili, in una lettera mandata ieri a Napolitano, denuncia «un gravissimo vulnus ai quei fondamentali principi costituzionali che sono stati alla base della istituzione stessa degli organi di autogoverno».

E l’Associazione nazionale dei magistrati contabili è arrivata a ipotizzare all’unanimità l’espulsione dello stesso presidente, Tullio Lazzaro.

C’è chi dirà: allarmi esagerati. E giurerà che si tratta di «ritocchi» organizzativi che renderanno «efficiente» un organo che costa cinque volte più dello spagnolo Tribunal de cuentas.

Che non limiteranno affatto le denunce sulla malagestione dei pubblici denari come gli sprechi della sanità in Sicilia, le troppe consulenze «conferite intuitu personae» (cioè a capriccio), i soldi buttati dalle regioni, dalle municipalizzate, dai comuni o perfino dalla Croce Rossa.

Sarà. Ma nel progetto c’è scritto proprio così: il presidente della Corte dei conti diventa «organo di governo dell’istituto» e il Consiglio di presidenza viene degradato a «organo di amministrazione del personale».

Nero su bianco.

E lo sapete quando è stato inserito, il «ritocco» che stravolgerebbe senza passaggi costituzionali l’autogoverno dei giudici contabili?

Poco dopo che il procuratore generale aveva denunciato il surreale tentativo di introdurre nell’accordo sulla nuova Alitalia un codicillo che prevedeva «l’esonero preventivo e generalizzato» per i nuovi soci «da responsabilità astrattamente esteso fino a coprire eventuali comportamenti dolosi, con effetti retroattivi».

Cioè l’assoluzione concordata prima ancora che fosse commesso l’eventuale peccato.

Pensa un po’ che coincidenza ...


“Difendiamo la democrazia e la legalità costituzionale” – Il video integrale della manifestazione di Roma del 28 gennaio 2009


Riportiamo da Radio Radicale il video integrale della manifestazione di Roma, piazza Farnese, del 28 gennaio scorso.

Vedendolo si potrà constatare come le notizie date dai giornalisti siano false, tendenziose e asservite ai desiderata del potere.

Nel nostro Paese c’è sempre meno legalità e sempre meno informazione. Dunque, sempre meno democrazia.










giovedì 29 gennaio 2009

Flores d’Arcais: Le bugie su Di Pietro e la verità di Gramsci




di Paolo Flores d’Arcais


da Micromegaoniline

I quattro minuti integrali dell’intervento di Antonio Di Pietro (vedi sotto) sono inequivoci e inequivocabili: l’accusa al Presidente Napolitano di essere stato qualche volta non imparziale non è affatto seguita, quale esplicitazione dell’accusa stessa, dall’affermazione che “il silenzio è mafioso”.

Tale affermazione è successiva ad una serie di altre considerazioni, a cui è evidentemente riferita, che riguardano perfino il fatto che (ex) terroristi possano dare lezioni nelle università (trasparente il rimando al recente caso Morucci) mentre i familiari delle vittime vengono dimenticati.

Addolora, dunque, che praticamente tutti i mass media abbiamo saltato la parte intermedia dell’intervento di Di Pietro, e abbiamo riferito, del tutto inesattamente, l’espressione “il silenzio uccide, il silenzio è mafioso”, al giudizio di Di Pietro sulla imparzialità del Presidente Napolitano.

In tal modo ascoltatori e lettori hanno ricevuto l’informazione, del tutto errata, che Di Pietro abbia dato del mafioso a Napolitano.

Addolora che sulla base di questa informazione errata l’ex Presidente Oscar Luigi Scalfaro abbia parlato addirittura di “reato”.

E infine, oltre che addolorare, indigna che alla testa delle accuse infondate a Di Pietro sia stata fin dal primo momento una testata fondata dall’uomo la cui frase più famosa, e più che mai attuale, suona: la verità è rivoluzionaria.


Lo stralcio dell’intervento di Antonio Di Pietro nel quale si fa riferimento al Presidente Napolitano




L’intero intervento di Antonio Di Pietro





Io so. Marco Travaglio.


da Voglioscendere




Trascrizione:

“Io so che ancora una volta ci stanno prendendo per il culo, soltanto che non lo fanno con le solite ballette quotidiane.
Questa volta stanno organizzando una grande operazione di disinformatia di stampo sovietico o sudamericano, come volete.

O italiano: diciamo pure di stampo italiano, italiota.
Lo fanno perché hanno paura degli elettori che forse hanno cominciato a intuire quale gigantesca porcata debbano nascondere, o quali gigantesche porcate debbano nascondere con questa legge inciucio contro le intercettazioni.
Per la prima volta, non sono riusciti, Berlusconi e i suoi complici, a convincere l’opinione pubblica che in Italia ci vogliano meno intercettazioni.
Gli italiani, per motivi ovvi di intelligenza e per interesse alla loro sicurezza, sanno che è giusto e doveroso rinunciare a un pezzettino della nostra privacy per mettere qualche telecamera in giro, per acchiappare più delinquenti, per mettere dei telefoni sotto controllo per acchiappare più delinquenti.
Ma anche per scoprire, eventualmente, se c’è qualche innocente che è finito ingiustamente in un’inchiesta, grazie alle intercettazioni.
Si riesce immediatamente a scindere la responsabilità dei colpevoli e degli innocenti, quindi le intercettazione per chi non ha niente da nascondere è una risorsa.
Invece, per chi ha molto da nascondere, è un pericolo.
Questo non sono riusciti a farlo passare, ancora, nemmeno l’orchestra nera che ci martella da vent’anni è riuscita a convincerci che dobbiamo accettare, per il nostro bene, meno intercettazioni per i reati di lorsignori, e dunque anche per i reati di strada.
Pare che persino gli elettori leghisti – per fortuna, meglio tardi che mai – si stiano ribellando e stiano premendo sui loro rappresentanti perché non firmino la porcata che Berlusconi vuole fare.
E ci raccontano, i giornali, che la partita è se entrerà o meno la corruzione fra i reati per i quali non si potrà più intercettare.

Una porcata da buttare nel cesso

Il problema non è solo la corruzione: nel disegno di legge che è stato presentato dal Consiglio dei Ministri a luglio, come ci siamo già detti più volte ma repetita iuvant, si vieta di intercettare per reati come lo stupro – in questi giorni si parla molto di stupro, Berlusconi promette addirittura un soldato per ogni bella donna e in futuro magari anche per ogni vecchietta che va a ritirare la pensione, per ogni vecchietto maschio che ritira la pensione, per ogni massaia che va a fare la spesa.
Insomma, ci sarà metà della popolazione che fa il soldato e metà che fa il derubato.
E chi li deruba poi, fra l’altro? Bisognerebbe importare dall’estero i delinquenti. Siamo alla follia.
Ma per quanto riguarda il divieto di intercettazione, il disegno di legge del Consiglio dei Ministri le proibisce per lo stupro, il sequestro di persona, l’associazione a delinquere, l’estorsione, la ricettazione, la truffa, il furto, il furto in appartamento, la rapina, lo scippo, lo spaccio di droga al dettaglio, l’omicidio colposo e tutti i reati finanziari.
Il problema è prendere questa porcata gigantesca e buttarla nel cesso, questo dovrebbe fare un partito serio, ammesso che la Lega riesca ancora ad esserlo ogni tanto, invece di star lì a ritoccare un reato sì, un reato no.
Questi sono tutti reati per i quali oggi si può intercettare e, infatti, già abbiamo dei problemi a scoprire dei colpevoli perché ce ne vorrebbero di più di intercettazioni e di indagini collegate
Invece, causa riduzione continua dei mezzi e dei fondi, ne abbiamo sempre di meno e abbiamo pochi colpevoli scoperti.
Figuratevi quando non potremo nemmeno intercettarli quanti criminali in libertà avremo: dovremo barricarci in casa dopo che passa questo legge con i cavalli di Frisia e i sacchetti di sabbia alle finestre per farci giustizia da soli.
Questo è quello a cui ci vogliono portare.

La balla del Grande Orecchio

Allora, dato che la gente non l’ha ancora bevuta la bufala delle intercettazioni, stanno esagerando, stanno sfiorando il muro del suono, stanno superando i limiti della decenza, ammesso che ne abbiano.
Ci stanno, cioè, rifilando un’altra super balla per convincerci che siamo in preda al Grande Fratello, il Grande Orecchio, lo spione degli spioni, l’uomo nero che, nascosto in un ufficio a Palermo, intercetta tutto e tutti con gravi violazioni della privacy.
Mettendo in pericolo la democrazia.
Questo mostro si chiama Gioacchino Genchi, è un vice questore della Polizia in aspettativa, fin dai tempi di Giovanni Falcone collabora con i magistrati più impegnati in tutta una serie di indagini che hanno a che fare con l’informatica e la telefonia, perché ha accumulato un’esperienza unica in Europa, in questa materia.
Aiuta i magistrati a incrociare le telefonate e i tabulati telefonici nei processi di omicidio, di rapina, di mafia, di ‘ndrangheta, di camorra, di tangenti, di strage.
Perché è utile e indispensabile una figura come la sua? Perché non basta fare come tante bestie con la penna in mano fanno sui giornali: prendere le intercettazioni, far il copia-incolla e spiaccicarle sulla pagina di giornale o farle sentire in televisione.
Le intercettazioni vanno lette e soprattutto vanno capite.
Al telefono, molte persone cercano anche di parlare un linguaggio convenzionale, o anche se non cercano di parlarlo finiscono per farlo: si parla molto male al telefono, si capisce poco, spesso.
Ecco perché è importante capire a che ora avviene quella telefonata, in che posto, dopo quali altre telefonate e prima di quali altre telefonate avviene quella chiamata.
Perché se senti dire a uno “ho parlato con Ciccio”, da sola quella telefonata non ti dice niente.
Allora devi andare a vedere cosa è successo prima, se ci sono dei “Ciccio”.
“Sto andando a parlare con Pippo”. Chi è Pippo? Andiamo a vedere dopo. Andiamo a vedere dove si trovava Pippo un attimo dopo che questo dicesse “sto andando a parlare con Pippo”.
Allora abbiamo la prova che il Pippo era veramente lui, che i due si sono incontrati, perché stavano nella stessa cella territoriale da cui è partita la chiamata e dove, poi, c’è stato l’incontro.
Dunque, gli incroci fra le telefonate intercettate e i tabulati telefonici richiedono intelligenza, perché prese così non dicono mai niente, non vogliono dire niente e nei processi non sono utili e a volte vengono assolti i colpevoli proprio perché gli investigatori non sono riusciti a far fruttare, a trasformare in prova evidente ciò che avevano nelle carte, nei tabulati e nelle telefonate.
Ecco perché sono utili questi consulenti tecnici che sanno usare l’informatica e sanno incrociare i dati e arrivare a delle conclusioni, per cui anche una telefonata insignificante può diventare la prova regina per incastrare un assassino.
In questi giorni si parla di Genchi come il consulente di De Magistris. Certo, è stato consulente anche nelle indagini di De Magistris, ma nessuno racconta quanti omicidi insoluti ha fatto risolvere Genchi con questo sistema, quanti assassini che stavano in libertà oggi sono in galera grazie alle consulenze di Gioacchino Genchi.
Io lo posso dire tranquillamente: lo conosco da anni, lo apprezzo, penso che sia una persona estremamente perbene.
E’ un signore che vive del suo lavoro, che praticamente lavora sempre, giorno e notte, al servizio nostro, per renderci più sicuri: al servizio della giustizia.
Questo per come lo conosco io è Gioacchino Genchi.

Lo sterminio di massa

Viene linciato per quale motivo? Per due motivi.
Uno è proseguire la guerra a quelli che, a Catanzaro, hanno osato sollevare il coperchio sul pentolone del letame che ribolliva e a ricominciato a bollire da quando De Magistris è stato cacciato e da quando i magistrati di Salerno, che avevano riaperto quel coperchio, sono stati a loro volta cacciati.
Ragion per cui ho iniziato il mio intervento con “Io so”, per proseguire quelli di Sonia Alfano, di Salvatore Borsellino, Carlo Vulpio, Beppe Grillo per invitarvi tutti quanti a essere con noi mercoledì mattina in piazza Farnese in difesa dei magistrati di Salerno e, direi, da oggi anche di Gioacchino Genchi e quelli come lui.
Bisogna proseguire nello sterminio di massa iniziato con De Magistris, proseguito con la Forleo, con il capitano Zaccheo che lavorava con De Magistris, con il consulente Sagona che lavorava con De Magistris, con i colleghi di De Magistris come il dottor Bruni che hanno voluto fare sul serio nel prosieguo delle sue indagini e sono stati ostacolati dai loro capi.
Nello sterminio di Carlo Vulpio che non si occupa più di questo caso perché ci capiva troppo, nello sterminio di Gabriella Nuzzi, Dionigio Verasani e il loro procuratore Apicella che sono stati fucilati alla schiena da un plotone di esecuzione plurimo, che sparava tutto nella stessa direzione, formato dal CSM, dal suo capo – il Capo dello Stato – dall’Associazione Magistrati che adesso sta tentando dei penosi ripensamenti, delle penose lacrime di coccodrillo e da tutta la classe politica.
Voglio in qualche modo – sono disperati, ormai – dimostrare che a Catanzaro De Magistris e suoi hanno fatto qualcosa che non andava, perché sono tre anni che stanno cercando un pelino nell’uovo per dimostrare che c’era qualche irregolarità non in quelle enormi ruberie di fondi pubblici che si stavano scoprendo, ma nelle indagini e nelle persone di chi stava indagando.
Questa è la prima ragione per cui Genchi è nel mirino.
La seconda e fondamentale ragione per cui è nel mirino in questo momento l’ha detta Berlusconi, che ormai non se ne accorge neanche più ma confessa!
Questo è il suo giornale, il suo house organ, il suo bollettino parrochiale: “Intervista a Berlusconi – un’esclusiva, intervista a padrone – intercettazioni, vi dico quel che farò” “Una legge che taglia tutto, Bossi è già d’accordo, gli altri verranno convinti dallo scandalo Genchi. Non ho paura per me ma per la privacy degli italiani”.
Lo fa per noi, naturalmente.
Gli altri verranno convinti dallo scandalo Genchi: naturalmente non c’è nessuno scandalo Genchi, l’unico scandalo sono le porcate che ha scoperto Genchi per conto del PM De Magistris.

L’ennesima operazione di disinformatia

Lo scopo di questa guerra a Genchi, in questo momento, è cercare di ribaltare l’opinione pubblica con l’ennesima operazione di disinformatia.
Ricordate quando il Cavaliere, nell’ottobre del 1996, si presentò con un oggetto enorme e lo mostrò alle telecamere per tutto il mondo e disse “questa è una microspia”.
Poveretto, era una specie di frigobar portatile per le dimensioni ma lui la chiamava microspia.
I giornali, alcuni spiritosamente, la ribattezzarono “il cimicione”.
Lui si era inventato di essere spiato dalle procure deviate che gli avevano nascosto dietro il radiatore del suo studio a Palazzo Grazioli una cimice perfettamente funzionante, e quindi sgomento annunciò al mondo che in Italia la magistratura era arrivata a un tale livello di eversione da intercettare illegalmente e incostituzionalmente il capo dell’opposizione.
Tutto il Parlamento abboccò, D’Alema in lacrime corse a dargli solidarietà.
Erano già d’accordo per fare la bicamerale e, mentre D’Alema veniva eletto anche coi voti di Forza Italia in bicamerale, la procura di Roma scoprì che quella cimice intanto non funzionava, era un ferrovecchio dell’ante guerra, e soprattutto a piazzarla non era stata nessuna procura deviata ma il migliore amico del capo della sicurezza di Berlusconi, mandato a bonificargli l’alloggio.
Dato che nell’alloggio non aveva trovato niente aveva pensato di nascondere questa ciofeca dietro il radiatore per aumentare il proprio compenso e farsi bello davanti al padrone di casa.
Noi abbiamo vissuto per una settimana in un clima da colpo di Stato a causa di una delle tante bufale orchestrate dal Cavaliere e dai suoi sodali.
Bufala che quando è stata poi smontata nessuno l’ha scritto, e infatti era servita per solidificare l’inciucio destra-sinistra con D’Alema presidente della bicamerale, proprio per tagliare le unghie ai magistrati che non avevano fatto niente.
Come non avevano fatto niente neanche questa volta, di illegale.
Certo, ci sono stati episodi, scandali veri in questi anni di intercettazioni illegali.
Sono quelle di cui i politici non parlano mai.
Si è scoperto di spionaggi illegali, ancora peggio.
Si è scoperto che il Sismi del generale Pollari e del suo fedelissimo Pio Pompa - quello che teneva a stipendio il giornalista Renato Farina, detto Betulla, che adesso sta in Parlamento non a caso nel Popolo della Libertà provvisoria, dopo aver patteggiato una pena per favoreggiamento nel sequestro di persona di Abu Omar – spiava illegalmente magistrati, giornalisti, imprenditori.
Sono tutti a giudizio a Roma questi signori, naturalmente, ma nessuno ne parla.
Si è scoperto che la security della Telecom, un’azienda privata, aveva messo in piedi un archivio di informazioni e dossier completamente illegali.
Sono a giudizio anche il capo e i suoi collaboratori, Tavaroli & c.
Tronchetti Provera, che è molto perspicace, non aveva capito niente di quello che succedeva nell’ufficio accanto e ha avuto molti elogi dal suo giornale, il Corriere della Sera, per il fatto di non aver capito una mazza di quello che succedeva da parte di un signore a cui lui dava una sessantina di milioni di euro all’anno di budget.
Per fare che cosa non l’aveva capito, ma un manager non è mica li per capire cosa succede nella sua azienda, è pagato per non sapere.
Questi sono gli scandali di cui frettolosamente ci siamo spogliati perché i politici sono ricattabili o ricattati da queste persone e quindi le coprono e le proteggono.
Di Genchi non c’è niente di scandaloso, nel senso che Genchi fa esattamente quello che gli chiedono i magistrati secondo quello che è previsto dalla legge.
Voi leggete sui giornali: “Berlusconi, è in arrivo uno scandalo enorme”, “I segreti che inquietano il Palazzo”, “Anche De Gennaro nell’archivio segreto Genchi”, “Rutelli: ci sono cose rilevanti”, “Archivio Genchi: fatti rilevanti per la democrazia” - questo dice Rutelli - “Rutelli: intercettazioni, libertà in pericolo”, “Mastella: denunciai l’archivio Genchi ma nessuno mi ascoltò”.
In realtà stavano ascoltando lui, perché parlava con una serie in indagati del processo Why Not, esattamente come Rutelli che era amico di Saladino.
“L’orecchio che ascoltava tutto il potere”, “In migliaia sotto controllo, presto un grande scandalo”.
E avanti di questo passo.

Disinformazione organizzata allo stato puro

Questo è disinformazione organizzata allo stato puro.
Genchi non ha mai fatto un’intercettazione, ma nemmeno per scherzo. Genchi non intercetta.
Genchi riceve dalle procure della Repubblica che l’hanno nominato consulente le intercettazioni e i tabulati telefonici per fare quel lavoro di incrocio e di mosaico, per ricostruire la storia, il contesto di ogni telefonata e tabulato.
Che differenza c’è tra l’intercettazione e il tabulato? L’intercettazione registra quello che le due persone al telefono, o in una stanza, si dicono – telefonica o ambientale.
Il tabulato è, come tutti sanno, l’elenco delle telefonate fatte e ricevute da un numero di telefono, da un utenza telefonica.
Il tabulato del mio telefono riporta tutte le telefonate che io ho fatto in partenza, cioè i numeri che ho chiamato io, e tutti i numeri che hanno chiamato me.
Aggiunge alcune informazioni: l’ora esatta, la durata esatta della telefonata, il luogo nel quale io mi trovavo mentre parlavo e l’altra persona si trovava, e naturalmente il numero di telefono dell’altra persona quando non è criptato.
Questo è il tabulato.
Dimostra un rapporto più o meno intenso fra due persone: se si chiamano alle quattro del mattino sono persone che hanno un rapporto piuttosto confidenziale; se si chiamano quaranta volte al giorno hanno un rapporto confidenziale.
Se c’è una telefonata in tutto potrebbe persino essere una telefonata muta, alla quale l’altro non risponde e non saprà mai di avere ricevuto questa telefonata.
E’ evidente che ci vuole intelligenza investigativa per capire la differenza e capire che tipo di rapporti denotano questi tabulati e telefonate.
Genchi non ha mai intercettato nessuno: riceve telefonate già fatte e disposte da un GIP su richiesta di un Pubblico Ministero e riceve i tabulati che formano il corollario.
E studia, incrocia e riferisce al magistrato, viene sentito in udienza, viene contro interrogato dagli avvocati dell’imputato il quale ha tutti gli strumenti per dire “hai sbagliato, perché quella telefonata l’hai interpretata male, quel contatto non c’è stato”.
C’è il contraddittorio nel processo, questo avviene, questo fa Genchi.
Dice: “centinaia di migliaia di intercettazioni”. Assolutamente no.
Nelle indagini di Catanzaro, Poseidone e Why Not”, c’erano decine e decine di indagati e quindi decine e decine di intercettati, ciascuno dei quali usava diversi telefoni e schede.
In più, abbiamo i numeri degli indagati, diverse decine, e poi i numeri delle persone che venivano chiamate o chiamavano questi indagati e che risultano dai tabulati.
Quindi abbiamo evidentemente diverse centinaia di numeri.
I numeri trattati da Genchi nelle indagini di Catanzaro sono circa 730-780. Voi leggete che ci sono dei parlamentari, eppure non si può intercettare o prendere il tabulato di un parlamentare.
E’ ovvio, ma prima devi saperlo che quel numero è di un parlamentare.
Se l’indagato Saladino chiama o riceve una chiamata da Mastella o Rutelli, che sono parlamentari e non possono essere intercettati, se è intercettato il numero di Saladino si sente la voce di Mastella o Rutelli.
Se si prende il tabulato di Saladino, certo che ci saranno anche i numeri che usano Mastella e Rutelli: e tu come fai a saperlo? Non si capisce mica dal prefisso se il numero è di Rutelli o è mio, se è di un parlamentare o no, di un agente segreto o no.
Quando chiedi di chi è il numero che compare nel tabulato ti dicono: “guarda che appartiene alla Camera dei Deputati”, e non basta ancora per stabilire che è di un parlamentare.
Potrebbe essere un impiegato, un cancelliere, un usciere.
Quando scopri di chi è, è chiaro che se scopri che è di un parlamentare prima di utilizzare quell’informazione devi chiedere il permesso al Parlamento perché in Italia è previsto questo.
Ma come fai a saperlo prima? Quando lo acquisisci è un elenco di numeri tutti uguali per te.
E’ dopo, quando scopri di chi sono, che eventualmente ti fermi nell’utilizzarli e chiedi al Parlamento l’autorizzazione a utilizzarli.
Esattamente come la questione De Gennaro, l’ex capo dei servizi segreti e oggi capo del coordinamento dei servizi: non è vero niente, ma può anche darsi che non se ne sia neanche accorto che ci sia tra i numeri di telefono di questi incroci un numero usato dai servizi.
Chi lo può escludere? L’importante è che De Gennaro non era indagato e non è stato sospettato di niente, se poi risulta una sua telefonata con qualcuno, c’erano un sacco di persone, agenti di polizia, magistrati, che stavano sotto intercettazione: potrebbe risultare chiunque.
Vuol dire che Genchi spiava De Gennaro? Assolutamente no! Ma questo per fortuna De Gennaro, visto che di queste cose se ne intende, lo sa meglio di noi.
Dice: se ci sono agenti segreti e quelli parlano al telefono di segreti di Stato, intercettandoli si violano dei segreti di Stato. Pericolo! Aiuto! Il nemico ci ascolta!
Bene, questa è un’altra bufala clamorosa che è già venuta fuori quando la procura di Milano ha intercettato alcuni agenti del Sismi capeggiato dal generale Pollari, col fido Pio Pompa al fianco, nell’inchiesta sul sequestro di Abu Omar e ha acquisito dei tabulati.
Anche lì i soliti politici che proteggono Pollari, Rutelli, Berlusconi, sono insorti dicendo che – Cossiga! - non si possono intercettare agenti segreti perché se parlano di segreti di Stato al telefono questo esce fuori e la sicurezza nazionale è in pericolo.
Per legge, i militari e gli agenti segreti hanno il divieto di trattare argomenti classificati al telefono. Classificati vuol dire riservati in varie gradazioni, quindi a maggior ragione è vietato parlare al telefono con chicchessia di segreti di Stato, da parte dei titolari di quei segreti.
E’ impossibile che qualcuno intercettando un agente segreto o un militare violi il segreto di Stato, perché già sa che per legge l’agente segreto al telefono non parla di segreti di Stato.
Se parla di segreti di Stato, chi lo viola il segreto? L’agente segreto che ne parla, non il magistrato che lo intercetta!
Quindi, se tutti seguono la legge, non c’è mai un segreto di Stato che venga fuori da un’intercettazione, tanto meno da un tabulato da cui risulta un numero ma non il contenuto della telefonata.
Voi vi rendete conto della enormità della bugia con una piccola aggiunta: Genchi ha decine di migliaia di utenze sotto controllo? Vi ho già detto che non è vero.
Genchi può avere trattato, nella sua carriera che dura da trent’anni, centinaia di migliaia di utenze telefoniche: sono trent’anni che riceve intercettazioni, tabulati e li incrocia.
Indagati, non indagati, collaterali e affini, come diceva Totò.
Può darsi che in questo momento, dato che ha molti incarichi per molte procure d’Italia - casi di omicidi, rapina, mafia, camorra, ‘ndrangheta, tangenti, evasioni fiscali, stragi, associazioni per delinquere, droga, delitti vari – può darsi che abbia in complesso migliaia di informazioni.
E’ chiaro che se sta lavorando a qualche indagine a carico di qualcuno che ha rapporti con Berlusconi, ci sarà il numero di Berlusconi.
Esattamente come indagando su Saladino c’era nel tabulato il numero di Rutelli, di Mastella etc.
Li ha ascoltati lui? No, li hanno ascoltati i magistrati poi gli hanno passato le informazioni perché lui le elaborasse.
Voi capite come da una questione innocua, anzi positiva – tutti dovremmo essere grati a Genchi per quello che fa – ci stanno montando ad arte un clamoroso caso di disinformatia non solo per impedire a lui di continuare a fare questo lavoro, utile per la collettività, cioè acchiappare i delinquenti.
Ma stanno anche cercando di usare questo caso per smembrare, devastare quel poco di controllo
di legalità che ancora ci garantisce che ogni tanto venga acchiappato qualche delinquente.
Ci vediamo mercoledì a Roma in piazza Farnese. Mi raccomando: passate parola!”



mercoledì 28 gennaio 2009

La Camera Penale di Roma sugli arresti domiciliari per lo stupro di Roma


Riportiamo una dichiarazione del Presidente della Camera Penale di Roma, avv. Gian Domenico Caiazza, sulla vicenda della concessione degli arresti domiciliari al reo confesso dello stupro di Roma.

L’apprezzamento per la coraggiosa presa di posizione dell’avv. Caiazza rende ancora più doloroso e imbarazzante il silenzio dell’Associazione Nazionale Magistrati sulla vergognosa aggressione subita dal collega Barba.

Ma d’altra parte, essendo al momento l’A.N.M. “in luna di miele” con il Ministro della Giustizia, da lei esortato a perseguire esemplarmente i colleghi individuati come “virus”, del cui trasferimento sommario poi plaude sui giornali, una difesa dell’indipendenza del collega Barba apparirebbe contraddittoria.

Non si può non rilevare, infatti, che, come osservato da Stefano Racheli nell’articolo che può leggersi a questo link, una volta ammesso – per ragioni politiche e contro la Costituzione e la legge – il sindacato disciplinare del merito dei provvedimenti giudiziari, non si vede come si potrebbe ancora difendere l’indipendenza dei magistrati dalle pretese del potere politico e/o della piazza.

Fa sinceramente piacere che l’indipendenza dei magistrati sia difesa dagli avvocati. Fa molta tristezza che non sia difesa dall’A.N.M.


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Arresti domiciliari allo stupratore di Roma. la Camera Penale di Roma solidale con il p.m. Barba. “Una aggressione mediatica e politica vergognosa ad un magistrato che ha fatto solo il proprio dovere”: la dichiarazione del presidente della C.P.R. avv. Gian Domenico Caiazza.


In relazione alle polemiche sorte in ordine al provvedimento di arresti domiciliari eseguito nei confronti di un ragazzo che ha confessato un grave crimine, costituendosi, il Presidente della Camera Penale di Roma, Avv. Gian Domenico Caiazza ha rilasciato la seguente dichiarazione:

«Un cittadino, fino a quel momento solo sospettato di avere commesso un infame atto di violenza sessuale contro una sventurata ragazza, si costituisce alla Autorità Giudiziaria, e confessa il crimine.

Chiunque sappia di diritto, ma soprattutto chiunque abbia buon senso e sia in buona fede, sa che nei confronti di colui il quale confessa di aver commesso un reato, consegnandosi alla Giustizia, è pressoché impossibile giustificare una misura cautelare in carcere. Come potrebbe costui, infatti, inquinare le prove se ha confessato il delitto? E come potrebbe fuggire, se si è appena consegnato?

Il Pubblico Ministero dott. Barba, chiedendo per costui gli arresti domiciliari, ha rispettato la legge ed il buon senso, perfino con eccessiva severità.

Ma la demagogia, la speculazione politica e la viltà intellettuale è tale, nel nostro Paese, da far sì che perfino di fronte ad una condotta così lineare e rispettosa della legge, si sia scatenata una indecente aggressione mediatica e politica, culminata nella apertura di una intimidatoria ispezione ministeriale.

Questo governo, mentre promette riforme liberali della Giustizia che non arrivano, reitera intanto scelte legislative e politiche di segno diametralmente opposto; sarà bene tenerne conto, alla vigilia della Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei penalisti italiani, e nel frattempo spiegare al Ministro Alfano che la pena si sconta dopo la condanna, non prima.

Al dott. Barba la nostra solidarietà sincera, e per il resto una domanda: che ne è, in questo caso, della indipendenza ed autonomia della Magistratura?»




martedì 27 gennaio 2009

Giustizia per i magistrati e democrazia per gli italiani






di Sonia Alfano




da www.familiarivittimedimafia.com


In questi giorni, leggendo su internet la notizia che il procuratore di Salerno, Luigi Apicella, è stato sospeso dalle sue funzioni, nonché dallo stipendio, insieme ad altri magistrati, ho provato una sensazione di rabbia e di disgusto.

Ogni volta che accade qualcosa di simile penso che si sia toccato il fondo e invece mi rendo conto che il fondo non esiste, che al peggio non c’è mai fine.

Ho atteso, invano, che esponenti politici o esponenti della magistratura, che ancora abbiano a cuore la loro autonomia, si esprimessero sul piccolo colpo di stato perpetrato con estrema facilità e senza dover ricorrere alla violenza né ad una nuova riforma della giustizia.

Il CSM su ordine di Angelino Alfano, il giovane Ministro conosciuto alle cronache per aver baciato Croce Napoli, boss di Cosa Nostra, ha spazzato via la vita lavorativa, e non solo, di tre onesti magistrati.

L’ANM gongola e afferma soddisfatta che “gli anticorpi delle Istituzioni hanno funzionato”.

Ma quei presunti “anticorpi istituzionali” sono solo le illegittime armi di autodifesa del sistema politico che tutela se stesso dalla giustizia tramite la legge.

La sospensione dei tre magistrati della Procura di Salerno è l’atto conclusivo di un disegno con delle precise finalità: imbavagliare la magistratura ed assoggettarla al potere politico.

Provo rabbia perché ogni volta che guardo il nostro Tricolore identifico il rosso che lo tinge con il colore del sangue dei nostri cari uccisi proprio per difendere i valori che quella bandiera dovrebbe rappresentare.

Pensavamo d’aver dato al nostro paese ciò che di più prezioso possedevamo, la nostra famiglia.

Oggi devo prendere atto che quel sacrificio, compiuto in nome della difesa di uno stato di diritto, è stato vanificato dall’instaurazione di un regime dittatoriale.

Ma non posso rassegnarmi ed è per questo che ho deciso di schierarmi e di prendere una posizione per dimostrare che in questo paese esistono ancora uomini e donne in grado di ribellarsi e di non chinare il capo.

Scendere in piazza a protestare non è per me solo un diritto da esercitare ma un dovere nei confronti di chi per la nostra democrazia ha dato la vita.

Ecco perché con Salvatore Borsellino, Benny Calasanzio, Serenetta Monti, Francesco Saverio Alessio e tanti altri siamo costretti a scendere in piazza; lo faremo il 28 gennaio alle ore 9 a Roma, Piazza della Repubblica, lato Basilica Santa Maria degli Angeli.

E’ necessario che partecipino i cittadini e tutti i movimenti e le associazioni che hanno a cuore i nostri stessi obbiettivi.

Se non mostreremo tutta la nostra indignazione, questo regime, in assenza di qualsiasi reazione, si sentirà autorizzato a continuare a calpestare la nostra dignità.

E ci piacerebbe che chi non potrà essere fisicamente presenta a Roma esponga fuori dalla propria finestra il nostro Tricolore in segno di adesione e per creare tanti piccoli presidi di dignità e ribellione.

Ma l’appello più accorato oggi deve essere rivolto ai tanti magistrati liberi che, voglio credere, non possono assecondare la complicità di sistema assunta in modo bieco e protervo dall’ANM. Da quella ANM oggi essi devono distanziarsi, pena la perdita di ogni credibilità.

E’ ancora lontano il giorno in cui potremo avere il tempo di far rimarginare le nostre ferite ed avere la certezza che tutto il dolore che ci portiamo addosso sia servito per creare un paese sano e democratico ma non è ancora il momento di rassegnarsi e quel momento, per noi, non arriverà mai.


Chi di spada ferisce, di spada perisce




di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)





Il GIP presso il Tribunale di Roma ha applicato alla persona indagata di violenza sessuale la misura cautelare degli arresti domiciliari (non poteva fare di più visto che questa è stata la richiesta del PM).

Il Ministro Alfano – così almeno è stato affermato dalla stampa nazionale – ha inviato gli ispettori.

L’ANM tace.

Pure, stando al clamore suscitato, avrebbe dovere di dire se anche in questo caso si sia verificata una pagina nera della magistratura italiana (così nera da indurre a invocare gli anticorpi) o, al contrario, la politica sia entrata a gamba tesa nell’esercizio della giurisdizione.

La questione non è di poco conto perché, se il giudice deve eseguire, in un determinato processo, gli ordini del politico di turno, l’art.101 della Costituzione è bello che fritto, dato che, nei fatti, la Costituzione verrebbe a suonare così: “I giudici sono soggetti soltanto al potere politico”, con buona pace del principio della divisione dei poteri.

Ma – dirà qualche amabile lettore – non vedi cosa succede intorno a te? Degrado da tutte le parti, situazione economica decotta, criminalità vincente: e tu ci vai cianciando di divisione dei poteri?

Sissignori – rispondo – vado cianciando proprio di divisione dei poteri perché a tutti i mali da voi denunziati non abbia ad aggiungersi anche la suprema ferita: l’abolizione de facto del principio della divisione dei poteri, per difendere il quale partirò di lontano e precisamente dalle lucide pagine del compianto Norberto Bobbio:
«Per divisione dei poteri oggi si intende un insieme di apparati o strumenti giuridici che costituiscono il cosiddetto stato di diritto (…). Questi mezzi si fondano su alcune massime della convivenza umana (…) riconducibili a due grandi principî: 1) il principio di legalità; 2) il principio di imparzialità (…). L’uno e l’altro principio sono diretti a frenare due abusi di potere che sono caratteristici di ogni società in cui vi sono governanti e governati e quindi di ogni stato classista o meno: l’abuso derivante dal giudizio arbitrario (non fondato su una norma generale) e quello derivante dal giudizio parziale (dato da una delle parti in causa)» (così N. Bobbio, Politica e cultura).

Dunque, amici del blog, cominciamo col dire che quando si parla di “divisione di poteri”, non si parla di sesso degli angeli, ma del fatto che ci possano essere, a vostro danno, abusi di potere (se già ci sono oggi, con la divisione, figurarsi senza!).

Per questo la Costituzione ha stabilito che il giudice sia soggetto soltanto alla legge; per questo ha stabilito che nessuno possa essere sottratto al giudice naturale precostituito per legge; per questo ha stabilito che il giudice non possa essere rimosso senza il suo consenso: per evitare che si abusi del potere.

Bella roba – dirà forse qualcuno – e se il giudice emette provvedimenti strampalati? Se ciò accade, ci saranno tutti i rimedi propri del processo senza che alcuno – da fuori del processo – possa interferire. Se infatti – pensarono i padri costituenti – questo qualcuno dovesse ingerirsi e decidere al posto del giudice, accadrebbe che: a) questo qualcuno diventerebbe il giudice; b) si renderebbero possibili abusi di potere.

Dunque, conclusero i costituenti, se non si vuole che il rimedio sia peggiore del male, contentiamoci di avere giudici indipendenti, le cui pronunzie siano correggibili ad opera di altri giudici, all’interno di un processo, piuttosto di avere giudici-intrusi, privi di regole e non correggibili: insomma tra due mali si scelse il minore.

Se mai voleste avere una rappresentazione plastica di quello che i costituenti vollero evitare, pensate a ciò che accadrebbe se in ordine a tutti i processi di rilevanza politica e/o economica, dovessero giudicare le camere o qualsiasi altro organo politico: pensate ai fatti di Napoli giudicati dai politici di Napoli; ai fatti di mafia giudicati dai politici delle terre di mafia, etc etc

Dunque fino ad oggi ci siamo tenuti stretti gli artt. 101 e 107 della Costituzione cui non ha mancato di rendere ossequio lo stesso legislatore allorché, nel varare la nuova (recentissima) disciplina in materia di responsabilità disciplinare dei giudici, ha stabilito che “l’attività di interpretazione di norme e quella di valutazione del fatto e delle prove non danno luogo a responsabilità disciplinare”.

Ora, nel caso dello stupratore che qui ci interessa, la legge parla chiaro. L’art. 275 codice procedura penale afferma infatti: “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata” (ricordo a tutti ed evidenzio che non si sta qui parlando di misura della pena né della sua effettività, ma della carcerazione preventiva, del fatto cioè che uno debba rimanere in galera prima che la sua condanna sia stata definitivamente emanata).

Non starò qui a dire se e come l’art. 275 fu introdotto per difendere gli indagati (politici) dall’assalto dei magistrati cattivissimi e crudeli; non starò neppure a dire se la norma attuale sia migliore o peggiore della normativa precedente (che, all’alba dei tempi, lo si sappia, impediva di tornare in libertà a chi commetteva gravi delitti per i quali era obbligatorio quello che allora si chiama ordine di cattura); tanto meno mi permetterò di affermare se, nel caso di specie (trattandosi di persona confessa, collaborativa, incensurata, dalla vita “normale”, etc etc), risultino “adeguate” o meno - come pretende la legge - le misure diverse dalla custodia in carcere.

Io mi limito a osservare che il caso è disciplinato dal citato art. 275 e che l’interpretazione di questa norma, così come la sua applicazione, appartiene solo al magistrato chiamare a giudicare.

Aggiungo che il giudizio emesso è sottratto, secondo la legislazione vigente, al sindacato di chiunque (ivi compreso il Ministro della Giustizia), salva naturalmente la sorte delle impugnazioni proponibili avverso il provvedimento causa di tanto clamore.

Dunque sembrerebbe proprio che i magistrati oggetto di tanto vituperio possano stare tranquilli. Dico “sembrerebbe che possano” e non “possono” perché, purtroppo per loro, c’è un grosso “ma”.

Quale questo “ma”? Il recentissimo provvedimento (del quale si attende ancora la motivazione) emesso dalla Sezione Disciplinare del CSM nei confronti di Apicella & C.

In esso infatti i magistrati sono stati chiamati a rispondere, tra l’altro, di avere omesso “di prendere in considerazione possibili modalità alternative” rispetto al provvedimento adottato; di aver emesso provvedimenti aventi una oggettiva funzione divulgativa e mediatica. E’ poi stato loro contestato di aver creato discredito, anche a livello locale, per l’eccezionale rilevanza che la vicenda ha assunto a livello nazionale.

Il Ministro ha anche aggiunto che la motivazione del loro provvedimento ingenerava la sensazione di un’interpretazione distorta della funzione e del ruolo del magistrato. Tirate voi le somme: se tanto mi dà tanto, io al posto del PM e del GIP oggetto dell’odierno clamore mediatico, non dormirei sonni tranquilli.

Hai voglia a invocare la Costituzione; hai voglia a dire che se lo stupratore, incarcerato, si fosse suicidato in carcere, sarebbe stato ben possibile brandire l’art. 275 come una clava contro il giudice “disumano” di turno.

Tutto inutile: Alfano manda, Alemanno plaude, il popolo grida, l’ANM tace.

Ma – vi chiedo – se mai voi foste imputati di un qualche reato (fate ovviamente i più ampi scongiuri, anche volgari), vorreste essere giudicati in base alla legge ovvero a seconda che Alfano (o chi per lui) mandi o che Alemanno (o chi per lui) plauda?

E, quanto alle gente che strepita, vi piacerebbe di più il giudizio di un tribunale (per scalcinato che sia) o un bel giudizio a furor di popolo?

Rispondete in cuor vostro a queste semplicissime domande, anche per saper controbattere a quelli (e sono tanti!) che dicono “eh, va bene ma…!”, “sì d’accordo però…”, dove quei “ma” e quei “però” finiscono per essere la breccia attraverso cui passa la fiumana dell’inciviltà.

Dica l’ANM se, anche in questo caso, vengono auspicate “rapide risposte istituzionali” ed una “tempestiva iniziativa del CSM” (quella del Ministro già c’è: dunque non c’è nulla da auspicare, ma, se mai, c’è da applaudire agli anticorpi).

Dite voi che leggete se vi fa piacere andare a rotta di collo verso un sistema in cui i giudici (non illudetevi: non tutti sono cuor di leone), siano come quelli descritti da Procopio di Cesarea nel suo Carte segrete: “La forza delle leggi e delle convenzioni, che si fonda sulla saldezza del sistema, si era dissolta: regnavano violenza e caos; il governo assumeva sempre più il volto di una dittatura: e almeno fosse stata stabile, invece ogni giorno cambiava e ricominciava da capo, senza sosta. Le decisioni dei magistrati sembravano quelle dei mentecatti, il loro cervello era schiavo della paura di un uomo solo; quando i giudici si trovavano davanti a tesi contrastanti, non erano certo l’equità e la legge a dettare i loro verdetti”.

Intendiamoci: non voglio né fare del buonismo né, tanto meno, sottovalutare le gravissime sofferenze inferte da chi delinque alle parti offese. E sono ben d’accordo che le pene siano non già esemplari (non si può punire un uomo, al di à della misura equa, per dare un esempio agli altri), ma adeguate alla gravità dei fatti (il che oggi difficilmente avviene e non solo per gli stupratori e gli omicidi, ma anche per gli inquinatori, i corrotti, gli intrallazzatori e via dicendo); sono soprattutto d’accordo che la pena non sia, dopo il processo, sterilizzata al punto di diventare una barzelletta che non intimidisce nessuno e, talora, da rendere il delitto “pagante” (il che pure accade).

Voglio però, come so e posso, difendere dei principi di civiltà che, nella specie, possono così riassumersi: i giudici facciano i giudici e i politici i politici; chi è processato si presume innocente fino a sentenza avvenuta; la carcerazione preventiva è un’eccezione e come tale va applicata perché così vuole la legge (se non piace, la si cambi, senza pretendere che la si applichi agli “assessori” e la si disapplichi per i “rumeni” e assimilati) e, infine, si mantenga ferma e salda la distinzione (costruita in duemila anni di civiltà giuridica) tra giusto processo e linciaggio a furor di popolo.



"Mamma,Cicco mi tocca!"




di Pierluigi Fauzia
(Studente universitario)




Il gioco delle tre carte è semplice: si deve indovinare quale delle tre carte coperte è l’asso (o la regina a seconda delle varianti).

Il problema è che non ci riesce quasi nessuno, dal momento che il cartante, spesso, l’asso lo nasconde dentro la manica. Con buona pace del pollo che è stato spennato.

Penserete: “Si va bene,ma ormai non ci casca più nessuno! Lo sanno tutti che chi vince è complice del cartante e che è un gioco da bari!”

Invece le cose non stanno proprio così.

Infatti accade che il gioco delle tre carte ce lo fanno ogni giorno, e ogni giorno molti incauti polli ci cascano regolarmente.

Molti di voi avranno sentito parlare dello “stupro di Capodanno” come l’hanno ribattezzato i media.

Per chi non ne fosse a conoscenza è successo che durante il veglione di Capodanno tenutosi alla nuova fiera di Roma,una donna è stata picchiata e violentata da un “uomo”.

Sciascia avrebbe inserito quest’“uomo”, probabilmente, nella categoria dei “quacquaraqua: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre ...”.

Io, personalmente, lo catalogo nella specie criminale deteriore: per me lui e gli stupratori in genere sono e restano la feccia dell’umanità.

Il 22 gennaio un ventiduenne si costituisce e confessa di essere l’autore della violenza. Lo stesso giorno a breve distanza di tempo, sempre nella stessa area geografica, si consumano altri due stupri ancora più efferati.

L’occhio di bue del faro mediatico torna a concentrarsi sul tema della sicurezza.

Solita costernazione, soliti titoli in prima pagina, solita rabbia, solita girandola di dichiarazioni.

Di nuovo, ed ahimè eterno, c’è solo il dolore delle vittime e dei loro familiari: lo straziante vuoto che tale violenza lascia dentro e per tutta la vita.

A questo punto chiedo a tutti di fermarsi ed immaginare lo stupro (e ancor peggio lo stupro di gruppo) della propria sorella, della propria madre, della propria ragazza o della propria figlia, e di farlo compiutamente: attimo per attimo, barbaria dopo barbaria. Immaginate le risate dell’aguzzino, il suo scherno, le mani che stringono il suo corpo, il sudore altrui che brucia come acido sulla pelle.

Mi viene da vomitare. E non è così per dire.

Adesso immaginate come ci si deve sentire a vedere l’autore di questa violenza che, seppur reo confesso, gode del “privilegio” degli arresti domiciliari.

Ditemi se riuscireste a sopportare la rabbia,se non sentite la collera montare dentro di voi.

Non pensate adesso che un giudice, perchè estraneo e obbligato ad applicare la legge, sia anche insensibile a questo tipo di pulsioni.

Spesso, infatti, si scambia l’imparzialità del giudice con una sua asserita imperturbabilità interiore, qualità che si addice senz’altro più ad uno Überman.

Egli è e resta pur sempre un essere umano; anche lui, come gli altri, mosso e condizionato da passioni.

Ed è questo, più di ogni altro, che acuisce il suo dramma.

Molti, infatti, hanno dimenticato la lezione del Calamandrei: “Il vero «dramma» non è quello che ogni tanto riappare, con questo titolo nel romanzo o nel tatro, e che si impernia quasi sempre su un urto enfatico tra i doveri dell’ufficio e le passioni dell’uomo: come la vicenda in cui il pubblico ministero è chiamato senza saperlo ad accusare il figlio ... Meno romanzesca e più dimessa è la mestizia che alimenta il dramma giornaliero del giudice. Il dramma del giudice è la solitudine: perchè egli, che per giudicare deve essere libero da affetti umani e posto un gradino più dei suoi simili, raramente incontra la dolce amicizia che vuole spiriti allo stesso livello, e, se la vede che si avvicina, ha il dovere di schivarla con diffidenza, prima di doversi accorgere che la muoveva soltanto la speranza dei suoi favori, o di sentirsela rimproverare come tradimento alla sua imparzialità. Il dramma del giudice è la quotidiana contemplazione delle tristezze umane, che riempiono tutto il suo mondo: dove non trovan posto le faccie amabili e riposanti dei fortunati che vivono in pace, ma solo le facce dei doloranti, sconvolte dal livore del litigio o dall’avvilimento della colpa ...”.

Insomma, al giudice spetta il dovere di essere impopolare anche a se stesso, financo di far torto al proprio senso di giustizia se la legge glielo impone.

Perchè è il giudice che è soggetto soltanto alla legge e non il contrario.

In ciò sta il suo essere bouche de la loi: il giudice la regola la trova, non la crea.

Per cui mi sembra l’ennesimo gioco delle tre carte, come già lo è stato con il GIP di Verona Piziali, il tentativo di crocifiggere il GIP Marina Finiti di Roma perchè ... ha applicato la legge del Parlamento!

Infatti, com’è noto, le misure cautelari proprio perchè cautelari, non hanno e non possono avere la funzione di anticipare la pena di un soggetto che fino a sentenza definitiva si presume non colpevole.

Per disporre una misura cautelare, sull’indagato devono pendere gravi indizi di colpevolezza (leggi: deve essere preso con le mani nel sacco) e deve sussistere almeno una (meglio se più d’una) delle tre esigenze cautelari, ovvero pericolo di inquinamento probatorio (l’imputato ha confessato!),oppure pericolo di fuga (il che significa che se non è trovato con i documenti falsi addosso, unica prova liquida idonea a dimostrare che voglia sottrarsi alle indagini, non si può in altro modo provare che voglia fuggire) o pericolo di reiterazione di reati della stessa specie o altri gravi reati elencati tassativamente (purtroppo è incensurato e ha collaborato dimostrando, o perlomeno facendolo credere, di essere tanto pentito).

Ma va bene immaginiamo che sussista il pericolo di fuga.

D’altronde una misura cautelare è stata irrogata.

Bene, pur essendoci tutti questi elementi, il giudice non può scegliere la misura cautelare che ritiene a suo giudizio più idonea, ma deve, nella scelta tra le varie misure (che vanno dal divieto di espatrio alla custodia in carcere), farsi guidare dai principi di adeguatezza e proporzionalità; non solo: se nonostante tutto il GIP continua a ritenere che la misura più idonea sia la custodia cautelare in carcere, egli deve spiegare perchè (nel caso concreto e alla luce delle esigenze cautelari evidenziate) ha scelto proprio il carcere e non altre misure meno afflittive.

Insomma secondo i nostri politici, il GIP avrebbe dovuto disporre la custodia in carcere motivando che anche se l’imputato ha confessato e quindi non ha possibilità di inquinare le prove, anche se è incensurato e quindi non si può provare che sia uno stupratore seriale o un delinquente abituale, e anche se non c’è (o se c’è, è scarso) pericolo di fuga (l’avete visto mai uno che vuole scappare e si costituisce?), deve andare in carcere perchè alla luce delle esigenze cautelari evidenziate dal caso concreto (sic!) questa risulta essere l’unica misura idonea.

Tanto al Tribunale del riesame mica ci devono andare loro.

E così accade che il Ministro della Giustizia invia i suoi ispettori a controllare la regolarità del provvedimento,affermando che: “Qualunque siano state le valutazioni che hanno portato a questa decisione, rimane lo sconcerto perchè si tengono in modesto conto la gravità del fatto e il rispetto della dignità della vittima di un così odioso e devastante reato, dalle gravissime conseguenze psicologiche per la personalità di una giovane donna”.

Il Sindaco di Roma Gianni Alemanno afferma: “È un segnale sbagliato quello che la magistratura ha lanciato concedendo gli arresti domiciliari al ragazzo accusato dello stupro alla Fiera di Roma”.

Il Ministro dell’Interno afferma: “È una brutta notizia, nei casi che suscitano allarme la risposta delle istituzioni e dei magistrati deve essere di massimo rigore. Io l’avrei tenuto in carcere perché una scelta simile è forte e serve da deterrente. Ho già predisposto un sistema di sicurezza e sorveglianza nei confronti di questo signore per evitare che esca o scappi. Sono decisioni che mi permetto di contestare in quanto vanno nel segno opposto a quelli che sono i nostri obiettivi”.

E allora delle due l’una: o non sanno di che parlano, e allora deduciamo che la classe politica è incompetente in materia; o lo sanno e allora le esternazioni possiamo ricondurle al fenomeno, assai diffuso in verità, del paraculismo.

Tertium non datur.

Le vedete adesso le tre carte?

Purtroppo la verità è che il c.p.p. rende praticamente inirrogabile la custodia cautelare in carcere per tutti, per garantire tale inirrogabilità solo ad alcuni.

Ma mi scappellerei, perfino, se avessimo una classe politica in grado di dirlo chiaramente e di assumersene la responsabilità.

Tuttavia dal momento che alla classe dirigente di questo paese la parola responsabilità causa l’allergia, ci si trova ad avere bisogno di un capro espiatorio, una vittima sacrificale a cui affibbiare le colpe del mondo.

In un paese normale il dibattito sarebbe incentrato sul come mai un Parlamento ha emanato una legge così perversa da impedire, anche in casi così eclatanti, la custodia cautelare in carcere.

In un paese normale la stampa massacrerebbe Governi e Parlamenti colpevoli di tanto lassismo.

In un paese normale.

Ma noi che ci accontentiamo di essere il bel paese, della normalità, dopo tutto, possiamo anche farne a meno.

Ma chi glielo spiega a lor signori, che il codice di rito penale se proprio non gli piace, lo possono cambiare e che il giudice, invece, questo c’ha e questo deve applicare?

Tutto ciò mi ricorda una filastrocca siciliana: “Mamma Cicco mi tocca! Toccami, Cicco, che mamma non c’è ...”.



“Non solo fannulloni” …



Pubblichiamo uno scritto di Dario Quintavalle sulle iniziative del ministro Brunetta. Segnaliamo un altro scritto sullo stesso tema, dal blog di Dario: “Fratelli tornelli”. Ad altri articoli del nostro blog su Brunetta si accede da questo link.




di Dario Quintavalle
(Dirigente del Tribunale di Sorveglianza di Roma)


Ai colleghi dirigenti del Ministero della Giustizia

Leggo sul sito della Funzione Pubblica che sono stati scelti i finalisti del Concorso “Premiamo i risultati”, bandito dal Dipartimento della Funzione Pubblica sotto l’egida dell’ormai celebre ministro Brunetta. Tra essi, per il nostro Ministero, la D.G .S.I.A. e 13 Uffici giudiziari.

I complimenti ai colleghi dirigenti degli uffici che hanno formulato i progetti sono scontati e meritati.

Tuttavia vorrei condividere un mio personale disagio ed alcuni rilievi critici a questa e ad altre iniziative simili.

Do per scontata la buona fede dei partecipanti al concorso, eppure non posso non sottolineare che il sottinteso di certe iniziative è dimostrare che la efficienza e la funzionalità della PA dipendono esclusivamente dall’impegno dei singoli Dirigenti e funzionari, mentre questioni come il sottofinanziamento della PA, le mancate assunzioni, una massa normativa contraddittoria - la mancanza insomma di una visione complessiva e strategica, da parte della politica, del ruolo e della funzione della PA - non avrebbero alcuna rilevanza.

Che “il pesce” – insomma – non “puzza dalla testa”, bensì dalla coda.

Ad avvalorare questa mia impressione sta il fatto che il concorso si inquadra in una iniziativa intitolata sintomaticamente “Non solo Fannulloni”, con anche un sito: http://www.nonsolofannulloni.forumpa.it/.

È un po’ come se facessero un concorso per la casalinga dell’anno, o per la miglior cuoca, e lo intitolassero “Non solo Puttane”.

Quale donna con un minimo di amor proprio vi parteciperebbe, avallando l’implicita misoginia dell’ideatore?

Il capolavoro politico dell’On. Brunetta è – a ben vedere – quello di aver invertito l’onere della prova.

Siamo noi ora a dover provare di non essere fannulloni, a doverci mondare dal peccato originale di essere dipendenti pubblici, a doverci smarcare il più possibile dalla massa degli infingardi, degli sfaticati e dei parassiti.

Ed infatti, i progetti selezionati vengono così presentati sul sito in questione: “Nella Pubblica Amministrazione ci sono numerosi esempi di grande professionalità, di innovazione, di coraggio …” quasi come se questi “numerosi esempi” fossero eccezioni alla regola generale.

Mi spiace dunque che tanti si siano prestati, immagino per ingenuità, a questo gioco, che si inquadra nella generale campagna di denigrazione del Pubblico Impiego, pur mostrando un volto irrisoriamente benevolo che aggiunge al danno anche la beffa.

Due anni fa non si parlava che della Casta e dei suoi costi. Chi se ne ricorda più oggi?

Siamo oggi noi – tutti Fannulloni, salvo ‘numerosi’ eppure sempre eccezionali esempi – il vero peso per le casse dello Stato.

Sarebbe ora di dire che mandare avanti la baracca in queste condizioni è già un merito di per sé, che non ha bisogno di premi, perchè è il nostro mestiere.

E che se le cose nella PA non funzionano, non è certo per la scarsa lena di chi vi lavora, ma per precise scelte a livello politico.

Ma occorrerebbe una dirigenza compatta e cosciente di sé, sicura del suo prestigio e della sua dignità.

E questa temo, non uscirà fuori nemmeno dal cappello a cilindro del mago Silvan …


Sulla giustizia riforme spettacolo



di Bruno Tinti




da Toghe Rotte e Micromegaonline

I progetti in materia di riforma della giustizia presentati da D’Alema - Casini e Vietti - Di Cagno (in realtà dalle loro ricche Fondazioni) costituiscono un bell’esempio dello stile legislativo dei nostri tempi: spazio alla fantasia, anche quando la materia richiederebbe rigore scientifico ed esperienza.

Riforme spettacolo possono definirsi, fatte o anche solo proposte per “far vedere che ci sono” e poi, magari, qualcosa, sventuratamente, sarà approvato; e loro saranno i “padri della riforma”.

Come al solito mi occupo della parte penale del progetto. Anche se debbo dire che la prospettata riforma del processo civile desta parecchie preoccupazioni.

Basti pensare che le decisioni in materia di famiglia (a quale dei genitori che si separano affidare i bambini, per esempio) dovrebbe prenderle un solo giudice e non più i 3 che lo decidono ora. Però per arrestare un sindaco che prende mazzette ci vanno 3 giudici, un Tribunale della Libertà e una Corte di Cassazione … Strane priorità.

Restiamo al progetto di riforma penale; ne tratterò in più post perché di osservazioni da fare ce n’è veramente tante.

Il posto d’onore lo merita l’osservazione che si tratta di proposte poco serie: i meccanismi processuali previsti sono assolutamente impraticabili con il sistema processuale e giudiziario vigente.

I nostri vogliono affidare a un collegio di 3 giudici le decisioni in materia di cattura e intercettazioni telefoniche (oggi questo lavoro lo fa un solo giudice); e non si rendono conto (ma sì che se ne rendono conto, invece!) che questo significa paralizzare tutti i tribunali medio piccoli e pregiudicare gravemente quelli più grandi.

Sembra quasi (ma non è vero) che ignorino il sistema delle incompatibilità, quel meccanismo in base al quale chi tocca i fili muore: il giudice che ha deciso in materia di catture o di intercettazioni o di sequestri nella fase delle indagini preliminari non potrà poi fare né il giudice dell’udienza preliminare né il giudice del dibattimento; si è già pronunciato, non è più terzo, non è imparziale, è sospetto.

Ovviamente è una stupidaggine, ma è così.

Già oggi il sistema delle incompatibilità è causa di gravissimi problemi. Quando ci sono parecchie richieste di cattura o di intercettazioni (il che è la norma) spesso potrebbe non essere disponibile il giudice che si è pronunciato la prima volta e che (fino ad ora, ma critiche si sono sollevate anche su questo) potrebbe continuare ad occuparsene: è malato, è in ferie, è applicato in qualche altro ufficio; e allora si deve prendere un altro giudice; ma poi questo giudice (e anche il primo, quello che all’inizio una decisione comunque l’ha presa su un’altra richiesta del PM) non può più partecipare né all’udienza preliminare né al processo in Tribunale; e quando i giudici del Tribunale sono finiti (si fa presto nei Tribunali piccoli) non resta che farli venire da fuori, da un altro Tribunale, in applicazione, come si dice.

Non si tratta di sofismi, sono problemi gravi.

Immaginate un’indagine per traffico di droga (o per appalti truccati, questo è il tipo di processo a cui pensano i nostri legislatori quando si applicano alle riforme): il PM chiede qualche intercettazione e il GIP provvede; poi chiede di catturare un paio di imputati e il GIP (sempre lo stesso) di nuovo provvede.

Passano due mesi e saltano fuori altri telefoni; nuova richiesta di intercettazioni, solo che il GIP di prima è in ferie; poco male, provvede il suo collega, l’altro GIP.

Però poi si debbono catturare altre due persone; il primo GIP è ancora in ferie e il secondo si è sposato ed è in viaggio di nozze.

Facciamo venire un giudice del dibattimento (quelli che fanno il processo vero e proprio) che, per quel giorno, fa il GIP.

Alla fine si arriva all’udienza preliminare: nessuno dei tre giudici che hanno provveduto fino ad ora alle richieste del PM può fare il GUP (appunto il Giudice per l’Udienza Preliminare); e quindi ne facciamo arrivare un altro dal dibattimento.

Gli imputati vengono rinviati a giudizio. Nessuno dei 4 giudici che abbiamo visto lavorare fino ad ora può comporre il collegio giudicante (ce ne servono 3).

Solo che, nei Tribunali medio piccoli, di giudici penali ce ne è in genere 5, massimo 6 (altrettanti in civile).

Come componiamo il collegio, visto che di giudice “vergine” ce n’è rimasto 1 o al massimo 2?: li facciamo venire da un altro Tribunale della regione.

Solo che questi hanno le loro udienze da fare. Beh, lavoreranno nei ritagli di tempo e si fisseranno le udienze quando si potrà.

Capito perché questa cosa di un collegio di 3 giudici che deliberano sulle richieste del PM non è seria?

Ma, dicono i nostri sapienti legislatori, noi abbiamo previsto la riforma delle circoscrizioni giudiziarie, cioè l’abolizione dei piccoli Tribunali; e, addirittura, l’abolizione dell’udienza preliminare; il che permetterà di recuperare un sacco di giudici e così si potrà far fronte alle esigenze della nostra illuminata riforma.

Quanto sia avventurosa questa tesi lo si capisce con un esempio tratto dalla realtà (così diceva sempre un grande giurista, il professor Antolisei che oggi, secondo me, si sta rivoltando nella tomba).

Supponiamo che un padre di famiglia voglia comprare un automobile: lui ne vorrebbe tanto una grande e costosa; solo che non ha molti soldi.

Davanti a sé ha due opzioni: risparmia, mette da parte i soldi e, quando ne avrà abbastanza, se la comprerà; oppure fa un debito, sperando di avere la possibilità di restituirlo, e se la compra subito.

Quale sia la strada sbagliata lo dimostra la crisi economica mondiale e in particolare l’esperienza dei mutui sub prime.

Perché le promesse stanno a zero. Da oltre 40 anni dicono di voler chiudere i piccoli Tribunali; nel frattempo ne sono stati inaugurati un certo numero e abolito nessuno.

L’abolizione dell’udienza preliminare farebbe ululare di sdegno decine di migliaia di avvocati e tutti i loro supporters parlamentari.

Sicché, che il prospettato recupero di risorse possa esservi davvero chiunque abbia un minimo di competenza ed esperienza giudiziaria non può che dubitarne.

E comunque, se davvero si tratta di proposte concrete, allora - prima - le si realizzi; e - poi - si proceda con la collegialità per le catture e le intercettazioni.

Scommetterei la mia moto contro un vecchio scooter che i Tribunali resteranno quelli che sono e che il collegio di giudici verrà entusiasticamente approvato.



lunedì 26 gennaio 2009

Tutto quello che leggete è falso





di Marco Travaglio
(Giornalista)




da Voglioscendere


Nell’ottobre ‘96, dovendo giustificare con i rispettivi elettori l’inciucio della Bicamerale, destra e sinistra presero per buona la bufala del “cimicione” che Berlusconi disse di aver trovato nel suo studio e attribuì alle “procura deviate”.

Poi si scoprì che era un ferrovecchio inutilizzabile, piazzato in casa sua da un amico del capo della sua security incaricato di “bonificargli” la reggia.

Ma intanto la Bicamerale era nata e il cimicione-truffa aveva svolto la sua sporca funzione.

Ora Al Tappone ci riprova con un’altra superballa, assecondato al solito dalla presunta opposizione e dai giornali: il presunto “scandalo” dell’“archivio Genchi”, che dovrebbe spianare la strada alla controriforma delle intercettazioni.

Gioacchino Genchi è un funzionario di polizia, in aspettativa da anni, che collabora con la magistratura fin dai tempi di Falcone, ha fatto luce sulle stragi di mafia, ha risolto decine di omicidi insoluti e tuttora collabora con varie Procure in indagini su malaffari, mafioserie e fatti di sangue.

Che fa Genchi: intercetta? No, non ha mai intercettato nessuno.

Dunque, qualunque cosa si voglia sostenere sulla sua attività, non ha alcun legame con la legge anti-intercettazioni.

Che fa allora Genchi? I magistrati,secondo la legge, dispongono intercettazioni e acquisizioni di tabulati telefonici. Poi li passano al consulente tecnico, che li “incrocia” grazie a software sofisticati e relaziona sui contatti telefonici fra indagati intercettati e non indagati.

Genchi l’ha fatto anche nelle indagini di De Magistris, prima che fossero scippate al titolare.

Tutte le cifre che si leggono sui giornali e i commenti dei politici (compreso l’ineffabile presidente del Copasir Francesco Rutelli, amico dell’indagato n. 1 di “Why Not”, Antonio Saladino) sono falsi o manipolati o frutto di crassa ignoranza.

Chi si scandalizza per le “migliaia di telefoni controllati per conto di De Magistris”, chi strilla perché fra quei numeri ci sono quelli di “molti non indagati”, di parlamentari non intercettabili, di agenti segreti, non sa quel che dice. O mente sapendo di mentire.

Per conto di De Magistris, Genchi ha trattato 730 utenze, appartenenti a un numero molto inferiore di persone (ciascuna usa più telefoni e più schede): fra queste ci sono decine di indagati e centinaia di non indagati.

Com’è inevitabile, visto che i tabulati indicano chi chiama chi, chi viene chiamato da chi, e da dove, e a che ora, ma non il contenuto della conversazione. E ciascun indagato parla con decine di non indagati.

Nessuno può sapere chi sono queste persone (onorevoli? agenti segreti? papi?), finchè non si risale al titolare dell’utenza.

Solo dopo, se l’utente è coperto da immunità o altri privilegi, si provvede a fermarsi o a chiedere il permesso. In ogni caso è impossibile violare segreti di Stato leggendo il tabulato di una spia (non si sa cosa dice), né intercettandola: la legge vieta a militari e agenti segreti di “trattare al telefono argomenti classificati”.

Se uno 007 parla al telefono di segreti di Stato, è lui a violare la legge, non chi lo ascolta.