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di Enzo Guidotto
(Presidente dell’“Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso”)
Da Portella della Ginestra ai grandi investimenti nel mondo.
Le alleanze con la politica “ndrangheta über alles”.
La criminalità in doppiopetto
«Non potremo mai essere un Paese civile finché ci saranno camorra, “Cosa Nostra” e quella mafia dal nome impronunciabile che si trova in Calabria». Questo, nel lontano 1985, il monito lanciato da Sandro Pertini per spronare ad un’azione più incisiva quella Commissione parlamentare antimafia nata da una legge che ebbe come primo firmatario Ferruccio Parri e ricostituita per la quinta volta subito dopo il sacrificio di Pio La Torre e di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Quali i motivi del campanello d’allarme del vecchio presidente? Ancora una volta una nutrita casistica di efferata violenza ai danni di rappresentanti dello Stato.
Nell’agosto di quell’anno, a Palermo, erano stati infatti uccisi il commissario di polizia Giuseppe Montana, il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia.
Quattro mesi prima avevano invece perso la vita Barbara Asta coi suoi due bambini di appena sei anni, gemelli, nell’attentato di Pizzolungo deciso per eliminare il giudice Carlo Palermo che, dopo aver lasciato Trento, aveva assunto l’incarico di sostituto procuratore a Trapani al posto di Giangiacomo Ciaccio Montalto, barbaramente assassinato: entrambi, da visuali diverse, avevano diretto delicate indagini su traffici internazionali di armi e droga tra Italia, Turchia e Siria e sul riciclaggio e l’investimento dei relativi proventi.
Protagonisti del colossale business, oltre a mafiosi italiani e mediorientali, esponenti della Loggia P2 e dei servizi segreti, grandi banche e misteriosi potentati, un membro del comitato per il controllo delle armi operante presso il Ministero dell’Interno e discussi finanzieri con le mani in pasta nel mondo della politica.
Droga e massoneria occulta
Nel giro di poco tempo, le piste tracciate dai due magistrati, portano alla scoperta, sempre nella stessa provincia, nei pressi di Alcamo, di una raffineria di eroina, la più grande che fosse mai stata scoperta in Europa.
Fra i responsabili dell’«azienda», uno dei capi della “famiglia” mafiosa locale – che sarà ucciso dai Corleonesi perché sospettato di passare ad uno 007 notizie sulla strategia stragista del 1992 – e un personaggio coinvolto nell’inchiesta milanese sulla “Duomo Connection”, oscuro intreccio di mafia, affari e politica, nel quale facevano capolino esponenti deviati della massoneria.
L’anno dopo, i nomi di due soggetti ritenuti responsabili della “Strage di Pizzolungo” e di altri pericolosi boss figureranno negli elenchi di una loggia massonica “coperta” trapanese, la “Iside 2” della quale facevano parte anche imprenditori e commercianti, un consigliere regionale della DC, il viceprefetto e il vicequestore dell’epoca, funzionari della Provincia e del Comune, un prelato della chiesa ortodossa, don Agostino Coppola, nipote del più noto Frank “Tre dita” – attivo anche in Lazio e “conoscente” di un alto magistrato della Cassazione iscritto alla P2 e per questo radiato dall’ordine giudiziario – e il principe Gianfranco Alliata di Montereale, piduista, vicino ad ambienti dell’estrema destra ed indicato come uno dei mandanti della “Strage di Portella della Ginestra” del primo maggio 1947.
Gli affiliati non erano noti agli appartenenti alle logge “ufficiali”, ma avevano contatti con un’analoga loggia di Palermo che faceva capo a Giuseppe Mandalari, notoriamente commercialista di Totò Riina, nonché sostenitore di esponenti del centrodestra alle elezioni politiche del 1994.
Nel conseguente processo per associazione segreta si è avuto il primo accertamento giudiziario dell’inserimento nella massoneria deviata di esponenti di spicco di Cosa Nostra.
“Menti eccelse” dietro le stragi
Nel processo “Borsellino ter”, in cui si è peraltro fatto riferimento a “menti eccelse” che in via D’Amelio operarono dietro le quinte, è invece emerso che l’esplosivo usato nel fallito attentato dell’Addaura contro Giovanni Falcone era dello stesso tipo di quello della “Strage di Pizzolungo” per la quale, tra gli altri, sono stati condannati all’ergastolo come mandanti Totò Riina e Vincenzo Virga, capomafia di Trapani.
Quest’ultimo, qualche mese fa è stato anche condannato in appello per tentata estorsione – ai danni del presidente di una società sportiva della città – assieme a Marcello Dall’Utri, all’epoca dei fatti responsabile di “Publitalia”: Virga esecutore, Dell’Utri mandante.
Imputati per la “Strage di Pizzolungo” erano anche dei mafiosi di Alcamo, poi usciti di scena.
In seguito, Giovanni Brusca, il boss corleonese che aveva azionato il telecomando della “Strage di Capaci”, confesserà di aver contattato Giuseppe Madonia, “numero due” di Cosa Nostra, «per attivare i suoi canali al fine di aggiustare il processo per la “Strage di Pizzolungo”».
Quali i “canali”? Molto probabilmente quelli della massoneria che riaffiorano di tanto in tanto – e non soltanto in Sicilia – rivelando una certa continuità d’azione.
D’altra parte è risaputo che Madonia, per pilotare appalti, operava in tandem con Angelo Siino, “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina ed affiliato alla loggia “Orion” di Palermo.
L’ennesimo caso di collusioni inquietanti risale alla primavera scorsa a Mazara del Vallo, sempre nel Trapanese: tra i nove arrestati per associazione mafiosa, operatori economici e funzionari e impiegati comunali – qualcuno dei quali legato in passato alla “Iside 2” – che avrebbero stretto un patto con la massoneria per l’accaparramento di appalti.
Per attuare un certo progetto – si legge nell’ordinanza – il gruppo aveva tentato «di intervenire presso la Corte dei Conti, motivando tale scelta con la circostanza che, presso la struttura della magistratura contabile, prestava servizio un loro “fratello”».
La storia si ripete
Fatti sorprendenti? Senza dubbio. Ma se certe cose si verificano nella provincia più periferica del Paese, poco esplorata dalla “grande stampa nazionale”, figuriamoci cosa è successo e succede in quelle in cui operano i vertici delle varie organizzazioni.
Particolarmente preoccupante, negli ultimi tempi, la situazione verificatasi in Calabria, dove varie inchieste sugli intrecci del malaffare hanno coinvolto, oltre a politici di spicco, alti esponenti delle istituzioni investigative e giudiziarie: l’arresto di un magistrato in carica, il trasferimento o l’apertura di procedimenti disciplinari per errori, omissioni ed incompatibilità ambientale a carico di altri, l’incriminazione di alti ufficiali della Guardia di Finanza e di agenti dei servizi segreti.
A circa vent’anni di distanza, dunque, le parole di Pertini sono così tornate di vibrante attualità.
Ma soprattutto l’uccisione di Francesco Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale della Calabria e la strage di Duisburg, particolarmente eclatante per numero ed età delle vittime e località di attuazione, hanno portato nel modo più drammatico all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale l’esistenza, in più di un terzo del territorio del nostro Paese, di una situazione paradossale nella quale le attività delle tradizionali organizzazioni mafiose e la degenerazione della politica e della prassi amministrativa, potenziate da una certa massoneria che fa spesso da volano, coinvolgono ampie fasce dell’economia ed inquinano la politica e le istituzioni locali con inevitabili riflessi in ambito nazionale e internazionale.
Una spirale perversa
Un salto di qualità improvviso? Macché!
La spirale perversa della grande criminalità italiana si è sviluppata gradualmente. Sulla possibilità di espandere i tentacoli all’estero – si legge negli atti della Commissione antimafia della passata legislatura – hanno influito due fattori: da un canto «il progressivo abbattimento delle frontiere nazionali, sia fisiche che burocratiche, la libera e non controllata circolazione delle persone e dei beni hanno determinato una significativa ricaduta sullo sviluppo e sull’interconnessione fra le economie ed i soggetti criminali dei vari Paesi»; dall’altro – ha rilevato qualche anno fa Antonio Laudati, sostituto della Direzione Nazionale Antimafia – «la “miopia” degli Stati che, pur abbattendo frontiere e controlli, non hanno ancora adottato regole comuni, a partire dalla definizione di “criminalità organizzata”, per contrastare il crimine sul piano internazionale. La stessa Europa è un’area a “legalità variabile” e le differenze fra le legislazioni penali europee aprono varchi insperati a tutte le organizzazioni criminali».
Negligenze storiche e miliardi in Germania
Ma la sottovalutazione del problema non è un fatto nuovo perché in tema di mafia, purtroppo, la storia non è mai stata maestra di vita. In tal senso, mentre il dibattito sulla tragica vicenda verificatasi in Germania e sulla necessità di provvedimenti efficaci per contrastare in modo adeguato la criminalità presente in Europa era ancora aperto, il venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa ha offerto lo spunto per riflettere ancora una volta su alcune delle più clamorose contraddizioni verificatesi nel nostro Paese proprio in questo campo.
All’atto del conferimento dell’incarico di prefetto di Palermo, il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini aveva garantito al generale un’ulteriore investitura per il coordinamento della lotta alla mafia a livello nazionale nonché l’emanazione, da lì a poco, di un’apposita legge – proposta da Pio La Torre, ucciso proprio per questo – che gli avrebbe consentito di operare in modo più incisivo.
Nei successivi “cento giorni”, però, il mancato mantenimento delle promesse era stato “giustificato” con argomentazioni tutt’altro che convincenti: la nuova carica sarebbe stata incompatibile con l’ordinamento vigente e la legge era ancora in fase di analisi e di elaborazione.
Il che lasciava pensare agli osservatori più acuti che nel “Palazzo” nessuno si fosse mai accorto che la mafia esisteva già quando Garibaldi arrivò in Sicilia.
Tamburi battenti a ceneri calde
La “Strage di via Carini” si verifica il 3 settembre dell’82.
Esattamente tre giorni dopo, sotto la pressione dell’opinione pubblica, sconcertata dal fatto che Dalla Chiesa era stato mandato allo sbaraglio, il Governo crea l’Alto Commissariato per la lotta alla mafia, e alla fine della settimana successiva il Parlamento vara la prima vera legge antimafia della storia d’Italia che prevede la confisca dei beni, da sempre il vero “tallone d’Achille” degli affiliati e dei complici delle cosche.
La norma, che ha integrato il codice penale all’articolo 416 bis, è applicabile non soltanto nei confronti degli aderenti a Cosa Nostra ma a qualsiasi consorteria «comunque localmente denominata», tanto che, col tempo, è stata utilizzata anche in procedimenti penali a carico di esponenti della “Mafia del Brenta” veneta e della “Banda della Magliana” di Roma.
A conclusione del dibattito parlamentare era emersa la decisione di renderla subito efficace per non offrire ai “soliti noti” l’occasione di ricorrere a prevedibili abili sotterfugi per eluderla.
Nei fatti entrò in vigore dopo i consueti quindici giorni.
Conseguenza? A distanza di tempo si scoprirà che in quel lasso di tempo circa cinquanta mila miliardi di lire dalla Sicilia erano giunti proprio in Germania.
Il crollo del “Muro di Berlino”
Un altro esempio significativo risale all’89: crolla il “Muro di Berlino” e la parola d’ordine dei capi della ndrangheta agli “ambasciatori” stanziati in Germania ed in altri Paesi dell’Est è di comprare di tutto, immobili ed aziende in special modo.
Ma l’organizzazione, rispetto ad altre presenti nello scenario del momento, è poco nota all’estero e, se qualche anno prima il presidente Pertini considerava “impronunciabile” in Italia il suo nome, figuriamoci le difficoltà fonetiche incontrate nel linguaggio teutonico.
Le autorità tedesche percepiscono comunque i segni preoccupanti dell’infiltrazione strisciante della criminalità italiana e lanciano l’allarme in ambito CEE.
Nel vertice di Dublino del maggio dell’anno dopo – dichiarerà al Corriere della Sera (9.4.91) Claire Sterling, del Washington Post, che ne aveva seguito i lavori – viene infatti affrontato «il problema della possibilità che la mafia siciliana, sfruttando la prossima apertura del mercato unico, possa stabilire forme di connivenza con i gruppi terroristici addestrati in Occidente ed in particolare in Germania occidentale e con gli ex agenti di sicurezza dell’Est che ormai sono disoccupati: mezzo milione di uomini che conoscono tutti i canali del contrabbando, che per anni hanno fatto il mercato nero e sanno chi sono i corrotti e chi può essere corrotto. Ci sono indicazioni che la Stasi (Servizio segreto dell’ex Repubblica Democratica Tedesca, n.d.r.) stanno vendendo enormi quantità di armi e tecnologia a gruppi criminali, terroristici e alla mafia».
Andreotti: non mafia ma … “criminalità organizzata”
Fra la rappresentanza tedesca e quella italiana – precisò la Sterling, dopo aver «interpellato fonti tedesche, inglesi, francesi, belghe e naturalmente italiane» – si verificano però «divergenze e contrasti».
Come mai? «Giulio Andreotti, presidente del Consiglio e Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, “hanno puntato i piedi” perché nei documenti ufficiali non risultasse la parola mafia.
Il cancelliere Kohl e altri governanti hanno invece insistito perché il problema fosse messo in agenda nel successivo summit di giugno, usando esplicitamente questa parola. La mafia, dunque, per la prima volta, è stata argomento di un vertice CEE nel giugno del 1990», nel quale fu «espresso questo timore: se non verranno prese misure di sicurezza adeguate, con il mercato unico la mafia potrà realizzare in tutta Europa quello che ha fatto in Italia».
L’allarme si rivelò profetico, perché non si può certo dire che i provvedimenti finora adottati siano stati adeguati alla pericolosità delle varie organizzazioni. Ma quella volta – come tenne a ribadire la giornalista americana – Andreotti e De Michelis «volevano che più genericamente si parlasse di “criminalità organizzata”».
Motivo di tanta … “resistenza”? Semplice: già nel 1976 l’apposita commissione parlamentare d’inchiesta aveva precisato che «sin dalle origini, la connotazione specifica della mafia è sempre stata costituita dall’incessante ricerca di un collegamento con i pubblici poteri».
La stessa tendenza la criminalità organizzata può metterla in atto attraverso la corruzione, ma occasionalmente, non in modo sistematico e continuativo come le varie mafie. E Andreotti e De Michelis, stando alle personali esperienze giudiziarie relative a vicende di quegli anni, conoscevano bene la differenza fra i concetti racchiusi nelle due espressioni.
Summit internazionali mafiosi
Mentre nelle alte sfere si persevera con la “politica dello struzzo” la criminalità internazionale si dà da fare fissando precise strategie in alcuni summit che, guarda caso, si svolgono soprattutto in Germania: a Berlino Est appena un mese dopo, nel giugno del 1990, a Varsavia nel 1991, a Praga nel 1992, ancora a Berlino nel 1993.
In verità – ricorda Clara Sterling – «anche prima della disintegrazione dell’Unione Sovietica, le mafie siciliana, americana, colombiana ed asiatica stavano collegandosi con la mafia russa, fino a formare un cordone criminale clandestino, senza confini, in grado di stringersi attorno al globo». Poi, il cambiamento delle condizioni di operatività della criminalità italiana consente il “salto di qualità” della ndrangheta.
«A seguito dei colpi inferti a Cosa Nostra, dopo la stagione stragista del ‘92 e del ‘93 – spiega Francesco Forgione, presidente della Commissione parlamentare antimafia – la ndrangheta è riuscita a conquistare il primato mondiale nel traffico degli stupefacenti, gestendo gran parte delle porte d’ingresso della cocaina in Europa. E in questa scalata tra le organizzazioni criminali mondiali, è stata favorita dalla sua natura di organizzazione a struttura chiusa, dalla solidità di legami famigliari che l’hanno resa impermeabile al fenomeno dei “pentiti” che, per Cosa Nostra e la Camorra, ha avuto un effetto deflagrante in tutti gli anni Novanta».
I “collaboratori di giustizia” della 'ndrangheta, stando ai dati ufficiali, fino all’aprile scorso, erano infatti appena 100, contro i 243 della mafia siciliana e i 251 della camorra.
1992: ndrangheta “über alles”
Stando così le cose, la raccapricciante manifestazione di violenza omicida a Duisburg, nel cuore della Germania – sostiene Forgione – «ha solo riacceso i riflettori sulla ndrangheta, sulle sue barbarie, sui suoi affari, sul suo ruolo internazionale che ne fanno, oggi, la più potente organizzazione criminale italiana e tra le più pericolose e ricche nel mondo: ha rappresentato la coda di una faida che ha già prodotto decine di morti, ma chi era in Germania – vittima o carnefice – non era partito con la valigia di cartone per fare il pizzaiolo: era lì per gestire investimenti, operazioni finanziarie, speculazioni edilizie. Per controllare e gestire il traffico della droga, come dimostrano recenti inchieste in mezza Europa, o trattare importanti partite di armi o, come pare, era anche interessato all’acquisto di Gazprom, monopolista russo del gas, e gli investimenti turistici sul Baltico».
«La ndrangheta va guardata così: senza mai perdere di vista il significato del suo simbolismo arcaico, dai riti di affiliazione fino alle faide familiari, ma cogliendone sempre i nessi con la sua “modernità”, frutto delle sue disponibilità finanziarie ripulite nelle mille opportunità della globalizzazione. Tutto il resto è fuorviante e tende a minimizzare un fenomeno che va aggredito al più alto livello della sua pericolosità: la sua ricchezza, i suoi patrimoni, la pervasività delle sue relazioni sociali e istituzionali».
Un fenomeno transnazionale
Un obiettivo, questo, che non riguarda solo la mafia calabrese ma tutte le grandi organizzazioni criminali italiane e straniere – alle quali è legata da rapporti di collaborazione – che hanno sempre le radici nelle aree geografiche d’origine ma sono ormai presenti in tutti i continenti: un comune denominatore che consente di definire il fenomeno mafioso complessivamente considerato, non più internazionale ma transnazionale: «internazionale – rileva infatti la Commissione parlamentare antimafia – è un gruppo criminale che non opera unicamente nel territorio del proprio Stato ma svolge la sua attività anche all’estero con opportune ramificazioni; transnazionale è invece la cooperazione sinergica, che gruppi criminali di diversa nazionalità instaurano per ottimizzare lo sfruttamento di determinate opportunità di mercato illecito: questa integrazione funzionale non solo supporta il traffico ma potenzia le capacità operative dei singoli gruppi interagenti».
La ndrangheta in particolare – si legge nel rapporto presentato ai primi di agosto dal Sisde, il servizio segreto civile italiano – è «ramificata» in Germania, Olanda, Francia e Belgio, nei Balcani e nell’Est europeo, dove coglie «le opportunità di penetrazione del tessuto socio-economico» e mantiene «i suoi consolidati rapporti con le organizzazioni sudamericane e turche per l’approvvigionamento, rispettivamente, di cocaina ed eroina, nonché i contatti con sodalizi stranieri, specie albanesi e nordafricani, che gestiscono piazze di spaccio nel Nord Italia».
La stessa ed altre fonti, in varie occasioni, hanno però parlato anche di consistenti presenze in Spagna, Inghilterra, Canada e soprattutto in Australia, dove qualche decennio fa furono addirittura uccisi un candidato al parlamento che aveva scatenato una campagna stampa contro la criminalità organizzata calabrese e il vice comandante della polizia federale di Canberra che indagava su terreni acquistati da soggetti della Locride con denaro proveniente da alcuni sequestri di persona attuati in Lombardia.
Il Bundesnachtendienst, il servizio segreto tedesco (Bnd), in un suo rapporto pubblicato dal quotidiano Berliner Zeitung – ma soltanto all’indomani della strage di Duisburg e privo di riferimento alla data di elaborazione – conferma che la ndrangheta ha investito «in misura considerevole soprattutto nell’ex Ddr (Repubblica Democratica Tedesca, ndr) i proventi delle attività criminali» e critica il nostro Paese per avere svolto in maniera insufficiente l’azione di contrasto.
Germania: legislazione carente
Una trattazione così sintetica della questione ha dato però una impressione di incompletezza e superficialità: Duisburg si trova infatti dall’altra parte della Germania, a nord di Bonn, ai confini con l’Olanda; l’ormai famoso “Ristorante da Bruno” davanti al quale si è consumata la tragedia non è l’unico locale pubblico della città che desta sospetti e la normativa antimafia italiana, anche se è da perfezionare, è obiettivamente all’avanguardia rispetto al resto d’Europa.
Conclusione? Sono state semmai le autorità tedesche a non mettere in pratica a casa loro il rigore reclamato a Dublino quasi vent’anni fa.
Ma la stampa locale, invece di prendere atto di questa diversità d’azione tra i due Paesi ha enfatizzato i tradizionali e latenti pregiudizi che nel ‘77 raggiunsero il culmine con la pubblicazione della famosa foto di copertina del settimanale “Der Spiegel” con la foto di una pistola a tamburo piazzata sopra un piatto di spaghetti all’italiana, accentuando e rinfocolando l’indignazione già assai diffusa nell’opinione pubblica.
Il parere di Saviano
Non tutti i giornalisti hanno però aderito al facile e comodo conformismo. «L’interesse dei media è forte, ma quando il polverone è passato, di solito, torna a tacere» ha osservato Henning Kluver sulla Suddeitsche Zeitung.
E per capire e far capire di più ai lettori il vero nocciolo della questione ha chiesto il parere di un osservatore esterno, esperto in materia: Roberto Saviano, il giovane scrittore napoletano che dopo aver fatto, con il suo bestseller “Gomorra”, clamorose rivelazioni sui segreti della camorra è stato costretto a vivere con la scorta della polizia. Domanda: cosa c’è che non va nella percezione del crimine organizzato da parte dell’opinione pubblica? «Uno degli errori più grandi della valutazione di un’organizzazione criminale – è stata la risposta – è credere che sia attiva e potente solo quando spara e invece la mafia è molto più forte quando non uccide: il “massacro di ferragosto” dimostra l’incapacità dei media nell’affrontare il crimine organizzato. Fino a oggi l’esistenza di cartelli criminali in tutta Europa è stata sottovalutata o ritenuta un problema interno all’Italia».
Silenzio ingenuo se non colpevole
«Da noi – ha precisato Saviano – che la camorra di Secondigliano e la ndrangheta di Locri siano stati i primi a investire in Germania Est dopo la caduta del muro è un segreto di Pulcinella».
La verità è che dalla strage di Duisburg «la Germania è uscita da un silenzio ingenuo, se non colpevole perché da almeno vent’anni i poteri criminali calabresi e campani investono in Germania. L’edilizia dell’est è controllata dalla ndrangheta e dalla camorra, centinaia di aziende subappaltatrici hanno legami con i clan. Ma non solo in Germania Est. I Casalesi hanno fatto affari soprattutto nei trasporti a Dortmund», a nordest di Duisburg.
«La camorra ha persino portato avanti una strategia precisa: ha investito prima in paesi vicini come la Repubblica Ceca e la Polonia, che fanno comunque parte dell’area allargata dell’economia tedesca, poi si è spostata direttamente in Germania. Hanno investito capitali in molte attività tessili: negozi avviati con capitale italiano, che poi i soldi tedeschi hanno fatto fruttare».
«In questi giorni c’è il pericolo che i tedeschi credano che il loro Paese venga sommerso da finanziamenti criminali dall’estero. Invece i capitali che provengono dall’Italia fecondano quelli tedeschi e li fanno fruttare».
È pure vero però che certi meccanismi cominciano a funzionare pure al contrario.
«A Caivano, vicino a Napoli – ha precisato lo scrittore – c’è un tedesco che gestisce un arsenale della camorra. Il clan dei Casalesi ha anche appartenenti ucraini o tunisini. Tutta l’area intorno a Castel Volturno è stata lasciata alla mafia nigeriana. A New York la mafia italoamericana ha appaltato una zona a famiglie del Kosovo. Insomma, e organizzazioni mafiose si sono globalizzate».
Come mai, allora, nella gente è prevalsa l’emotività del momento?
«In Germania la polizia sa, ma i mass media non ne sanno nulla e quindi l’opinione pubblica non sa nulla. Ma proprio questo è il problema: se le organizzazioni criminali restano una materia per addetti ai lavori non abbiamo alcuna possibilità contro di loro. Loro non hanno paura degli addetti ai lavori e non temono i tribunali e le condanne. Il mio caso forse può servire a mostrare quanto oggi possano essere efficaci le parole. Se i lettori, i giornalisti o gli intellettuali producono un’attenzione costante, l’imprenditorialità criminale si trova in difficoltà».
La posizione dell’Italia
In Italia, la posizione ufficiale non è diversa.
«Con l’invio dei killer in Germania – ha sostenuto Marco Minniti, viceministro all’Interno con delega per le polizie e il servizio segreto civile – le cosche calabresi hanno infranto un tabù: quello di presentare all’estero il volto della mafia imprenditrice. Sia chiaro però che già nel 2001, con l’Operazione “Lukas”, i carabinieri del Ros compilarono con la collaborazione della Bka tedesca una mappa degli investimenti calabresi in Germania. E in quella mappa c’era anche il “Ristorante da Bruno” che è stato teatro della strage. Ma poi l’inchiesta non andò avanti perché mentre in Italia la legislazione sulla confisca è chiarissima, l’ordinamento legislativo tedesco ha impedito il prosieguo di indagini efficaci e preventive: è mancata una cornice normativa europea. Il fatto è che l’Europa, fino a quando ha incassato investimenti “puliti” delle mafie italiane si è illusa che, al denaro che non ha odore, non debba necessariamente seguire una crisi di sicurezza pubblica, come accade oggi nella Ruhr e come può accadere presto in tutti gli altri Paesi in cui da tempo affluiscono i capitali delle nostre mafie».
Ma come si concilia la posizione assunta dal cancelliere Kohl nel ‘90 a Dublino con l’inerzia legislativa delle istituzioni tedesche a partire dal 2001, anno al quale risale l’inchiesta “Lukas”?
Su questo punto i princìpi e le regole della diplomazia impongono la più assoluta riservatezza.
Gli analisti dicono però che tutto è chiaro.
Jurgen Roth, mafiologo berlinese, è stato tra i primi a far presente che «le ultime notizie valide del Bundeskriminalmat, la polizia criminale tedesca, risalgono agli inizi del 2000. Poi è arrivato il governo di Silvio Berlusconi ed è stato molto difficile collaborare nel settore della lotta alla criminalità».
Lo stesso giorno la stampa riportava il citato rapporto del Bnd secondo il quale in Italia alcuni clan calabresi sarebbero riusciti a piazzare «in modo sistematico i propri informatori in quasi tutti i settori della vita pubblica, della politica, della giustizia e dell’esecutivo fino ai massimi livelli dell’amministrazione».
Problema italiano o tedesco?
«È vero che non possiamo sorprenderci della strage di Duisburg – ha sottolineato Minniti – ma io sono sorpreso della sorpresa dei nostri partner europei: se a ferragosto ci fossimo trovati a Como con sei rumeni finiti con un colpo alla nuca, noi non avremmo detto: “Cara Romania, è un problema tuo!”. Ci saremmo chiesti cosa non funziona da noi, quali sono i buchi neri, quali i controlli inefficienti, quali i sensori inattivi? Lo avremmo sentito un problema nostro. Ora nutro la speranza che quanto è accaduto a ferragosto possa inaugurare una nuova stagione, magari più consapevole che la minaccia mafiosa la patisce non solo il Paese che l’esporta, ma l’incuba anche chi la importa, magari qualche volta cedendo alla tentazione di chiudere gli occhi perché, si sa, pecunia non olet».
La ‘ndrangheta in Calabria
Ma qual è stata la carta vincente che in Calabria, una delle regioni meno sviluppate del Paese, ha consentito alla ndrangheta di raggiungere tanto potere, prima di imporsi sullo scenario della criminalità mondiale?
«Quella – sostiene Forgione – della grande capacità imprenditoriale, attraverso la quale è riuscita a contrattare in più occasioni il proprio ruolo nel sistema di imprese nazionale e con i soggetti economici e politico-istituzionali che dovevano gestire il più grande insediamento industriale della regione: si è assicurata così il sistema degli appalti e dei grandi flussi di denaro pubblico arrivati a fiumi in Calabria senza incidere in termini di sviluppo, di modernizzazione, di livelli di civiltà».
Troppa gente, però, è ancora legata al luogo comune secondo il quale le tradizionali organizzazioni mafiose sarebbero una inevitabile conseguenza del sottosviluppo del Meridione.
«Le mafie, e la Ndrangheta tra esse – spiega invece Forgione – non sono più fattori di arretratezza, ma soggetti fra i più “dinamici” della modernizzazione distorta che ha investito il Sud e ne ha trasformato il paesaggio sociale: speculazione e cemento, saccheggio ambientale, stupro delle coste, dissipazione dei finanziamenti pubblici, scempio di ogni forma di diritti, negazione delle libertà di mercato e d’impresa».
La “politica dello struzzo”
Quale, in tutto questo, il ruolo e le responsabilità della politica?
«Queste mafie, la politica non ha avuto la forza di combatterle e di sconfiggerle proponendo un altro modello di sviluppo credibile e sostenibile di lavoro pulito, di gestione trasparente delle risorse, di diritti esigibili al posto di favori elargibili. Anzi, ne ha accettato le logiche ed ha compartecipato al sistema. In fondo, la crisi della politica, in Calabria, è tutta qui: nell’essersi trasformata in esercizio separato del potere, trasversalità senza vincoli ideali o etico-morali, ricerca ossessiva del consenso senza regole, scambio privato e non più risposta generale e trasparente ai bisogni diffusi. Anzi, i bisogni della gente – dalla sanità al lavoro, dai servizi alla pubblica amministrazione – sono diventati la leva di una nuova dipendenza non più e non solo clientelare ma, in intere aree, anche mafiosa. In questo scenario si è anche affermata una commistione, a tutti i livelli, tra gestione politica e interessi economico-finanziari privati».
Un intricato “sistema criminale”
Un vero e proprio sistema criminale, dunque, dalle componenti eterogenee, legate da stretti vincoli di interdipendenza funzionale e di reciprocità di favori che li rendono capaci di gestire un potere perverso.
Quali, oltre alla ndrangheta ed a “pezzi” della politica, le altre “entità” inquinate ed inquinanti?
«Massoneria, lobby, circoli, luoghi certamente trasversali» dichiara ad alta voce il sostituto procuratore di Catanzaro Luigi De Magistris. E aggiunge: «Siedono tutti allo stesso tavolo».
«Qui – era stata nei primi di agosto la denuncia di Salvatore Boemi, al vertice della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio – 'ndrangheta e massoneria deviata fanno parte di uno stesso modello integrato di capacità criminali individuali e collettive, una sorta di tavolo di lavoro dove siedono figure diverse, non tutte necessariamente mafiose, ma tutte comunque interessate all’accaparramento di finanziamenti pubblici», che per questo e il prossimo anno ammontano a diciotto miliardi di euro.
«E, come per il passato, il rapporto con politica e istituzioni dello Stato deviate costituisce la logica vincente per la ndrangheta», che conferisce alla regione un grado di “densità criminale” – basato sul rapporto tra affiliati ai clan e popolazione residente – del 27%, contro il 12 in Campania, il 10 in Sicilia ed il 2 in Puglia (dati DIA 2001).
Un … “tavolo di lavoro”
Il guaio – precisa De Magistris – deriva dal fatto che «questo sistema ha bisogno di inglobare anche pezzi di istituzioni deputate al controllo e infatti, indagando, ci siamo trovati di fronte a situazioni di commistione tra controllori e controllati che il conflitto di interessi di Berlusconi fa quasi ridere».
Ma la gente si rende conto che in questo modo si calpestano interessi generali che il denaro pubblico, i soldi pagati da tutti i cittadini vengono rubati o sperperati?
La verifica degli intrecci è alla portata di tutti. «Basta fare una semplice visura camerale – spiega il magistrato – per vedere chi sono i soci, i consiglieri di amministrazione: si scopre che abbiamo il figlio del politico, il nipote, il figlio e il parente del magistrato, e poi del poliziotto, del carabiniere».
E la ragnatela viene subito a galla quando si parla «di rifiuti, di informatizzazione, di acqua o di sanità. Ci sono addirittura società che si occupano di tutti questi settori contemporaneamente».
Nessuna meraviglia, dunque, di fronte alla notizia di un’inchiesta “Fortugno bis” che, relativamente ai mandanti, punta ad un “livello politico superiore”.
«Per questo – è stata la conclusione di Boemi – la soluzione del problema non può che venire dalle indagini sulla borghesia mafiosa, quella interna alle cosche e quella esterna dei colletti bianchi che favoriscono l’impresa ndranghetista e agevolano il passaggio da un’economia criminale ad una economia pulita».
Verità scomode
Un problema di facile soluzione?
«Se vogliamo parlare seriamente della ndrangheta dopo la strage di Duisburg – osserva Giuseppe Lumia, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia – allora conviene dire anche verità scomode. La ndrangheta è l’organizzazione mafiosa più potente, più ricca, e più estesa sul territorio europeo e mondiale. E le democrazie sono impotenti. Con i loro apparati penali insufficienti, con il loro controllo dei mercati e dell’economia debolissimo. Così riusciremo al massimo a contenere il fenomeno. La sconfitta è lontana. L’Italia, ad esempio è il Paese delle norme antimafia non applicate. Due esempi rendono chiara l’idea: primo, la Legge Mancino del ‘94 che prevede che tutti i trasferimenti di proprietà registrati vengano contestualmente trasmessi alle questure. Una norma inapplicata nella sostanza, visto che il materiale non è informatizzato, non lo conosciamo e non abbiamo a disposizione una mappa per capire come si muovono le ricchezze della mafia. Poi c’è la questione dell’anagrafe dei conti e dei depositi bancari che non è nelle disponibilità degli investigatori e dei magistrati antimafia, eppure parliamo di lotta al riciclaggio. Come si vede, siamo all’antimafia del giorno dopo».
Garantismo e “doppio binario”
E invece bisognerebbe puntare su quella del giorno prima, basata sull’analisi realistica e rigorosa della situazione per predisporre le più appropriate misure di prevenzione e di repressione.
«Certo! Ma diciamo subito che un approccio ipergarantista non ci aiuta nell’azione di contrasto. Guardiamo alla Germania, dove il mostro ndrangheta è cresciuto e si è esteso nel territorio grazie anche a leggi garantiste. In Italia, invece, con il rito abbreviato in primo grado e il patteggiamento allargato in secondo, un narcotrafficante rischia poco più di sette, otto anni di galera».
«Sia chiaro: io – tiene a precisare Lumia – sono per le garanzie, ma bisogna tenere ben presente che i mafiosi non sono degli emarginati da comprendere, no: ci troviamo di fronte ad organizzazioni pericolose che stanno svuotando dall’interno le nostre società, al Sud come al Nord. In Italia come in Europa. Il pericolo della ndrangheta è pari a quello del terrorismo, con una sostanziale differenza: i mafiosi sono nel cuore della nostra società. Le garanzie vanno assicurate ai cittadini, agli onesti e al mercato che in molta parte d’Italia sta perdendo la sua libertà, inquinato come è dall’economia mafiosa».
Quale potrebbe essere, dunque, la soluzione, sul piano repressivo e giudiziario?
«Bisogna rivedere queste norme e decidere che per la lotta ai sistemi mafiosi è necessario stabilire un “doppio binario”, proposto al Parlamento già nel 2001 dalla Commissione antimafia da me presieduta: quello che vale per i reati comuni non può valere per i reati di mafia».
Ma bisogna intervenire subito e mantenere alta la guardia.
«L’impegno – sostiene Marco Minniti – deve essere costante, altrimenti si ha l’effetto di quel proverbio citato da Leonardo Sciascia, “càlati jùncu chi passa la chìna”: la mafia, nei momenti di difficoltà, si comporta come il giunco per poi rialzare la testa quando la piena è passata».
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Questo articolo è stato pubblicato anche sul numero di ottobre 2007 di "Patria indipendente", rivista mensile dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nella foto in alto è riprodotta la copertina.
La versione in pdf dell'articolo sul sito della rivista è a questo link.
di Enzo Guidotto
(Presidente dell’“Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso”)
Da Portella della Ginestra ai grandi investimenti nel mondo.
Le alleanze con la politica “ndrangheta über alles”.
La criminalità in doppiopetto
«Non potremo mai essere un Paese civile finché ci saranno camorra, “Cosa Nostra” e quella mafia dal nome impronunciabile che si trova in Calabria». Questo, nel lontano 1985, il monito lanciato da Sandro Pertini per spronare ad un’azione più incisiva quella Commissione parlamentare antimafia nata da una legge che ebbe come primo firmatario Ferruccio Parri e ricostituita per la quinta volta subito dopo il sacrificio di Pio La Torre e di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Quali i motivi del campanello d’allarme del vecchio presidente? Ancora una volta una nutrita casistica di efferata violenza ai danni di rappresentanti dello Stato.
Nell’agosto di quell’anno, a Palermo, erano stati infatti uccisi il commissario di polizia Giuseppe Montana, il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia.
Quattro mesi prima avevano invece perso la vita Barbara Asta coi suoi due bambini di appena sei anni, gemelli, nell’attentato di Pizzolungo deciso per eliminare il giudice Carlo Palermo che, dopo aver lasciato Trento, aveva assunto l’incarico di sostituto procuratore a Trapani al posto di Giangiacomo Ciaccio Montalto, barbaramente assassinato: entrambi, da visuali diverse, avevano diretto delicate indagini su traffici internazionali di armi e droga tra Italia, Turchia e Siria e sul riciclaggio e l’investimento dei relativi proventi.
Protagonisti del colossale business, oltre a mafiosi italiani e mediorientali, esponenti della Loggia P2 e dei servizi segreti, grandi banche e misteriosi potentati, un membro del comitato per il controllo delle armi operante presso il Ministero dell’Interno e discussi finanzieri con le mani in pasta nel mondo della politica.
Droga e massoneria occulta
Nel giro di poco tempo, le piste tracciate dai due magistrati, portano alla scoperta, sempre nella stessa provincia, nei pressi di Alcamo, di una raffineria di eroina, la più grande che fosse mai stata scoperta in Europa.
Fra i responsabili dell’«azienda», uno dei capi della “famiglia” mafiosa locale – che sarà ucciso dai Corleonesi perché sospettato di passare ad uno 007 notizie sulla strategia stragista del 1992 – e un personaggio coinvolto nell’inchiesta milanese sulla “Duomo Connection”, oscuro intreccio di mafia, affari e politica, nel quale facevano capolino esponenti deviati della massoneria.
L’anno dopo, i nomi di due soggetti ritenuti responsabili della “Strage di Pizzolungo” e di altri pericolosi boss figureranno negli elenchi di una loggia massonica “coperta” trapanese, la “Iside 2” della quale facevano parte anche imprenditori e commercianti, un consigliere regionale della DC, il viceprefetto e il vicequestore dell’epoca, funzionari della Provincia e del Comune, un prelato della chiesa ortodossa, don Agostino Coppola, nipote del più noto Frank “Tre dita” – attivo anche in Lazio e “conoscente” di un alto magistrato della Cassazione iscritto alla P2 e per questo radiato dall’ordine giudiziario – e il principe Gianfranco Alliata di Montereale, piduista, vicino ad ambienti dell’estrema destra ed indicato come uno dei mandanti della “Strage di Portella della Ginestra” del primo maggio 1947.
Gli affiliati non erano noti agli appartenenti alle logge “ufficiali”, ma avevano contatti con un’analoga loggia di Palermo che faceva capo a Giuseppe Mandalari, notoriamente commercialista di Totò Riina, nonché sostenitore di esponenti del centrodestra alle elezioni politiche del 1994.
Nel conseguente processo per associazione segreta si è avuto il primo accertamento giudiziario dell’inserimento nella massoneria deviata di esponenti di spicco di Cosa Nostra.
“Menti eccelse” dietro le stragi
Nel processo “Borsellino ter”, in cui si è peraltro fatto riferimento a “menti eccelse” che in via D’Amelio operarono dietro le quinte, è invece emerso che l’esplosivo usato nel fallito attentato dell’Addaura contro Giovanni Falcone era dello stesso tipo di quello della “Strage di Pizzolungo” per la quale, tra gli altri, sono stati condannati all’ergastolo come mandanti Totò Riina e Vincenzo Virga, capomafia di Trapani.
Quest’ultimo, qualche mese fa è stato anche condannato in appello per tentata estorsione – ai danni del presidente di una società sportiva della città – assieme a Marcello Dall’Utri, all’epoca dei fatti responsabile di “Publitalia”: Virga esecutore, Dell’Utri mandante.
Imputati per la “Strage di Pizzolungo” erano anche dei mafiosi di Alcamo, poi usciti di scena.
In seguito, Giovanni Brusca, il boss corleonese che aveva azionato il telecomando della “Strage di Capaci”, confesserà di aver contattato Giuseppe Madonia, “numero due” di Cosa Nostra, «per attivare i suoi canali al fine di aggiustare il processo per la “Strage di Pizzolungo”».
Quali i “canali”? Molto probabilmente quelli della massoneria che riaffiorano di tanto in tanto – e non soltanto in Sicilia – rivelando una certa continuità d’azione.
D’altra parte è risaputo che Madonia, per pilotare appalti, operava in tandem con Angelo Siino, “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina ed affiliato alla loggia “Orion” di Palermo.
L’ennesimo caso di collusioni inquietanti risale alla primavera scorsa a Mazara del Vallo, sempre nel Trapanese: tra i nove arrestati per associazione mafiosa, operatori economici e funzionari e impiegati comunali – qualcuno dei quali legato in passato alla “Iside 2” – che avrebbero stretto un patto con la massoneria per l’accaparramento di appalti.
Per attuare un certo progetto – si legge nell’ordinanza – il gruppo aveva tentato «di intervenire presso la Corte dei Conti, motivando tale scelta con la circostanza che, presso la struttura della magistratura contabile, prestava servizio un loro “fratello”».
La storia si ripete
Fatti sorprendenti? Senza dubbio. Ma se certe cose si verificano nella provincia più periferica del Paese, poco esplorata dalla “grande stampa nazionale”, figuriamoci cosa è successo e succede in quelle in cui operano i vertici delle varie organizzazioni.
Particolarmente preoccupante, negli ultimi tempi, la situazione verificatasi in Calabria, dove varie inchieste sugli intrecci del malaffare hanno coinvolto, oltre a politici di spicco, alti esponenti delle istituzioni investigative e giudiziarie: l’arresto di un magistrato in carica, il trasferimento o l’apertura di procedimenti disciplinari per errori, omissioni ed incompatibilità ambientale a carico di altri, l’incriminazione di alti ufficiali della Guardia di Finanza e di agenti dei servizi segreti.
A circa vent’anni di distanza, dunque, le parole di Pertini sono così tornate di vibrante attualità.
Ma soprattutto l’uccisione di Francesco Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale della Calabria e la strage di Duisburg, particolarmente eclatante per numero ed età delle vittime e località di attuazione, hanno portato nel modo più drammatico all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale l’esistenza, in più di un terzo del territorio del nostro Paese, di una situazione paradossale nella quale le attività delle tradizionali organizzazioni mafiose e la degenerazione della politica e della prassi amministrativa, potenziate da una certa massoneria che fa spesso da volano, coinvolgono ampie fasce dell’economia ed inquinano la politica e le istituzioni locali con inevitabili riflessi in ambito nazionale e internazionale.
Una spirale perversa
Un salto di qualità improvviso? Macché!
La spirale perversa della grande criminalità italiana si è sviluppata gradualmente. Sulla possibilità di espandere i tentacoli all’estero – si legge negli atti della Commissione antimafia della passata legislatura – hanno influito due fattori: da un canto «il progressivo abbattimento delle frontiere nazionali, sia fisiche che burocratiche, la libera e non controllata circolazione delle persone e dei beni hanno determinato una significativa ricaduta sullo sviluppo e sull’interconnessione fra le economie ed i soggetti criminali dei vari Paesi»; dall’altro – ha rilevato qualche anno fa Antonio Laudati, sostituto della Direzione Nazionale Antimafia – «la “miopia” degli Stati che, pur abbattendo frontiere e controlli, non hanno ancora adottato regole comuni, a partire dalla definizione di “criminalità organizzata”, per contrastare il crimine sul piano internazionale. La stessa Europa è un’area a “legalità variabile” e le differenze fra le legislazioni penali europee aprono varchi insperati a tutte le organizzazioni criminali».
Negligenze storiche e miliardi in Germania
Ma la sottovalutazione del problema non è un fatto nuovo perché in tema di mafia, purtroppo, la storia non è mai stata maestra di vita. In tal senso, mentre il dibattito sulla tragica vicenda verificatasi in Germania e sulla necessità di provvedimenti efficaci per contrastare in modo adeguato la criminalità presente in Europa era ancora aperto, il venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa ha offerto lo spunto per riflettere ancora una volta su alcune delle più clamorose contraddizioni verificatesi nel nostro Paese proprio in questo campo.
All’atto del conferimento dell’incarico di prefetto di Palermo, il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini aveva garantito al generale un’ulteriore investitura per il coordinamento della lotta alla mafia a livello nazionale nonché l’emanazione, da lì a poco, di un’apposita legge – proposta da Pio La Torre, ucciso proprio per questo – che gli avrebbe consentito di operare in modo più incisivo.
Nei successivi “cento giorni”, però, il mancato mantenimento delle promesse era stato “giustificato” con argomentazioni tutt’altro che convincenti: la nuova carica sarebbe stata incompatibile con l’ordinamento vigente e la legge era ancora in fase di analisi e di elaborazione.
Il che lasciava pensare agli osservatori più acuti che nel “Palazzo” nessuno si fosse mai accorto che la mafia esisteva già quando Garibaldi arrivò in Sicilia.
Tamburi battenti a ceneri calde
La “Strage di via Carini” si verifica il 3 settembre dell’82.
Esattamente tre giorni dopo, sotto la pressione dell’opinione pubblica, sconcertata dal fatto che Dalla Chiesa era stato mandato allo sbaraglio, il Governo crea l’Alto Commissariato per la lotta alla mafia, e alla fine della settimana successiva il Parlamento vara la prima vera legge antimafia della storia d’Italia che prevede la confisca dei beni, da sempre il vero “tallone d’Achille” degli affiliati e dei complici delle cosche.
La norma, che ha integrato il codice penale all’articolo 416 bis, è applicabile non soltanto nei confronti degli aderenti a Cosa Nostra ma a qualsiasi consorteria «comunque localmente denominata», tanto che, col tempo, è stata utilizzata anche in procedimenti penali a carico di esponenti della “Mafia del Brenta” veneta e della “Banda della Magliana” di Roma.
A conclusione del dibattito parlamentare era emersa la decisione di renderla subito efficace per non offrire ai “soliti noti” l’occasione di ricorrere a prevedibili abili sotterfugi per eluderla.
Nei fatti entrò in vigore dopo i consueti quindici giorni.
Conseguenza? A distanza di tempo si scoprirà che in quel lasso di tempo circa cinquanta mila miliardi di lire dalla Sicilia erano giunti proprio in Germania.
Il crollo del “Muro di Berlino”
Un altro esempio significativo risale all’89: crolla il “Muro di Berlino” e la parola d’ordine dei capi della ndrangheta agli “ambasciatori” stanziati in Germania ed in altri Paesi dell’Est è di comprare di tutto, immobili ed aziende in special modo.
Ma l’organizzazione, rispetto ad altre presenti nello scenario del momento, è poco nota all’estero e, se qualche anno prima il presidente Pertini considerava “impronunciabile” in Italia il suo nome, figuriamoci le difficoltà fonetiche incontrate nel linguaggio teutonico.
Le autorità tedesche percepiscono comunque i segni preoccupanti dell’infiltrazione strisciante della criminalità italiana e lanciano l’allarme in ambito CEE.
Nel vertice di Dublino del maggio dell’anno dopo – dichiarerà al Corriere della Sera (9.4.91) Claire Sterling, del Washington Post, che ne aveva seguito i lavori – viene infatti affrontato «il problema della possibilità che la mafia siciliana, sfruttando la prossima apertura del mercato unico, possa stabilire forme di connivenza con i gruppi terroristici addestrati in Occidente ed in particolare in Germania occidentale e con gli ex agenti di sicurezza dell’Est che ormai sono disoccupati: mezzo milione di uomini che conoscono tutti i canali del contrabbando, che per anni hanno fatto il mercato nero e sanno chi sono i corrotti e chi può essere corrotto. Ci sono indicazioni che la Stasi (Servizio segreto dell’ex Repubblica Democratica Tedesca, n.d.r.) stanno vendendo enormi quantità di armi e tecnologia a gruppi criminali, terroristici e alla mafia».
Andreotti: non mafia ma … “criminalità organizzata”
Fra la rappresentanza tedesca e quella italiana – precisò la Sterling, dopo aver «interpellato fonti tedesche, inglesi, francesi, belghe e naturalmente italiane» – si verificano però «divergenze e contrasti».
Come mai? «Giulio Andreotti, presidente del Consiglio e Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, “hanno puntato i piedi” perché nei documenti ufficiali non risultasse la parola mafia.
Il cancelliere Kohl e altri governanti hanno invece insistito perché il problema fosse messo in agenda nel successivo summit di giugno, usando esplicitamente questa parola. La mafia, dunque, per la prima volta, è stata argomento di un vertice CEE nel giugno del 1990», nel quale fu «espresso questo timore: se non verranno prese misure di sicurezza adeguate, con il mercato unico la mafia potrà realizzare in tutta Europa quello che ha fatto in Italia».
L’allarme si rivelò profetico, perché non si può certo dire che i provvedimenti finora adottati siano stati adeguati alla pericolosità delle varie organizzazioni. Ma quella volta – come tenne a ribadire la giornalista americana – Andreotti e De Michelis «volevano che più genericamente si parlasse di “criminalità organizzata”».
Motivo di tanta … “resistenza”? Semplice: già nel 1976 l’apposita commissione parlamentare d’inchiesta aveva precisato che «sin dalle origini, la connotazione specifica della mafia è sempre stata costituita dall’incessante ricerca di un collegamento con i pubblici poteri».
La stessa tendenza la criminalità organizzata può metterla in atto attraverso la corruzione, ma occasionalmente, non in modo sistematico e continuativo come le varie mafie. E Andreotti e De Michelis, stando alle personali esperienze giudiziarie relative a vicende di quegli anni, conoscevano bene la differenza fra i concetti racchiusi nelle due espressioni.
Summit internazionali mafiosi
Mentre nelle alte sfere si persevera con la “politica dello struzzo” la criminalità internazionale si dà da fare fissando precise strategie in alcuni summit che, guarda caso, si svolgono soprattutto in Germania: a Berlino Est appena un mese dopo, nel giugno del 1990, a Varsavia nel 1991, a Praga nel 1992, ancora a Berlino nel 1993.
In verità – ricorda Clara Sterling – «anche prima della disintegrazione dell’Unione Sovietica, le mafie siciliana, americana, colombiana ed asiatica stavano collegandosi con la mafia russa, fino a formare un cordone criminale clandestino, senza confini, in grado di stringersi attorno al globo». Poi, il cambiamento delle condizioni di operatività della criminalità italiana consente il “salto di qualità” della ndrangheta.
«A seguito dei colpi inferti a Cosa Nostra, dopo la stagione stragista del ‘92 e del ‘93 – spiega Francesco Forgione, presidente della Commissione parlamentare antimafia – la ndrangheta è riuscita a conquistare il primato mondiale nel traffico degli stupefacenti, gestendo gran parte delle porte d’ingresso della cocaina in Europa. E in questa scalata tra le organizzazioni criminali mondiali, è stata favorita dalla sua natura di organizzazione a struttura chiusa, dalla solidità di legami famigliari che l’hanno resa impermeabile al fenomeno dei “pentiti” che, per Cosa Nostra e la Camorra, ha avuto un effetto deflagrante in tutti gli anni Novanta».
I “collaboratori di giustizia” della 'ndrangheta, stando ai dati ufficiali, fino all’aprile scorso, erano infatti appena 100, contro i 243 della mafia siciliana e i 251 della camorra.
1992: ndrangheta “über alles”
Stando così le cose, la raccapricciante manifestazione di violenza omicida a Duisburg, nel cuore della Germania – sostiene Forgione – «ha solo riacceso i riflettori sulla ndrangheta, sulle sue barbarie, sui suoi affari, sul suo ruolo internazionale che ne fanno, oggi, la più potente organizzazione criminale italiana e tra le più pericolose e ricche nel mondo: ha rappresentato la coda di una faida che ha già prodotto decine di morti, ma chi era in Germania – vittima o carnefice – non era partito con la valigia di cartone per fare il pizzaiolo: era lì per gestire investimenti, operazioni finanziarie, speculazioni edilizie. Per controllare e gestire il traffico della droga, come dimostrano recenti inchieste in mezza Europa, o trattare importanti partite di armi o, come pare, era anche interessato all’acquisto di Gazprom, monopolista russo del gas, e gli investimenti turistici sul Baltico».
«La ndrangheta va guardata così: senza mai perdere di vista il significato del suo simbolismo arcaico, dai riti di affiliazione fino alle faide familiari, ma cogliendone sempre i nessi con la sua “modernità”, frutto delle sue disponibilità finanziarie ripulite nelle mille opportunità della globalizzazione. Tutto il resto è fuorviante e tende a minimizzare un fenomeno che va aggredito al più alto livello della sua pericolosità: la sua ricchezza, i suoi patrimoni, la pervasività delle sue relazioni sociali e istituzionali».
Un fenomeno transnazionale
Un obiettivo, questo, che non riguarda solo la mafia calabrese ma tutte le grandi organizzazioni criminali italiane e straniere – alle quali è legata da rapporti di collaborazione – che hanno sempre le radici nelle aree geografiche d’origine ma sono ormai presenti in tutti i continenti: un comune denominatore che consente di definire il fenomeno mafioso complessivamente considerato, non più internazionale ma transnazionale: «internazionale – rileva infatti la Commissione parlamentare antimafia – è un gruppo criminale che non opera unicamente nel territorio del proprio Stato ma svolge la sua attività anche all’estero con opportune ramificazioni; transnazionale è invece la cooperazione sinergica, che gruppi criminali di diversa nazionalità instaurano per ottimizzare lo sfruttamento di determinate opportunità di mercato illecito: questa integrazione funzionale non solo supporta il traffico ma potenzia le capacità operative dei singoli gruppi interagenti».
La ndrangheta in particolare – si legge nel rapporto presentato ai primi di agosto dal Sisde, il servizio segreto civile italiano – è «ramificata» in Germania, Olanda, Francia e Belgio, nei Balcani e nell’Est europeo, dove coglie «le opportunità di penetrazione del tessuto socio-economico» e mantiene «i suoi consolidati rapporti con le organizzazioni sudamericane e turche per l’approvvigionamento, rispettivamente, di cocaina ed eroina, nonché i contatti con sodalizi stranieri, specie albanesi e nordafricani, che gestiscono piazze di spaccio nel Nord Italia».
La stessa ed altre fonti, in varie occasioni, hanno però parlato anche di consistenti presenze in Spagna, Inghilterra, Canada e soprattutto in Australia, dove qualche decennio fa furono addirittura uccisi un candidato al parlamento che aveva scatenato una campagna stampa contro la criminalità organizzata calabrese e il vice comandante della polizia federale di Canberra che indagava su terreni acquistati da soggetti della Locride con denaro proveniente da alcuni sequestri di persona attuati in Lombardia.
Il Bundesnachtendienst, il servizio segreto tedesco (Bnd), in un suo rapporto pubblicato dal quotidiano Berliner Zeitung – ma soltanto all’indomani della strage di Duisburg e privo di riferimento alla data di elaborazione – conferma che la ndrangheta ha investito «in misura considerevole soprattutto nell’ex Ddr (Repubblica Democratica Tedesca, ndr) i proventi delle attività criminali» e critica il nostro Paese per avere svolto in maniera insufficiente l’azione di contrasto.
Germania: legislazione carente
Una trattazione così sintetica della questione ha dato però una impressione di incompletezza e superficialità: Duisburg si trova infatti dall’altra parte della Germania, a nord di Bonn, ai confini con l’Olanda; l’ormai famoso “Ristorante da Bruno” davanti al quale si è consumata la tragedia non è l’unico locale pubblico della città che desta sospetti e la normativa antimafia italiana, anche se è da perfezionare, è obiettivamente all’avanguardia rispetto al resto d’Europa.
Conclusione? Sono state semmai le autorità tedesche a non mettere in pratica a casa loro il rigore reclamato a Dublino quasi vent’anni fa.
Ma la stampa locale, invece di prendere atto di questa diversità d’azione tra i due Paesi ha enfatizzato i tradizionali e latenti pregiudizi che nel ‘77 raggiunsero il culmine con la pubblicazione della famosa foto di copertina del settimanale “Der Spiegel” con la foto di una pistola a tamburo piazzata sopra un piatto di spaghetti all’italiana, accentuando e rinfocolando l’indignazione già assai diffusa nell’opinione pubblica.
Il parere di Saviano
Non tutti i giornalisti hanno però aderito al facile e comodo conformismo. «L’interesse dei media è forte, ma quando il polverone è passato, di solito, torna a tacere» ha osservato Henning Kluver sulla Suddeitsche Zeitung.
E per capire e far capire di più ai lettori il vero nocciolo della questione ha chiesto il parere di un osservatore esterno, esperto in materia: Roberto Saviano, il giovane scrittore napoletano che dopo aver fatto, con il suo bestseller “Gomorra”, clamorose rivelazioni sui segreti della camorra è stato costretto a vivere con la scorta della polizia. Domanda: cosa c’è che non va nella percezione del crimine organizzato da parte dell’opinione pubblica? «Uno degli errori più grandi della valutazione di un’organizzazione criminale – è stata la risposta – è credere che sia attiva e potente solo quando spara e invece la mafia è molto più forte quando non uccide: il “massacro di ferragosto” dimostra l’incapacità dei media nell’affrontare il crimine organizzato. Fino a oggi l’esistenza di cartelli criminali in tutta Europa è stata sottovalutata o ritenuta un problema interno all’Italia».
Silenzio ingenuo se non colpevole
«Da noi – ha precisato Saviano – che la camorra di Secondigliano e la ndrangheta di Locri siano stati i primi a investire in Germania Est dopo la caduta del muro è un segreto di Pulcinella».
La verità è che dalla strage di Duisburg «la Germania è uscita da un silenzio ingenuo, se non colpevole perché da almeno vent’anni i poteri criminali calabresi e campani investono in Germania. L’edilizia dell’est è controllata dalla ndrangheta e dalla camorra, centinaia di aziende subappaltatrici hanno legami con i clan. Ma non solo in Germania Est. I Casalesi hanno fatto affari soprattutto nei trasporti a Dortmund», a nordest di Duisburg.
«La camorra ha persino portato avanti una strategia precisa: ha investito prima in paesi vicini come la Repubblica Ceca e la Polonia, che fanno comunque parte dell’area allargata dell’economia tedesca, poi si è spostata direttamente in Germania. Hanno investito capitali in molte attività tessili: negozi avviati con capitale italiano, che poi i soldi tedeschi hanno fatto fruttare».
«In questi giorni c’è il pericolo che i tedeschi credano che il loro Paese venga sommerso da finanziamenti criminali dall’estero. Invece i capitali che provengono dall’Italia fecondano quelli tedeschi e li fanno fruttare».
È pure vero però che certi meccanismi cominciano a funzionare pure al contrario.
«A Caivano, vicino a Napoli – ha precisato lo scrittore – c’è un tedesco che gestisce un arsenale della camorra. Il clan dei Casalesi ha anche appartenenti ucraini o tunisini. Tutta l’area intorno a Castel Volturno è stata lasciata alla mafia nigeriana. A New York la mafia italoamericana ha appaltato una zona a famiglie del Kosovo. Insomma, e organizzazioni mafiose si sono globalizzate».
Come mai, allora, nella gente è prevalsa l’emotività del momento?
«In Germania la polizia sa, ma i mass media non ne sanno nulla e quindi l’opinione pubblica non sa nulla. Ma proprio questo è il problema: se le organizzazioni criminali restano una materia per addetti ai lavori non abbiamo alcuna possibilità contro di loro. Loro non hanno paura degli addetti ai lavori e non temono i tribunali e le condanne. Il mio caso forse può servire a mostrare quanto oggi possano essere efficaci le parole. Se i lettori, i giornalisti o gli intellettuali producono un’attenzione costante, l’imprenditorialità criminale si trova in difficoltà».
La posizione dell’Italia
In Italia, la posizione ufficiale non è diversa.
«Con l’invio dei killer in Germania – ha sostenuto Marco Minniti, viceministro all’Interno con delega per le polizie e il servizio segreto civile – le cosche calabresi hanno infranto un tabù: quello di presentare all’estero il volto della mafia imprenditrice. Sia chiaro però che già nel 2001, con l’Operazione “Lukas”, i carabinieri del Ros compilarono con la collaborazione della Bka tedesca una mappa degli investimenti calabresi in Germania. E in quella mappa c’era anche il “Ristorante da Bruno” che è stato teatro della strage. Ma poi l’inchiesta non andò avanti perché mentre in Italia la legislazione sulla confisca è chiarissima, l’ordinamento legislativo tedesco ha impedito il prosieguo di indagini efficaci e preventive: è mancata una cornice normativa europea. Il fatto è che l’Europa, fino a quando ha incassato investimenti “puliti” delle mafie italiane si è illusa che, al denaro che non ha odore, non debba necessariamente seguire una crisi di sicurezza pubblica, come accade oggi nella Ruhr e come può accadere presto in tutti gli altri Paesi in cui da tempo affluiscono i capitali delle nostre mafie».
Ma come si concilia la posizione assunta dal cancelliere Kohl nel ‘90 a Dublino con l’inerzia legislativa delle istituzioni tedesche a partire dal 2001, anno al quale risale l’inchiesta “Lukas”?
Su questo punto i princìpi e le regole della diplomazia impongono la più assoluta riservatezza.
Gli analisti dicono però che tutto è chiaro.
Jurgen Roth, mafiologo berlinese, è stato tra i primi a far presente che «le ultime notizie valide del Bundeskriminalmat, la polizia criminale tedesca, risalgono agli inizi del 2000. Poi è arrivato il governo di Silvio Berlusconi ed è stato molto difficile collaborare nel settore della lotta alla criminalità».
Lo stesso giorno la stampa riportava il citato rapporto del Bnd secondo il quale in Italia alcuni clan calabresi sarebbero riusciti a piazzare «in modo sistematico i propri informatori in quasi tutti i settori della vita pubblica, della politica, della giustizia e dell’esecutivo fino ai massimi livelli dell’amministrazione».
Problema italiano o tedesco?
«È vero che non possiamo sorprenderci della strage di Duisburg – ha sottolineato Minniti – ma io sono sorpreso della sorpresa dei nostri partner europei: se a ferragosto ci fossimo trovati a Como con sei rumeni finiti con un colpo alla nuca, noi non avremmo detto: “Cara Romania, è un problema tuo!”. Ci saremmo chiesti cosa non funziona da noi, quali sono i buchi neri, quali i controlli inefficienti, quali i sensori inattivi? Lo avremmo sentito un problema nostro. Ora nutro la speranza che quanto è accaduto a ferragosto possa inaugurare una nuova stagione, magari più consapevole che la minaccia mafiosa la patisce non solo il Paese che l’esporta, ma l’incuba anche chi la importa, magari qualche volta cedendo alla tentazione di chiudere gli occhi perché, si sa, pecunia non olet».
La ‘ndrangheta in Calabria
Ma qual è stata la carta vincente che in Calabria, una delle regioni meno sviluppate del Paese, ha consentito alla ndrangheta di raggiungere tanto potere, prima di imporsi sullo scenario della criminalità mondiale?
«Quella – sostiene Forgione – della grande capacità imprenditoriale, attraverso la quale è riuscita a contrattare in più occasioni il proprio ruolo nel sistema di imprese nazionale e con i soggetti economici e politico-istituzionali che dovevano gestire il più grande insediamento industriale della regione: si è assicurata così il sistema degli appalti e dei grandi flussi di denaro pubblico arrivati a fiumi in Calabria senza incidere in termini di sviluppo, di modernizzazione, di livelli di civiltà».
Troppa gente, però, è ancora legata al luogo comune secondo il quale le tradizionali organizzazioni mafiose sarebbero una inevitabile conseguenza del sottosviluppo del Meridione.
«Le mafie, e la Ndrangheta tra esse – spiega invece Forgione – non sono più fattori di arretratezza, ma soggetti fra i più “dinamici” della modernizzazione distorta che ha investito il Sud e ne ha trasformato il paesaggio sociale: speculazione e cemento, saccheggio ambientale, stupro delle coste, dissipazione dei finanziamenti pubblici, scempio di ogni forma di diritti, negazione delle libertà di mercato e d’impresa».
La “politica dello struzzo”
Quale, in tutto questo, il ruolo e le responsabilità della politica?
«Queste mafie, la politica non ha avuto la forza di combatterle e di sconfiggerle proponendo un altro modello di sviluppo credibile e sostenibile di lavoro pulito, di gestione trasparente delle risorse, di diritti esigibili al posto di favori elargibili. Anzi, ne ha accettato le logiche ed ha compartecipato al sistema. In fondo, la crisi della politica, in Calabria, è tutta qui: nell’essersi trasformata in esercizio separato del potere, trasversalità senza vincoli ideali o etico-morali, ricerca ossessiva del consenso senza regole, scambio privato e non più risposta generale e trasparente ai bisogni diffusi. Anzi, i bisogni della gente – dalla sanità al lavoro, dai servizi alla pubblica amministrazione – sono diventati la leva di una nuova dipendenza non più e non solo clientelare ma, in intere aree, anche mafiosa. In questo scenario si è anche affermata una commistione, a tutti i livelli, tra gestione politica e interessi economico-finanziari privati».
Un intricato “sistema criminale”
Un vero e proprio sistema criminale, dunque, dalle componenti eterogenee, legate da stretti vincoli di interdipendenza funzionale e di reciprocità di favori che li rendono capaci di gestire un potere perverso.
Quali, oltre alla ndrangheta ed a “pezzi” della politica, le altre “entità” inquinate ed inquinanti?
«Massoneria, lobby, circoli, luoghi certamente trasversali» dichiara ad alta voce il sostituto procuratore di Catanzaro Luigi De Magistris. E aggiunge: «Siedono tutti allo stesso tavolo».
«Qui – era stata nei primi di agosto la denuncia di Salvatore Boemi, al vertice della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio – 'ndrangheta e massoneria deviata fanno parte di uno stesso modello integrato di capacità criminali individuali e collettive, una sorta di tavolo di lavoro dove siedono figure diverse, non tutte necessariamente mafiose, ma tutte comunque interessate all’accaparramento di finanziamenti pubblici», che per questo e il prossimo anno ammontano a diciotto miliardi di euro.
«E, come per il passato, il rapporto con politica e istituzioni dello Stato deviate costituisce la logica vincente per la ndrangheta», che conferisce alla regione un grado di “densità criminale” – basato sul rapporto tra affiliati ai clan e popolazione residente – del 27%, contro il 12 in Campania, il 10 in Sicilia ed il 2 in Puglia (dati DIA 2001).
Un … “tavolo di lavoro”
Il guaio – precisa De Magistris – deriva dal fatto che «questo sistema ha bisogno di inglobare anche pezzi di istituzioni deputate al controllo e infatti, indagando, ci siamo trovati di fronte a situazioni di commistione tra controllori e controllati che il conflitto di interessi di Berlusconi fa quasi ridere».
Ma la gente si rende conto che in questo modo si calpestano interessi generali che il denaro pubblico, i soldi pagati da tutti i cittadini vengono rubati o sperperati?
La verifica degli intrecci è alla portata di tutti. «Basta fare una semplice visura camerale – spiega il magistrato – per vedere chi sono i soci, i consiglieri di amministrazione: si scopre che abbiamo il figlio del politico, il nipote, il figlio e il parente del magistrato, e poi del poliziotto, del carabiniere».
E la ragnatela viene subito a galla quando si parla «di rifiuti, di informatizzazione, di acqua o di sanità. Ci sono addirittura società che si occupano di tutti questi settori contemporaneamente».
Nessuna meraviglia, dunque, di fronte alla notizia di un’inchiesta “Fortugno bis” che, relativamente ai mandanti, punta ad un “livello politico superiore”.
«Per questo – è stata la conclusione di Boemi – la soluzione del problema non può che venire dalle indagini sulla borghesia mafiosa, quella interna alle cosche e quella esterna dei colletti bianchi che favoriscono l’impresa ndranghetista e agevolano il passaggio da un’economia criminale ad una economia pulita».
Verità scomode
Un problema di facile soluzione?
«Se vogliamo parlare seriamente della ndrangheta dopo la strage di Duisburg – osserva Giuseppe Lumia, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia – allora conviene dire anche verità scomode. La ndrangheta è l’organizzazione mafiosa più potente, più ricca, e più estesa sul territorio europeo e mondiale. E le democrazie sono impotenti. Con i loro apparati penali insufficienti, con il loro controllo dei mercati e dell’economia debolissimo. Così riusciremo al massimo a contenere il fenomeno. La sconfitta è lontana. L’Italia, ad esempio è il Paese delle norme antimafia non applicate. Due esempi rendono chiara l’idea: primo, la Legge Mancino del ‘94 che prevede che tutti i trasferimenti di proprietà registrati vengano contestualmente trasmessi alle questure. Una norma inapplicata nella sostanza, visto che il materiale non è informatizzato, non lo conosciamo e non abbiamo a disposizione una mappa per capire come si muovono le ricchezze della mafia. Poi c’è la questione dell’anagrafe dei conti e dei depositi bancari che non è nelle disponibilità degli investigatori e dei magistrati antimafia, eppure parliamo di lotta al riciclaggio. Come si vede, siamo all’antimafia del giorno dopo».
Garantismo e “doppio binario”
E invece bisognerebbe puntare su quella del giorno prima, basata sull’analisi realistica e rigorosa della situazione per predisporre le più appropriate misure di prevenzione e di repressione.
«Certo! Ma diciamo subito che un approccio ipergarantista non ci aiuta nell’azione di contrasto. Guardiamo alla Germania, dove il mostro ndrangheta è cresciuto e si è esteso nel territorio grazie anche a leggi garantiste. In Italia, invece, con il rito abbreviato in primo grado e il patteggiamento allargato in secondo, un narcotrafficante rischia poco più di sette, otto anni di galera».
«Sia chiaro: io – tiene a precisare Lumia – sono per le garanzie, ma bisogna tenere ben presente che i mafiosi non sono degli emarginati da comprendere, no: ci troviamo di fronte ad organizzazioni pericolose che stanno svuotando dall’interno le nostre società, al Sud come al Nord. In Italia come in Europa. Il pericolo della ndrangheta è pari a quello del terrorismo, con una sostanziale differenza: i mafiosi sono nel cuore della nostra società. Le garanzie vanno assicurate ai cittadini, agli onesti e al mercato che in molta parte d’Italia sta perdendo la sua libertà, inquinato come è dall’economia mafiosa».
Quale potrebbe essere, dunque, la soluzione, sul piano repressivo e giudiziario?
«Bisogna rivedere queste norme e decidere che per la lotta ai sistemi mafiosi è necessario stabilire un “doppio binario”, proposto al Parlamento già nel 2001 dalla Commissione antimafia da me presieduta: quello che vale per i reati comuni non può valere per i reati di mafia».
Ma bisogna intervenire subito e mantenere alta la guardia.
«L’impegno – sostiene Marco Minniti – deve essere costante, altrimenti si ha l’effetto di quel proverbio citato da Leonardo Sciascia, “càlati jùncu chi passa la chìna”: la mafia, nei momenti di difficoltà, si comporta come il giunco per poi rialzare la testa quando la piena è passata».
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Questo articolo è stato pubblicato anche sul numero di ottobre 2007 di "Patria indipendente", rivista mensile dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nella foto in alto è riprodotta la copertina.
La versione in pdf dell'articolo sul sito della rivista è a questo link.