sabato 20 ottobre 2007

La “Giustizia” tradita e strumentalizzata dal “Potere”


In questi anni e in questi giorni assistiamo, purtroppo e con grande dolore, all’uso (abuso!) della “Giustizia” come strumento di difesa del “Potere” e degli assetti economici e di benessere di una minoranza della popolazione mondiale e nazionale ("Potere" qui non indica solo chi governa, ma anche coloro che a chi governa danno mandato di farlo in uno specifico modo).

Si fanno guerre di occupazione per il mantenimento del potere sul petrolio, chiamandole “Giustizia infinita”; per mantenere il livello di benessere dell’occidente, si nega asilo politico ai tanti extracomunitari che, a norma della costituzione e degli accordi internazionali ne hanno diritto, dichiarandoli tutti e indistintamente “clandestini” e promulgando norme penali che li “criminalizzano”; si “ripuliscono le strade” dai lavavetri, chiamando l’operazione “pacchetto sicurezza” e parlando di “guerra al crimine” e di “tolleranza zero”; si promuove una legislazione “a doppio binario”, forte con i deboli e debole con i forti, per la quale oggi in Italia la vendita di una borsa Luois Vuitton palesemente falsa (e dunque tale da non potere togliere clienti alla Louis Vuitton, perché nessuno che voglia quella vera comprerebbe quella falsa) è punita molto molto di più di un falso in bilancio da un milione di euro, che in moltissimi casi non è punibile per niente.

E tutto, “in nome della Giustizia”.

E chi cerca di far conoscere il costo in dolore e vite umane che questa “politica” comporta, viene zittito e, bisogna avere il coraggio di dirlo, censurato adducendo che quei “costi umani” sono “costi inevitabili”, “danni collaterali” necessari per ottenere “il mondo perfetto”, l’“eden di benessere economico” promesso dalle politiche eudemonistiche sempre più praticate.

La “tecnica” di queste politiche consiste nel promettere ai cittadini/sudditi benessere e felicità sempre più “grandi”, nascondendo dietro le promesse di benesseri e felicità future l’inferno attuale, l’ingiustizia e la violenza con la quale quel benessere e quella felicità vengono perseguiti.

Questa è la “tecnica base” di tutti i totalitarismi.

Così milioni di bravi tedeschi, inseguendo il sogno di una Germania e di un mondo perfetti hanno sterminato sei milioni di ebrei; così milioni di bravi russi, inseguendo il sogno di un socialismo perfetto, hanno sterminato milioni di altri russi.

Così, purtroppo, oggi milioni di bravi italiani stanno inseguendo gli stessi sogni di benessere e sicurezza a “tolleranza zero” nascondendo a se stessi e agli altri "i costi umani" di questi "sogni".

Bisogna riflettere e far riflettere sul fatto che non si può consentire che questo sia fatto “in nome della giustizia”.

Si perseguono politiche economiche che aumentano costantemente il numero degli emarginati e dei nuovi poveri, senza comprendere che la c.d. "microcriminalità" è anche frutto di queste condizioni di disagio e di non integrazione. E ci si illude che a tutto questo si possa porre rimedio continuando a perseguire le stesse politiche, ma "aumentando le pene" senza una logica e tacendo il fatto che, a causa di un sistema penale mantenuto inefficiente perchè non possa "dar fastidio" ai potenti, quelle pene non vengono scontate se non solo in parte e solo dai poveracci.

Si riduce così la "giustizia" a una forma impropria e inefficace di "repressione", spesso ingiusta, e si diffonde la convinzione che "il fine giustifichi i mezzi".

Ma nulla giustifica l'ingiustizia e la politica - essenziale per la vita di ogni società - non dovrebbe ridursi a imbonimento e demagogia.

Pubblichiamo, su questi temi, un estratto di uno scritto di Gustavo Zegrebelsky tratto dal quotidiano “La Repubblica” del 16 novembre 2004.

Per una maggiore comprensione dei concetti espressi dal prof. Zagrebelsky, è utile la lettura di un altro scritto proprio sul tema dei pericoli insiti nelle politiche eudemoniste, che abbiamo pubblicato, intitolandolo "Democrazia e principi. Il pericolo delle politiche eudemoniste".

Gustavo Zegrebelsky è professore di Diritto Costituzionale. E’ stato Giudice e Presidente della Corte Costituzionale fino al 13 settembre 2004.

Sulla ingiustizia e inefficacia delle misure "anticrimine" (?!) contro lavavetri e simili, si veda anche l'articolo di Bruno Tinti "Le responsabilità della politica nella crisi della giustizia".

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di Gustavo Zagrebelsky
(Professore di Diritto Costituzionale. Ex Giudice e Presidente della Corte Costituzionale)


Che la giustizia abbia a che fare con atteggiamenti non razionali dovrebbe essere chiaro già per il fatto che essa attiene a valori. Le cosiddette scelte di valore sono oggetto di percezioni e propensioni non giustificabili razionalmente, cioè non attraverso speculazioni o dimostrazioni. Del resto, il linguaggio, anche qui testimone attendibile, parla di senso o sentimento di giustizia. La giustizia solo come idea o teoria appare quando il razionalismo della nostra civiltà ha iniziato a pretendere, nella ricerca della natura delle società, di lasciare da parte, perché non scientifico, tutto ciò che non è ragionamento e calcolo. Così esso si è esteso oltre misura, mettendo nell’angolo l’altra metà delle facoltà dello spirito umano e inducendo a trascurare strumenti di conoscenza che possono talora perfino giungere là dove la ragione non arriva.

In effetti, i giuristi hanno qualche volta tentato una rivincita sul razionalismo, cercando di trarre da un fondamentale e originario “sentimento del diritto” degli esseri umani norme di giustizia sottratte alle critiche relativistiche alle quali sono esposte le nozioni puramente razionali. Questo sentimento consisterebbe nella naturale reazione contro azioni che repellono, prima e indipendentemente dall’esistenza e dalla conoscenza di una norma che le vieti. Insomma, una sorta di giusnaturalismo del sentimento, invece che della ragione, con questa essenziale differenza: che il primo, diversamente del secondo, non pretende di costruire la giustizia in terra ma si limita a rivoltarsi contro l’ingiustizia. Non è lo stesso.

Il sentimento dell’ingiustizia si ribella all’inferno in terra; la scienza della giustizia mira a costruirvi il paradiso. Soprattutto, il sentimento di ingiustizia è dei deboli e degli oppressi; la scienza della giustizia, dei forti e, forse, degli oppressori.

Questo spostamento dalla scienza al sentimento, dalla ragione alla percezione, potrebbe tuttavia sembrare anch’esso destinato al fallimento, esattamente come i tentativi di racchiudere la giustizia in un formula astratta. I sentimenti di giustizia degli uomini sono diversi e contrastanti: quelli dei possidente che vive di rendita non saranno gli stessi del disoccupato o dei lavoratore salariato con posto di lavoro a rischio; quelli del filantropo, non gli stessi del misantropo; del cosmopolita, non del nazionalista razzista; del mite, non del prepotente, ecc..

Questa osservazione è giustificata in quanto dal sentimento di giustizia si pretenda troppo. Se si esagera, effettivamente la critica che fa leva sulla relatività dei contenuti, fa breccia. Occorre rimanere al minimo, che, proprio in quanto tale, è fondamentale.

Il minimo fondamento sta nella risposta alla grande domanda di tanto in tanto riaffiorante, ma sempre accantonata con senso di fastidio: se si possa mai accettare il male inferto all’innocente – intendo il male inferto consapevolmente –, fosse pure per il fine più elevato, come la felicità del genere umano o l’armonia universale.

La sofferenza dell’innocente, la lacrima di un bambino, può stare in bilancia con il bene dell’umanità? La risposta, naturalmente, è no. Il bene non può consapevolmente fondarsi sul male. Se si è disposti a versare una lacrima innocente, si sarà disposti a versare fiumi di sangue. Basterà alzare il prezzo della felicità promessa. La risposta positiva alla domanda, a ben pensarci, oltre che moralmente insostenibile, sarebbe anche l’inizio della guerra di tutti contro tutti.

Ma qui vediamo la nostra ipocrisia, perché l’intera nostra storia è fondata proprio su questo intreccio di bene e male, moralmente ingiustificabile. Il primo celebre stasimo di Antigone, che celebra l’essere umano e le sue opere sotto l’ambiguità delle molte cose mirabili e al tempo stesso esecrabili (pollà ta deinà), esprime splendidamente ammirazione e costernazione di fronte a questa terribile duplicità. Al passo sofocleo, che Martin Heidegger considerava sintesi dell’intera storia dell’Occidente, si affianca il lamento dell’Ecclesiaste (7, 20): “Certo non vi è uomo giusto sotto il sole il quale, facendo il bene, non faccia il male”.

Il male inferto all’innocente, cioè l’ingiustizia assoluta, può razionalmente essere giustificato: come “prezzo” del progresso, per esempio.


Ma non è tollerabile esistenzialmente, quando entrano in gioco facoltà di percezione e comprensione diverse da quelle razionali. Sto parlando non dei mali naturali, rispetto ai quali non ci può essere che rassegnazione o disperazione: qui è all’opera l’humana conditio e non c’è nulla da fare. Parlo di chi, con la propria azione, coscientemente, anche se non intenzionalmente, produce fame, malattie, oppressione, sterminio di esseri umani. Non è questa la vista di un’ingiustizia rivoltante? Il sentimento di giustizia di tutti, al di là delle diverse idee di giustizia che professiamo, non si mobiliterebbe sol che se ne avesse chiara la visione?

Come è possibile l’indifferenza di fronte alla sofferenza dell’innocente, l’ingiustizia assoluta? Quella, ad esempio, inferta ai più innocenti tra tutti, i bambini e gli animali (“la debole cavallina dai miti occhi”), di cui parla Ivàn Karamazov, nel dialogo col fratello Alésha che introduce alla Leggenda del Grande Inquisitore: quell’ingiustizia che rende il mondo inaccettabile e trasforma in oscena bestemmia la promessa apocalittica (15, 3) dell’intervento divino che, alla fine dei tempi, ricondurrà tutto a “suprema armonia”: il torturato che si riconcilia col torturatore, la vittima col carnefice, il lupo con l’agnello. E la stessa cosa non avverrebbe, se solo le si vedesse, di fronte alle sofferenze di cui sono testimoni i volontari della solidarietà e dell’informazione che non disdegnano di guardare in faccia, senza filtro di teorie – teorie che consentono di darsi una ragione di qualsiasi, proprio di qualsiasi cosa –, la realtà degli ospedali del terzo e quarto mondo, delle periferie d elle megalopoli, delle strade di paesi tormentati da guerre, violenze, sfruttamento; la realtà dei luoghi di segregazione dove il dominio dell’uomo sull’uomo è assoluto; dei campi militarizzati di lavoro forzato infantile che sono le miniere di pietre preziose nell’Africa centro-meridionale e nell’America latina, eccetera, eccetera, eccetera.

Finché non si resterà insensibili di fronte a questi spettacoli ed essi continueranno a fare scandalo, il sentimento di giustizia non sarà spento.

Non si saprebbe dire se per natura o per cultura. Se si pensa alla sofferenza degli inermi offerta al divertimento delle plebi negli spettacoli pubblici, dall’antichità a qualche secolo fa, si dovrebbe dire: per cultura, non per natura. Nei tempi nostri, faremmo fatica a immaginare uomini di governo che si fanno belli di questa sofferenza, la producono consapevolmente per offrirla come dono all’opinione pubblica. Il giorno in cui essa genererà solo indifferenza o addirittura divertimento, il discorso sulla giustizia come valore generale sarà chiuso.

Ma non è ancora così. Le pratiche d’ingiustizia si compiono di nascosto e richiedono un senso di umanità anestetizzato dall’uso di sostanze intossicanti e un senso morale deviato con lavaggi ideologici del cervello. In condizioni normali non sarebbero possibili Sonderkommando e gli aguzzini dei lager nazisti, gli squadroni della morte in giro per il mondo, ci parlano di assunzione previa di alcool e droghe. La tecnologia della sofferenza all’opera in carceri speciali o in operazioni belliche specializzate presuppone l’indottrinamento intensivo dei suoi agenti. Sarebbe di grande interesse la lettura dei testi su cui si forma la psicologia di quanti sono impiegati In compiti al o oltre il limite del senso di umanità; sarebbe istruttivo partecipare ai “corsi di formazione” organizzati, con l’ausilio di psicologi, espressamente per loro. E altrettanto istruttivo è l’ottundimento delle coscienze ottenuto tramite la scientifica burocratizzazione o, secondo Hannah Arendt, banalizzazione della morte e del terrore, che pianifica i crimini e solleva le coscienze.

Al contrario, non risulta che per elaborare le idee “di giustizia” del darvinismo sociale – cioè l’applicazione alla razza umana del principio della sopravvivenza del più forte e dell’annientamento del più debole – o della divisione dell’umanità in razze superiori e inferiori, tanto per fare l’esempio di due dottrine criminali, sia stata necessaria l’assunzione di sostanze. Non risulta cioè che Spencer o Gobineau abbiano dovuto forzare artificialmente la loro natura per scrivere Individuo e Stato o Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane.

Non si devono però squalificare teorie e idee generali. La rivolta all’ingiustizia ha alla base una propensione e una passione, ma abbisogna della ragione. A questa compete individuare le cause del male da estirpare e proporre misure per eliminarle. Ma non si tratta di idee e teorie di giustizia come progetti politici. La giustizia viene prima, la politica dopo; la politica è funzione della giustizia, non il contrario; la giustizia non è valore finale ma principio o movente della politica. Essa sta alle nostre spalle, come dovere morale impegnativo; non sta davanti a noi, come il sol dell’avvenire che dobbiamo rincorrere. La differenza è radicale: come principio di ogni nostra azione, la giustizia non può mai giustificare un’ingiustizia, un mezzo ingiusto; come valore a cui tendere, potrebbe giustificare qualunque cosa sia ritenuta necessaria per raggiungerlo. La giustizia come principio, ma non come valore, contrasta evidentemente con le filosofie della storia orientate ai grandi orizzonti del progresso dell’umanità, ma insensibili alle sorti personali di milioni di esseri umani, sempre posposte, ai progetti di potenza di regni e repubbliche, gerarchie religiose e sistemi economici, oggi inneggianti al mercato illimitato.

L’interrogativo urgente che la giustizia solleva nei nostri giorni è quello dell’accettabilità in nome suo dell’uso della forza, della guerra, in quanto ci siano di mezzo popolazioni inermi, o anche soltanto (soltanto?) individui – i soldati – la cui libertà è costretta dalla necessità o dalla disciplina.

La risposta all’interrogativo, secondo la giustizia degli inermi e degli innocenti, è no, mai.

Se si risponde di sì, in quanto vi sono violenze giustificate in guerre dettate da giusti motivi, ciò significa che la giustizia è vista dalla parte non delle vittime ma dei potenti, per i quali la parola giustizia è un mezzo per celare altre cose, come la politica di potenza, la difesa della sicurezza e del livello di vita, l’identità religiosa, eccetera: cose più o meno nobili che, comunque, sono diverse e hanno altri nomi.

Possiamo terminare così: la giustizia è l’altra faccia di ogni cosa. Ogni cosa può essere vista da due lati, quello del potere e quello di chi subisce il potere.

Non si approprino i potenti di quello che loro non spetta ed è spesso l’unica risorsa che resta agli inermi: l’invocazione di giustizia.

Non pretendano di rendere unico ciò che è sempre duplice, di confondere con la giustizia la loro forza e le loro mire.

Lascino la giustizia a chi ne ha fame e sete.

Noi rammentiamo ancora una volta, col deinòs di Antigone e con le parole dell’Ecclesiaste, l’intimo intreccio di bene e male e comprendiamo che, in tutte le cose, la giustizia ha a che fare con il lato del dolore, con l’inferno in terra delle nostre società, non con il lato del benessere, con il paradiso che gli uomini di potere fanno mostra di voler realizzare attraverso i loro programmi.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

E magari, la gente è convinta che ordinanze a ‘tolleranza zero’ come quella dei lavavetri permetteranno di avere città più sicure e si lascia affascinare da tali provvedimenti capaci di apportare il benessere da tutti noi auspicato. Non è al corrente che un’ ordinanza del genere comporterà soltanto un ulteriore rallentamento della giustizia e basta! Ecco, a mio parere, il problema: la gente non sa e non conosce. Solo chi si occupa di diritto o coloro i quali sono particolarmente attivi nell’informarsi possono andare ‘dietro le quinte’ per comprendere e disapprovare i meccanismi del potere. I potenti lo sanno e se ne approfittano! I cittadini devono essere informati! Non possiamo certo dirci soddisfatti se un lavavetri è in carcere e un corrotto è a spasso! I problemi vanno risolti partendo da quelli più gravi per poi giungere a quelli minori, non il contrario.

Andrea T. (Roma)

Anonimo ha detto...

Condivido pienamente quanto affermato nel commento precedente da Andrea T.
La chiave di tutto è aprire, anzi spalancare le porte della conoscenza delle principali questioni del diritto e della giustizia anche alla gente comune. E' chiaro che il problema è innanzitutto di mezzi. Oggi si corre sempre di più e si ha sempre di meno il tempo (e la voglia!) di leggere. Quanti sarebbero disposti mai a soffermarsi a leggere, a comprendere e a riflettere sulle magnifiche parole di Zagrebelsky qui riportate? E quanti le capirebbero? Per questo bisogna distruggere le protezioni che rendono il mondo giuridico una oscura caverna inaccessibile. Serve diffondere la materia al di là dei centri di cultura e di formazione, al di là di certi ristretti canali di diffusione, entrando finalmente anche in televisione. Perchè esistono moltissimi programmi che spiegano la storia, la geografia, le scienze, ma non il diritto? Provo a rispondere. I motivi sono due: il primo è strutturale al diritto stesso, ossia la presenza costante di una dottrina che è poco "disinteressata" e perciò invece di riflettere e discutere sulle questioni giuridiche per compiere un servizio al Sapere, lo fa per ingrassare certe posizioni piuttosto che altre e per trarre vantaggio da tale accredito conquistato, contribuendo così a tenere in vita l'odiosa casta dei giuristi; il secondo motivo è da rintracciare nel potere, il quale (come dice appunto Andrea T) sa benissimo che mantenere il popolo nell'ignoranza vuol dire accrescere le proprie possibilità di potere.
Allora la strada è quella della riconquista da parte del popolo della sovranità che gli spetta, da realizzarsi anche nell'ambito della formazione ed informazione del popolo stesso. Sarebbe bello, ad esempio, che alla guida della RAI ci fossero persone esperte di mass media nonchè vicine alle esigenze del popolo, non rappresentanti dei vari partiti di cui è composta la casta dei politici. Sarebbe un significativo inizio. Per rieducare i cittadini alla democrazia. Solo questo passo così naturale è ciò che serve.

Simone