domenica 20 aprile 2008

Gli uomini, il desiderio e la crisi della politica


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di Marco Deriu
(Sociologo, Università di Parma)



da Pedagogika

Quando si parla di crisi della politica o della partecipazione, nella stragrande maggioranza dei casi si fa riferimento alla crisi dello stato, delle istituzioni, dei partiti, dei sindacati, o in generale delle arene in cui la gente potrebbe imparare ad esprimersi e a confrontarsi.

Si fa riferimento cioè alla crisi delle forme, delle strutture, delle organizzazioni o, al limite, alla scomparsa di soggetti politici definiti, di grandi narrazioni capaci di unire e trascinare le persone.

Di conseguenza si propongono riforme, interventi, operazioni d’ingegneria politica, nuove aggregazioni politiche nella speranza di colmare il vuoto e di rispondere agli elementi di crisi.

Nessuna di queste operazioni tuttavia sembra veramente in grado, di per sé, di rinnovare la scena o di invertire il segno depressivo che ha investito lo spazio politico.

Anzi, l’investimento simbolico assai diffuso sulla politica come spazio della decisione, del potere o addirittura del comando, contrasta singolarmente con la tendenza all’omogeneizzazione degli schieramenti, degli immaginari e perfino delle scelte strategiche oggi così manifesta e con la natura conservativa del sistema politico.

Ho sempre trovato stimolante – per comprendere le basi di questa ripetitività della politica – la critica femminista del dualismo pubblico/privato su cui si è strutturata la società e le relazioni tra i sessi. Attraverso questa contrapposizione fondamentale, infatti, come ha notato Jessica Benjamin, “un intero ambito di attività umane, specificatamente la nutrizione, la riproduzione, l’amore e le cure, che nella storia della società moderna divennero destino delle donne, furono con ciò escluse dalla considerazione morale e politica e confinate nel regno di natura” (Benjamin, 1991, pp. 211-212).

In altre parole tutto il sapere, le sensibilità e l’intelligenza legati all’esperienza delle relazioni fondamentali non trova generalmente eco nello spazio politico.

Questo naturalmente ha avuto delle conseguenze importanti sul piano della vita politica.

La relazione, la dipendenza, la mediazione sono il fondamento stesso della vita.

Riconoscere la centralità delle relazioni nella polis, non porterebbe solamente a valorizzare saperi e competenze tradizionalmente femminili ma permetterebbe anche di arrivare a concepire più facilmente un tipo di azione politica basata sull’idea e sulla pratica della mediazione nelle relazioni piuttosto che sul potere e su un agire strumentale.

La concezione strumentale dell’azione politica, tipica della cultura politica maschile, tende a reificare i valori e i desideri di cambiamento sociale, trasformandoli in qualcosa di esterno, di oggettivo, di quantificabile.

La struttura dell’azione strumentale è infatti tipica dei rapporti tra persona e cosa, persona e oggetto, ovvero di quell’agire produttivo che come ha notato Hannah Arendt (1993), rimanda alla concezione e all’esperienza dell’homo faber.

Le persone, in questo tipico modo di agire finalistico, divengono mezzi, strumenti, materia da plasmare per realizzare i nostri progetti razionali.

Viceversa, nell’idea di Hannah Arendt l’azione politica riposa sulla pluralità, sul rapporto diretto tra persona e persona.

In questa idea di azione politica la relazione non è soltanto un mezzo ma è ciò che da il senso e l’orientamento.

È nei fatti la vera fonte della trasformazione perché attraverso l’interazione può dar luogo a qualcosa di nuovo, d’imprevisto, d’inatteso.

Il nostro desiderio di trasformazione sociale non è più predefinito ma si va costruendo attraverso la relazione con altre persone.

In altre parole, l’obiettivo della nostra azione non è più ricercato all’esterno delle nostre relazioni e delle modalità stesse con cui agiamo quotidianamente, ma al contrario nell’attualità del nostro entrare in relazione ed agire insieme ad altri.

Riconoscere questo fatto è difficile soprattutto per gli uomini.

Come ha notato Victor J. Seidler, “come uomini, possiamo scoprire di essere più concentrati nelle nostre attività che nelle nostre relazioni, visto che troviamo più facile applicare nel nostro comportamento regole e principi universali, piuttosto che rispondere in modo individualmente attento ai bisogni degli altri. È come se il prezzo che siamo stati costretti a pagare per il potere che abbiamo nella società, fosse quello della cecità e dell’insensibilità nei nostri rapporti personali” (Seidler, 1992, p. 58).

Il dualismo pubblico/privato vela dunque un’altra opposizione ben più profonda e radicata nella tradizione politica occidentale, quella tra sé e il mondo.

Nell’arena politica si affacciano soggetti “neutri” e razionali che si attribuiscono il compito di dirigere o trasformare il mondo.

Queste persone immaginano probabilmente di trovarsi di fronte ad un mondo esterno, una specie di brutta scenografia che esiste “là fuori” e su cui credono di poter intervenire, cambiandola e modificandola in base ai propri giudizi e calcoli.

Invano si cercherebbe nei discorsi degli uomini politici uno sprazzo di consapevolezza riflessiva che riconosca il legame tra sé e il mondo, tra la propria esistenza e l’esistenza di altri esseri.

Così come invano si cercherebbe di leggere un volto o un atteggiamento che riveli in filigrana il riflesso di un’autentica ricerca esistenziale.

Al contrario, l’inclinazione a voler cambiare il mondo corrisponde il più delle volte alla monoliticità dell’essere, all’indisponibilità del lavoro su di sé, alla mancanza di una visione relazionale e di un movimento profondo che procede trasformando in un flusso continuo il rapporto tra sé, gli altri, i contesti in cui si vive, la realtà più ampia cui in qualche modo si partecipa.

La tensione verso la trasformazione sociale in connessione con una rigidità e una chiusura dell’essere crea dunque continuamente scacchi e contraddizioni e, in generale, l’impossibilità di realizzare mutamenti profondi.

Non è solo una questione di resistenza o di attrito, ma anche della povertà di un progetto politico razionalistico che non si nutre continuamente del patrimonio di relazioni, esperienze, storie, vissuti, sensibilità, competenze, desideri diffusi e socializzati.

La ricerca esistenziale e relazionale sta in effetti alla politica come l’acqua sta alla terra: è necessaria per rendere fertile il terreno e per far nascere ogni forma di vita.

“Vivere pienamente, verso l’esterno come verso l’interno – diceva Etty Hillesum –, non sacrificare nulla della realtà esterna a beneficio di quella interna e viceversa: considera tutto ciò come un bel compito per te stessa” (Hillesum, 1987, p.45).

Non si tratta solamente di un compito per l’individuo ma di una necessità della politica. Una politica viva affonda le radici nella ricerca, si nutre dell’esperienza, fa tesoro delle relazioni, scommette sull’arricchimento che può venire dal mettersi in discussione.

In altre parole quello che ci manca più di ogni altra cosa non è un nuovo progetto politico, un nuovo soggetto o una nuova formazione.

Ci manca invece una politica che sia il riflesso di un desiderio autentico e radicale di vivere, di vivere insieme con gli altri.

Da questo punto di vista, oltre al dualismo tra pubblico e privato e all’opposizione tra sé e mondo, la politica maschile si fonda su un’opposizione tra politica e passioni esistenziali.

In un libro intitolato “Che cosa vuole una donna?” Alessandra Bocchetti scriveva significativamente: “Ciascuno deve far politica per sé e a partire da sé, mettendo in gioco quel poco o tanto di saggezza, di esperienza di cui è capace. Certo un politico di sinistra si sente un po’ smarrito di fronte ad un’idea del genere, perché ha sempre avuto l’idea di fare politica per gli altri, per gli oppressi, per i senza parola. E nella sua testa in un certo senso la politica, alla fine, è una conseguenza della sofferenza. Invece la politica sarebbe necessaria anche se tutti fossero felici. Perché la politica è una qualità della condizione umana” (Bocchetti, 1995, p. 108).
Effettivamente la rinuncia alla ricerca e all’esperienza esistenziale delle persone si riflette nella povertà della politica.

La professionalizzazione della politica e il suo appiattimento in tecnica di gestione e amministrazione, per un verso nasconde le effettive emozioni che circolano tra i politici – il godimento del potere, il piacere che deriva dal disporre degli altri, dal riconoscimento, dalla deferenza, il narcisismo, la gloria, il sentimento di onnipotenza e d’immortalità – e per un altro verso impedisce di portare nella politica una complessità emotiva ed esistenziale che invece potrebbe contribuire a migliorare la qualità della vita collettiva.

Non c’è un tentativo di dar spazio a ciò che si porta dentro di sé di vivente e non c’è un tentativo di mettere in relazione il proprio desiderio di fare esperienza della vita con il desiderio di fare esperienza del mondo e di contribuire ad una trasformazione sociale in senso più umano.

Il fatto è che i desideri sono dappertutto eppure non c’è desiderio autentico.

Certo, la società in cui viviamo è potente proprio perché fa leva sui desideri. L’intera nostra economia si basa sui desideri. Siamo continuamente sollecitati ed indotti ad individuare sempre nuovi desideri perché solo in questo modo si può sostenere la crescita continua e quindi la nostra società di crescita.

Allo stesso modo, nell’ambito politico, si ricerca e si costruisce un sostegno con la promessa di una generale soddisfazione dei desideri e attraverso la loro manipolazione. In entrambi i casi ci viene chiesto comunque di desiderare qualcosa che c’è già (i prodotti esposti negli scaffali dell’ipermercato) o qualcosa di conforme alla realtà esistente (gli articoli disponibili sul mercato politico).

Si tratta cioè – per usare l’espressione di René Girard – di desideri fortemente mimetici.

Si desidera quello che desiderano gli altri. Ciò che gli altri mostrano di avere e che a noi manca.

Quello che non è previsto è che intervengano invece dei desideri nati da una ricerca soggettiva ed autentica, dei desideri originali e difformi dalla norma.

Per mantenere intatto il sistema, “la limitazione qualitativa del desiderio, il suo addomesticamento, è necessario come la sua crescita quantitativa” (Volli, 2002, p. 11).

Dunque viviamo in una condizione di continua stimolazione e produzione di desideri eteronomi, un investimento continuo a breve termine che si fissa su oggetti o idee predefinite ed immediatamente disponibili.

Tutto questo produce naturalmente, dietro l’apparenza di cambiamento e di novità continua, una sostanziale immobilità.

Come suggerisce Ugo Volli, il cambiamento è limitato alla superficie delle cose ed è sostanzialmente conservatore.

Si tratta per la verità di una forma di intossicazione.

L’elemento conservatore è dato da una continua ed immediata alternanza tra evocazione di un desiderio predefinito, standardizzato e un appagamento immediato. Una continua produzione di senso di mancanza e una continua produzione di senso di piacere.

Ciò su cui val la pena riflettere, da questo punto di vista, è che la componente più forte del desiderio, quella che connette il desiderio ad una forza di trasformazione sociale, non coincide affatto con l’appagamento o con il semplice principio del piacere.

Tutto al contrario, come ha notato Camille Dumoulié, “se c’è qualcosa come un’utopia positiva del desiderio, cioè una forza rivoluzionaria che anima ogni vera politica del desiderio, è il suo rifiuto del principio del piacere” (Dumoulié, 2002, p. 301).

L’idea di ripensare la politica mettendo al centro il desiderio non è affatto corrispondente alla infinita promessa di appagamento prodotta dal mercato globale.

L’ideologia del supermercato globale infatti è fondata su due fantasie.

La prima riguarda un eccesso di fiducia nel volontarismo, nella forza di volontà come possibilità di autoplasmarsi e di autodeterminarsi.

In realtà per i processi di cambiamento non è importante che cosa possiamo conoscere o decidere razionalmente, quanto che qualcosa avvenga in noi, che qualcosa ci muova completamente, da un punto di vista della comprensione, della percezione, delle emozioni, dei sentimenti, del corpo, della mente.

La seconda fantasia è che ci sia possibile fare e diventare qualsiasi cosa. Ovvero una fantasia di onnipotenza.

In questo siamo il risultato di un’epoca che ha promosso l’idea di un individuo autonomo e imprenditore di sé, l’idea di felicità come un prodotto fra gli altri, raggiungibile al limite con l’aiuto di qualche pillola e di qualche manipolazione.

In passato la società e la cultura ci dicevano, in base alla classe sociale, alla religione, che cosa, chi dovevamo essere.

Questo ci forniva da un lato un certo senso di sicurezza e di tranquillità, dall’altro essendo qualcosa di costringente ci procurava anche delle nevrosi.

All’opposto oggi la cultura dominante ci illude reclamizzandoci continuamente una molteplicità infinita di rappresentazioni e possibilità.

Ci vuole convincere che possiamo sperimentare qualsiasi cosa, essere qualsiasi cosa, fare qualsiasi cosa.

Nell’epoca del mercato e dell’individualismo ogni desiderio sembra ugualmente possibile e desiderabile. Non ci sono limiti o tabù di sorta. Tutto è apparentemente realizzabile. Crediamo che basti allungare la mano e sforzarsi con la buona volontà.

Allo stesso tempo, poiché nessuno ci dice cosa essere o ci regala un’identità preconfezionata, noi diveniamo anche responsabili di chi siamo, di quello che diveniamo di fronte a noi, agli altri, alla società.

Essere noi stessi diventa un compito, un’impresa.

In realtà l’altra faccia di quest’idea di onnipotenza è la depressione.

Vogliamo cose che non riusciamo a raggiungere. Ci sentiamo insufficienti, impotenti, stanchi, andiamo in panne.

La nostra depressione – come suggerisce Alain Ehrenberg –, ci segna il limite tra il possibile e l’impossibile, traccia il confine dell’immanipolabile.

Non possiamo determinarci a nostro piacimento.

La depressione si affaccia quando scontiamo l’idea di una possibilità illimitata con la coscienza dei nostri limiti. Scopriamo che c’è un limite non padroneggiabile. C’è un margine di noi stessi che rimane immanipolabile.

Come dice Alain Ehrenberg all’interno della persona c’è sempre un “lembo d’inconoscibile” che non può sparire del tutto. Il delirio di onnipotenza, ovvero partire dall’infinità di possibilità anziché dal rispetto per il lembo d’inconoscibile che portiamo dentro noi stessi, ci condanna non alla felicità ma alla depressione.

Tutto questo non ci avvicina affatto alla libertà.

La libertà si dispiega nella ricerca di una fedeltà profonda a se stessi e alla propria esperienza.

Quel che ci muove è l’idea di diventare migliori, uomini migliori, persone migliori.

Ci spinge il desiderio di trovare in noi stessi e nelle nostre relazioni forme di umanità più profonde, più intense, più belle.

Possiamo maturare, trasformarci, divenire qualcosa di nuovo, forse dare vita ad un mondo migliore ma non possiamo fare qualsiasi cosa e soprattutto non qualcosa che abbiamo programmato idealmente a tavolino.

Una vera ricerca esistenziale ed una politica del desiderio partono non da una semplice mancanza che si può colmare a piacimento, ma da una condizione accettata di incompiutezza intrinseca alla nostra parzialità e originalità e alla nostra dipendenza dagli altri, così come da una nostalgia del futuro. “Il y a toujours quelque chose d’absent qui me tourmente” scriveva Camille Claudel, in una lettera a Rodin.

Così anche per noi c’è sempre qualcosa di assente che ci tormenta, qualcosa che ci incanta, che ci impedisce di bastare a noi stessi e ci spinge a cercare ancora per noi e per gli altri.

Si tratta di un desiderio vitale di fondo, di una tensione e di un’apertura senza determinazioni prevedibili.

Noi possiamo mantenere una tensione ideale, un orizzonte di senso, una direzione interiore ispirata a qualcosa di non ancora raggiunto.

È la disponibilità verso qualcosa che non conosciamo, che è più grande di noi e che è sempre appena di là da venire.

Una direzione o una danza che si balla assieme ad altri piuttosto che una meta raggiungibile da soli.

Qualcosa che lascia spazio appunto alla relazione, all’ascolto di sé, all’imprevisto, al caso. Un desiderio di cui non possediamo un’immagine.

In fondo, per diventare più umani noi stessi, per rendere più umano il mondo – come direbbe Raoul Vaneigem – “non abbiamo bisogno né di preghiere né d’incantesimi ma di un senso più acuto della poesia vissuta” (Vaneigem, 1999, p. 108)

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Bibliografia:

AA.VV., “É accaduto non per caso”, Sottosopra rosso, gennaio1996.

H. Arendt, Vita Activa, Bombiani, Milano 1991.

J. Benjamin, Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, Rosemberg & Sellier, Torino 1991.

A. Bocchetti, Cosa vuole una donna. Storia, politica, teoria. Scritti 1981/1995, La tartaruga, Milano 1995.

Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori Editore, Napoli 1995- La sapienza di partire da sé, Liguori Editore, Napoli 1996.

C. Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Einaudi, Torino 2002.

A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino 1999.

E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1987.

V. Seidler, Riscoprire la mascolinità. Sessualità ragione linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1992.

R. Vaneigem, Noi che desideriamo senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1999.

U. Volli, Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza, Raffaello Cortina, Milano 2002


16 commenti:

"Uguale per tutti" ha detto...

Grazie a Lia Gambino, che ci ha segnalato questo bell'articolo per la pubblicazione.

La Redazione

Anonimo ha detto...

La prima volta che lessi questo bell’articolo di Derieu, due considerazioni si presentarono alla mia mente,l’una conseguente all’altra: qual era lo spazio più vicino dove far interagire il (mio)” partire da sé”, come progetto politico di mutamento; l’altra: “approfittare dell’assenza”(bellisssimo titolo di un convegno svoltosi dall’associazione “Diotima) per tentare di ri-costruire momenti di legami, momenti “radianti” come direbbe Chiara Zamboni,significative esperienze esistenziali, di cui tutti/tte siamo portatori/trici.
La prima è ovviamente connessa alla polis, alla città, all’abitare comune per eccellenza.
«Abitare significa lasciar tracce» scriveva Walter Benjamin.
Oggi più che mai queste “tracce, sono importanti per capire noi, la nostra società, ciò che è in movimento, e, ciò che sta cambiando, in un momento di rapporti multietnici, mescolanze, contaminazioni, in una fase di emergenza sociale ed economica (nonché democratica). Ed allora cominciare ad avere “cura” dello spazio pubblico, significa ri-dare ai soggetti (uomini e donne) che abitano la polis, il senso della significanza delle relazioni, dell’identità personale sociale e culturale. Non più trincee per proteggersi dal nemico” vicino”(barboni, extracomunitari,ecc) ma luoghi, spazi, da curare, ri-avvicinare, organizzare. Assumendo la significanza di quelle “tracce” che ciascuno/na di noi, lascia “marcando” il luogo (con-diviso) delle/dalle proprie esistenze. Così è stato con le associazioni spontanee nate come r-esistenza alla basi militari (No dal Molin) o quelle contro la costruzione del ponte sullo stretto. Solo per fare qualche esempio.
La seconda (mia) considerazione risulta come dicevo,intimamente collegata alla prima: le mutuazioni,le trasformazioni della realtà privata, definiscono (in un processo di interazione)quella pubblica: tentare u’interazione tra tracce”, progetti politici, intime connessione tra ciò che è visibile (sfera pubblica) e ciò che rimane confinato ancora, nell’invisibile, la sfera privata. Una trasformazione della società non più basata sull’esteriorità, su ciò che (essendo) visibile crea l’ordine politico e sociale,bensì, un mondo di relazioni, luoghi, spazi, dove poter stabilire mediazioni e affetti. Modelli nuovi, opposti al “neutro” o l’universalismo che impronta ancora le nostre relazioni (personali, e collettive)possano essere sostituite dalla capacità di ri-conoscere il particolare.La costruzione di un epoca diversa che si basa sul rispetto delle differenze e che rompa come direbbe Hanna Arendt,lo sbilanciamento del rapporto tra pubblico e privato frutto della concezione della Storia ancora tutta al maschile.

un saluto

Lia Gambino

Ps= grazie alla vostra sensibilità che ha permesso la pubblicazione di questo articolo

Anonimo ha detto...

Grazie di questo ottimo contributo, spunto per una riflessione profonda

Anonimo ha detto...

L'articolo del Professore sociologo è quasi una sorta di "intermezzo" nelle nostre discussioni giuridiche.

E' come uno "spot" che si intromette, subitaneo e inaspettato, nei nostri dibattiti, inserendo temi affatto estranei e in ogni caso ben poco attinenti alle pur vaste problematiche della giustizia.

Uno "spot" che introduce argomenti di una ristretta, estremistica, oserei dire "sessantottina", parte politica, alla quale evidentemente qualcuno nella Redazione guarda con simpatia e forse anche con nostalgia, pensando alla sua giovinezza !

Basti pensare a chi sono gli autori citati: colto da improvviso scoramento nel constatare la mia assoluta ignoranza in materia, ho fatto leggere l’articolo ad alcuni esperti di mia conoscenza, i quali mi hanno subito confortato, dicendo che si tratta di autori sconosciuti ai più nel 99,9 (periodico) per cento dei casi, nonché di soggetti politicamente molto più che orientati, dall'estrema sinistra all'anarchia assoluta !

Non vorrei entrare nel merito dell'articolo, poiché credo si limiti a ribadire la necessità di non rassegnarsi di fronte alle circostanze contingenti e a mantenere una certa tensione ideale, da comunicare al prossimo.

Neppure è mia intenzione, non avendone titolo, affermare che si tratta di ovvie banalità, sia pur redatte e compilate in forma aulica, con il conforto di dotte citazioni.

Mi interessa maggiormente segnalare che le reiterate inserzioni di "spot" similari porteranno indubbiamente molti a disertare questo sito, diretto da Magistrati, lasciandolo soltanto al ristretto pubblico di un certo "orientamento" e confermando così le tesi di chi sostiene, ingiustamente, che la Magistratura è tutta schierata da una parte soltanto.

La qual cosa so benissimo che non è vera. Però è indispensabile non fornire pretesti a chi, in questo momento, stesse cercando di affondare il colpo !

In ogni caso, date pure per scontato che continuerò a seguirvi, magari "cambiando canale" ... nell'attesa che finisca la pubblicità.

Cordiali saluti.

"Uguale per tutti" ha detto...

Per Paolo Emilio.

Gentile Paolo Emilio,

lo abbiamo scritto enne volte in enne commenti e lo ripetiamo qui "per chi si sintonizzasse partendo da qui" :-)

Questo blog non è né "di destra" né "di sinistra" e pensa (questo blog :-) ) che lo schema di lettura "destra/sinistra" sia superato e falsificante.

Basti dire, fra l'altro, che in relazione ai profondi cambiamenti occorsi nella società, essere "di destra" o "di sinistra" oggi dovrebbe essere cosa del tutto diversa da ciò che era ieri.

Non sembra, infatti, che D'Alema assomigli a Gramsci né che Berlusconi assomigli a Gentile.

Sia dal "lato" della Redazione che dal "lato" dei lettori ci sono in questo blog persone che, secondo questo schema ormai preistorico, andrebbero considerate "di destra" e altre che andrebbero considerate "di sinistra".

Non ci poniamo il problema in nessuno dei due possibili "sensi". Non ci sforziamo, cioè, di "essere di destra" o "di sinistra" e, parallelamente, non ci sforziamo di "non sembrare di destra" o "di sinistra".

Ci lasciamo vivere come viene.

La vita e i casi sono già complicati di loro e non possiamo davvero complicarcela oltre.

Facciamo il blog nel tempo libero che NON abbiamo e decidere cosa pubblicare e perchè è già difficilissimo.

Se dovessimo censire il materiale in base alle consulenze che Lei ha avuto dai Suoi amici e scartare gli scritti degli "sconosciuti" o di quelli "di sinistra", la cosa diventerebbe ancora più faticosa.

E detto per inciso, nel corpo dell'articolo vengono citati Hetty Illesum e René Girard.

Se trova tempo, legga i loro scritti citati e ne resterà positivamente stupefatto. Sono scritti di una originalità e profondità sorprendenti. Il diario di Hetty Illesum apre orizzonti interiori decisamente non comuni.

Abbiamo pubblicato lo scritto che a lei non piace, sapendo che ad alcuni sarebbe piaciuto e ad altri no.

Se pubblicassimo solo ciò che piace a tutti finirebbe in due soli possibili modi: o che pubblicheremmo banalità o che avremmo lettori tutti uguali.

Non sappiamo se il nostro modo di fare ci attirerà lettori o ce ne farà perdere. Non facciamo questo blog né per ragioni commerciali né per la gloria. Sicchè avere poco o molto pubblico non è il "valore di riferimento".

Non consideriamo "sembrare di sinistra" un'accusa e non ci preoccupa neppure "sembrare di destra".

Applichiamo qui l'esatto contrario del Suo criterio.

Lei scrive "Non vorrei entrare nel merito dell'articolo" e ci dice che esso sembra "di sinistra".

A noi non ce ne importa cosa sembra e ce lo siamo letti "nel merito".

Fermo restando - ma è quasi banale dirlo - che proporre uno scritto qui ha lo scopo di animare riflessioni e confronti. Non proponiamo verità assolute né vangeli, sicchè troviamo normale che tutto ciò che si può leggere qui ha aspetti interessanti e altri meno, cose condivisibili e altre da discutere.

Il nostro "valore di riferimento" non è l'audience, ma la creazione di uno spazio di "pensiero costruttivamente critico".

Un caro saluto.

La Redazione

Anonimo ha detto...

Non c'è bisogno, gentile Redazione, di parlare di contrapposizioni "partitiche". Dio me ne scampi e liberi ! Non ho mai bevuto con Girella, a differenza di tanti altri, né vorrei cominciare adesso !

Ma è anche vero che non ho trovato nulla di "costruttivamente critico", da criticare a sua volta.

Riscontro solo il FATTO, innegabile, che questi sono commenti politicamente orientati, anzi, orientatissimi, e che c'entrano con la Magistratura COME I CAVOLI A MERENDA !

"Non entrare nel merito" voleva poi soltanto significare che non volevo dare giudizi di valore sul senso dell'articolo, ma ciò non implica che non si possa riconoscere facilmente l'"imprinting" culturale degli autori.

Dico questo perché non vorrei che lo scopo di questo "blog" non fosse soltanto quello di far conoscere obiettivamente la situazione della giustizia in Italia, ma fosse ANCHE quello di raccogliere proseliti ideologicamente orientati.

Se però vi piace fare il gioco di chi ci attacca continuate pure, costruite la vostra "turris eburnea", rifugiatevi in essa con i vostri "famuli" e aspettate, pazientemente, che sia divelta dalle sue fondamenta !

Cordiali saluti.

Cinzia ha detto...

Bèh era inevitabile che a me l'articolo piacesse, e molto anche!
Grazie per averlo pubblicato, è bello ogni tanto ascoltare un punto di vista più ampio, nutrito di filosofia, senza vivere di sterile ideologia o di gretto particolarismo.
Porsi alla vita come esseri umani fragili e indefiniti, nudi e pronti al confronto al solo scopo di arrichire la propria esperienza di crescita profonda è, per me, l'unico modo Vivere e armonizzarsi con il pianeta!
Cosidero questa modalità più di qualunque altra come vera e propria Politica attiva...

Avere il coraggio di liberarci di uno schema sopra tutti:
presentarci al mondo sentendo l'obbligo di qualificarci attraverso "ciò che siamo" concetto sempre intessuto con "cosa facciamo" e infine inevitabilmente condito con "ciò che abbiamo";
come dei piccoli, presuntuosi,
soli e devastanti "Papalagi"!

un saluto a tutti.

ps "Papalagi" è un piccolo, piccolissimo trattato di saggezza tahitiana, poche semplici e disarmanti parole descrivono senza preconcetti tutta l'immensa e costruita stupidità occidentale, fonte di mali e dolori che distruggerà, contaminandole con la forza le culture più pure, e in ultima analisi se stessa. Se non lo avete mai letto, ve lo consiglio con affetto.
ed. Stampa Alternativa... e scusate se è un editrice "schierata", ma se evitate di formalizzarvi troverete degli ottimi libri.

Anonimo ha detto...

C.V.D., ovvero "Come Volevasi Dimostrare" !

Cinzia ha detto...

Io non trovo molto elegante compiacersi dei propri preconcetti, ma probabilmente meglio farei a starmi zitta! chiedo venia...

Anonimo ha detto...

Questione di punti di vista, cara Cinzia. Scrivendo quello che hai scritto, hai dato conferma alla mia tesi.

Ma siccome sei tu la prima ad affermare che ho dei “preconcetti”, ti rimando la valutazione con gli interessi, pur risparmiando ai lettori di enumerarli puntualmente.

Perché, vedi, parlando di "eleganza", non è davvero molto elegante dire che la tua è un'opinione, laddove i miei sono solo preconcetti ! In base a cosa fai questa valutazione ? Io potrei dire lo stesso di te. Te ne rendi conto, o ti credi forse depositaria di verità assolute ?

Dal mio di vista, si tratta sempre di opinioni, sia le mie, sia le tue. La mia non è, né può essere, una critica alla persona e neppure, direttamente, alle idee che esprimi, ma proprio al semplice fatto che inserisci argomenti schiettamente “ideologici”, per manifestare i quali riterrei opportuno un blog molto più "politicizzato" di questo, che è stato creato da Magistrati, per loro natura “imparziali”, con la dichiarata funzione di rendere edotti i cittadini delle disfunzioni dell’apparato giudiziario.

Perché ognuno deve avere senz'altro le proprie opinioni, ma se si vuole ridurre un blog "tematico" come questo ad un'arena di contrapposizioni ideologiche o peggio ancora, partitiche, si finirà per parlare soltanto di queste e non degli argomenti per i quali credo il blog sia nato. In ultima analisi, creando uno “sviamento” dalla sua causa tipica, se permettete la licenza !

Cordiali saluti.

"Uguale per tutti" ha detto...

La Redazione ringrazia tutti per i contributi di opinione di ogni genere (ideologici e non) e prega Cinzia di non autocensurarsi mai.

La Redazione

Anonimo ha detto...

Se è così, forse sarebbe opportuno modificare il primo periodo della Presentazione, dove avete scritto:

"In questo blog si parla dei problemi dell’amministrazione della giustizia in Italia".

Grazie.

Anonimo ha detto...

Se non vengo espulso dal Blog per manifesta "subcultura" (grazie a Onelio P.) mi piacerebbe continuare a leggere Paolo Emilio.
Anche se a volte esagera (voglio augurarmi che lo faccia anche un po per provocare) appare un ottimo "fustigatore" di ogni costume che non sia di manufattura anglosassone!
Grazie, bartolo iamonte.

Cinzia ha detto...

Gent.ma Redazione,
la mia non è autocensura,
o quantomeno io non la vivo in questi termini.
Il mio è solo un tentativo, che a volte non riesce,
di cogliere l’opportunità migliore per crescere.
La mia personale migliore opportunità è
il silenzio e l’ascolto.
Questo mi permette di capire meglio gli altri,
di scavare in fondo alle mie reazioni-emozioni
e pensieri cogliendo e distinguendo
i motivi reali, le sovrastrutture.
E’ il mio percorso.
Tutto ciò non impedirà mai di esprimere
il mio pensiero su qualsivoglia argomento.
Grazie per la vostra attenzione

un caro saluto a tutti

"Uguale per tutti" ha detto...

Per Paolo Emilio.

Gentilissimo Paolo Emilio,

Le proponiamo alcune riflessioni.

1 - Alcuni stiamo facendo questo blog, che ha ovviamente, come tantissime altre cose, pregi e difetti. Siamo consapevoli di non essere bravissimi a farlo, ma ci stiamo provando.

2 - Fermo restando che lo facciamo nella speranza che possa essere utile, confessiamo che ogni tanto ci proviamo anche un po' piacere, nel senso che alcune delle cose che scriviamo o pubblichiamo "le sentiamo" proprio e ci mettiamo un po' di cuore (a volte tanto).

3 - Abbiamo scelto di ospitare qui chi vuole venirci e, dunque, pubblichiamo anche le cose che scrive Lei, delle quali a volte non condividiamo il contenuto a volte il fine a volte il modo. Il fatto di non condividere i Suoi interventi non ci induce a censurarLa e La continuiamo a ospitare diciamo con piacere. La domanda che, direbbe un noto conduttore televisivo, sorge spontanea è: ma a Lei non sembra surreale non solo essere ospitato, ma addirittura pretendere di decidere Lei cosa dobbiamo scrivere e pubblicare e cosa no? Non può rassegnarsi a essere d'accordo o no, dare il Suo contributo o no, senza pretendere di impedire agli altri di fare un po' quello che gli pare (sempre nel rispetto delle leggi ovviamente)?

4 - Posto che, come abbiamo detto, non ce ne frega niente di essere/non essere apparire/non apparire "di destra" o "di sinistra" e che, come pure abbiamo detto, consideriamo questa cosa di dovere sembrare né "di destra" né "di sinistra" una vera paranoia di questi tempi ottusi, come possiamo comunicarLe che non consideriamo rilevanti/condizionanti/significanti/incoraggianti/scoraggianti/rilevanti le "accuse" di essere "comunisti", "ideologizzati", "veterofemministi" e tutto l'armamentario di epiteti simili? Non ci sentiamo né "comunisti" né niente che ci assomigli, fra noi ci sono persone di tutte le idee e le esperienze, il collega Gabriele Di Maio ha scritto un bellissimo commento in calce alla “Intervista a Manfredi Borsellino”, nel quale spiega come il fatto che Paolo (Borsellino) fosse notoriamente "di destra" e altri, per esempio Giovanni Falcone, ritenuti "di sinistra" fosse e sia del tutto irrilevante.

In definitiva, siamo come siamo e siccome questo blog è un luogo di libertà e non "Porta a Porta" non ce la sentiamo di complicarci la vita per "non sembrare così" o "sembrare più cosà" o simili.

Siamo qua. Se vuole resti anche Lei. Se non Le piace non resti. Legga quello che Le piace. Non legga quello che non Le piace. Commenti quello che vuole commentare. Dica, se vuole, le Sue opinioni, concordi o discordi.

Ma, per favore, se può, ci risparmi questa cosa di cercare le "prove" non si sa di quale retroscena politico, di quale dietrologia ideologica.

Ci creda, semplicemente a questa epica (??!!) battaglia fra destra e sinistra con la quale il potere in questo Paese nasconde la sua ferma intenzione di non cambiare nulla non partecipiamo.

Poi, se davvero vuole "collaborare", fermo restando che può continuare a dissentire in tutta libertà, provi a "socializzare" con gli altri bambini che giocano qui :-) senza dirgli sempre che sono "cattivi".

Infine, così come Lei ha dato dei consigli a noi su come essere migliori, se possiamo permetterci un modestissimo consiglio a Lei, rilegga l'articolo che stiamo commentando e si chieda se davvero QUESTO articolo giustifichi un tale schiamazzo "anticomunista".

Dopo di che, se Le riesce (e a un uomo della Sua cultura dovrebbe riuscire), ci rida su.

Un caro saluto.

La Redazione

Anonimo ha detto...

Gentile Redazione,

Certo che rido, anzi, sorrido, nel constatare la Vostra indubbia abilità dialettica !

Cari Signori, ma non credete Voi di esagerare un poco, soltanto perché c'è una voce apparentemente dissonante ?

Vediamo i fatti:

1) NON avete risposto alla mia domanda. Ripeto, caso mai Vi fosse sfuggito, che avete scritto in premessa: "IN QUESTO BLOG SI PARLA DEI PROBLEMI DELL'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA IN ITALIA". Lo avete scritto Voi, non io. E cosa c'entra la giustizia con il femminismo, con la psicoanalisi e mille altri argomenti evidentemente fuori tema ? E' vero che tutto può ricondursi a tutto, in senso lato, ma credo di parlare a persone colte e avvedute, che comprendono al volo e non amano "cavillare" sulle parole.

2) NON ho dato, quindi, consigli su come essere "migliori". Li ho dati, semmai (e modestamente), su come essere "precisi". Non ho certo la pretesa di dettare la Vostra linea editoriale ! Voi dite: "a Lei non sembra surreale non solo essere ospitato, ma addirittura pretendere di decidere Lei cosa dobbiamo scrivere e pubblicare e cosa no?" Non è così: sapeste quanti argomenti ho tralasciato in questi mesi soltanto per paura di risultare "off-topic" ! Adesso dite che non esiste alcun "off-topic". Bene, meglio così.

3) Se presumeste di etichettarmi "politicamente" sareste delusi, perché non me ne può importar di meno delle sempre cangianti formazioni politiche, di destra, di centro e di sinistra, ammesso che tali denominazioni significhino ancora qualcosa, giacché il POTERE è ben altra cosa rispetto alle APPARENZE. E questo dovreste saperlo bene.

4) Prendo atto, in ogni caso, che qui si può scrivere sovra QUALSIASI ARGOMENTO, contrariamente a quanto mi era logicamente sembrato, salvo ovviamente la Vostra approvazione.

Mi importava solo che ciò fosse chiaro, e perciò avevo scritto le mie osservazioni.

Cordialissimi saluti.