martedì 22 dicembre 2009

L’ultimo falso di piazza Fontana






di Luigi Ferrarella
(Giornalista)





dal Corriere della Sera del 12 dicembre 2009


A inquinare il quarantennale della strage di piazza Fontana è un conformismo speculare a quello che, all’inizio, viziò la ricerca dei responsabili della bomba che il 12 dicembre 1969 uccise 17 persone e ne ferì 88.

Nei confronti delle vittime è infatti immorale, prima ancora che falso nella ricostruzione storico-giudiziaria, coltivare il luogo comune di una verità ignota, di una strage senza paternità, di misteri totalmente mai diradati.

Ma forse non è un luogo comune coltivato per caso: viene proiettato sulla vicenda di ieri per poter essere usato oggi, in difetto di coerenza rispetto ad analoghe odierne dinamiche.

Non è vero che non siano stati identificati responsabili della strage.

Carlo Digilio, neofascista di Ordine Nuovo, ha confessato il proprio ruolo nella preparazione dell’attentato e ottenuto nel 2000 la prescrizione per il prevalere delle attenuanti riconosciutegli appunto per il suoi contributo.

E la Cassazione del 2005, nel confermare l’assoluzione in appello del trio Zorzi-Maggi-Rognoni condannato in primo grado nel 2000 all’ergastolo, ha chiaramente scritto che con le nuove prove, emerse nelle inchieste successive allo «scippo» del processo milanese nel 1972 e alla definitiva assoluzione nel 1987 degli ordinovisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura, entrambi sarebbero stati condannati.

Neanche si può dire che «strategia della tensione» e «matrice neofascista» delle stragi di quel lustro (piazza Fontana, treno Freccia del Sud, Peteano, Questura di Milano, piazza della Loggia, treno Italicus) siano espressioni che, per quanto logorate dall’inflazione d’uso, manchino di conferme: processuali, come ad esempio la condanna definitiva di Freda e Ventura per le bombe del 1969 pre-piazza Fontana: attentati per i quali alcuni innocenti (anarchici) erano già stati condannati e sarebbero stati incastrati se a Treviso il giudice Stiz nel 1971-1972 non avesse riportato gli accertamenti sui binari giusti, ben diversi da quelli che intanto, avevano già innescato l’arresto dell’anarchico Valpreda, la controversa morte di Pinelli in Questura, la campagna della sinistra estremista contro il commissario Calabresi e il suo omicidio ad opera di Lotta Continua nel 1972.

Neppure «servizi deviati», «depistaggi» e «ruolo degli americani» sono concetti che prescindono da punti fermi giudiziari.

L’ex generale del Sid, Gian Adelio Maletti (dal 1980 riparato in Sudafrica), e il capitano Antonio Labruna hanno condanne definitive per il depistaggio di indagini alle quali sottrassero protagonisti cruciali fatti scappare all’estero.

E circa il ruolo americano quantomeno di osservazione senza intervento, è stata ricostruita la catena di comando Usa che gestiva il neofascista Digilio come collaboratore nascosto della Cia.

Ma forse dimenticare tutto questo ha a che fare con la sciatteria meno che con l’incoerenza.

Se infatti si concordasse sul fatto che allora segmenti di organi di sicurezza allontanarono davvero la verità, non si dovrebbe sottovalutare oggi il rischio che singole «cordate» diventino tanto più pericolose quanto più sganciate da contrappesi istituzionali; e dunque si dovrebbe ad esempio rifuggire da quei progetti di legge che intendono sottrarre le polizie giudiziarie (gerarchicamente già dipendenti dai loro vertici e dunque dalla politica) alla dipendenza funzionale dai pm.

E se si prendesse atto che allora settori della politica non brillarono certo per trasparenza, si dovrebbe oggi chiedere con forza che la politica, quando lambita da inchieste giudiziarie, non si trinceri dietro il linciaggio dei titolari delle indagini e non si autoassolva nell’opacità di garanzie stravolte in privilegi di casta.

Ora va di moda, anche tra chi in questi quarant’anni ha avuto responsabilità di governo, augurarsi che i «grandi vecchi» ancora vivi e sparsi per mezzo mondo (magari Maletti in Sudafrica, Zorzi in Giappone, Ventura in Argentina) svelino in punto di morte verità inedite: ma l’auspicio non va di pari passo, ad esempio, con una coerente incisività nell’impegnare l’Italia a chiedere al Giappone la consegna di Delfo Zorzi, tuttora latitante per la strage di piazza della Loggia.

Così come strappa oggi facili applausi chi carezza la consolante retorica che invoca di togliere un «segreto di Stato» che in realtà non c’è su piazza Fontana: anche qui coerenza vorrebbe almeno che chi auspica la rimozione di inesistenti «segreti di Stato» si attivasse per toglierli o per non apporli, laddove invece sono mantenuti o rischiano di essere messi, su vicende quali il sequestro Cia di Abu Omar a Milano nel 2003, il dossieraggio Telecom fino al 2005, e ora alcuni sviluppi delle nuove indagini sulle stragi mafiose del 1992.

Se poi i liceali di oggi ignorano chi siano Valpreda, Pinelli o Calabresi, e attribuiscono la strage di piazza Fontana alle Brigate rosse, questo va sul conto di un’informazione adagiatasi negli anni sui propri comprensibili meccanismi di routine, che per definizione rendono poco notiziabile una vicenda così lunga e segnata da esiti così altalenanti.

Fino al pressoché totale black-out di attenzione giornalistica sull’ultimo e unico processo che possa ancora aggiungere squarci di ulteriore verità alla stagione delle bombe, e cioè il dibattimento di primo grado in corso dalla fine 2008 a Brescia a 5 imputati (alcuni assolti nel 2005 su piazza Fontana) della strage di piazza della Loggia, costata 8 morti e 108 feriti nel 1974.

Sarebbe un serio gesto di responsabilità, tra tanti pur doverosi omaggi al quarantennale della strage del 1969, che giornali e tv si assumessero l’impegno di seguire con continuità, d’ora in avanti, le udienze del processo di Brescia.

Certo non si può pretendere di veder rispuntare in ogni giornale un Marco Nozza, lo scomparso inviato de Il Giorno tra i protagonisti all’epoca di una vera controinformazione non annebbiata da pregiudizi ideologici: ma almeno 40 righe sui giornali o un minuto nei Tg che raccontino come vanno le udienze di questo processo, in un angolino tra il plastico di Cogne o le chat di Amanda, questo forse sì.




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“Processo breve” e parte civile: profili di incostituzionalità






di Michele Leoni
(Giudice del Tribunale di Forlì)





Pescando nell’archivio della giurisprudenza della Corte Costituzionale, si può trovare qualcosa di assai interessante ai fini della valutazione della correttezza costituzionale della riforma attualmente in itinere, sul cosiddetto “processo breve”.

Ad esempio, una sentenza di quattordici anni fa (la n. 103 del 1995), in cui la Corte chiarì alcune cose assai importanti in via di principi generali, riguardanti l’estinzione dei processi ope legis.

Scrissero allora i giudici che “per individuare i limiti di costituzionalità dell'intervento del legislatore nel processo quando di questo venga definito l'esito attraverso una norma che ne imponga l'estinzione … per escludersi la menomazione del diritto di azione è necessario e sufficiente che l'ambito delle situazioni giuridiche di cui sono titolari gl'interessati risulti comunque arricchito a seguito della normativa che dà luogo all'estinzione dei giudizi”.

Aggiunse la Corte che, ove “la voluntas legis si opponga alle pretese oggetto delle controversie che si vogliono estinte ed impedisca, negandone il fondamento, la realizzazione delle stesse, il vulnus all'art. 24 della Costituzione è reso evidente dal fatto che il legislatore opera una sostanziale vanificazione della via giurisdizionale, intesa quale mezzo al fine dell'attuazione di un preesistente diritto”.

Trasferiamo questi principi alla riforma del c.d. processo breve, la quale, come si sa, impone (salve eccezioni relative a determinati reati oggetto del giudizio, tassativamente elencati dalla norma) l’estinzione del processo ove questo superi la durata di due anni per ogni grado di giudizio.

Il problema riguarda anche la parte civile, la quale vede così vanificare la sua pretesa fatta valere nel processo penale, senza che la nuova normativa preveda meccanismi nuovi e alternativi che “arricchiscano” l’ambito delle situazioni giuridiche (processuali) di cui essa era titolare.

E’ vero che la nuova disciplina (art. 2 c. 6) stabilisce che, ove la parte civile trasferisca l’azione in sede civile, i termini a comparire di cui all’art. 163 bis c.p.c. sono ridotti della metà e il giudice civile dovrà fissare l’ordine di trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo all’azione trasferita.

Ma questa non sembra una soluzione che possa “arricchire” le prerogative della parte civile né compensare la vanificazione della scelta della via giurisdizionale penale “quale mezzo al fine dell’attuazione del proprio diritto”.

Anzitutto, qui non si tratta di un “trasferimento” dell’azione civile in sede civile (come accade nel caso previsto dall’art. 82 c. 3 c.p.p., quando è la stessa parte civile a revocare la propria costituzione, e dunque si versa in un presupposto ben diverso), ma si costringe de plano la parte civile a intraprendere ex novo l’unica via che le resta, ossia il processo civile, e a perdere così tutti i vantaggi che possono venirle dalla presenza di una parte pubblica in giudizio (il PM) e anche dall’esercizio dei poteri ex ufficio (art. 507 c.p.p.) che contraddistinguono il processo penale.

E la riduzione della metà dei termini di comparizione e la precedenza nella trattazione del processo civile non vale certo a riequilibrare la perdita di uno strumento come l’azione civile nella sede penale.

Né bisogna dimenticare che ancora la Corte Costituzionale ha affermato che, nell’ipotesi di trasferimento dell’azione civile dall’una all’altra sede (penale e civile), “è la stessa azione, e quindi il medesimo ‘processo’, a proseguire in altra sede” (Corte Cost. 211/2002).

Quindi, con il c.d. processo breve, verrebbe egualmente violato il principio della ragionevole durata del processo in relazione alle ragioni della parte civile.

Il processo civile, che pure si svolge dentro il processo penale, verrebbe devoluto e “allungato” in altra sede, senza alcun ragionevole motivo che riguardi la parte civile (la quale, ai sensi dell’art. 24 c. 1 Cost., “ha agito in giudizio per la tutela dei propri diritti” e conta sulla “ragionevole durata” della via intrapresa). Come dire, il meccanismo della coperta corta.

Assai di recente, la Corte Costituzionale (sentenza n. 56/2009) ha ulteriormente affermato che “il principio della ragionevole durata del processo va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali rilevanti nel processo medesimo; in particolare, possono arrecare un vulnus a tale principio solamente quelle norme ‘che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza’”.

C’è da chiedersi se i “diritti inviolabili” (art. 24 c. 2 Cost.) della parte civile non costituiscano, quanto meno, una “logica esigenza”, sufficiente per non estinguere il processo.

Allora? Forse occorrerebbe riformare la riforma? Stabilire che il processo breve è possibile solo quando, per il tipo di reato, non vi è una persona offesa potenziale parte civile … Boh ...



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"L'amore vince su tutto", ovvero del concetto moderno di "cultura del dialogo"

Una riflessione di Stefano Disegni (www.stefanodisegni.it) sul concetto contemporaneo di “cultura del dialogo”.

La strip è divisa in due tavole.

Per vederle entrambe bisogna cliccare su “Continua – Leggi tutto l’articolo” e poi, cliccando su ciascuno dei due disegni, se ne apre una versione di dimensioni più leggibili.









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lunedì 7 dicembre 2009

Il concorso esterno in associazione mafiosa





di Giuliano Castiglia
(Giudice del Tribunale di Termini Imerese)




Negli ultimi giorni è montato sempre più il già sperimentato refrain secondo cui il c.d. “concorso esterno” in associazione di tipo mafioso è un reato NON previsto dal codice ma creato – qualcuno, suggestivamente, dice inventato – dai giudici.

Ma in Italia i giudici non creano reati per il semplice motivo che non lo possono fare; se lo facessero, violerebbero un fondamentale principio costituzionale che è quello della assoluta riserva di legge in materia di punizione penale.

Solo al Parlamento compete la funzione di stabilire in via generale ed astratta che cosa è reato ed è una fortuna che sia così.

Se fosse vero che il concorso in associazione mafiosa è inventato dai giudici, sarebbe tale anche il concorso, per esempio, in furto, in rapina, in omicidio, in violenza sessuale, in corruzione, in violenza sessuale di gruppo e via elencando.

Per comprendere come stiano davvero le cose è inevitabile affrontare il tema in termini tecnici. Qui tenterò di farlo in modo da risultare comprensibile anche ai non addetti ai lavori, ai quali questo scritto è diretto.

Come accennato, la Costituzione (art. 25, comma 2) riserva al legislatore il compito di prevedere, ossia di individuare ex ante e in generale, quali fatti costituiscono reato.

Il Parlamento, attraverso lo strumento della legge, formula previsioni astratte mediante le quali costruisce le “fattispecie di reato” o “fattispecie incriminatrici”, cioè modelli di condotte umane che sono considerate reato e che i tecnici chiamano “tipi” o – più comunemente – “fatti tipici”.

Spetta invece ai giudici, anche in questo caso per dettato costituzionale (art. 102 Cost.), stabilire ex post e in particolare, attraverso lo strumento della sentenza, se una condotta che è stata concretamente realizzata da qualcuno costituisce o non costituisce reato.

Il loro compito si articola fondamentalmente in due momenti: accertare, innanzi tutto, che cosa si è concretamente verificato, ossia qual è la specifica condotta che è stata realizzata; operare, quindi, una verifica di corrispondenza della condotta concreta rispetto alla “fattispecie” di reato prevista dalla legge, ossia rispetto al “fatto tipico”. Se la verifica ha esito positivo, la condotta concreta realizzata sarà considerata reato.

La legge penale – quella alla quale volgarmente ci si riferisce dicendo “il codice” – costruisce le singole “fattispecie incriminatrici” riferendosi agli autori che pongono in essere tutti gli elementi della fattispecie stessa.

In altri termini, le norme di legge che definiscono i singoli reati fanno riferimento a chi pone in essere la “condotta tipica”, ossia la condotta che presenta tutti gli elementi richiesti dalla legge per la configurazione del reato.

La stragrande maggioranza delle fattispecie di reato sono costruite dalla legge come fattispecie così dette “monosoggettive”, ossia fattispecie che fanno riferimento a condotte che possono essere realizzate anche da un solo soggetto.

Tali sono, per esempio, il furto (art. 624 c.p.), la rapina (art. 628 c.p.), l’omicidio (art. 575 c.p.), la violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), tutti reati che possono essere realizzati anche da un solo soggetto.

Si pone allora il seguente interrogativo: come trattare il soggetto che, pur ponendo in essere una condotta non tipica – c.d. “condotta atipica” –, cioè una condotta che non realizza alcuno degli elementi richiesti dalla legge per la configurazione del reato, tuttavia fornisce un contributo a che essi siano realizzati da altri soggetti?

La risposta è pure essa nel codice e, precisamente, nell’art. 110 c.p. ed è nel senso che il soggetto da noi considerato, cioè colui il quale pone in essere una “condotta atipica” che però contribuisce alla commissione della condotta tipica da parte di altri, deve essere trattato esattamente come chi realizza la “condotta tipica”.

Stabilisce infatti l’art. 110 c.p. che “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”.

Come si dice comunemente, l’art. 110 c.p. svolge una funzione “estensiva” della punibilità, in quanto, combinandosi con gli articoli che definiscono i singoli reati, estende la punibilità per tali reati a soggetti diversi da quelli che realizzano gli elementi costituivi dei reati medesimi e, in particolare, tra gli altri, ai soggetti che, pur non ponendo in essere alcuno degli elementi in questione, forniscono un contributo – c.d. “atipico” – alla loro realizzazione da parte di un altro o di altri soggetti.

Per rendere meglio l’idea conviene esemplificare.

L’art. 624 bis c.p., che prevede il reato di furto in abitazione, punisce “chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa”.

Pensiamo a Tizio, gestore di una bottega di ferramenta, il quale, avendo ricevuto da Sempronio le chiavi del suo appartamento per la duplicazione, ne fa una copia che, dietro compenso, consegna a Caio, il quale, a sua volta, in un periodo di assenza di Sempronio, si introduce nell’appartamento di quest’ultimo asportando i valori custoditi al suo interno.

Caio, ovviamente, ha realizzato tutti gli elementi della fattispecie del reato di “furto in abitazione” prevista dall’art. 624 bis c.p. e, se scoperto, risponde di tale reato.

Tizio, invece, non ha posto in essere alcuno di tali elementi; eppure, consegnando a Caio le chiavi dell’abitazione di Sempronio, ha fornito un contributo fondamentale per la realizzazione del reato.

Alla stregua del solo art. 624 bis c.p., egli non ha commesso alcun reato; tuttavia, poiché l’art. 624 bis, come ogni altro articolo che prevede una specifica fattispecie di reato, si combina con l’art. 110 c.p., anche Tizio, se scoperto, risponde del reato di furto in abitazione punito dall’art. 624 bis e, più precisamente, ne risponde a titolo di “concorso”.

Oltre alle fattispecie “monosoggettive” – che, come detto, rappresentano la gran parte delle fattispecie incriminatrici – la legge penale prevede alcune fattispecie plurisoggettive, ossia fattispecie incriminatrici delle quali è elemento costituivo necessario la condotta di più soggetti. Si parla, in proposito, di “reati a concorso necessario” o di “reati necessariamente plurisoggettivi”.

Un esempio di questi reati è quello di “violenza sessuale di gruppo” previsto dall’art. 609 octies del codice penale. Secondo tale articolo “la violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis” (comma 1) e “chiunque commette atti di violenza sessuale di gruppo è punito con la reclusione da sei a dodici anni” (comma 2).

Anche per questi reati, nei quali, tra gli elementi del “fatto tipico”, è presente la condotta di più soggetti, esattamente come per i reati in cui tale elemento non è presente, si pone il problema del trattamento di quei soggetti che, pur non ponendo in essere alcuno degli elementi del fatto tipico, forniscono un contributo alla realizzazione di essi da parte di altri.

Ed anche per questi reati la risposta è nell’art. 110 del codice penale. Esso, come si combina con le fattispecie monosogettive, allo stesso modo si combina con le fattispecie plurisoggettive, così estendendo la punibilità ai soggetti che, pur non ponendo in essere alcuno degli elementi costitutivi dei reati a concorso necessario, contribuiscono alla loro realizzazione da parte di altri.

L’esemplificazione, anche in questo caso, rende l’idea.

Tizio, per un motivo X che non ci interessa, ingaggia Caio, Sempronio e Filano affinché commettano atti di violenza sessuale contro Mevia. Caio, Sempronio e Filano, una notte, si introducono nell’abitazione di Mevia e, ivi riuniti, compiono atti di violenza sessuale contro Mevia.

Chi risponde della violenza sessuale di gruppo? Secondo l’art. 609 octies c.p. ne rispondono Caio, Sempronio e Filano, coloro che, riuniti, hanno partecipato agli atti di violenza sessuale contro Mevia. E Tizio, colui che non partecipa agli atti di violenza sessuale ma dà mandato perché altri (Caio, Sempronio e Filano) li pongano in essere, che fine fa? Se la fa franca?

No, se lo scoprono, non se la fa franca!

Come detto, infatti, oltre che con le fattispecie incriminatrici monosoggettive, l’art. 110 c.p. si combina anche con le fattispecie plurisoggettive, estendendo la punibilità a coloro i quali, pur non avendo realizzato alcuno degli elementi della fattispecie, hanno però fornito un contributo alla loro realizzazione da parte di altri.

Tizio, quindi, risponderà anch’egli del reato di violenza sessuale di gruppo previsto dall’art. 609 octies c.p. e, più precisamente, ne risponderà a titolo di “concorso”.

Anche il concorso – “esterno” o “eventuale” – in violenza sessuale di gruppo, dunque, attraverso la combinazione dell’art. 609 octies c.p. con l’art. 110 c.p., è previsto dal codice.

La stessa identica cosa vale per il concorso (“esterno”) in associazione di tipo mafioso.

L’art. 416 bis c.p. punisce con una certa pena “chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso”.

Ipotizziamo che Tizio, Caio e Sempronio diano vita ad un’associazione di tipo mafioso, impegnata in varie attività quali estorsioni, commercio di stupefacenti, acquisizioni di lavori dalle pubbliche amministrazioni attraverso appalti gestiti illegalmente, ecc.

Ipotizziamo poi che i tre conoscano il giudice Filano e si rivolgano a lui ogni volta che ne hanno bisogno per un problema che interessa l’associazione e rispetto al quale Filano può dare una mano. E ipotizziamo ancora che Filano sappia dell’esistenza dell’associazione e, nonostante questo, fornisca o si adoperi per fornire l’aiuto richiesto. Per esempio, chiamato a giudicare Mevio, un amministratore inserito nell’associazione, accusato di un reato punibile con la pena da 3 a 6 anni di reclusione, Filano potrebbe – non dico assolverlo pur se colpevole ma anche solo – condannarlo alla pena di 2 anni e 8 mesi riconoscendogli le attenuanti generiche anziché alla giusta pena (non inferiore a 3 anni) che comporterebbe l’interdizione (almeno temporanea) dai pubblici uffici e, quindi, la decadenza di Mevio dalla carica di amministratore.

Tizio, Caio e Sempronio rispondono del reato di associazione di tipo mafioso.

E Filano, che pur contribuendo indubbiamente alla sua vita non fa parte dell’associazione, e, pertanto, alla stregua del solo art. 416 bis, non commette alcun reato, se la fa franca?

No, anche in questo caso, Filano, se scoperto, non se la fa franca.

Infatti, anche in questo caso soccorre l’art. 110 c.p., il quale, combinandosi con l’art. 416 bis c.p., estende la punibilità per tale reato a coloro che, pur non facendo parte dell’associazione mafiosa, tuttavia contribuiscono consapevolmente alla sua vita.

Filano, dunque, risponde del reato di associazione di tipo mafioso previsto dall’art. 416 bis e, precisamente, ne risponde a titolo di “concorso” (“esterno”).

Conclusivamente, quindi, il concorso esterno in associazione mafiosa è previsto dal codice.

Affermare che esso non esiste ed è un’invenzione dei giudici significa negare l’esistenza dell’art. 110 c.p.; il generale meccanismo estensivo della punibilità previsto da tale articolo può non piacere e, in effetti, ad alcuni, tra i quali non mancano anche tecnici della materia, che ne considerano la portata troppo generica ed estesa, non piace; ma non si può dire che non esiste; dirlo è un errore; cercare subdolamente di inculcare negli italiani tale convinzione sarebbe un’impostura.

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P.S. : Per completezza, bisogna dire che l’affermazione secondo cui il concorso esterno in associazione mafiosa non esiste ed è inventato dai giudici strumentalizza talune ben più complesse e sottili posizioni espresse in dottrina circa la problematicità della combinazione tra l’art. 110 c.p. e i reati necessariamente plurisoggettivi e, segnatamente, quelli associativi. In questa sede, però, non è possibile affrontare tali questioni perché il discorso diventerebbe tecnicamente troppo complesso e non è ciò che qui ci proponiamo. Va detto, comunque, che queste posizioni hanno registrato riscontri giurisprudenziali minimi e, attualmente, non ne hanno alcuno.



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Il rovescio del diritto e la Calabria




di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza)





Qualche sera fa, il dott. Nicola Gratteri [Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Reggio Calabria] ha partecipato ad un trasmissione televisiva portando in video la sua disarmante chiarezza.

Ad una domanda se vi fosse, realmente, la volontà politica di sconfiggere la mafia, ha dato una risposta ad dir poco agghiacciante.

Qualsiasi governo (ammesso che negli ultimi anni vi sia stata alternanza in Italia) ha e ha avuto come scopo primario un potere giudiziario imbrigliato (in modo che non si possa disturbare il manovratore) e una scuola inadeguata (in modo che non si formino nuove generazioni colte e intellettualmente capaci di cogliere i significati reconditi delle “questioni dell’agenda politica”).

Il dott. Gratteri è certamente uno di quelli che hanno inteso il proprio lavoro come un dovere e non come occasione di vivere bene nel senso che la sua funzione e il suo potere lo hanno esposto al rischio di perdere la vita e non ad essere in prima fila a teatro.

Nessun compromesso onde consentire anche a suoi figli di vivere bene.

Il suo linguaggio mediatico è diverso da altri, più semplicemente disarmante, più diretto; quasi quello di una discussione tra amici fidati nessun compromesso, messaggio semplice e diretto.

Un attimo prima, aveva detto che nel territorio di sua competenza il capo mafia è capace di determinare qualsiasi cosa, anche l’imbianchino che tinteggerà la casa di un quisque de populo che ha deciso di costruirsi o comprarsi un nuovo immobile.

Enorme potenza delle organizzazioni mafiose.

Questione criminale si dirà.

In Calabria, tuttavia, non molto tempo fa, una famosa inchiesta oggi al vaglio della magistratura penale giudicante, disvelò un sistema diffuso dall’altra parte della società (quella non criminale sic!) per cui il potere era in grado di determinare consulenti, incarichi, vite da stabilizzare, investimenti da realizzare.

Questione politica si dirà.

In Calabria, in realtà, quella inchiesta e quei comportamenti (la cui rilevanza penale non sono ovviamente di nostra competenza) hanno disvelato il vero problema di questa terra: non esistono, se non in forma minimale, spazi di libertà assoggettati alle norme del diritto se è vero come sembra che dal lato criminale esistono forme di pressione che, per ciò che qui interessa, impediscono a chi lavora bene di prosperare nel suo lavoro valendo come regola quella della appartenenza e, dal lato del potere esistono altrettante forme di pressione e di violazione delle norme del diritto valendo anche lì (seppure con aspetti meno pericolosi dal punto di vista criminale) la regola dell’appartenenza sopra il merito e le predette regole.

Il lavoro privato, quello cioè sottratto alle due influenze, è minimale e si occupa delle briciole della torta.

Questione meridionale si dirà.

Si questione meridionale che, tuttavia, per tornare alla disarmante semplicità e chiarezza delle posizioni di Gratteri, porta a chiedersi del perché in tanti anni non si sia voluto capire che basterebbe applicare le regole, esistenti, per risolvere molti annosi problemi.

Sottomissione al potere romano dicono le classi dirigenti calabresi.

Anche su questo viene da dire che è un luogo comune poiché il politico nostrano, forte di ruoli o di rapporti ben consolidati con il potere centrale, critica la sua sudditanza dal potere romano ma crea sudditanza con il suo elettorato di riferimento in modo da potere contare su un gruppo consolidato di condizionamento che si esplica quasi come un Giano bifronte in cui da un lato si sfrutta la forza elettorale verso il centro e dall’altro si sfrutta la contropartita del centro verso il gruppo di riferimento.

Degenerazione della politica, male atavico delle classi dirigenti e delle genti meridionali.

La situazione, in realtà, è del tutto diversa poiché essa, in realtà, è proprio il frutto della codificazione del principio del rovescio del diritto di cui esistono notevoli esempi proprio qui in Calabria.

Rimanendo sull’esempio di Why not basta soffermarsi sulle regole costituzionali per il problema dell’accesso al lavoro.

Sul punto, l’art. 97 recita testualmente “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.

Tale norma va letta in sistema (sistematicamente ndr) con l’art. 51, a mente del quale “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” e con l’art. 3, II° comma, Cost., “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Dal quadro delle norme costituzionali, evidentemente cogenti anche in Calabria, si inferisce che al lavoro nelle pubbliche amministrazioni (il c.d. posto fisso) si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge, e che è obbligo delle istituzioni della Repubblica (che ovviamente non è un fatto astratto ma l’insieme degli uomini che ricoprono cariche istituzionali negli organi della Repubblica) garantire l’uguaglianza dei cittadini nell’accesso agli uffici pubblici nonché quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscano il pieno sviluppo anche economico della persona umana.

Le regole del diritto quindi sono molto chiare sia per gli uomini che ricoprono ruoli istituzionali sia per i cittadini: i gruppi di potere che influiscono sull’accesso ai pubblici uffici e agli incarichi pubblici (ovvero derivanti da investimenti di soldi pubblici) violano il dettato costituzionale; in altri termini violano la legge.

Non ha rilevanza, almeno qui, stabilire se ciò ha rilevanza penale: ha certamente rilevanza costituzionale nel senso di essere certamente una prassi un comportamento contrario alle regole dettate dalla nostra carta costituzionale. Nella sua disarmante semplicità (non semplicismo), si può affermare che interferire, almeno nel settore che interessa i soldi pubblici, sull’ingresso nel lavoro, la carriera, i guadagni, le condizioni di vita delle persone e dei suoi familiari è contrario alla nostra Costituzione.

Tutto chiaro e condivisibile?

No, sbagliato, la codificazione della regola del rovescio del diritto porta ad affermare che raccomandare è un fatto banale quasi umanitario; quando si prova ad indagare ipotizzando voto di scambio o altre figure di reato, i rappresentanti del rovescio del diritto banalizzano il problema affermando che si tratta, in realtà di semplici raccomandazioni con finalità umanitarie.

Verrebbe da chiedersi ma tutti i lavoratori a contratto, a termine (per il diritto non per il rovescio), frutto di chiamate dirette non violano la Costituzione?

La gratitudine che il selezionato tra migliaia di aspiranti prova per il suo amico politico non influenza le scelte del suo voto che dovrebbe essere libero?

Tutto questo quadro non è chiara indicazione di violazione dei precetti costituzionali?

Secondo i teorici del rovescio del diritto no o, quantomeno, ciò non rappresenta un problema visto che il cittadino elettore, anche sapendo che il politico tizio opera in questo modo lo legittima nuovamente con il suo voto libero.

Su questo il legislatore ha scelto che il voto di scambio è punibile solo quando avviene in cambio di denaro e, si sa, che in Italia, figuriamoci in Calabria, ci si dimette o si lascia la politica solo dopo l’esecuzione, a volte implorata, di sentenze definitive afferenti a gravi reati penali.

Questa piccola analisi, però, illumina le ragioni della speranza perché la diminuzione delle canches a disposizione dei nostri filantropici politici fa aumentare quelli fuori dai giochi e, soprattutto sembra avere prodotto, almeno qui in Calabria, non una illuminata elitè ma molti uomini e donne silenziose che nella loro vita quotidiana hanno deciso di dire che i teorici del rovescio del diritto in realtà violano la legge.

Speriamo si continui a camminare gridando che il rovescio del diritto in realtà era un titolo ironico di un saggio sui mali della legge e non una regola di codificazione.


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venerdì 20 novembre 2009

Quanto lavorano veramente i magistrati italiani

Versione stampabile




di Mario Morra
(Giudice del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere)



Recentemente gli attacchi alla magistratura vanno moltiplicandosi, con una violenza ed una frequenza indicativa di un disegno preordinato, volto a gettare discredito sulla categoria per fini che nulla hanno a che fare con la volontà di risolvere i problemi della giustizia e velocizzare i processi.

Esponenti politici, giornalisti, saggisti, presunti o aspiranti tali, cavalcando ormai un filone che “tira”, anche commercialmente, in modo tanto ossessivo quanto apparentemente convinto, inondano la pubblica opinione di dati assolutamente falsi, spesso ridicoli (come ad esempio la storia dei magistrati che lavorano 4 ore al giorno o che guadagnano come i parlamentari) e ciononostante in grado di fare presa sui lettori o telespettatori, proprio perché ripetuti in modo costante, secondo un copione ormai collaudato.

Partendo dal dato inconfutabile dell’eccessiva durata dei processi in Italia rispetto agli altri paesi, prima velatamente, ora in modo aperto, si sostiene che ciò dipende dalla “scarsa voglia dei magistrati di lavorare”, dall’assenza di controlli sul loro operato, dalla preferenza accordata alla trattazione di processi politici per acquisire notorietà.

In più, per aumentare l’atteggiamento di diffidenza e odio verso la categoria, si sostiene che i magistrati guadagnano troppo, che l’attività disciplinare del C.S.M. (Consiglio Superiore della Magistratura) è solo una farsa e che la magistratura contrasta le riforme solo per mantenere i propri privilegi di casta.

I dati su cui mi sono basato, e che in alcuni casi ho rielaborato per renderli di più immediata comprensione, non sono tratti da indagini raffazzonate e di dubbia veridicità, dell’A.N.M. (Associazione Nazionale Magistrati) o di altri organismi interessati, ma provengono da una fonte autorevole ed imparziale: la Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ), raccolti in un rapporto, estremamente articolato, di oltre 350 pagine, presentato nel 2008 (con rilevazioni statistiche riferite all’anno 2006), sullo stato della giustizia in Europa.

Il rapporto è stato in alcuni casi citato, evidentemente a sproposito, dai nostri detrattori, e qualche volta anche dai nostri rappresentanti dall’A.N.M. ma in modo, mi permetto di osservare, troppo parziale e frammentario per essere efficace.

Seppur scritto in lingua inglese, è in ogni caso facilmente reperibile in internet e a disposizione di chiunque voglia verificare i dati da esso ricavati.

Da tale rapporto emerge in modo evidente la falsità delle accuse inerenti la laboriosità della magistratura italiana, da ritenersi la più produttiva d’Europa, nonché l’infondatezza di tanti luoghi comuni, pedissequamente ripetuti in ogni occasione.


PARAGRAFO I: “I magistrati in Italia sono più numerosi di quelli europei ma producono di meno”.

Tutti sanno ormai che il numero dei processi penali e civili pendenti nel nostro paese è di gran lunga maggiore rispetto a quello degli altri Stati europei e che, in conseguenza di ciò, i processi durano mediamente molto di più di quanto accada altrove.

La tesi oggi diffusa, non solo a livello politico, ma anche in consistenti settori dell’informazione, è che ciò dipenda dalla scarsa voglia di lavorare dei magistrati italiani, coperti, nella loro infingardaggine, dall’assenza di qualsiasi meccanismo di controllo sulla produttività e dalla complicità dell’organismo disciplinare del C.S.M., costituito in prevalenza proprio da magistrati.

L’indicazione del numero dei processi pendenti, di per sé, non è di alcuna utilità per verificare se tale affermazione sia corretta o se invece il numero delle pendenze dipenda da una serie di altre ragioni (eccessivo numero di affari civili e penali iscritti a ruolo ogni anno rispetto alle sopravvenienze degli altri paesi, eccessiva parcellizzazione degli uffici giudiziari sul territorio, eccessiva farraginosità delle procedure, ecc.).

I dati rilevanti, in realtà, per stabilire se i magistrati italiani siano produttivi o meno, sono altri e non possono prestarsi ad alcuna interpretazione ambigua.

Nell’effettuare un raffronto con ciò che accade negli altri paesi dell’Unione Europea è infatti sufficiente stabilire quanti magistrati ci sono in ogni Stato, quanti sono, ogni anno, i processi di nuova iscrizione sui ruoli e quanti quelli che vengono smaltiti dagli uffici giudiziari, e quale sia il rapporto tra processi sopravvenuti e definiti per ogni singolo magistrato.

Cominciamo con lo stabilire qual è il numero dei magistrati in Italia e negli altri paesi europei.

Su questo punto il rapporto della CEPEJ porta dati disaggregati per Giudici (tabella n. 51) e per Pubblici Ministeri (tabella n. 77).

Unificando i due dati (per dare una visione più attendibile che non sia condizionata dal tipo di sistema processuale penale adottato nei singoli Stati), e riportando (esclusivamente per brevità espositiva), solo quelli dei principali Stati europei, con esclusione di alcuni difficilmente comparabili con l’Italia per dimensioni (si pensi al Principato di Monaco o al Lussemburgo) o per altre ragioni (ad es. quelli dell’ex area sovietica), emerge quanto segue:


Quadro 1: numero di magistrati ogni 100.000 abitanti

ITALIA 14,8

Austria 22,8
Belgio 22,4
Danimarca 16,9
Francia 14,8
Germania 30,7
Grecia 33,1
Olanda 16,8
Norvegia 26,5
Portogallo 29,9
Spagna 14,6
Svezia 23,8
Svizzera 21,9
Regno Unito 11,6

In Italia, dunque, rispetto alla popolazione, il numero dei magistrati è lo stesso di Francia e Spagna, di poco superiore a quello del Regno Unito, ma comunque inferiore a tutti gli altri principali paesi europei e addirittura la metà rispetto al numero dei magistrati tedeschi, greci e portoghesi.

Stabilito qual è l’effettivo numero dei magistrati in Europa, si può ora analizzare il carico medio di ogni magistrato giudicante (per i pubblici ministeri i dati appaiono di più difficile comparazione).

Questo dato non è presente nel rapporto, ma lo si può indicativamente ricavare dividendo il numero delle varie sopravvenienze civili e penali (tabelle 61, 68) per il numero di giudici (tabella 51).

Si tratta di un dato che, di per sé, non ha una validità scientifica perché le sopravvenienze (quelle civili e quelle penali) devono essere qui divise per il numero di tutti i giudici in pianta organica (non essendo indicato quanti sono i giudici che trattano il penale e quanti il civile, nonché quelli in servizio presso uffici di primo grado o in uffici superiori).

Ciò tuttavia non rileva ai nostri fini giacché ciò che conta non è l’individuazione della quantità assoluta delle sopravvenienze e delle definizioni, ma solo il raffronto tra i diversi paesi.

Orbene, partendo dalle sopravvenienze civili in primo grado (cause contenziose) si può calcolare agevolmente quanto segue:


Quadro 2: numero delle sopravvenienze annue civili (cont.) di 1° grado per giudice:

ITALIA 438,06

Austria 67,96
Belgio 202,48
Danimarca 175,96
Francia 224,15
Germania 54,86
Grecia n.d.
Olanda 458,71
Norvegia 26,04
Portogallo 153,58
Spagna 263,63
Svezia 25,6
Svizzera n.d.
Regno Unito (dato non affidabile, per l’eccessivo scarto con le decisioni emesse)


Ad eccezione delle sopravvenienze dell’Olanda, dato della cui correttezza la Commissione, nel commento di accompagnamento alle tabelle, esprime delle perplessità, si può notare che in Italia ogni Giudice ha come sopravvenienze un numero di affari 2 volte superiori a Belgio, Francia e Spagna, 8 volte superiore a Germania e Austria, 17 volte superiore rispetto a quello dei paesi scandinavi.

Per quanto concerne gli affari penali, il rapporto distingue tra affari penali “gravi” (esemplificativamente vengono riportate rapine, estorsioni, reati a sfondo sessuale ed altri) e affari penali di scarso rilievo.

Nel quadro che segue ho tenuto conto solo dei primi, in quanto, in relazione ai secondi, si tratta di fattispecie che non costituiscono reato in tutti i paesi, sicché alcuni di essi non vengono trattati da un giudice.


Quadro 3: numero delle sopravvenienze annue penali (gravi) per giudice:

ITALIA 190,71

Austria 16,12
Belgio 27,01
Danimarca 43,19
Francia 80,92
Germania 42,41
Grecia n.d.
Olanda n.d.
Norvegia n.d.
Portogallo 63
Spagna 54,16
Svezia n.d.
Svizzera n.d.
Regno Unito 103,94


Anche in questo caso ogni giudice italiano riceve un numero di affari penali “gravi” di primo grado 2 volte superiore ai colleghi francesi e inglesi, 4 volte superiori ai colleghi tedeschi, spagnoli e danesi, 12 volte superiore a quelli austriaci.

Già sulla base del raffronto tra le sopravvenienze civili e penali in Italia e quelle degli altri paesi, appare chiaro il motivo per cui da noi ci sono pendenze impressionanti, dato che ogni anno, per ragioni diverse (culturali, sociali, di inefficienza di altri organismi ecc.), nel nostro paese c’è un numero di cause civili e di processi penali di gran lunga maggiore rispetto a quello degli altri paesi europei.

Il dato più importante, per valutare la produttività dei magistrati europei, è però evidentemente costituito dal numero dei procedimenti smaltiti da ciascuno giudice ogni anno, anch’esso indicativamente ricavabile dal raffronto tra le definizioni ed il numero dei giudici in pianta organica:


Quadro 4: numero dei procedimenti civili e penali di 1° grado smaltiti in un anno per Giudice:

PROC. CIVILI - PROC. PENALI

ITALIA 411,33 - 181,09

Austria 65,89 - 16,11
Belgio n.d. - 30,27
Danimarca 173,89 - 41,97
Francia 215,67 - 87,06
Germania 78,86 - 42,91
Olanda 455,4 (dato poco attendibile) - 75,36
Norvegia 26,83 - n.d.
Portogallo 172,09 - 60,31
Spagna 246,67 - 87,51
Svezia 24,8 - n.d.
Regno Unito 12,24 (dato poco attendibile) - n.d.

Con la sola eccezione, dunque, dei processi civili in Olanda, dato ritenuto scarsamente attendibile, anche per la evidente discrasia con il numero degli affari penali definiti nel medesimo paese, e trascurando il dato del Regno Unito, anch’esso troppo basso per poter essere corretto, può notarsi che in Italia ogni Giudice, in media, definisce un numero di procedimenti civili e penali pari al doppio dei colleghi francesi, spagnoli e portoghesi, e 5 volte superiore al numero di processi smaltiti in Germania.


PARAGRAFO II: “I magistrati in Italia non vengono mai puniti perché il C.S.M. è un organismo corporativo”.

Altra critica ricorrente mossa alla magistratura italiana, attiene alla presunta inefficacia del sistema disciplinare che fa capo al C.S.M., che, essendo in prevalenza costituito da magistrati, non applicherebbe quasi mai sanzioni alla categoria che lo esprime.

E’ evidente che l’attribuzione dei poteri disciplinari ad un organismo i cui rappresentanti sono in prevalenza eletti dagli stessi magistrati costituisce una garanzia per assicurare l’indipendenza della magistratura da altri poteri.

Da più parti, anche all’interno della magistratura, sono state da tempo avanzate proposte di riforma di tale sistema al fine di renderlo più efficiente, ferma restando la necessità di salvaguardare quei principi irrinunciabili di indipendenza e autonomia.

In ogni caso, anche in ordine a tale tema, può essere utile esaminare i dati statistici relativi alle sanzioni disciplinari applicate dal C.S.M. rispetto a quelle applicate dagli altri organismi disciplinari europei.

E’ interessante notare che nel corso dell’anno 2006, secondo il rapporto citato (tabelle n. 100 e seguenti), in Italia sono stati attivati 92 procedimenti disciplinari contro Giudici e P.M. ed applicate 66 sanzioni.

Un numero forse contenuto ma certamente maggiore delle 14 sanzioni disciplinari applicate in Francia, delle 29 in Germania, delle 24 in Spagna.

Se tali dati vengono poi divisi per il numero dei magistrati dei diversi paesi, emerge quanto segue:


Quadro 5: numero delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati:

ITALIA 7,5

Austria 8
Belgio 2,5
Francia 0,5
Germania 1
Portogallo 13
Spagna 3,5
Regno Unito 5

Salvo che per il Portogallo e l’Austria, dunque, in Italia vengono comminate ai magistrati sanzioni 2 volte maggiori di quelle comminate in Spagna, 7 volte maggiori di quelle comminate in Germania e 15 volte superiori di quelle comminate in Francia.


PARAGRAFO III: “I magistrati Italiani sono quelli che hanno la retribuzione più alta in Europa”.

L’ultimo dei luoghi comuni più diffusi sulla magistratura è quella relativa alla retribuzioni.

Si sente spesso affermare che i magistrati guadagnano quanto i Parlamentari e che le loro retribuzioni sono le più alte d’Europa.

In realtà tutti noi sappiamo che solo l’ultimo livello retributivo della magistratura (quello del Primo Presidente della Corte di Cassazione) è parametrato sulla retribuzione dei Parlamentari, mentre tutti gli altri magistrati sono retribuiti diversamente a seconda della rispettiva anzianità di servizio.

Rivedendo il mio statino paga del 2002, quando sono entrato in magistratura, rilevo che il mio stipendio era di 1.669 euro netti.

Dal rapporto della CEPEJ non è possibile effettuare un raffronto tra lo stipendio medio dei magistrati europei perché viene riportato solo lo stipendio di inizio carriera e quello di fine carriera (ossia corrispondente al massimo livello stipendiale della magistratura (tabelle 91 e 92 del rapporto).

In ogni caso, anche solo sulla base di tali dati, si può comprendere come la retribuzione dei magistrati italiani sia, a tutto voler concedere, in linea con quella dei colleghi dei principali paesi europei e, in alcuni casi, decisamente più bassa.


Quadro 6: stipendio lordo magistrati europei a inizio carriera:

ITALIA € 37.454

Austria € 43.393
Belgio € 56.487
Danimarca € 91.904
Francia € 35.777
Germania € 38.829
Irlanda € 127.664
Olanda € 70.000
Norvegia € 87.000
Portogallo € 33.477
Spagna € 45.230
Svezia € 96.500
Svizzera € 88.044
Scozia € 170.000
Inghilterra € 143.708


Quadro 7: stipendio lordo magistrati europei a fine carriera:

ITALIA € 122.278

Austria € 105.251
Belgio € 122.196
Danimarca € 130.341
Francia € 105.317
Germania € 86.478
Irlanda € 222.498
Olanda € 115.000
Norvegia € 125.000
Portogallo € 80.478
Spagna € 115.498
Svezia € 152.000
Svizzera € 204.968
Scozia € 255.000
Inghilterra € 233.742

Per quanto concerne lo stipendio iniziale, dunque, quello dei magistrati italiani è sostanzialmente analogo a quello dei colleghi francesi, tedeschi e portoghesi (Stato nel quale i salari medi sono però decisamente più bassi di quelli italiani); inferiore a quello degli omologhi spagnoli, austriaci e belgi, assolutamente non paragonabile allo stipendio dei magistrati dei paesi nordici (dove il tenore di vita è però più alto) e di quelli anglosassoni, ove i magistrati percepiscono uno stipendio quasi 4 volte superiore a quello degli italiani.

Solo lo stipendio massimo dei magistrati italiani è superiore a quello dei colleghi francesi e soprattutto tedeschi, ma sostanzialmente analogo a quello dei magistrati spagnoli e belgi, e notevolmente inferiore (quasi la metà) rispetto allo stipendio dei magistrati inglesi e degli altri paesi del Regno Unito.

Un aspetto estremamente significativo è comunque costituito dal fatto che, come indicato nel commento di accompagnamento alle tabelle, in alcuni paesi europei (Germania e Francia, tra gli altri), i magistrati beneficiano di vantaggi ulteriori di diversa natura, come assicurazioni sulla salute, sistemazioni logistiche, in alcuni casi rimborsi di costi di rappresentanza ecc.; vantaggi che sono invece del tutto assenti per i magistrati italiani, la cui retribuzione, è il caso di sottolineare, è costituita anche da una voce che è “l’indennità di rischio”, introdotta a seguito dell’uccisione di diversi colleghi per terrorismo e mafia (verosimilmente qualcuno in più rispetto alla media europea) (1).

In conclusione, chi scrive è ben consapevole che i magistrati sono tutt’altro che perfetti, che alcuni di essi non amano il proprio lavoro o non sanno organizzarlo, che ci sono sacche di inefficienza riconducibili anche a responsabilità interne; che moltissimo si potrebbe fare per migliorare il funzionamento dell’organo di autogoverno ed il servizio giustizia nel suo complesso, ma tutto ciò non può portare ad assistere inerti alla distruzione di una istituzione cui è demandato infine il compito di salvaguardare lo Stato di diritto.

L’esercizio della giurisdizione, oltre all’impegno dei magistrati e alla disponibilità dei mezzi, richiede anche la preservazione della “dignità” della magistratura, che non è appagamento della vanità dei singoli, ma strumento indispensabile per la concreta e quotidiana amministrazione della giustizia.


_________

(1) La magistratura italiana vanta un triste primato europeo. Tra il 1969 e il 1995 sono stati assassinati nel nostro Paese 26 magistrati. A questo link se ne può leggere l'elenco. [nota della Redazione]



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Quanto lavorano i magistrati italiani e a che serve la legge sul “processo breve”

Da Annozero del 19 novembre 2009










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Berlusconi e la menzogna dei 106 processi





di Giuseppe D’Avanzo
(Giornalista)




da Repubblica.it del 20 novembre 2009



Si dice: il processo sia “breve” e se questa rapidità cancella i processi di Silvio Berlusconi sia benvenuta perché contro quel poveruomo, dopo che ha scelto la politica (1994), si è scatenato un “accanimento giudiziario” con centinaia di processi.

Al fondo della diciottesima legge ad personam, favorevole al capo del governo c’è soltanto uno schema comunicativo, fantasioso, perché privo di ogni connessione con la realtà.

È indiscutibile che un giudizio debba avere una ragionevole durata per non diventare giustizia negata (per l’imputato innocente, per la vittima del reato).

“Processo breve”, però, è soltanto un’efficace formula di marketing politico-commerciale. Nulla di più.

Per credere che dia davvero dinamismo ai dibattimenti, bisogna dimenticare che le nuove regole (durata di sei anni o morte del processo) sono un imbroglio, se non si migliorano prima codice, procedura, organizzazione giudiziaria. Sono una rovina per la credibilità del “sistema Italia”, se definiscono “non gravi” i reati economici come la corruzione.

Con il tempo, la ragione privatissima del disegno di legge è diventata limpida anche per i creduloni, e i corifei del sovrano ora ammettono in pubblico che la catastrofica riforma è stata pensata unicamente per liberare Berlusconi dai suoi personali grattacapi giudiziari.

L’effrazione di ogni condizione generale e astratta della legge deve essere sostenuta - per conformare la mente del “pubblico” - da un secondo soundbite, quella formuletta breve e convincente che, come una filastrocca, deve essere recitata in tv, secondo gli esperti, al ritmo di 6,5 sillabe al secondo, in non più di 12/15 secondi.

Diffusa, ripetuta e disseminata dai guardiani vespi e minzolini dei flussi di comunicazione, suona così: Silvio Berlusconi ha il diritto di proteggersi - sì, anche con una legge ad personam - perché ha dovuto subire centinaia di processi dopo la sua “discesa in campo”, spia di un protagonismo abusivo e tutto politico della magistratura che indebolisce la democrazia italiana.

Bene, ma è vero che Berlusconi è stato “aggredito” dalle toghe soltanto dopo aver scelto la politica? E quanto è stato “aggredito”? Davvero lo è stato con “centinaia di processi” tutti conclusi con un nulla di fatto?

Domande che meritano parole factual, se si vuole avere un’opinione corretta anche di questo argomento sbandierato da tempo e accettato senza riserve anche dalle menti più ammobiliate.

Il numero dei processi di Berlusconi è un mistero misericordioso se si ascolta il presidente del consiglio. Dice il Cavaliere: “In assoluto [sono] il maggior perseguitato dalla magistratura in tutte le epoche, in tutta la storia degli uomini in tutto il mondo. [Sono stato] sottoposto a 106 processi, tutti finiti con assoluzioni e due prescrizioni” (10 ottobre 2009).

Nello stesso giorno, Marina Berlusconi ridimensiona l’iperbole paterna: “Mio padre tra processi e indagini è stato chiamato in causa 26 volte. Ma a suo carico non c’è una sola, dico una sola, condanna. E se, come si dice, bastano tre indizi per fare una prova, non le sembra che 26 accuse cadute nel nulla siano la prova provata di una persecuzione?” (Corriere, 10 ottobre).

Qualche giorno dopo, Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, pompa il computo ancora più verso l’alto: “I processi contro Berlusconi sono 109” (Porta a porta, 15 ottobre).

Lo rintuzza addirittura Bruno Vespa che avalla i numeri di Marina: “Non esageriamo, i processi sono 26”.

Ventisei, centosei o centonove, e quante assoluzioni?

In realtà, i processi affrontati dal Cavaliere come imputato sono sedici.

Quattro sono ancora in corso: corruzione in atti giudiziari per l’affare Mills; istigazione alla corruzione di un paio di senatori (la procura di Roma ha chiesto l’archiviazione); fondi neri per i diritti tv Mediaset (in dibattimento a Milano); appropriazione indebita nell’affare Mediatrade (il pm si prepara a chiudere le indagini).

Nei dodici processi già conclusi, in soltanto tre casi le sentenze sono state di assoluzione. In un’occasione con formula piena per l’affare “Sme-Ariosto/1” (la corruzione dei giudici di Roma). Due volte con la formula dubitativa del comma 2 dell’art. 530 del Codice di procedura penale che assorbe la vecchia insufficienza di prove: i fondi neri “Medusa” e le tangenti alla Guardia di Finanza, dove il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione; dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per “insufficienza probatoria”.

Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal governo Berlusconi, l’imputato Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato”.

Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio).

Per cinque volte è salvo con le “attenuanti generiche” che (attenzione) si assegnano a chi è ritenuto responsabile del reato.

Per di più le “attenuanti generiche” gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: “All Iberian/1” (finanziamento illecito a Craxi); “caso Lentini”; “bilanci Fininvest 1988-’92”; “fondi neri nel consolidato Fininvest” (1500 miliardi); Mondadori (l’avvocato di Berlusconi, Cesare Previti, “compra” il giudice Metta, entrambi sono condannati).

È vero, l’inventario annoia ma qualcosa ci racconta.

Ci spiega che senza amnistie, riforme del codice (falso in bilancio) e della procedura (prescrizione) affatturate dal suo governo, Berlusconi sarebbe considerato un “delinquente abituale”.

Anche perché, se non avesse corrotto un testimone (David Mills, già condannato in appello, lo protegge dalla condanna in due processi), non avrebbe potuto godere delle “attenuanti generiche” che lo hanno reso “meritevole” della prescrizione che egli stesso, da presidente del consiglio, s’è riscritto e accorciato.

L’imbarazzante bilancio giudiziario non liquida un lamento che nella “narrativa” di Berlusconi è vitale: fino a quando nel 1994 non mi sono candidato al governo del Paese, la magistratura non mi ha indagato.

Se non si lasciano deperire i fatti, anche questo ossessivo soundbite non è altro che l’alchimia di un mago, pubblicità.

Berlusconi viene indagato per traffico di stupefacenti, undici anni prima della nascita di Forza Italia. Nel 1983 (l’accusa è archiviata).

È condannato in appello (e amnistiato) per falsa testimonianza nel 1989, venti anni fa.

Nel 1993 - un anno prima della sua prima candidatura al governo - la procura di Torino già indaga sul Milan e i pubblici ministeri di Milano sui bilanci di Publitalia.

Al di là di queste date, è documentato dagli atti giudiziari che Silvio Berlusconi e il gruppo Fininvest finiscono nei guai non per un assillo “politico” dei pubblici ministeri, ma per le confessioni di un ufficiale corrotto del Nucleo regionale di polizia tributaria di Milano.

Ammette che le “fiamme gialle” hanno intascato 230 milioni di lire per chiudere gli occhi nelle verifiche fiscali di Videotime (nel 1985), Mondadori (nel 1991), Mediolanum Vita (nel 1992), tutti controlli che precedono l’avventura politica dell’Egoarca.

Accidentale è anche la scoperta dei fondi esteri della Fininvest.

Vale la pena di ricordarlo. Uno dei prestanomi di Bettino Craxi, Giorgio Tradati, consegna a Di Pietro i tabulati del conto “Northern Holding”. Li gestisce per conto di Craxi. Sul conto affluisce, senza alcun precauzione, il denaro che il gotha dell’imprenditoria nazionale versa al leader socialista.

C’è una sola eccezione. Un triplice versamento non ha nome e firma.

Sono tre tranche da cinque miliardi di lire che un mittente, generoso e sconosciuto, invia nell’ottobre 1991 a Craxi.

“Fu Bettino a annunciarmi l’arrivo di quel versamento”, ricorda Tradati.

Le rogatorie permettono di accertare che i miliardi, “appoggiati” su “Northern Holding”, vengono dal conto “All Iberian” della Sbs di Lugano. Di chi è “All Iberian”?

Per mesi, i pubblici ministeri pestano acqua nel mortaio fino a quando un giovane praticante dello studio Carnelutti, un prestigioso studio legale milanese, confessa al pool di avere fatto per anni da prestanome per conto della Fininvest in società create dall’avvocato londinese David Mackenzie Mills.

Così hanno inizio le rogne che ancora oggi Berlusconi deve grattarsi.

Il caso, la fortuna, la sfortuna, fate voi.

Tirando quell’esile filo, saltano fuori 64 società off-shore del “gruppo B di Fininvest very secret”, create venti anni fa e alimentate prevalentemente con fondi provenienti dalla “Silvio Berlusconi Finanziaria”.

È in quell’arcipelago che si muovono le transazioni strategiche della Fininvest che, come documenterà la Kpmg, consentono a Berlusconi e al suo gruppo di “alterare le rappresentazioni di bilancio”; “esercitare un controllo con fiduciari in emittenti tv che le normative italiane estere non avrebbero permesso”; “detenere quote di partecipazione in società quotate senza informare la Consob e in società non quotate per interposta persona”; “erogare finanziamenti”; “effettuare pagamenti”; “intermediare tra società del gruppo l’acquisizione dei diritti televisivi”; “ricevere fondi da terzi per finanziare operazioni di Fininvest effettuate per conto di terzi”.

È il disvelamento non di un episodio illegale, ma di un metodo illegale di lavoro, dello schema imprenditoriale illecito che è a fondamento delle fortune di Silvio Berlusconi.

Per dirla tutta, e con il senno di poi, sedici processi per venire a capo di quel grumo di illegalità oggi appaiono addirittura un numero modesto.

Nel “group B very discreet della Fininvest” infatti si costituiscono fondi neri (quasi mille miliardi di lire). Transitano i 21 miliardi che rimunerano Bettino Craxi per l’approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi in Cct destinati alla corruzione del Parlamento che approva quella legge; la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le “fiamme gialle”); il controllo illegale dell’86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l’acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (gli consegnano la Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente.

E c’è altro che ancora non sappiamo e non sapremo?

Tutti i processi che Berlusconi ha affrontato e deve ancora affrontare nascono per caso non per un deliberato proposito.

Un finanziere che confessa, un giovane avvocato che si libera del peso che incupisce i suoi giorni consentono di mettere insieme indagine dopo indagine, ineluttabili per l’obbligatorietà dell’azione penale, una verità che il capo del governo non potrà mai ammettere: il suo successo è stato costruito con l’evasione fiscale, i bilanci truccati, la corruzione della politica, della Guardia di Finanza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

Per Berlusconi, la banalizzazione della sua storia giudiziaria, che egli traduce e confonde in guerra alla (o della) magistratura, non è il conflitto della politica contro l’esercizio abusivo del potere giudiziario, ma il disperato e personale tentativo di cancellare per sempre le tracce del passato e di un metodo inconfessabile.

Con quali tecniche Berlusconi ha combattuto, e ancora affronterà, questa contesa è un’altra storia.


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domenica 15 novembre 2009

Il precariato delle leggi.

Se davvero il processo diventerà “breve”, una causa civile lunga più di due anni per ciascun grado obbligherà lo Stato ad indennizzare le parti per il ritardo col quale la loro domanda di giustizia è stata evasa. Il decorso del biennio, cioè, non farà certo terminare la causa e non verrà meno il dovere di deciderla nel merito. Diversamente il cittadino non saprebbe a chi rivolgersi per far valere i propri diritti e sarebbe tentato di farsi ragione da sé. Infatti lo Stato annovera tra i suoi principali compiti proprio quello di far rispettare le leggi attraverso la giurisdizione.

Nella materia penale, invece, è previsto che, decorso il biennio, il processo si estingua e lo Stato rinunci a far valere la legge. Non è ammessa, cioè, la possibilità che il processo, sia pure in ritardo, sia portato a termine con l'applicazione della legge, magari accordando anche in tale ipotesi un indennizzo se il tempo impiegato è stato irragionevolmente lungo.

Il concetto alla base del bizzarro istituto della “prescrizione del processo” è quello che ravvisa nella punizione di un colpevole soltanto un potere dello Stato, alla stessa stregua di un diritto soggetto a decadenza, come se si trattasse di un qualsiasi affare privato. Trascura del tutto che la punizione dei colpevoli è uno dei principali doveri dello Stato di diritto. E se lo Stato ha un dovere, il decorso del tempo, determinato dalla sua inefficienza, non può certo liberarlo da questo fondamentale compito del quale è debitore verso la collettività.


La prescrizione del processo, cioè, realizza una rinuncia dello Stato all'esercizio della giurisdizione con la quale si esprime e si attua la sovranità, dato che non ha senso dettare le leggi se poi non se ne assicura il rispetto da parte di tutti i consociati.

Il concetto di fondo, appena delineato, era alla base di analogo disegno di legge presentato nel 2006 da alcuni parlamentari dello schieramento oggi all'opposizione (Legislatura 15º - Disegno di legge N. 878).

Non è qui in discussione, dunque, la “colorazione” politica di una simile idea, ma la sua tenuta logica e giuridica.

La contraddizione risalta se si considera il diverso istituto della prescrizione del reato, in base al quale dopo un certo tempo dalla sua commissione il reato si estingue se non è già stato accertato con sentenza definitiva. La ragione della prescrizione del reato è solitamente ravvisata nel rilievo che a distanza di molto tempo dalla commissione del reato si annulla l'interesse a punire il colpevole anche perché una pena eseguita troppo tempo dopo il reato non assolverebbe più alla sua funzione rieducativa. Il tempo necessario a prescrivere si calcola sempre dalla data di commissione del fatto e varia in funzione della gravità dei reati. In presenza di un reato non prescritto, quindi, è ancora “vivo” l'interesse (potere/dovere) dello Stato alla punizione del colpevole. La sovrapposizione della prescrizione cd. processuale, e cioè la previsione di termini differenziati per il compimento della prescrizione sostanziale rispetto a quella processuale, dà luogo ad una contraddizione logica evidente poiché, in una situazione data, non possono coesistere comandi di segno opposto, come quello che impone di punire il colpevole e quello che vieta di processarlo.
E' paradossale che s'imponga la ragionevole durata del processo con una norma irragionevole.

In definitiva può affermarsi che l'idea della “prescrizione processuale” altro non è se non un escamotage nominalistico per abbreviare indistintamente i termini di prescrizione dei reati, un maldestro maquillage col quale, anziché accorciare la durata dei processi, s'introduce il precariato di tutte le leggi penali incriminatrici, trasformate in norme “a tempo breve”.

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Perché il c.d. “lodo Alfano” era incostituzionale






di Marco Mambrini
(Studente di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca)





È ormai trascorso più di un mese da quando la Corte costituzionale, il 7 ottobre, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 (Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato) più conosciuta come “Lodo Alfano”.

Un mese, nell’arco del quale cittadini, giornalisti, bloggers, politici ed opinionisti di ogni sorta hanno avuto modo di parlare, raccontare, analizzare, esaltare, criticare la decisione della Consulta.

Alquanto singolare, tuttavia, è il fatto che questa attività si sia per lo più concentrata nell’arco delle prime due settimane; se è vero infatti, da un lato, che la decisione della Consulta ha avuto una rilevanza notevole nel panorama politico italiano, e come tale meritava tutta l’attenzione dei media, è altrettanto vero, dall’altro, che le “motivazioni” della decisione della Corte (e quindi la vera e propria sentenza, n. 262/2009) sono state depositate in Cancelleria solamente il 19 ottobre scorso, ovverosia poco più di qualche settimana fa.

Ci sarebbe insomma da chiedersi come mai tutti si siano lanciati in grandi discorsi (di critica o di elogio, a seconda dei casi) quando di tutto il ragionamento operato dalla Corte si sapeva soltanto che il “Lodo Alfano” era incostituzionale, e che tale illegittimità era dovuta ad un contrasto con gli articoli 3 (principio di uguaglianza) e 138 (procedimento per la revisione della Costituzione e per l’approvazione di leggi costituzionali).

Per quale motivo non appena è stata depositata la sentenza è calato il silenzio?

La risposta va purtroppo ricercata in due fattori: il primo, la incapacità dei media di compiere una seria lettura delle sentenze (di qualunque Corte o Tribunale esse siano) e riportarne i contenuti ai cittadini; il secondo, la crescente indifferenza degli Italiani verso quei valori di cui la Carta costituzionale è portatrice, accompagnata alla incapacità di valutare quegli stessi valori a prescindere dall’ideologia politica.

Va infatti rilevato come il popolo italiano sia abituato a vivere la politica, e tutto ciò che ad essa è direttamente o indirettamente connesso, quale una partita di calcio: tutta la questione relativa al “Lodo Alfano” è stata interpretata quale fosse un’importante derby, e la stessa decisione della Consulta quale un gol decisivo messo a segno dalla squadra dell’opposizione, per cui gioire se si tifa o si fa parte di questa squadra, o dannarsi (o meglio ancora dannare l’arbitro … ovviamente “toga rossa”, e quindi venduto) se si tifa o si fa parte della squadra di governo.

Eppure né il Palazzo della Consulta è un campo da gioco, né la decisione della Corte può essere accostata ad un mero risultato sportivo o politico.

Ciò che purtroppo molti italiani non hanno compreso, in tutta questa vicenda, è che se davvero una partita si è “giocata”, questa non ha avuto come antagoniste due fazioni politiche, bensì ha visto schierati da un lato (consapevole o meno) il popolo italiano tutto, la Costituzione ed i principi su cui questa si fonda, e dall’altro un ristretto gruppo di persone, convinte di poter abusare dei poteri che quello stesso popolo e quella stessa Carta hanno loro attribuito.

Un simile evento non può essere semplicisticamente considerato alla pari di una partita di calcio, o di una battaglia puramente politica, e come tale non può essere liquidato con analisi superficiali attinenti le sole conseguenze politiche del caso, o con inconsistenti critiche circa la imparzialità “dell’arbitro”.

Ecco allora che vi è un preciso dovere civico di noi tutti di andare oltre il semplice dispositivo della sentenza, e leggere quindi – e capire – le ragioni con cui la Corte è arrivata dire che il “Lodo Alfano” è incostituzionale.

Scopo di questo articolo è dunque quello di accompagnare quanti vorranno nella lettura dei punti principali della sentenza n. 262/2009, anche al fine di fornire maggiore coscienza circa quanto contenuto nella nostra Costituzione, e consentire così anche al lettore medio (non giurista) di effettuare autonomamente un, seppur minimo, controllo circa eventuali future scelte del legislatore in materia.

Il testo della legge censurata può essere letto a questo link e la sentenza della Corte Costituzionale a questo link.

Detto ciò, possiamo ora intraprendere la lettura della sentenza n. 262/2009, e lo facciamo con ordine, partendo dalla prima questione affrontata dalla Corte: la presunta violazione dell’art. 136 della Costituzione.

Tale articolo afferma che “quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.

Ciò che la Corte, in sostanza, si chiede, è se il legislatore abbia di fatto creato una norma (il “Lodo Alfano”) che è incostituzionale in partenza in quanto identica ad una precedente norma che è già stata espressamente dichiarata incostituzionale.

I più, infatti, saranno certamente a conoscenza del fatto che l’attuale Presidente del Consiglio, on. Silvio Berlusconi, già nel 2003 aveva tentato di sospendere i processi che lo vedevano imputato attraverso quello che era stato denominato “Lodo Schifani” (l. 20 giugno 2003, n. 140, concernente “Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato”), poi dichiarato incostituzionale con sentenza n. 24/2004.

La risposta che fornisce la Corte su questo punto è molto chiara: “perché vi sia violazione del giudicato costituzionale è necessario che una norma ripristini o preservi l’efficacia di una norma già dichiarata incostituzionale. Nel caso di specie, il legislatore ha introdotto una disposizione che non riproduce un’altra disposizione dichiarata incostituzionale, né fa a quest’ultima rinvio. La disposizione presenta, invece, significative novità normative”.

Il legislatore, infatti, non è un completo sprovveduto, e di fronte alla bocciatura del “Lodo Schifani” si è basato sulla citata sentenza n. 24/2004 per creare un nuovo “Lodo”, compiendo quindi diverse correzioni rispetto al precedente.

Posto quindi che ci troviamo di fronte ad una norma diversa rispetto al precedente “Lodo”, va ora capito se le correzioni apportate sono tali da poter dire che la nuova norma sia costituzionalmente legittima; ed infatti, l’argomento immediatamente successivo di cui si occupa la Corte concerne la idoneità o meno della legge ordinaria, a disporre la sospensione del processo penale instaurato nei confronti delle alte cariche dello Stato.

Va infatti precisato che il legislatore, avendo a disposizione due strumenti, la legge ordinaria e la legge costituzionale, ha optato per la prima: la Consulta si chiede allora se tale alternativa fosse effettivamente esistente, o se invece il legislatore avrebbe necessariamente dovuto disciplinare la materia attraverso una legge costituzionale.

La differenza tra le due tipologie di legge, che potrebbe apparire al lettore come puramente terminologica, risulta invece molto concreta se si considerano le differenti maggioranze necessarie per approvare una legge ordinaria (di cui agli artt. 70 ss. Cost.) ed una legge costituzionale (di cui all’art. 138 Cost.), oltre al fatto che una legge costituzionale si colloca nella medesima posizione gerarchica della Costituzione, ed ha quindi una “forza” maggiore rispetto alla legge ordinaria.

Il lettore deve infatti tenere in considerazione che al fine di approvare una legge ordinaria è semplicemente richiesta l’approvazione della stessa, a maggioranza semplice, da parte sia della Camera dei Deputati che del Senato della Repubblica; ben diverso, invece, è il procedimento di approvazione di una legge costituzionale, la quale, proprio in ragione del fatto che la sua forza è uguale a quella Costituzione, richiede ben due deliberazioni distanziate tra loro di almeno tre mesi da parte di ciascuna Camera (ossia due deliberazioni da parte della Camera e due da parte del Senato), esigendo inoltre nella seconda votazione, sia di Camera che di Senato, la maggioranza assoluta dei componenti; ma non solo, in quanto a meno che nella seconda votazione non si raggiunga la maggioranza di addirittura i due terzi dei componenti di ciascuna Camera, vi è la possibilità per cinquecentomila elettori, cinque Consigli regionali o un quinto dei membri di una delle due Camere, di far precedere l’entrata in vigore della norma costituzionale da un referendum popolare (esattamente come avvenuto per il referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006).

Si noti che la particolare procedura per l’approvazione delle leggi costituzionali è volta a far sì che la Costituzione possa essere modificata o integrata solo laddove ciò trovi largo consenso tra i cittadini: è questa una garanzia che fa sì che la Costituzione venga detta rigida, e che pertanto non sia modificabile, integrabile o addirittura abrogabile da una semplice legge ordinaria, la quale, come già segnalato, è fonte subordinata alla Costituzione, e come tale non può contenere disposizioni con questa contrastanti.

Chiarita, a grandi linee, la differenza tra legge costituzionale ed ordinaria, va innanzitutto detto che molti, tra politici e giornalisti, hanno sin da subito affermato che la Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 24/2004, avesse implicitamente accolto la tesi secondo cui una norma quale il “Lodo Schifani” o il “Lodo Alfano” potrebbe benissimo essere una legge ordinaria.

Questa è anche la tesi della difesa; scrive infatti la Corte: “La difesa della parte privata e la difesa erariale deducono […] che questioni sostanzialmente identiche a quelle riferite all’art. 138 Cost. ed oggetto dei presenti giudizi di costituzionalità sono state già scrutinate e dichiarate non fondate da questa Corte con la sentenza n. 24 del 2004, riguardante l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, del tutto analogo, sul punto, al censurato art. 1 della legge n. 124 del 2008”.

La Consulta, tuttavia, respinge con forza le illazioni circa un suo implicito pronunciamento in favore dell’idoneità della legge ordinaria, ed afferma: “è indubbio che la Corte non si è pronunciata sul punto. La sentenza n. 24 del 2004, infatti, non esamina in alcun passo la questione dell’idoneità della legge ordinaria ad introdurre la suddetta sospensione processuale. In secondo luogo, non si può ritenere che tale sentenza contenga un giudicato implicito sul punto. Ciò perché, quando si è in presenza di questioni tra loro autonome per l’insussistenza di un nesso di pregiudizialità, rientra nei poteri di questa Corte stabilire, anche per economia di giudizio, l’ordine con cui affrontarle nella sentenza e dichiarare assorbite le altre”.

Sebbene questo punto possa sembrare di poco interesse, va detto che sono ancora in molti, tra opinionisti e politici, ad affermare che la Corte costituzionale “ha smentito se stessa”; cosa che invece, come il lettore può evincere dalle parole stesse della Consulta, non risulta assolutamente essere vera.

Accertato dunque che con la sentenza sul “Lodo Schifani” la Corte costituzionale non si era espressa circa l’idoneità o meno di una legge ordinaria per poter prevedere sospensioni dei processi penali per le alte cariche dello Stato, il punto va ora chiarito.

A tal proposito va capito se tutte le prerogative (o immunità in senso lato) di organi costituzionali devono essere stabilite con norme di rango costituzionale.

Va innanzitutto chiarito, con parole semplici, cos’è una prerogativa.

La prerogativa è un istituto, potremmo dire uno strumento, diretto a garantire e tutelare lo svolgimento delle funzioni degli organi costituzionali attraverso la protezione dei titolari delle cariche ad essi connesse; si tratta di specifiche protezioni delle persone munite di status costituzionali, tali da sottrarre queste persone all’applicazione delle regole ordinarie al fine di garantire l’esercizio della loro importante funzione, e dunque derogatorie rispetto al principio di uguaglianza dei cittadini.

A questo punto qualche lettore potrebbe sobbalzare sulla sedia e dire: ma come, io sapevo che la Corte costituzionale ha bocciato il “Lodo Alfano” perché vìola il principio di uguaglianza, e adesso leggo qui che deroghe a questo principio sono possibili?!

Ebbene sì, deroghe al principio di uguaglianza sono possibili, nonché previste dalla Costituzione stessa (si veda, a titolo d’esempio, l’art. 90 Cost.); ma attenzione: come la stessa Corte afferma, le prerogative previste dalla Costituzione sono “frutto di un particolare bilanciamento e assetto di interessi costituzionali”; sono cioè necessarie, “fisiologiche” dice la Corte, al buon funzionamento dello Stato.

Ma la domanda è: può il legislatore con legge ordinaria prevedere nuove prerogative o anche semplicemente estendere quelle già esistenti?

La risposta che dà la Corte è negativa: “il legislatore ordinario, in tema di prerogative (e cioè di immunità intese in senso ampio), può intervenire solo per attuare […] il dettato costituzionale, essendogli preclusa ogni eventuale integrazione o estensione di tale dettato”.

Dunque le prerogative di organi aventi rilievo costituzionale non possono essere introdotte con legge ordinaria.

È ora però necessario capire se il “Lodo Alfano” costituisce o meno una prerogativa.

Posto che la ratio, ovverosia lo scopo, della norma è quella di proteggere le funzioni proprie dei titolari di alcuni organi costituzionali (per un approfondimento su questo aspetto si veda il lungo punto 7.3.2.1 delle considerazioni in diritto, qui non riportato poiché di facile lettura e comprensione), resta da accertare se la sospensione disciplinata dal “Lodo” deroghi al principio di uguaglianza creando una disparità di trattamento, la quale, come abbiamo poc’anzi visto, è l’ulteriore caratteristica delle prerogative.

La risposta della Corte costituzionale non può che essere, anche su questo punto, affermativa. Ciò in considerazione del fatto che il “Lodo Alfano”, dice la Corte, “si applica solo a favore dei titolari di quattro alte cariche dello Stato, con riferimento ai processi instaurati nei loro confronti, per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi e, in particolare, ai reati extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica”.

Ma la Corte va oltre. La sentenza, infatti, non parla solo di “evidente disparità di trattamento delle alte cariche rispetto a tutti gli altri cittadini che, pure, svolgono attività che la Costituzione considera parimenti impegnative e doverose”: la violazione del principio di uguaglianza è ravvisata anche con specifico riferimento alle alte cariche dello Stato prese in considerazione dal “Lodo”, ossia, lo ricordo, il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Presidente della Camera ed il Presidente del Senato.

Tale violazione è dovuta da un lato al fatto che le cariche in questione sono tra loro disomogenee (sia per fonti di investitura che per natura delle loro funzioni), e quindi non risulta giustificata una loro parità di trattamento quanto alle prerogative; dall’altro, non è giustificata nemmeno la disparità di trattamento tra i Presidenti e i componenti dei rispettivi organi costituzionali, e ciò sia dal punto di vista delle immunità (Presidente del Consiglio e ministri sono indistintamente soggetti all’art. 96 Cost., così come Presidenti delle Camere e parlamentari sono soggetti alla disciplina uniforme dell’art. 68), sia dal punto di vista delle funzioni loro assegnate: la Costituzione attribuisce “rispettivamente, alle Camere e al Governo, e non ai loro Presidenti, la funzione legislativa (art. 70 Cost.) e la funzione di indirizzo politico ed amministrativo (art. 95 Cost.). Non è, infatti, configurabile una preminenza del Presidente del Consiglio dei ministri rispetto ai ministri, perché egli non è il solo titolare della funzione di indirizzo del Governo, ma si limita a mantenerne l’unità, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri e ricopre, perciò, una posizione tradizionalmente definita di primus inter pares”.

Detto ciò, si capisce molto bene come nel “Lodo Alfano” sussistano “entrambi i requisiti propri delle prerogative costituzionali, con conseguente inidoneità della legge ordinaria” ad attribuire alle suddette alte cariche “un eccezionale ed innovativo status protettivo, che non è desumibile dalle norme costituzionali sulle prerogative e che, pertanto, è privo di copertura costituzionale”.

Ecco dunque spiegato il motivo per il quale la Corte ha ravvisato l’illegittimità costituzionale del “Lodo” proprio per la violazione del combinato disposto degli articoli 3 e 138 della Costituzione.




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Perché lo “scudo fiscale” favorisce il riciclaggio





di Roberto Scarpinato
(Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo)





da Il Fatto Quotidiano del 15 novembre 2009


Per comprendere le falle aperte dal recente scudo fiscale nel sistema di antiriciclaggio italiano, è bene avere presente il contesto in cui viene a incidere.

Uno dei punti cardine della legislazione antiriciclaggio è l’obbligo imposto a tutti gli intermediari finanziari e ai professionisti di segnalare le operazioni sospette all’Uif (Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia), quando si hanno motivi ragionevoli per sospettare che siano in corso operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo.

La Banca d’Italia elabora, aggiornandoli continuamente, gli indici di anomalia ai quali gli operatori finanziari devono attenersi nel valutare la natura sospetta di un’operazione.

Taluni indicatori vengono inseriti anche nei sistemi informatici delle banche, in modo da attivare un rilevamento automatico delle operazioni sospette.

Ove necessario, la Banca d’Italia può disporre la sospensione per cinque giorni delle operazioni sospette segnalate, in modo da consentire alla magistratura, prontamente allertata, di intervenire con tempestività.

L’esperienza ha dimostrato come nella prassi operativa tale sistema sia carente, soprattutto nelle regioni meridionali, a causa dell’inquietante infiltrazione della criminalità mafiosa in vari punti nel circuito bancario.

In alcuni casi è stato accertato che funzionari bancari avevano omesso di segnalare le operazioni sospette, perché complici o intimiditi.

In altri è stato accertato che avevano addirittura manipolato il sistema informatico di rilevazione automatica, cancellando le tracce delle operazioni segnalate.

Pur con tali limiti, quando le segnalazioni sono state effettuate, si sono spesso rivelate preziose per dare corso a indagini che si sono concluse con l’arresto di numerosi criminali e la confisca di ingenti capitali illegali.

In questo difficile contesto, il recente scudo fiscale ha in parte cancellato e in parte affievolito l’obbligo di segnalare le operazioni sospette, rendendo così cieco – o gravemente ipovedente – il sistema di rilevamento dei possibili casi di riciclaggio.

Infatti l’art. 13 bis, comma 3, del D.L. n. 78 del 2009 ha disposto che non si applica l’obbligo della segnalazione delle operazioni sospette per tutti i casi i cui i capitali rimpatriati o regolarizzati derivino da una serie di reati sottostanti che vengono estinti dallo scudo fiscale: i reati tributari di omessa dichiarazione dei redditi o di dichiarazione fraudolenta e infedele.

Vengono inoltre estinti una lunga serie di reati quando siano stati commessi per eseguire od occultare i reati tributari, ovvero per conseguirne il profitto: alcuni reati di falso previsti dal codice penale (articoli 482, 483, 484, 485, 489, 490, 491 bis e 492), di soppressione, distruzione e occultamento di atti veri, nonché dei reati di false comunicazioni sociali previste dal codice civile (articoli 2621 e 2622).

A seguito di tale normazione e del regime di invisibilità assicurato ai capitali ‘scudati’, si è venuta a determinare per il vastissimo popolo degli imprenditori collusi l’opportunità di fare rientrare dall’estero capitali sporchi dei loro soci mafiosi occulti, spacciandoli falsamente come frutto di evasione fiscale per poi immetterli nel circuito produttivo.

Si è aperta anche la possibilità di impiegare nell’attività economica capitali illegali in realtà detenuti in Italia, che possono essere fatti figurare come rientrati dall’estero.

A tal fine è sufficiente infatti limitarsi a inviare per via telematica una semplice dichiarazione di rientro all’agenzia delle Dogane, senza alcuna possibilità di serio controllo, o ricorrere ad altri trucchi elementari.

In una fase storica quale quella attuale, nella quale le banche hanno chiuso i rubinetti del credito e migliaia di imprese operanti nella legalità sono boccheggianti, è dunque elevato il rischio che le imprese a partecipazione mafiosa, rifornite di capitali illegali freschi a costo penale zero, vengano a trovarsi in grado di sgominare la concorrenza, creando o irrobustendo indebite posizioni di oligopolio, con buona pace di tutte le prediche sulle virtù della libera concorrenza.

Si è obiettato che le mafie non sarebbero interessate a fare rientrare capitali dall’estero. Ma l’obiezione non tiene conto della realtà dell’economia mafiosa nazionale, della possibilità di spacciare capitali detenuti in Italia come esteri, del riciclaggio operato in Italia dalle mafie straniere che da anni investono capitali sporchi in varie attività, nonché della concreta esperienza del precedente scudo fiscale.

Per limitarci solo alla dinamiche di riciclaggio delle mafie nazionali, va infatti considerato che le imprese a partecipazione mafiosa si trovano sempre esposte al rischio di dovere spiegare, se individuate, l’origine dei loro capitali.

Attraverso un’accurata analisi dei libri contabili, la magistratura può essere in grado di dimostrare che a un certo punto della vita dell’azienda sono stati immessi capitali che non trovano giustificazione nei profitti di impresa e nei redditi personali dei soci.

Grazie a tale complessa e difficile attività di indagine, che si avvale spesso di perizie contabili, è stato possibile confiscare centinaia di imprese appartenenti ad imprenditori insospettabili, dotati di solida reputazione nel mercato.

Avvalendosi dello scudo fiscale, l’imprenditore colluso avrà ora una duplice arma per paralizzare le indagini.

In primo luogo potrà opporre lo scudo fiscale, sostenendo che i nuovi capitali, immessi nel circuito produttivo, sono frutto di evasione fiscale già sanata.

In secondo luogo, ai magistrati che volessero comunque verificare, analizzando i libri contabili, se effettivamente i capitali scudati siano compatibili con i redditi di impresa e con il volume di affari, potrà opporre che ha distrutto i libri contabili e le scritture societarie.

Naturalmente a costo penale zero, perché – come ho accennato prima – lo scudo estingue persino il reato (punito sino a 5 anni di reclusione) di occultamento o distruzione di scritture contabili per evadere le imposte sui redditi e l’Iva, o per impedire la ricostruzione dei redditi e dei volumi di affari.

Quello citato è solo uno tra i tanti esempi di una casistica quanto mai ricca di opportunità di riciclaggio apertesi con lo scudo fiscale, ma, per ovvi motivi, non pare sia il caso di proseguire con altre esemplificazioni.

Come se non bastasse avere eliminato l’obbligo di segnalare le operazioni sospette in tutti i casi sopra specificati, si è ritenuto di dover affievolire tale obbligo anche nei residui casi in cui è stato mantenuto in vita.

Si tratta dei casi nei quali l’operatore bancario ha il sospetto che i capitali scudati non siano frutto di reati tributari, ma di altri ben più gravi reati, come estorsioni, traffico di stupefacenti e via elencando.

Infatti, con la circolare emanata dall’Agenzia delle Entrate contenente le istruzioni per lo scudo fiscale, si è precisato testualmente: “Si ricorda che gli intermediari non sono tenuti a verificare la congruità delle informazioni contenute nelle dichiarazioni riservate, relativamente agli importi delle attività oggetto di rimpatrio, né la sussistenza dei requisiti oggettivi richiesti dalla norma per accedere alle operazioni di emersione delle attività detenute all’estero, né sono obbligati a verificare i criteri utilizzati dal soggetto interessato per valorizzare le medesime attività nella dichiarazione stessa”.

Per coloro che non avessero familiarità con il giuridichese, in sostanza è stato ricordato agli intermediari che l’entità della somma scudata non costituisce di per sé motivo di sospetto.

La segnalazione dovrà dunque essere effettuata solo se gli importi risultassero notevolmente sproporzionati rispetto al profilo economico-professionale del soggetto che intende accedere allo scudo fiscale (per esempio un artigiano a basso reddito che fa rientrare un milione di euro) o se sussistono altri e diversi motivi di sospetto. Si è così aperta un’altra significativa falla.

Infatti le operazioni relative allo scudo possono essere effettuate anche allo sportello da persone che non sono clienti delle banche e di cui esse ignorano pertanto il profilo economico.

Poiché l’entità della somma scudata non è da considerarsi motivo di sospetto e poiché non è possibile valutare se sussiste la sproporzione di cui si è detto, si è in sostanza conseguito l’effetto di depotenziare in modo indiscriminato e incontrollato l’obbligo della segnalazione per tutte le operazioni effettuate allo sportello anche per cifre rilevantissime. Infine, per chiudere il cerchio, va considerato che la legge ha stabilito che le operazioni in questione sono coperte da assoluta riservatezza e non devono essere comunicate all’Amministrazione finanziaria; sicché neppure per tale via è possibile rilevare, a posteriori e in tempo utile, l’incongruità tra gli importi scudati ed il profilo economico del soggetto che ha fatto rientrare capitali dall’estero.

Ci si chiede perché mai non si è ritenuto di dovere coniugare le esigenze di liquidità di cassa dello Stato con l’esigenza di impedire l’indebita strumentalizzazione delle norme sullo scudo fiscale per riciclare capitali sporchi che, una volta immessi nel circuito economico, alterano la regole del libero mercato a discapito degli imprenditori onesti, già fortemente penalizzati dalla crisi economica.

Eppure sarebbe stato sufficiente garantire la tracciabilità delle operazioni scudate e la loro visibilità agli organi competenti (Amministrazione finanziaria e Magistratura), mantenendo inoltre fermo l’obbligo di segnalare tutte le operazioni sospette senza eccezioni di sorta.

I cittadini intenzionati a regolarizzare capitali frutto di evasione fiscale non avrebbero avuto nulla da temere, in quanto lo Stato garantisce loro l’immunità fiscale e penale.

Gli altri – i mafiosi ed criminali – avrebbero capito che “non era aria”.

Resta infine da chiedersi se l’abolizione dell’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette previsto dallo scudo fiscale non costituisca una violazione della direttiva europea anti-riciclaggio (n. 60 del 2005) che ha imposto agli stati membri della Comunità europea di prevedere nei loro ordinamenti l’obbligo della segnalazione di tutte le operazioni sospette.

Il decreto legislativo antiriciclaggio italiano n. 231 del 2007 che prevede tale obbligo, è stato approvato proprio per dare esecuzione alla suddetta direttiva europea.

Secondo la giurisprudenza costante della Corte di giustizia europea, non solo qualsiasi giudice, ma – come è stato osservato – anche qualsiasi autorità pubblica è tenuta a disapplicare una norma interna (e tanto più una semplice circolare) contraria alla disposizione di una direttiva europea, applicando invece quest’ultima.

Tra le pubbliche autorità rientra la Banca d’Italia.

Sarebbe sperare troppo se almeno la Banca d’Italia, deputata a indicare agli intermediari finanziari i criteri ai quali attenersi per la segnalazione delle operazioni sospette, trovasse il modo di ricordare che la normativa europea è sovraordinata a quella nazionale e non prevede deroghe all’obbligo di segnalare le operazioni sospette?



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