di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)
Cari amici del blog,
noi non ci conosciamo eppure ciò che ci unisce è talora più forte di ciò che accomuna tante persone che si frequentano abitualmente: ci lega infatti una forte passione civile (che, per fortuna, anima anche molti altri che ignorano o comunque non frequentano il nostro blog) la quale continuamente ci sprona, ci interroga, ci anima.
Ho così pensato di inviare a tutti alcuni pensieri che possano portare un qualche contributo ad una meditazione personale sulla giustizia e sulla politica.
E’, per dir così, la mia “lettera di Natale” (definirlo un regalo, mi sembrerebbe in verità eccessivo se non addirittura presuntuoso).
Credo infatti che il Natale, se non vuol essere ridotto al trionfo della paccottiglia, debba essere comunque un momento di meditazione forte: per i credenti essa avrà ad oggetto il Signore che viene; per i laici i tempi che vengono e i compiti che ci attendono. Per gli uni e per gli altri un tempo prezioso di meditazione sulla realtà e di rivisitazione delle proprie idee.
Credo doveroso rimarcare in premessa che (come sarà più chiaro nel seguito del discorso) le argomentazioni che seguono in nessun modo intendono adempiere alla funzione di grillo parlante o di maître à penser: sono solo una delle possibili forme, tra le tante, che può assumere l’impegno politico.
Nessuno è perfetto – tanto meno chi scrive – e dunque bisogna capire che le critiche non sono affatto un presupponente ergersi sugli altri, ma un contributo al corretto funzionamento del sistema democratico, nel quale il “controllo” non assume solo forme istituzionali (magistratura, opposizione parlamentare, etc.), ma anche (ancor di più?) le forme di una pubblica opinione informata e non manipolata.
Dopo questa lunga premessa, vengo al punto, anzi ai punti.
Sempre più spesso vedo qua e là accendersi barlumi di disperazione: a che serve questo nostro parlare? Come possiamo illuderci di cambiare totalmente il sistema?
Rispondo subito che, come diceva Kafka (mi sembra nel “Cacciator Gracco”): “la guarigione è una malattia che si cura a letto”.
Chiunque si illude di poter stravolgere la natura “malata”/“ambigua” delle umane cose, puntando a una piena reintegrazione tutta buona e santa, è destinato a finire male: ha, per l’appunto, una malattia che va curata a letto.
Egli è destinato, sul piano personale, a finire come il dott. Jekil, perché è quella la fine di chi, per dirla con Jung, non integra la sua “ombra”; sul piano politico poi, non potendo che coltivare il “messianesimo politico” o si sfiancherà in attesa del mondo nuovo o seminerà lutti e dolori al fine di costruire il nuovo Eldorado.
Credo più saggio battere un’altra strada: quella, per la precisione, che pensa occorra puntare a un mondo vivibile e – così come accade per le persone il cui impegno etico, restringendo gli spazi ai loro “vizi”, le rende frequentabili – occorra impegnarsi politicamente, poiché questo impegno, restringendo gli spazi all’“ombra” della società, faccia sì che il mondo non sia né perfetto né diabolico, ma, per l’appunto, vivibile.
Dunque nessuna disperazione per quel che capita nel 2008, perché i nostri padri, nel 1938, non è che se la spassassero bellamente e neppure i nostri trisavoli dovevano vivere una vita dorata se è vero, come è vero, che nel 1838 il nostro Gioacchino Belli andava scrivendo:
C’era una volta un re che dal palazzo
manno’ fora a li popoli ‘n’editto:
io so’ io e voi nun sete un cazzo,
sori vassalli buggiaroni e zitto.
Nulla di nuovo sotto il sole: sempre la solita fatica di fare da contrappeso al potere che vuole mandare ai vassalli i suoi editti.
La democrazia non è una stagione necessaria e duratura: può anche non arrivare e può addirittura dissolversi dopo breve tempo.
Non dunque miracoli, ma impegno quotidiano tenace e apparentemente minimale per restringere gli spazi all’ombra.
Già, ma, concretamente, cosa fare?
Vorrei partire dall’art. 49 della nostra Costituzione, il quale recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Ho l’impressione che questo articolo tradisca una sopravvalutazione dell’attività dei partiti da parte dei padri costituenti.
O meglio una sottovalutazione delle conseguenze che detta attività avrebbe comportato.
Mi spiego. Chi usciva dall’epoca fascista (col partito unico e tutto quel che ne seguiva o che precedeva) era naturalmente portato a identificare partiti con metodo democratico e metodo democratico con determinazione della vita nazionale, sì che, saltando il medio, ne conseguiva che i partiti erano chiamati a determinare la politica nazionale, nel che propriamente consisteva il metodo democratico.
Il che è profondamente vero o profondamente falso, a seconda che si dia per vera o per falsa un’ulteriore affermazione: che il nocciolo della democrazia siano i controlli del potere così come in precedenza ho indicato.
Comunque stessero le cose nella testa dei padri costituenti, fatto è che, nei fatti, la seconda metà del secolo scorso ha visto tutelato più il potere dei partiti che il sistema dei controlli.
Meno che meno si sono adottati i “contrappesi” necessari per bilanciare i meccanismi degenerativi che la spasmodica ricerca del consenso ha necessariamente indotto.
Al grido di “voto non olet”, tutto è stato vissuto nell’ottica della competizione elettorale e tutto, in nome di quest’ultima, è stato ritenuto lecito.
Ne è così derivato non solo che, se non tutti, certo troppi, abbiano cercato di “appartenere” a un partito (per riceverne ombrello protettivo e comunque utilità), ma che il governo più che “guidare” il popolo ha finito per esserne guidato per il tramite del dio-sondaggio.
Lo scambio avviene sulla base della seguente regola: “voi date il potere a me, io do ciò che chiedete a me”.
E’ del tutto ovvio che, essendo l’animo umano quel che è, il bene comune è andato rapidamente a farsi fottere e la stella polare è divenuto il tornaconto dei più.
Ora se questi “più” fossero tutti malvagi, ci sarebbe ben poco da fare (tranne che un’opera educativa difficilissima e dai tempi assai lunghi).
Ma il fatto è che molti tra i più sono manipolati, disinformati, illusi.
Dunque è necessario aprire loro gli occhi non solo e non tanto sulle trame dei “cattivi”, quanto, assai più, sulla complessità dei problemi, sulla “utilità” dei valori, sulla truffaldinità di molti rimedi propalati come miracolosi, e via dicendo.
Chi può compiere questa opera certamente culturale, ma, altrettanto certamente, squisitamente politica?
Non certo chi “appartiene”. Ma qui corre aprire una breve parentesi.
Se è vero che i partiti non sono la panacea, è anche vero che essi sono necessari per il convogliamento del consenso.
E se sono necessari debbono, almeno in certa misura, creare appartenenza e prospettarsi come i migliori, senza macchia e senza paura.
Bisogna accettare che tutto ciò, entro certi limiti, avvenga.
Non sto negando ciò che sopra ho affermato: sto dicendo che lo strumento-partito, per necessario che sia, ha i suoi limiti (che occorre accettare), i quali, se non contenuti, tendono a causare una degenerazione del partito (che occorre combattere risolutamente).
Non bisogna dunque combattere i “partiti” in quanto tali, ma mettere in moto delle tendenze che impediscano non già il loro limite (che esiste necessariamente), ma la loro degenerazione (che ben può essere evitata).
Chiusa la parentesi, torno ad affermare che il contrappeso alla degenerazione è l’impegno di coloro che individuano la loro politica in un impegno senza appartenenza, libero da interessi di parte, pronto alla critica (ma anche all’autocritica).
Mentre chi sceglie (legittimamente e realisticamente) l’impegno nei partiti, realizza il suo scopo con la conquista del consenso e l’esercizio del potere, color che scelgono (altrettanto legittimamente e realisticamente) l’impegno nelle forme della non-appartenenza, realizzano il loro scopo per ciò solo che non appartengono, che rinunziano all’esercizio del potere per poterne liberamente criticare le distorsioni, le ambiguità, le degenerazioni, senza pretesa di infallibilità, ma anche sine spe nec metu.
Cari amici del blog, non chiedetevi dove dovrete mai approdare: siete già arrivati.
Pensate liberamente, riflettete su ciò che fareste se foste carichi di responsabilità, e, come avete liberamente pensato, altrettanto liberamente parlate e diffondete il vostro pensiero e le vostre critiche.
Nel blog o altrove poco conta: non siamo un partito, ma se mai una “rete”.
E’, il nostro, un sogno? Può darsi, ma, come diceva, Magritte, “il mio sogno vi sveglierà”.
Credo che tutti noi si sia molto più realisti di coloro che, proclamandosi realisticissimi e concretissimi, privi di ogni utopia, ci hanno condotto in un mondo invivibile economicamente, ambientalisticamente e moralmente.
Costoro non hanno titolo alcuno per criticare i nostri sogni. Che comincino a sognare per contrapporre, come è giusto, i loro sogni, e non i loro interessi, al nostro discorrere. Che accettino in pace santa le critiche nelle quali si esercita il nostro modo di fare politica.
Già le critiche. Se mai c’è un segno dei tempi, questo è il fastidio e l’irrisione che vengono riservati a chi osa criticare il potere: dal governo all’A.N.M. (se è lecito paragonare le piccole cose alle grandi) chi critica è un comunista, un utopista (leggi: è un fesso), uno squilibrato, uno sfascista, etc etc.
La storia è vecchia: «Rispose loro quell’uomo: “Proprio questo è strano che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi?” (…) Gli replicarono: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?” E lo cacciarono fuori» (Vangelo di Giovanni).
Il cieco nato non voleva insegnare nulla a nessuno, anzi per verità non capiva neppure ciò che gli era accaduto. Ma non sapeva mentire e diceva quel che pensava.
Ciò era intollerabile per i farisei costituiti in potere.
Il grado di democraticità di un potere lo si ricava dalla sorte riservata alle critiche.
“Eppure mi ha aperto gli occhi” proclamava il cieco nato; “E pur si muove” ripeteva testardamente Galilei.
L’uno e l’altro proponevano al Potere la “loro” verità, ma questa non fu accolta.
Per “accogliere” qualcuno o qualcosa occorre non essere ingessato nel proprio interesse e accettare il limite altrui.
Se chi sarà oggetto delle nostre critiche non farà prevalere il suo interesse; se non ci sbatterà in faccia il suo “io son chi sono e mi s’ha da portare rispetto”; se, soprattutto, in nome del nostro disinteresse sarà benevolo nei confronti dei nostri limiti e dei nostri errori, vorrà dire che il nostro impegno produrrà un effetto ben maggiore di chi si illude di modificare “dal di dentro” la logica dell’appartenenza.
Se, al contrario, non saremo accolti, state sicuri che i nostri “eppure” faranno, alla lunga, assi più rumore di qualsiasi impegno partitico, perché, come dicevano i medievali, bonum est diffusivum sui: ciò che è bene è, per sua natura, destinato a diffondersi.