sabato 7 ottobre 2023

Il bue e l'asino.


di Nicola Saracino  - Magistrato 

Soltanto pochi anni fa la Corte Costituzionale (sent. n. 170/2018) aveva ribadito (perché già lo aveva detto con la sent. n. 224/2009) che è conforme alla Costituzione la legge che vieti l’iscrizione dei magistrati a partiti politici, o la loro partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici, anche perché è la stessa Costituzione (art. 98, comma 3) a demandare al legislatore di valutare se e come limitare quelle possibilità.

A voler esser precisi la Costituzione ha previsto espressamente solo la possibilità di vietare l’iscrizione del togato ad un partito politico, non anche di partecipare alla relativa attività. Ma una lettura non formalistica della disposizione costituzionale legittima l’estensione del divieto anche alla partecipazione alla vita di partito. 

La Consulta ha, quindi, ravvisato “… lo sfavore nei confronti di attività o comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura stabile, nonché manifesti all’opinione pubblica, con conseguente compromissione, oltre che dell’indipendenza e dell’imparzialità, anche della apparenza di queste ultime: sostanza e apparenza di principi posti alla base della fiducia di cui deve godere l’ordine giudiziario in una società democratica”. 

E come mai, vien da chiedersi, nonostante la lungimiranza del Costituente, siamo, per l’ennesima volta, al cospetto di una polemica innescata da un provvedimento giudiziario che si sospetta ispirato da motivazioni politiche avverse a quelle del Governo? Si noti, accuse lanciate ancor prima della diffusione di un video ritraente l’autore di quel provvedimento ad una manifestazione in favore dello sbarco di migranti. 

Sulla scia della vicenda catanese, dopo pochi giorni, s’è innestato anche un provvedimento col quale il tribunale di Firenze ha negato che la Tunisia sia uno stato “sicuro” ai fini del rimpatrio. 

Alcuni osservatori segnalano che il presidente del collegio fiorentino è un noto appartenente di Magistratura Democratica (una corrente di magistrati definita “di sinistra”) e che un altro giudice aveva rivestito in passato ruoli di alta amministrazione con governi politicamente antagonisti di quello attuale. 

Abbiamo quindi tre diversi elementi che si possono individuare come cause scatenanti del sospetto di parzialità del giudice.

Il primo è dato dalla condotta individuale del magistrato che ritenga di non tenere per sé i propri convincimenti ideologici (anche su singoli temi di rilevanza sociale) ma anzi li diffonda attraverso internet  o comunque non tema di partecipare a manifestazioni pubbliche e d’essere quindi riconosciuto. 

Il secondo consiste nella “appartenenza” del magistrato ad associazioni togate (le cd. “correnti”) che vengono riconosciute all’esterno per i loro tratti ideologici e politici, quando addirittura essi non siano pubblicamente rivendicati.  

Il terzo scaturisce dalla collaborazione del magistrato ad attività che non dovrebbero essergli proprie, come quelle di ausilio alla politica quando essa si fa “governo”. Sono assai numerosi i magistrati che abbandonano temporaneamente i propri compiti per andare ad aiutare il Governo di turno e ad ogni cambio di Governo vi è una transumanza di toghe sul tragitto che dalle aule di giustizia conduce agli uffici ministeriali e viceversa. Perché ogni Governo chiama “i suoi” magistrati di fiducia. 

Partendo dall’ultimo punto, il Governo in carica non fa eccezione e gli uffici ministeriali si sono riempiti di toghe “appartenenti” ad una corrente tradizionalmente classificata come conservatrice. Un magistrato è addirittura Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con funzioni di Segretario del Consiglio ed il Ministro della Giustizia è un magistrato in pensione che mai, quando era in attività, ha nascosto le proprie idee politiche sui temi della giustizia. 

Gli stessi osservatori che oggi, per così dire, fanno le pulci ai provvedimenti giudiziari sulla base della vita anteatta dei loro autori c’è da scommettere che non dubiteranno, un domani, dell’imparzialità dei togati che sono alle dipendenze dell’attuale governo e che torneranno ad esercitare la giurisdizione.  

Ecco la prima trave che la politica non ha voluto affrontare: vi è penuria di magistrati, gli organici sono largamente scoperti, i tribunali soffrono. 
Si abbia il coraggio - come peraltro suggerisce oggi l’avvocatura - di attingere i collaboratori in altri ranghi lasciando ai magistrati i propri compiti ed evitando di “colorarne” politicamente la futura attività giurisdizionale, perché è inevitabile che ciò avvenga. 

Le correnti, nate come associazioni professionali di magistrati, hanno nel tempo assunto una struttura analoga a quella dei partiti politici, sia pure nel microcosmo della gestione del potere togato. I magistrati italiani sono piuttosto democratici, votano moltissimo. Votano per scegliere i propri rappresentati “sindacali” a livello locale e poi a livello nazionale; votano, a livello locale, per eleggere i Consigli Giudiziari ed a livello nazionale per eleggere i componenti togati del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura). Il voto implica campagne elettorali, organizzazione sul territorio, un elettorato da curare e da premiare.
  
Cosa siano divenute le correnti è la storia che questo Blog racconta da oltre quindici anni. 

Anche in questo caso la nostra proposta di troncare la politicizzazione del CSM estraendone a sorte i candidati è stata snobbata dalla politica, di destra e di sinistra. 
E’ legittimo pensare, anzi, che sia proprio la politica a desiderare magistrati di destra e magistrati di sinistra. 

Infine, la manifestazione individuale da parte del togato delle proprie idee politiche (generali o su singoli temi) non può certo essere impedita invocando l’art. 98 della Costituzione che limita solo la partecipazione alla vita dei partiti politici. Né è ipotizzabile (e manco auspicabile) che il magistrato debba esser privo di valori politici, culturali, ideologici. L’apparenza di imparzialità dev’essere sempre salvaguardata in relazione ai processi nei quali il magistrato è chiamato a svolgere le sue funzioni, alle singole vicende sottoposte al suo esame. Nelle quali applicherà la legge secondo scienza e coscienza, con quel tanto di ineliminabile “filtro” dato dalla propria personale esperienza, sociale e professionale, dalla propria cultura, non soltanto giuridica. A contare dovranno essere solo gli argomenti addotti a sostegno della decisione che, in sede d’impugnazione, saranno cassati se sbagliati, non perché di destra o di sinistra. 

Perché se bastasse l’etichetta di magistrato “di destra” o “di sinistra” a comprometterne l’imparzialità e quindi la credibilità, sarebbe la politica (di destra e di sinistra), prima ancora della magistratura, a dover recitare un fragoroso mea culpa.

Il bue e l'asino, stavolta, hanno entrambi le corna.  








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