domenica 11 settembre 2011

Il carcere, tra previsioni normative e realtà




di Vito Pirrone
(Avvocato)






È principio giuridico assodato che la sanzione è la risposta della società alla trasgressione dell’ordinamento giuridico, che ogni società civile si dà per assicurarsi la pacifica convivenza.

È prioritario identificare quelle sanzioni che creino il giusto equilibrio sociale.

Nella nostra analisi partiamo dal presupposto secondo cui il momento penitenziario e quello sanzionatorio non sono estranei al processo, ma ne fanno parte, presupposto che ci pone in un’ottica ben determinata.

Infatti, se il momento sanzionatorio e quello penitenziario fanno parte del processo, ne consegue il coinvolgimento in prima persona degli avvocati e di tutti gli operatori del settore, e tutto ciò che accade va inquadrato in un clima di contraddittorio e di principio di legalità.

Purtroppo, dobbiamo notare dei paradossi del nostro sistema: l’art. 27 della Costituzione stabilisce il principio della pena finalizzata alla rieducazione e risocializzazione.

Nel nostro ordinamento la pena aspirerebbe al recupero del cittadino (con un percorso trattamentale).

Il carcere si dovrebbe porre come una esperienza provvisoria, che preluda al rientro nella società.

È noto che l’attuale condizione delle carceri italiane contraddice radicalmente l’intento della Carta fondamentale.

Basti considerare lo stato di sovraffollamento delle carceri: ogni struttura carceraria attualmente ospita una popolazione penitenziaria che risulta essere più del doppio della capienza massima per la singola struttura.

Una cella tipo (in un istituto, per esempio, come quello di Catania – Piazza Lanza) ospita dagli 8 ai 12 detenuti, il che contravviene assolutamente a quanto previsto dagli articoli 5 e 6 dell’ordinamento penitenziario in materia edilizia e sui luoghi di pernottamento e soggiorno.

Il sovraffollamento verosimilmente è dovuto ad una legislazione che favorisce sempre più i percorsi che dal sociale portano al penale.

Attualmente nelle nostre carceri è presente una popolazione in esubero (rispetto alla capienza massima) di ben 23.000 unità (!), dato ancora più allarmante se si considera la carenza di personale dell’amministrazione penitenziaria di circa 7.000 unità.

Analogo discorso può essere effettuato a proposito dell’articolo 13 dell’ordinamento penitenziario e della individuazione della pena, principio anch’esso completamente disatteso, dal momento che la distribuzione dei detenuti all’interno degli istituti penitenziari dovrebbe tenere conto della “tipizzazione” dei reati da essi commessi, laddove si registra invece un accorpamento di detenuti in un unico ambito che comprende dai mafiosi, ai primari, ai ragazzi che hanno compiuto uno scippo.

E, in assenza di qualsiasi altra forma di socializzazione, i detenuti trascorrono in cella più di 20 ore: il che evidentemente spiega l’abbrutimento che conseguentemente si produce.

Da un simile livello di sovraffollamento discende anche l’impossibilità di garantire il rispetto dei diritti umani più elementari.

Il detenuto vive in circa 2 mq..

L’Italia è stata condannata più volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio per la “non vivibilità” dei nostri istituti penitenziari, a fronte di circa 7 mq. stabiliti a livello europeo come spazio minimo sostenibile.

La Corte di Strasburgo ha evidenziato l’assenza di un piano di edilizia carceraria e ha stigmatizzato la politica penitenziaria italiana e l’assenza di opportune norme di depenalizzazione e misure alternative.

In una tale situazione, va evidenziato che i detenuti non svolgono alcuna attività e si trovano a vivere quella condizione che i sociologi (Wacquant) definiscono di “neutralizzazione dei corpi”, nel senso che i detenuti sono posteggiati in carcere nel modo peggiore. Wacquant sintetizza con lo slogan “dallo stato sociale allo stato penale”.

Altro dato allarmante, che caratterizza in modo drammatico la situazione penitenziaria, è quello dei suicidi.

Nel 2010 in Italia si sono verificati ben 67 suicidi in carcere di detenuti, ma, fanno riflettere, altresì, otto suicidi di personale penitenziario !

Nel 2011 già nel primo trimestre avevamo superato 12 suicidi (come si vede, purtroppo, è un dato che va in crescita); ci si dovrebbe chiedere: perché tanti suicidi ?

In tale contesto andrebbero anche considerati i casi di detenuti morti perché i soccorsi sono giunti troppo tardi !

In Sicilia, purtroppo, al detenuto viene negato il diritto alla salute; infatti, essendo la nostra regione a statuto speciale, avrebbe dovuto recepire il decreto legislativo 230/99 sul riordino della medicina penitenziaria, che trasferiva alle A.S.L. la competenza sanitaria all’interno delle strutture penitenziarie ed il passaggio della sanità penitenziaria al sistema sanitario nazionale.

In realtà, tale decreto non è stato recepito.

Ne consegue che la Sicilia è l’unica regione di Italia nelle cui carceri non c’è servizio sanitario. Sicchè, il vuoto.

Invero, il detenuto con la restrizione perde il diritto della libertà, ma non dovrebbero venire meno gli altri diritti personali costituzionalmente garantiti.

Il detenuto, allo stato, perde anche il diritto alla propria dignità.

Attualmente la situazione, in totale antitesi con il dettato costituzionale, porta ad un abbrutimento della persona umana (carcere = discarica sociale).

Si ritiene il carcere fuori dalla società ! Invero, il carcere è nella società, è parte della società.

Prevale la concezione per cui il carcere è un qualcosa che si pone al di fuori della “città”, al di fuori delle “mura”. Il carcere è dentro la città ed esiste un rapporto fondamentale tra questi due luoghi.

Si parla di sicurezza sociale, ma una vera sicurezza sociale non può prescindere da una politica trattamentale per il detenuto.

Si deve attuare un programma che segua il detenuto dal suo ingresso all’istituto di pena sino all’uscita ed al suo reinserimento sociale nella società.

Oggi il detenuto che esce dal carcere, proprio nel momento di maggiore debolezza e fragilità, viene abbandonato …. Nella bibbia (Deuteronomio capo 15) si prescrive: “… quando li libererete, non fateli andar via a mani vuote; gli regalerete pecore e capre, grano e vino; tutte cose che dovete alla benedizione del Signore”.

Le carceri ci fanno pensare alle città invisibili di Italo Calvino (ai bordi della città).

Il carcere rappresenta un indice del grado di civiltà di un paese.

Oggi la punizione prevale sul trattamento e il tempo del carcere diventa un tempo vuoto: di opportunità, di prospettive, di senso.

Spesso, più che una risposta penale sarebbero opportune politiche di prevenzione sociale.

Una riflessione sulle carceri si ritrova nel film “Il profeta” di Jacques Audiard, un film duro, non solo per le scene, ma realistico, il carcere è così, è duro.

Il film è una critica al sistema carcerario, Malik viene avvolto in modo implacabile dalla società criminale interna, che lo sfrutta e che lui impara a sfruttare.

Spesso c’è emotività nella scelta della carcerazione. Si sente dire, “ma la gente vuole sicurezza”. (Carcere sull’onda emotiva alla richiesta di sicurezza). Ma dall’attuale trattamento carcerario non viene sicurezza.

Una riflessione si impone, con obiettività e senza alcun preconcetto. Possiamo continuare a riempire le carceri senza fare un ragionamento sul senso della pena ?

Al carcere oggi vengono demandati compiti di contenimento di fenomeni socio-politici (immigrazione, tossicodipendenza, disoccupazione), fenomeni che meriterebbero ben altre attenzioni.

Il carcere deve essere usato solo come misura residuale.

Dalla situazione del carcere si vede una incapacità di andare al di là della contingenza.

Bauman ci ammonisce, denunziando che la società non sta gestendo questi problemi, li sta accantonando utilizzando il sistema penale.

Carcere come rimedio all’insicurezza, viene fatto coincidere con la funzione repressiva.

Avverte Bauman, il carcere non aumenta la sicurezza, ma solo la potenzialità di voti elettorali.

Senza voler mettere in discussione il principio di legalità, si possono mutuare o rivedere degli istituti già esistenti.

Non abbiamo bisogno di nuove carceri, quanto piuttosto che i soldi destinati a tale scopo vengano spesi per creare posti di lavoro per i detenuti ed ex detenuti.

Oggi la reclusione ha di fatto una scarsa efficacia sul piano social-preventivo, come testimoniato dai tassi di recidività, laddove l’articolo 27 della Costituzione prevede e impone che la pena debba avere una rilevanza social-preventiva.

Siamo chiamati ad operare affinchè la pena della carcerazione abbia tale efficacia, configurandola come un momento di opportunità e non come una specie di parcheggio.

Facendo così, il detenuto una volta uscito dal carcere non accetti di essere cooptato dagli ambienti criminali per ottenere un lavoro.

Nella società c’è una forte domanda di sicurezza: e nell’attuale situazione la risposta deve nascere prioritariamente già dal carcere.

È in tale sede che occorre cominciare a sperare per un reinserimento sociale, così da dare una risposta alla domanda di sicurezza dei cittadini.

Ci deve essere un ponte tra società e carcere e tra carcere e società.




1 commenti:

bartolo ha detto...

dopo il carcere trovare un lavoro, onesto, appunto, per non finire nelle mani della criminalità. no, quindi, pubblica amministrazione, no mediaset, no fiat...forse è meglio rimanere disoccupati!