lunedì 31 dicembre 2007

La realpolitik dei magistrati


di Antonio Ingroia
(Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo)



da L'Unità del 31 dicembre 2007

L’articolo di Marco Travaglio e la replica del segretario dell’Associazione Nazionale Magistrati Luca Palamara possono costituire l’occasione per una riflessione, pacata ma franca, su temi che dovrebbero stare al centro dell’attenzione di chi ha veramente a cuore principi-cardine della nostra democrazia, come l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

Oggi più che mai occorre freddezza d’analisi ed equilibrio nei giudizi, purché ciò non sia sintomo di timidezza nel prendere posizione.

È d’obbligo evitare guerre di religione, ma anche semplificazioni e superficialità, che rischiano ancora una volta di dominare la scena, determinando equivoci, fraintendimenti, se non disinformazione, a danno dei cittadini e della credibilità di tutte le istituzioni (e le persone) coinvolte.

Sarà possibile almeno questa volta? Qualche dubbio è legittimo visto che nel paese sembra circolare aria un po’ pesante, clima d’intolleranza per le voci fuori dal coro, sicché, un po’ per paura, un po’ per prudenza, finiscono per prevalere antiche inclinazioni al quieto vivere.

Il che tuttavia, in un momento come questo, non sembra richiedere neutralità imparziali, bensì professioni di fede, l’obbligo di schierarsi con questa o quella tribù o casta.

Difficile, perciò, proporre ragionamenti senza pregiudizi, disponibilità a riconoscere le ragioni degli altri e i propri errori. Come minimo si viene guardati con sospetto. Ciò nonostante, attraversiamo una fase sufficientemente delicata per affrontare il rischio, senza eccessive prudenze di maniera.

L’associazionismo giudiziario attraversa una fase critica? Certo che sì, come dimostrano i più recenti dati elettorali che, fra crescente astensionismo e rigurgiti corporativi, penalizzano quelle che Travaglio definisce le «componenti più dinamiche» della magistratura associata, così determinando – lo dico con il massimo rispetto dei nuovi vertici dell’A.N.M. – una soluzione «debole», quale certamente è quella di eleggere una Giunta minoritaria: come dire, un Governo Prodi alla potenza.

Se questo è, indubbiamente, il sintomo, più difficile è fare una diagnosi e individuare le cause di questa «fase critica».

È solo una coincidenza che, nello stesso momento in cui la politica dei partiti non riesce a esprimere un governo solido, in grado di varare un’ampia politica delle riforme, a cominciare da un’autentica riforma della giustizia, anche l’associazionismo correntizio della magistratura non riesca a varare una Giunta forte?

E siamo certi che le sole alchimie elettoralistiche, nelle quali è impegnato il dibattito politico, siano in grado di accorciare la distanza fra rappresentanti e rappresentati che oggi sembra sempre più incolmabile (Grillo docet ...)?

O c’è un deficit di democrazia nel nostro paese che rende sempre più ampia la distanza fra rappresentanti e rappresentati, sicché in casa nostra stanno esplodendo le stesse contraddizioni esplose dentro la Politica Grande?

Domande che meritano (forse) approfondimento.

Ma per spiegare la crisi della magistratura associata, sostiene Travaglio, c’è dell’altro, ed ancor più specifico, che ha a che fare con una certa realpolitik dell’A.N.M., sostanzialmente descritta come complice di un nuovo (ma sempre eguale a se stesso) disegno politico di «normalizzazione» di certi magistrati, «delle voci dissonanti», «di chi crede troppo in una “giustizia uguale per tutti” e dunque disturba i manovratori», realpolitik che si sarebbe manifestata nella «freddezza» con la quale l’A.N.M. avrebbe trattato le vicende dei colleghi Forleo e De Magistris.

Io non so dire se il termine «normalizzazione» descriva bene quel che sta accadendo alla magistratura oggi in Italia. Quel che mi pare evidente che anche in questa fase sembrano prevalere due atteggiamenti: fastidio e disagio.

Un certo «fastidio» per il controllo di legalità, che trasversalmente percorre il mondo politico quasi per intero, e che nelle sue espressioni più estreme, manifestatesi clamorosamente «ai tempi di Berlusconi», si è trasformato in un assalto alla baionetta all’autonomia e indipendenza della magistratura.

Un attacco respinto anche grazie alla fermezza di un’opposizione che, tuttavia, una volta divenuta maggioranza, sembra non essersi liberata affatto da quel «fastidio», in nome di un rivendicato «primato della politica».

E il disagio: un disagio diffuso nella magistratura che ha visto prevalere l’interpretazione del cosiddetto «primato della politica» con richieste di passi indietro alla magistratura, ma che ha visto anche prevalere all’interno della magistratura associata atteggiamenti nuovi verso la politica.

Non tanto, e non solo, la doverosa disponibilità al dialogo, ma anche tutto un farsi carico di esigenze altrui, quelle della Politica innanzitutto, un’inusuale e improvvisa maggiore predisposizione alla «prudenza», a fare passi indietro.

Non credo si tratti né di collaborazionismo con opere di normalizzazione della magistratura, né di collateralismo con una maggioranza politica. Ma non v’è dubbio che c’è un’aria nuova, non positiva, che non mi pare sintomo di buona salute della democrazia interna all’associazionismo giudiziario, e che come tale è stato percepito dai magistrati, come dimostrano i più recenti risultati elettorali. O no ?

E questa disaffezione verso l’A.N.M. trova concreti appigli anche negli avvenimenti più recenti.

Checché ne dica il neo-segretario Palamara, è difficile non restare sorpresi di fronte al comunicato stampa dell’A.N.M. del 21 dicembre e al suo articolo di ieri su queste stesse colonne, quando la questione dei rischi connessi al «processo mediatico» viene posta in relazione alla trasmissione di AnnoZero che sembra avere soltanto informato i telespettatori sul caso Forleo con metodi nuovi, e cioè col linguaggio della fiction, che possono non piacere, ma che non costituiscono certamente un processo al processo (a quale poi?).

Semmai, il prof. Giostra, nel suo recente articolo su Il Riformista, ha posto alcuni seri interrogativi sulle interferenze fra processo giurisdizionale e processo mediatico, che però c’entrano assai poco con la puntata «incriminata» di AnnoZero e c’entravano tantissimo, ad esempio, con alcuni evidenti tentativi di interferenza su processi in corso ad imputati «eccellenti», invitati a discolparsi senza contraddittorio, come avvenne più volte durante il processo nei confronti del dott. Contrada, invitato a partecipare a trasmissione deliberatamente a senso unico e allestite all’interno di importanti salotti televisivi.

Perché mai nessun intervento dell’A.N.M. per le interferenze televisive sul processo Contrada, sul processo Andreotti, e così via, e questo intervento sul caso Forleo?

Questa nuova attenzione «mediatica» dell’A.N.M. ci deve far essere più fiduciosi o più preoccupati?

Sullo specifico delle vicende Forleo e De Magistris, pur con la «dovuta ponderazione», alla quale giustamente ci richiama il segretario Palamara, non sarebbe legittimo attendersi dall’A.N.M. qualche intervento quanto meno sull’inusualità del provvedimento di avocazione e delle sue modalità di attuazione preso nei confronti del collega De Magistris, sembrando un provvedimento d’altri tempi, che non ci si sarebbe attesi, così, senza reazioni, nell’Italia dei tempi di Prodi, che dovrebbe essere ben diversa dall’Italia dei tempi di Berlusconi?

Ed è forse necessario entrare nel club dei fans di Forleo e De Magistris per dire qualcosa sui rischi insiti nell’ampliamento dei limiti di sindacabilità, in sede disciplinare, della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali?

E ragionare sui motivi per i quali l’indipendenza e l’autonomia, interna ed esterna, della magistratura sembra tuttora in sofferenza, anche dopo la riforma Mastella e non soltanto dopo la riforma Castelli?

Si può riflettere ad alta voce su questi temi senza paura di essere trattati da eretici?

Del resto, è lo stesso segretario dell’A.N.M. ad avvertire il pericolo di un «abbraccio mortale» della politica.

E questo allarme è un segnale positivo. Così come è importante riaffermare la fiducia nel «potere diffuso dei magistrati» e in una magistratura «soggetta soltanto alla legge».

Ciò che davvero conta, poi, è essere consequenziali.



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Contrada, il Dottor Morte


di Marco Travaglio
(Giornalista)

tratto da Voglio Scendere

Sulle “ragioni umanitarie di eccezionale urgenza” che hanno indotto il cosiddetto ministro della Giustizia Clemente Mastella a istruire immediatamente la pratica per la grazia a Bruno Contrada, condannato definitivamente sette mesi fa a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, bastano le considerazioni di Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo: “Il giudice di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere si è pronunciato il 12 dicembre contro il differimento della pena del Contrada poichè le patologie dello stesso potrebbero essere curate in carcere o in apposite strutture esterne. Se peraltro tutti gli affetti di patologie come il diabete dovessero avanzare domanda di grazia e ottenerla in tempi così rapidi, il sovraffolamento delle carceri sarebbe rapidamente risolto”.

Se poi Contrada non avesse avviato lo sciopero della fame, ma avesse continuato a nutrirsi, le sue condizioni di salute sarebbero senz’altro migliori.

Il detenuto malato dev’essere curato, nell’infermeria del carcere o in ospedale, secondo le leggi vigenti, non essendo la grazia una terapia anti-diabete.

Quanto alle ragioni giuridiche di un’eventuale clemenza, sono ancor più deboli di quelle umanitarie.

Mai è stato graziato un personaggio di quel calibro condannato per mafia. E mai è stato graziato un condannato a distanza così ravvicinata dalla sua condanna (Contrada ha scontato 7 mesi dei 10 anni previsti).

Si è molto discusso, a proposito di Adriano Sofri, se il candidato alla grazia debba almeno chiederla o possa riceverla d’ufficio, se debba accettare la sentenza o la possa rifiutare: ma, se anche prevalesse la seconda tesi, sarebbe ben strano graziare un signore, stipendiato per una vita dallo Stato, che ha dipinto i suoi giudici come strumenti in mano alla mafia per condannare un nemico della mafia, giudici al servizio di “un manipolo di manigoldi, di criminali, di pendagli da forca che hanno inventato le cose più assurde mettendosi d’accordo”.

E tuttora chiede la revisione del processo. Graziarlo addirittura prima dell’eventuale revisione significherebbe usare impropriamente la clemenza per ribaltare il verdetto della Cassazione: un’invasione di campo del potere politico in quello giudiziario.

Ultimo punto: sollecitata per un parere dal giudice di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, la Procura di Palermo ha risposto che Contrada non risulta aver mai interrotto i suoi rapporti con Cosa Nostra, ragion per cui si ritiene che potrebbe – una volta libero – riallacciarli.

Restano da esaminare le possibili ragioni “politiche” di tanta fretta.

Ragioni che risalgono alle sua lunga e controversa carriera di poliziotto e agente segreto alle dipendenze dello Stato, ma al servizio dell’Antistato.

Già capo della squadra mobile e della Criminalpol di Palermo, già numero tre del Sisde (alla guida del dipartimento Criminalità organizzata) fino al Natale del 1992, quando fu arrestato, Contrada è indicato come trait d’union fra Stato e mafia non solo da una ventina di mafiosi pentiti, ma pure da una gran quantità di autorevolissimi testimoni.

A cominciare dai colleghi di Giovanni Falcone, che raccontano al diffidenza che il giudice nutriva nei confronti di “‘u Dutturi”: i giudici Del Ponte, Caponnetto, Almerighi, Vito D’Ambrosio, Ayala. E poi Laura Cassarà, vedova di Ninni (uno dei colleghi di Contrada alla Questura di Palermo assassinati dalla mafia mentre lui colludeva con la mafia).

Tutti a ripetere davanti ai giudici di Palermo che Contrada passava informazioni a Cosa Nostra, incontrando anche personalmente alcuni boss, come Rosario Riccobono e Calogero Musso.

Nelle sentenze succedutesi in 15 anni, si legge che Contrada concesse la patente ai boss Stefano Bontate e Giuseppe Greco; che agevolò la latitanza di Riina e la fuga di Salvatore Inzerillo e John Gambino; che intratteneva rapporti privilegiati con Michele e Salvatore Greco; che spifferava segreti d’indagine ai mafiosi in cambio di favori e regali (come i 10 milioni di lire accantonati dal bilancio di Cosa Nostra, nel Natale del 1981, per acquistare un’auto a un’amante del superpoliziotto); che ha portato al processo falsi testimoni a sua difesa.

Decisivo il caso di Oliviero Tognoli, l’imprenditore bresciano arrestato in Svizzera nel 1988 come riciclatore della mafia. Secondo Carla Del Ponte, che lo interrogò a Lugano insieme a Falcone, Tognoli ammise che a farlo fuggire dall’Italia era stato Contrada, anche se, terrorizzato da quel nome, rifiutò di metterlo a verbale. Poi, in un successivo interrogatorio, ritrattò.

Quattro mesi dopo, Cosa Nostra tentò di assassinare Falcone e la Del Ponte con la bomba all’Addaura.

Nemmeno Borsellino si fidava di Contrada. E nemmeno Boris Giuliano: finì anche lui morto ammazzato. Il che spiega, forse, lo sconcerto dei familiari delle vittime della mafia all’idea che lo Stato, dopo aver speso 15 anni per condannare Contrada, impieghi 7 mesi per liberarlo.

Ma c’è un ultimo capitolo, che sfugge alle sentenze: uno dei tanti tasselli che compongono il mosaico del “non detto”, o dell’“indicibile” sulla strage di via D’Amelio, dove morì Borsellino con gli uomini della sua scorta (ancora oggetto di indagini della Procura di Caltanissetta, che pure ha archiviato la posizione di Contrada).

Quel pomeriggio del 19 luglio ‘92 Contrada è in gita in barca al largo di Palermo con gli amici Gianni Valentino (un commerciante in contatto col boss Raffaele Ganci) e Lorenzo Narracci (funzionario del Sisde).

Racconterà Contrada che, dopo pranzo, Valentino riceve una telefonata della figlia “che lo avvertiva del fatto che a Palermo era scoppiata una bomba e comunque c’era stato un attentato. Subito dopo il Narracci, credo con il suo cellulare, ma non escludo che possa anche aver usato il mio, ha chiamato il centro Sisde di Palermo per informazioni più precise”.

Appreso che la bomba è esplosa in via d’Amelio, dove abita la madre di Borsellino, Contrada si fa accompagnare a riva, passa da casa e, in serata, giunge in via d’Amelio.

Ma gli orari - ricostruiti dal consulente tecnico dei magistrati, Gioacchino Genchi - non tornano.

L’ora esatta della strage è stata fissata dall’Osservatorio geosismico alle 16, 58 minuti e 20 secondi.

Alle 17 in punto, cioè 100 secondi dopo l’esplosione, Contrada chiama dal suo cellulare il centro Sisde di via Roma.

Ma, fra lo scoppio e la chiamata, c’è almeno un’altra telefonata: quella che ha avvertito Valentino dell’esplosione.

Dunque, in 100 secondi, accadono le seguenti cose: la bomba sventra via d’Amelio; un misterioso informatore (Contrada dice la figlia dell’amico) afferra la cornetta di un telefono fisso (dunque non identificabile dai tabulati), forma il numero di Valentino e l’avverte dell’accaduto; Valentino informa Contrada e gli altri sulla barca; Contrada afferra a sua volta il cellulare, compone il numero del Sisde e ottiene la risposta dagli efficientissimi agenti presenti negli uffici solitamente chiusi di domenica, ma tutti presenti proprio quella domenica.

Tutto in un minuto e 40 secondi.

Misteri su misteri.

Come poteva la figlia di Valentino sapere, a pochi secondi dal botto, che – parola di Contrada – “c’era stato un attentato”? Le prime volanti della polizia giunsero sul posto 10-15 minuti dopo lo scoppio. E come potevano, al centro operativo Sisde, sapere che era esplosa una bomba in via D’Amelio già un istante dopo lo scoppio? Le prime notizie confuse sull’attentato sono delle 17.30.

Escludendo che la figlia di Valentino e gli uomini del Sisde siano dei veggenti, e ricordando i rapporti del commerciante con i Ganci, viene il dubbio che l’informazione in tempo reale l’abbia data chi per motivi – diciamo così – professionali, ne sapeva molto di più.

Qualcuno che magari si trovava appostato in via D’Amelio, o nelle vicinanze, in un ottimo punto di osservazione (magari il Monte Pellegrino, dove sorge il castello Utveggio, sede di misteriosi uffici del Sisde in contatto con un mafioso coinvolto nella strage e poi frettolosamente chiusi). E attendeva il buon esito dell’attentato per poi comunicarlo in tempo reale a chi di dovere.

Forse, prima di parlare di grazia a Contrada, si dovrebbe almeno pretendere che dica la verità su quel giorno.

Altrimenti qualcuno potrebbe sospettare – con i parenti delle vittime – che lo si voglia liberare prima che dica la verità.

28 dicembre 2007


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Caso Contrada: non occorre la grazia per tutelare la salute


di Vittorio Grevi
(Professore Ordinario di Procedura Penale)



da Il Corriere della Sera del 30 dicembre 2007

A parte la singolare (e assai discutibile, non trattandosi di materia affidata alle scelte individuali) rinuncia proveniente dallo stesso interessato, il provvedimento di ricovero in ospedale di Bruno Contrada, disposto l’altro ieri dal competente magistrato di sorveglianza, ha finalmente incanalato nella direzione giusta la controversa vicenda dell’ex funzionario del Sisde, condannato in via definitiva a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa (che non è un «reato crepuscolare», come qualcuno vorrebbe far credere).

Una vicenda sulla quale in troppi hanno parlato e straparlato, spesso sulla base di argomenti puramente emotivi (e talora perfino senza rendersi conto di quel che dicevano), provocando equivoci e tensioni che probabilmente non hanno giovato nemmeno allo stesso Contrada.

In simili ipotesi, quando un detenuto si trovi in condizioni di salute così gravi da non poter essere fronteggiate in carcere, la direzione giusta è quella fisiologicamente suggerita dalle leggi dettate al riguardo.

In primo luogo, per l’appunto, vi è la possibilità per il magistrato di sorveglianza di disporre il ricovero del detenuto in un ospedale civile, per assicurargli le cure necessarie (e così è avvenuto per Contrada, trasferito all’ospedale Cardarelli di Napoli, ed ivi sottoposto a piantonamento).

In secondo luogo, quando la gravità delle condizioni di salute del detenuto sia tale da risultare incompatibile con la prosecuzione dello stato detentivo, la prospettiva meglio praticabile, trattandosi di condannato definitivo, è quella di richiedere al tribunale di sorveglianza il rinvio della esecuzione della pena: cioè un provvedimento che ne comporta la sospensione, e quindi la liberazione temporanea del recluso.

Proprio questa prospettiva risulta tuttora aperta nei confronti di Contrada, e anzi la relativa udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Napoli è stata addirittura anticipata al prossimo 10 gennaio, evidentemente sulla base di una valutazione di urgenza, che non era stata invece condivisa, nemmeno 20 giorni fa, dal magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere: il quale, altrimenti, avrebbe potuto provvedere al rinvio in forma provvisoria.

In ogni caso, attraverso i due suddetti passaggi (ricovero in ospedale civile ed anticipazione della udienza sulla richiesta di rinvio), il detenuto Contrada ha visto tutelate, per quanto possibile, sia le sue esigenze sanitarie, sia le conseguenti aspettative ad ottenere, ove se ne accertino i presupposti, il differimento della esecuzione della pena.

Se queste sono le linee di intervento legislativamente previste in circostanze del genere (la detenzione domiciliare non è ammessa, invece, nel caso dei delitti di mafia), non può non destare sconcerto il polverone sollevato, nei giorni scorsi, da una «supplica» di grazia inviata dall’avvocato di Contrada al Presidente Napolitano, e da questi correttamente trasmessa al ministro della Giustizia, secondo prassi, per le incombenze di rito.

A parte ogni altra possibile considerazione (legata, per esempio, al tipo di reato commesso ed alla misura della pena sinora espiata) deve essere chiaro, infatti, che un provvedimento eccezionale come la grazia, ispirato a «finalità essenzialmente umanitarie», intanto potrebbe giustificarsi nei confronti di un condannato in precarie condizioni di salute, in quanto non fossero esperibili, allo scopo, gli ordinari rimedi predisposti dal sistema.

Ma non è questa, come si è visto, la situazione di Bruno Contrada. Il quale, per contro, se volesse contestare come «ingiusta» la sentenza che lo ha condannato, non avrebbe altra via che quella di chiedere la revisione del processo.


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venerdì 28 dicembre 2007

Il potere, l'A.N.M., il lupo e l’agnello




di Bruno Tinti
(Procuratore Aggiunto della Repubblica di Torino)



Le mailing list di tutte le correnti dell’Associazione Nazionale Magistrati sono piene di auguri di buon natale, buon anno, buone feste e buon vattelappesca; cinque o sei persone cercano di ricordare ai festaioli che stiamo vivendo tempi bui e tempestosi; qualche maggiorente più o meno di vertice raccomanda di rimettersi alla giustizia istituzionale, disciplinare o penale che sia; e tanti altri maggiorenti tacciono del tutto.

Dei tanti peones come me meglio non parlarne: tacciono quasi sempre oppure mi scrivono all’indirizzo privato e mi dicono che ho proprio ragione.

Io anche ho taciuto: perché sono stanco. Sono stanco di dire sempre le stesse cose, di ricevere risposte di tre o quattro amici con i quali ci siamo già detti tutto e di uno o due amici che non la pensano per niente come me ma almeno me lo dicono; e soprattutto sono stanco di vedere che ai miei colleghi non gliene frega niente di quello che sta capitando intorno a loro e che pensano a farsi gli auguri.

Adesso scrivo non perché mi sia passata la stanchezza; anzi . Sono sempre più stanco ma sono anche tanto incazzato.

Apparentemente a nessuno frega niente del fatto che forse sono stati commessi tanti reati; del fatto che quelli che forse li hanno commessi aggrediscono i giudici che li processano (ricordatevi che io metto tra i Giudici con la G e nel Processo con la P i P.M. e le indagini preliminari); del fatto che queste aggressioni hanno successo e che i giudici che fanno questi processi vengono sottoposti a loro volta ad altri processi, penali e disciplinari.

E invece tutti si preoccupano che di queste cose, ohibò, si parla,si osa parlare, si scrive sui giornali (e meno male che le televisioni in genere le trascurano perché fanno finalmente cose serissime tipo “Il Grande Fratello”); addirittura si arriva al punto di metterle in scena, per carità rispettando il canovaccio ma facendolo leggere, anzi recitare!!!, da attori professionisti.

E va bene; se a nessuno frega niente dei possibili reati commessi dalla classe dirigente; se a nessuno frega niente dei processi che stanno verificando la sussistenza o meno di questi reati; allora parliamo di ciò che sembra essere davvero importante: delle fughe di notizie, della pubblicazione di queste sui giornali, del dibattito che su queste notizie trafugate si svolge su alcune (poche poche) trasmissioni televisive.

E parliamone facendo un esempio: circa 500 persone tra noi sanno che cosa è un leverage buy out; quanti cittadini lo sanno? Mah, facciamo 5.000.

Queste 5.500 persone sanno dunque che, fino alla modifica dell’art. 2358 del codice civile, l’acquisto di azioni di una società effettuato mediante prestiti o garanzie rilasciate dalla società stessa era proibito; e che adesso, invece, è consentito.

Immaginiamo che, nel corso di un procedimento penale, si scoprisse, magari mediante intercettazioni, che questa modifica era stata discussa da Berlusconi o Tremonti (la norma venne modificata quando c’erano loro) o magari tutt’e due, con uno o più imprenditori di alto o altissimo livello, impegnati in scalate societarie, che erano molto interessati a comprarsi queste società facendosi fare da queste prestiti o garanzie, nel che consiste appunto il leverage buy out (lo preciso nell’interesse di quelli che non sanno cosa sia questa manovra finanziaria); e immaginiamo che i due altissimi esponenti della classe dirigente italiana dessero il via libera a questi loro amici, garantendo che la legge si sarebbe fatta presto e bene in modo da consentire loro questo acquisto che, fatto con quelle modalità (le garanzie e i prestiti da parte della società che volevano comprarsi) non sarebbe stato lecito.

L’oggetto del processo penale sarebbe stato così tecnico che certamente non sarebbe stato compreso dalla quasi totalità dei cittadini; e, d’altra parte, il processo stesso sarebbe stato così lungo che una sentenza, anche solo di primo grado, sarebbe arrivata dopo molti anni dal fatto.

Ma si può davvero pensare che i cittadini non avessero il diritto di sapere, subito (forse di lì a qualche mese ci sarebbero state le elezioni) che i più alti esponenti della classe dirigente che in quel momento si era assunta la responsabilità di governarli, facevano accordi clandestini (magari anche illeciti, ma questo se la sarebbero vista i giudici penali) con amici loro, assicurandogli vantaggi sui loro concorrenti?

Si può davvero pensare che la gestione privata del potere di legiferare (attraverso il condizionamento del Parlamento da parte del Governo, fatto ormai del tutto consueto) fosse circostanza che i cittadini dovevano ignorare?

Ma questi cittadini come dovrebbero decidere se votare tizio o caio? Sulla base dei cartelloni pubblicitari o degli spot televisivi (magari subliminali)?

E supponiamo poi che i giudici civili e penali che si fossero occupati di questa gestione privata del potere di legiferare fossero stati aggrediti, vilipesi, minacciati, alla fine allontanati da quel processo, proprio mentre ne stavano venendo a capo; e supponiamo anche che, sballottati da queste violenze provenienti da tutte le parti, questi giudici si fossero lasciati andare un po’, avessero commesso qualche ingenuità, avessero detto qualche parola di troppo, avessero redatto provvedimenti suscettibili di critica (la decenza mi vieta di fornire la definizione del diritto che dava un mio grande amico avvocato, grande come amico e come avvocato).

Si può davvero pensare che questo scontro tra istituzioni, questa guerra combattuta dalla classe dirigente (magari innocente tecnicamente) per non essere assoggettata al controllo di legalità avrebbero dovuto essere nascosti ai cittadini?

Si tratta ovviamente di un esempio del tutto inventato, frutto solo della mia indignazione sul piano tecnico, quando arrivò la riforma dell’art. 2358 del codice civile. Ma è evidente che, in un caso come questo, nessuno potrebbe dire che i cittadini se ne debbono stare zitti e buoni, ignari di quello che succede; e lasciar lavorare politici e magistrati; e leggere, dopo qualche anno, le sentenze dei secondi su un fatto come questo di cui ovviamente non capirebbero niente.

Un po’ come se fossero passeggeri di un treno che non si sa dove va, non si sa quando e se si fermerà perché tutto è in mano al capo treno e perché queste cose sono compito suo e loro non ci debbono mettere bocca.

Allora, è poi tanto difficile da capire che solo l’informazione più completa ed approfondita ci consente di vivere in un Paese democratico?

Che la democrazia non consiste nel sistema di elezione dei governanti (se è per questo noi ormai siamo in una situazione di conclamata oligarchia) ma nell’assoggettamento di tutti i cittadini, governanti e governati, allo stato di diritto?

Che il controllo sulla effettività di questa fondamentale, irrinunciabile regola di democrazia può avvenire soltanto attraverso l’informazione?

Scendiamo ai casi concreti.

Ma davvero non vogliamo sapere che il Fazio e il Fiorani concordavano al telefono la scalata di Antonveneta?

Cioè noi non vogliamo sapere prima del tempo (quale?, dopo il 1° grado, dopo l’Appello, dopo la Cassazione, magari dopo il rinvio in Appello e la nuova Cassazione, magari dopo la sentenza per prescrizione) che il Governatore della Banca d’Italia concordava con un banchiere (piccolo piccolo, un banchiere del quartierino) l’acquisto di un grande istituto bancario con modalità particolarmente pittoresche.

Davvero non vogliamo sapere che questo stesso Governatore colloquiava con un senatore (Grillo, che non si capisce che diavolo c’entra con l’affare BPL-Antonveneta), raccontandogli per filo e per segno lo sviluppo dell’operazione?

Davvero non vogliamo sapere che il Fassino e il Consorte e poi il Consorte e il Latorre concertavano l’acquisto di BNL da parte di Unipol?

Cioè, noi ancora una volta non vogliamo sapere che una spregiudicata (almeno questo forse si può dire, vista le differenze economiche, finanziarie, organizzative ed operative esistenti tra le due banche) scalata societaria veniva attentamente seguita da esponenti politici di primo piano della sinistra?

Non vogliamo sapere che il Fassino dice, testualmente, “Siamo padroni di una banca?”; e che, in un’altra conversazione telefonica, il D’Alema esclama “Facci sognare”?

Siamo chi? Chi è il padrone? E perché il Ministro degli Esteri della Repubblica italiana vuole sognare (in compagnia di chi?) se un altro banchiere del quartierino si compra una banca?

Almeno questo avremo il diritto di saperlo?.

Sarà tutto regolare ma che i due massimi esponenti di un partito di governo abbiano un interesse di questa rilevanza per operazioni finanziarie apparentemente fatte da privati (il partito in questione c’entra qualcosa? E, se c’entra, con quali soldi compra?) il cittadino lo deve sapere.

Davvero non vogliamo sapere che il Berlusconi raccomanda al Saccà qualche signorina? Che il Saccà lo paragona al Papa e che il Berlusconi non gli dice “ma che dici, sei matto?” e invece se ne compiace: “Eh mi sta capitando questa cosa.”?

Che c’entra il processo penale o civile con questi fatti? Per meglio dire, certo che c’entra, ma è un fatto tecnico, del tutto irrilevante per i cittadini.

Come sarebbero irrilevanti per loro i calcoli del cemento armato del ponte di Messina. E sarebbe invece decisivo conoscere (e dibattere, ma se non si conosce di che si dibatte?) per quali motivi si è deciso di fare il ponte.

Tutte queste cose, penalmente rilevanti o no (si vedrà e comunque c’è la prescrizione), debbono dunque interessare i cittadini; perché i cittadini hanno il diritto di sapere chi li governa, chi sta guidando il treno e dove li vuole portare. Se non lo sanno, se tutti glielo vogliono tenere nascosto, se i capotreni di ogni fazione strepitano quando non ci riescono a tenerglielo nascosto e congiurano per stabilire nuove regole che vietino ai vari addetti al treno di raccontare quello che hanno scoperto che succede in sala macchine, questo non è più un treno, è un carro bestiame.

Ma c’è pure di peggio.

I giudici hanno sbagliato; forse, magari, chi sa; ma diciamo che hanno sbagliato.

La Forleo e il De Magistris hanno parlato troppo; e tutti e due hanno fatto provvedimenti sbagliati. Quindi processiamoli, disciplinarmente si intende; ma processiamoli.

Chissà quante sentenze sbagliate la Cassazione riforma ogni giorno; li processiamo tutti, quei giudici che hanno scritto cose che, lo posso testimoniare io che mi occupo di una materia giuridicamente complessa e opinabile, spesso sono assurde?

Ovviamente no, riformiamo le loro sentenze, magari scriviamo qualche battuta sulla loro impreparazione giuridica; ma GESTIAMO IL PROCESSO NEL SISTEMA. Non ci pensiamo nemmeno a processarli, a delegittimarli, a trasferirli, a minacciarli, a sputtanarli per ogni dove.

E i cittadini non lo debbono sapere che invece gli stanno succedendo proprio queste cose?

E, se la risposta è: no, non lo debbono sapere perché il processo si fa nelle aule, in quelle del CSM e in quelle giudiziarie, alla fine vi sarà una sentenza emessa secondo giustizia; allora che gli facciamo alla Vacca?

Per chi se lo è dimenticato, la Vacca sarebbe quella componente del Consiglio Superiore della Magistratura che ha svolto funzioni di indagine nella Commissione che si è occupata della Forleo (e mi pare anche del De Magistris); insomma una via di mezzo tra il PM e il vecchio Giudice Istruttore. E che, mentre faceva le indagini, andava a spiegare ai giornali e alla televisione (e qui la televisione è stata molto disponibile, si vede che il grande fratello era finito) che questi due giudici erano proprio due cattivi soggetti, che dovevano essere cacciati al più presto; e che anzi tanti altri sarebbero stati stanati e cacciati.

QUESTA fuga di notizie non è inammissibile?

Non è gravissima?

Non è vergognosa?

Non è delegittimante?

Non è ... mah, chi se ne frega, tanto le iperboli lasciamole a quelli che spiegare perché hanno fatto certe cose non ci pensano proprio ma che sono bravissimi a lamentarsi che si sappia che quelle cose le hanno fatte.

E in questo Paese in cui abbiamo fatto diventare lecito il leverage buy out (vi ricordate ancora che cosa è?); in cui puniamo il senegalese che vende il CD contraffatto da 1 a 6 anni di reclusione (e dunque arresto in flagranza, intercettazioni telefoniche e circuito processuale privilegiato) e il falsificatore di bilanci di una società quotata fino a 4 anni, sempre che il falso non sia troppo piccolino (deve essere più dell’1% del patrimonio della società almeno, se no, che scherziamo, non è reato); in cui i partiti si comprano le banche e i politici si comprano altri politici; in questo Paese in cui la Vacca e i suoi soci minacciano i magistrati e anticipano (ed impegnano, dobbiamo pensare) il C.S.M. [Consiglio Superiore della Magistratura], l’A.N.M. [Associazione Nazionale Magistrati] che fa?

Depreca la fuga di notizie e auspica che non vi sia la contrapposizione delle istituzioni.

Ma dove vivono? Ma non se la ricordano la favole del lupo e dell’agnello?

Ma non lo vedono che la Forleo, il De Magistris, la gente come noi, tutti questi stanno a valle; e che i lupi, quelli che comunque si cerca di capire se sono lupi, stanno a monte e che si lamentano che gli intorbidiamo l’acqua?

Ma soprattutto hanno capito o no che l’A.N.M. NON è un istituzione pubblica?

L’hanno capito o no che l’A.N.M. è il sindacato dei giudici?

Lo sanno o no che il sindacato TUTELA i suoi iscritti?

E soprattutto soprattutto, l’A.N.M. la vuole smettere di pensare a se stessa come all’anticamera del CSM?

E’ il CSM che deve osservare imparzialità, autonomia, indipendenza, e anche riservatezza certo; e, a parte la Vacca, mi consta che lo faccia.

Ma l’A.N.M., che ha indetto 4 scioperi quando l’avversario era il nemico pubblico n. 1, adesso si mette a stigmatizzare, auspicare, precisare e tutto quell’armamentario ipocrita che ci indigna (questo si che indigna) quando lo sentiamo in bocca ai politici?

Se non se ne è accorta, ci sono tanti buoni motivi per proclamare uno sciopero; a cominciare dall’ignobile aggressione patita da Clementina e Luigi (che adesso sono miei amici e colleghi e non la Forleo e il De Magistris).


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I preoccupanti silenzi dell’Associazione Nazionale Magistrati


di Francesco Ponzetta
(Dottore di ricerca presso l'Università di Pavia, magistrato onorario)

Con riferimento alla contestazione che il Procuratore Generale della Cassazione muove alla dottoressa Forleo in ordine alle ordinanze con le quali ha chiesto al Parlamento di autorizzare l’uso di alcune intercettazioni telefoniche nelle quali sono coinvolti noti parlamentari, dal punto di vista squisitamente processuale il nodo di fondo a mio avviso si riduce essenzialmente alla questione di diritto se la notitia criminis possa desumersi da atti inutilizzabili, nel caso di specie intercettazioni indirette di parlamentari rispetto alle quali non è ancora intervenuta la prescritta autorizzazione a procedere.

Secondo le ordinanze de quibus, la risposta è no, per cui il gip ha chiesto l'autorizzazione ad utilizzare le intercettazioni anche per i parlamentari ancora non indagati, proprio perché, desumendosi da tali colloqui la notizia di reato, senza tale autorizzazione non possono neanche iniziare le indagini nei confronti dei noti parlamentari.

Secondo altre voci dottrinali, invece, la notizia di reato può ben essere desunta da tali captazioni di comunicazioni, per cui il fatto che la Procura non avesse richiesto l'autorizzazione anche nei confronti dei parlamentari vorrebbe dire che l'organo inquirente non vi ha ravvisato alcunché di penalmente rilevante a carico dei parlamentari medesimi.

A questo punto il gip non avrebbe potuto agire di propria iniziativa estendendo soggettivamente la richiesta di autorizzazione all'utilizzo delle intercettazioni, ma avrebbe dovuto limitarsi a trasmettere gli atti alla Procura segnalando la sussistenza di elementi a carico di altri soggetti nei confronti dei quali non si stava procedendo.

Questioni di diritto, che trovano la loro composizione nelle regole processuali e negli organi preposti alla nomofilachìa e alla risoluzione dei conflitti di competenza anomali, e in ultimo, dei conflitti fra poteri dello Stato.

Che la parte della motivazione di un provvedimento giurisdizionale, nella quale si spiega la rilevanza di una intercettazione, possa essere posta a fondamento di un rilievo disciplinare è fatto che può definirsi, con la limpida immagine utilizzata dal dott. Ingroia per l’avocazione di Catanzaro, IMPENSABILE.

E grossa meraviglia mi desta il fatto che sul punto non vi sia stata una forte presa di posizione dell'Associazione Nazionale Magistrati.

Forse non valeva la pena morire per la Forleo, quella della sentenza sui guerriglieri, quella che si mette in mezzo negli arresti, quella che litiga con carabinieri e colleghi che indagano sulla morte dei genitori.

Come non valeva la pena morire per De Magistris, che si erge ad unico fortino contro la criminalità come se tutti gli altri fossero collusi.

Ma chi si chiedeva se valesse la pena morire per Danzica è stato costretto a combattere per liberare Auschwitz.

Domani, quando sarà normale finire sotto procedimento disciplinare per un aspetto della motivazione, o per una interpretazione di legge poi smentita dalla cassazione, o quando capiterà ancora che il ministro possa far togliere le indagini a un P.M. richiedendo un trasferimento di urgenza, dopo che lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura aveva escluso quanto meno l'urgenza, beh allora a qualcuno forse verrà il dubbio che dire una parola forte e chiara oggi non significava solo mettersi a difendere quell'isterica inaffidabile della Forleo o quel presuntuosetto di De Magistris.

Ma temo che sarà troppo tardi.

P.S.: Ovviamente ho usato espressioni sprezzanti nei confronti dei dottori Forleo e De Magistris in maniera paradossale, solo per rendere più efficaci i miei concetti.



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La verità dietro le intercettazioni


di Guido Neppi Modona
(Professore Ordinario di Diritto e Procedura Penale
ex Vice Presidente della Corte Costituzionale)


da Il Sole 24 Ore del 23 dicembre 2007

Sin da quando frequentavo, alcuni decenni orsono, i banchi della facoltà idi Giurisprudenza, avevo imparato che, agli effetti della legge penale, è pubblico ufficiale chi esercita una pubblica funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria; pubblici ufficiali erano quindi, e lo sono pacificamente tuttora, i membri del Parlamento, chiamati a esercitare le più alte funzioni legislative.

Avevo anche imparato che se un senatore o un deputato riceve o accetta la promessa di danaro o di altri vantaggi per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio (ad esempio, per votare in modo diverso da come avrebbe votato se non fosse stato raggiunto da quelle offerte) commette il delitto di corruzione; delitto per cui sia il corrotto che il corruttore erano e sono tuttora puniti con la reclusione da due a cinque anni.

Se invece il senatore o il deputato non accetta l’offerta o la promessa del danaro o di altri vantaggi, il reato si chiamava, e si chiama tuttora, istigazione alla corruzione e a essere punito con una pena ridotta di un terzo è solo il corruttore.

All’inizio di novembre erano incominciate a circolare prima voci e poi notizie che era in corso una campagna acquisti di alcuni senatori da parte dell’ex Presidente del Consiglio per fare cadere il Governo al Senato durante le votazioni sulla Finanziaria.

Già allora mi ero stupito che nessuno avesse denunciato a chiare lettere che i tentativi di compravendita dei voti dei parlamentari, ove fossero risultati veri, avevano una precisa collocazione negli articoli 319 e 322 del codice penale.

Sembrava che la campagna acquisti dei senatori fosse stata accettata come un normale risvolto, sia pure un po’ troppo disinvolto e spregiudicato, della dialettica politica in corso tra maggioranza e opposizione; la vicenda era motivo più di scommessa che di scandalo.

L’atteggiamento di sostanziale indifferenza si è riproposto pochi giorni orsono quando, a seguito della divulgazione del contenuto di intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura della Repubblica di Napoli per tutt’altro procedimento penale, siamo venuti a conoscenza che almeno un senatore – di cui è noto il nome – era stato effettivamente contattato, ma non aveva accettato le offerte e le promesse corruttrici.

Anche questa volta non ho udito alcuna voce nel circuito politico-parlamentare che abbia detto chiaramente che, ove provati, quegli approcci non fanno parte della normale dialettica politica, ma si chiamano istigazione alla corruzione per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio.

Abbiamo invece assistito al ripetersi di un copione ormai abituale, condiviso anche da esponenti politici della maggioranza di governo: a essere censurato e condannato non è stato il comportamento penalmente illecito o politicamente scorretto e squalificato; a essere messi sotto accusa sono stati l’istituto delle intercettazioni e le gravissime e non più sopportabili violazioni della privacy insite nel ricorso a questo strumento processuale.

L’attenzione si è spostata sull’imprescindibile esigenza di impedire per il futuro che notizie di quel tipo potessero divenire di dominio pubblico, sino a proporre limiti invalicabili al diritto costituzionale dei giornalisti di informare e dell’opinione pubblica di essere informata su vicende giudiziarie di indiscusso interesse pubblico per la loro rilevanza politica.

Questi atteggiamenti del ceto politico suscitano serie preoccupazioni in due direzioni.

E’ attualmente all’esame del Senato un disegno di legge, già approvato dalla Camera (che il Ministro della Giustizia vorrebbe con urgenza trasformare in un decreto legge di immediata applicazione), volto fra l’altro a tutelare il diritto alla riservatezza di chi, estraneo alle vicende processuali, corre il rischio, a seguito della divulgazione delle intercettazioni, di vedere sue privatissime vicende personali sbandierate sulla stampa e sulle reti televisive: ebbene, è tutt’altro che infondato il timore che la sacrosanta esigenza di tutelare la privacy di “terzi innocenti” venga strumentalizzata per estendere oltre misura sia il segreto sulle indagini giudiziarie, sia il divieto di pubblicare notizie sui processi in corso, sottraendo completamente le indagini al controllo dell’opinione pubblica, essenziale per scongiurare insabbiamenti, deviazioni o depistaggi.

Il secondo timore si collega alla previsione che, stante il clima di forte contestazione dell’istituto delle intercettazioni diffuso tra i politici, il Parlamento sarà molto restio a concedere l’autorizzazione a utilizzare le conversazioni telefoniche di un parlamentare intercettate fortuitamente quale prova penale contro il parlamentare stesso.

Per fortuna, però, grazie alla recente, provvidenziale sentenza della Corte costituzionale n. 390 del 2007, anche in caso di diniego dell’autorizzazione quelle conversazioni potranno essere utilizzate processualmente nei confronti di terzi e non dovranno più essere distrutte, contrariamente a quanto era stabilito da un’infelice legge approvata nel 2003 durante la scorsa legislatura.

Ora vi è quindi la possibilità che, beninteso nel rispetto delle regole sul segreto delle indagini giudiziarie, le conversazioni del parlamentare vengano, a tempo debito, conosciute dall’opinione pubblica, la quale potrà quantomeno esercitare forme di controllo sociale e esprimere la sua riprovazione sociale su gravi episodi di malcostume e di degrado dell’agire politico.



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giovedì 27 dicembre 2007

La “delegittimazione” dell’A.N.M.


di Nicola Saracino
(Magistrato)


Secondo un pensiero che da qualche tempo fa capolino qua e là, nelle diverse mailing list di magistrati, le recenti discussioni, talvolta vivaci, innescate dalle vicende che hanno coinvolto i colleghi De Magistris e Forleo, produrrebbero, quale loro ultimo risultato, quello di screditare l’Associazione Nazionale Magistrati e persino di delegittimare il Consiglio Superiore della Magistratura.

Evidentemente la scarsa abitudine alla dialettica, provocata da decenni di governo della magistratura deciso da pochissime “teste” poste al vertice delle correnti, muove ad affermazioni incomprensibili; la differenza rispetto al passato è solo che le opinioni oggi circolano velocemente grazie alle migliori tecnologie disponibili e quindi è possibile discutere in tempo reale di ciò che ci circonda.

I comunicati dell’A.N.M., lungi dal presentarsi quale epilogo di una disamina ragionata dei problemi in discussione, appaiono quasi dei “dispositivi”, dai quali si ricava con certezza la posizione assunta dalla dirigenza dell’Associazione senza tuttavia che risulti arguibile il percorso argomentativo che ha condotto a quella scelta.

Di qui l’inidoneità di una siffatta forma di comunicazione a dissipare le perplessità che continuano ad impegnare i ragionamenti di alcuni (pochissimi, vuol farsi credere) associati.

Per fare un esempio concreto, nell’immediatezza dell’avocazione dell’inchiesta a De Magistris, tutti i segretari delle diverse correnti, sia pure con sfumature diverse, avevano sottolineato la singolarità di quel provvedimento e la preoccupazione che un uso dell’istituto sulla falsariga di quello registratosi a Catanzaro potesse ledere l’autonomia del magistrato inquirente; nessun seguito, tuttavia, è stato dato dall’A.N.M. a quelle opinioni pur così autorevoli, essendosi semplicemente ignorato il problema, persino quando si è appreso che per effetto della riforma dell’Ordinamento Giudiziario il sostituto procuratore non è più legittimato a dolersi della sottrazione dell’indagine.

Altra accusa è quella di mettere in dubbio il dogma dell’insindacabilità delle decisioni del C.S.M., ma è triste dover osservare che in democrazia non si vive di dogmi e certezze ma di dialettica e dubbi; la lettura di una qualsiasi rassegna critica di giurisprudenza ricorderà a molti che la Cassazione è quotidianamente commentata, così come le pronunce della Corte Costituzionale e a nessuno sfuggirà che non tutte le “note a sentenza” sono adesive o adulatorie: spesso i commenti sono critici e spingono ad un maggiore approfondimento delle questioni.

Ebbene non si comprende perché dal dibattito dottrinale e associativo dovrebbero essere espunte le decisioni consiliari in materia disciplinare o l’attività di alta amministrazione dell’organo di autogoverno: quasi che l’indipendenza della magistratura – per la quale l’A.N.M. è nata – non s’incroci necessariamente con l’attività del C.S.M. e con la tutela dell’indipendenza di ogni singolo magistrato.

Il problema credo sia un altro.

Non è ancora chiarito, all’interno dell’A.N.M., se la partecipazione effettiva di tutti gli associati ai processi decisionali sia un valore, un bene, ovvero un problema da arginare; non poche resistenze si registrano, ad esempio, verso la creazione di un’unica mailing list nazionale che ospiti i contributi di tutti i magistrati italiani, senza steccati di appartenenza a questo a o quel gruppo; i primi vagiti di questo strumento di formidabile comunicazione paiono caratterizzati dall’idea di prevedere un “comitato di redazione”, vale a dire un moderatore, quasi che i soggetti legittimati a parteciparvi (i magistrati italiani) siano immeritevoli della fiducia che si accorda ai membri delle mailing list non moderate.

Capita persino di leggere, su alcune mailing list, l’invito a “non occupare la banda” con messaggi ritenuti poco interessanti, quasi che non fosse stata mai introdotta in Italia l’ADSL o che s’ignori l’uso del tasto “canc” sulla tastiera da parte di chi non è attratto dal messaggio o dal suo autore: già, l’autore, perché capita anche che a qualcuno sia impedito di scrivere su certe mailing list, e questo la dice lunga sulla attitudine dialettica di alcuni.

Temo che questi pensatori debbano rassegnarsi all’idea che un mondo è cambiato; che il mondo è cambiato.

A nessuno può più chiedersi di rilasciare deleghe in bianco il cui impiego sfugga alla responsabilità etica di spiegare ed argomentare le scelte compiute in nome di tutti, confrontando pro e contra.

Nessuno, in definitiva, può essere contento se l’associazione che lo rappresenta dinanzi agli italiani viene sospettata di essere collaterale ad una parte politica e di rinunciare, per questo, alla tutela di alcuni associati.

Con il consenso elettorale si certifica l’autorità statutaria, l’autorevolezza si conquista con l’agire quotidiano sostenuto dal ragionamento e dalla coerenza dei comportamenti; se il dissenso espresso da pochissimi associati è sufficiente a minare la credibilità dell’A.N.M., allora vuol dire che essa poggia su basi piuttosto fragili, e di questo dovremmo preoccuparci.



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L'irreversibile crisi dell'A.N.M.


di Raffaele Greco
(Giudice del T.A.R. Puglia, già Sostituto Procuratore della Repubblica di Napoli)


Con riferimento a quanto sta accadendo nell’Associazione Nazionale Magistrati, forse può interessare l’opinione di uno che è ormai (sempre più) esterno alla categoria, ma che con essa mantiene un legame affettivo che gliene fa seguire con attenzione anche le attuali, tristi vicende.

Ebbene, dall’esterno l’impressione è quella di un clima da “ultimi giorni di Pompei”, di un definitivo impazzimento della maionese associativa, di una confusione che prelude alla catastrofe ...

Insomma, non riesco a sfuggire all’impressione che gli eventi di queste settimane denuncino l’imminente fine dell’A.N.M. e delle sue componenti associative, almeno come fin qui le abbiamo conosciute, e – ciò che più preoccupa – che tale fine sia destinata a trascinare con sé anche il C.S.M..

Sotto questo profilo, non posso non condividere l’allarme di Felice Lima e dei pochi altri che si sono uniti alle sue denunce: l’immagine che vedo è quella di una serie di piccoli uomini (e donne, of course) abbarbicati a poltrone di carattere politico-istituzionale-associativo, che continuano a portare avanti viete pratiche di gestione del potere (ma anche un potere di piccolo cabotaggio, del tipo il posto al massimario della Cassazione, la poltroncina ministeriale etc), mentre ormai la demolizione delle garanzie democratiche su cui si regge(va) l’assetto della magistratura è più avanzata che mai ...

Nessun malumore della base, nessun inequivoco risultato elettorale, nessuna opinione dottrinale per quanto autorevole può ormai arrestare questo “cupio dissolvi” dell’associazionismo, che a me ricorda l’atteggiamento del passato governo il quale, mentre l’Italia sprofondava nella crisi economica, continuava a dire che tutti gli italiani stavano meglio, solo che non se ne erano ancora accorti; o – se si vuole essere bipartisan – certe irritanti uscite del sindaco della mia beneamata Napoli che, mentre la città è ancora una volta invasa dai rifiuti, avvolta da un degrado indegno di un paese civile, tuona contro chi segnala i problemi dicendo che così si getta fango sulla nostra bellissima Napoli ...

La verità è che siamo passati dall’A.N.M. sorda e indifferente di fronte agli abusi a un’A.N.M. che solidarizza con chi abusa, da un C.S.M. timido e tardivo nel tutelare i magistrati isolati a un C.S.M. che oggi infierisce contro di loro: dato comune, rispetto agli anni del passato, l’assoluta indifferenza delle ragioni e dei torti, delle questioni tecnico-giuridiche, della materia viva e pulsante di cui è fatto il lavoro quotidiano dei magistrati.

Di questa gente non voglio preoccuparmi oltre: saranno spazzati via senza neanche rendersene conto (almeno, quelli di loro che non troveranno rifugio in qualche comodo ufficio ministeriale), e credo che ciò avverrà anche in tempi brevi, essendo a ciò sufficiente il subentro di una classe di governo solo appena appena un po’ meno debole e ridicola di quella attuale; quel che mi preoccupa è il dopo.



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La grazia a Bruno Contrada


di Salvatore Borsellino
(Ingegnere)

Mi sento in dovere di aggiungere queste mie considerazioni personali alle dichiarazioni di mia sorella Rita, che ho sottoscritto insieme a tutta la famiglia Borsellino, sulla incredibile vicenda della possibile concessione della grazia a un traditore dello Stato che finora ha scontato solo 7 mesi sui 10 anni di detenzione a cui e stato condannato in via definitiva dallo corte di Cassazione.

Personaggio sul quale pesano peraltro gravissimi sospetti, oggetto di indagini purtroppo ancora in corso dopo ben quindici anni, in merito alle telefonate intercorse, 80 secondi dopo la strage, tra il castello Utveggio, dal quale probabilmente stato azionato il telecomando per l'esplosione dell'autobomba, da una utenza clonata intestata a Paolo Borsellino e l'utenza dello stesso Contrada.

Come risulta da carte processuali “si segnala l'esigenza di approfondire ipotesi ed elementi sin qui trascurati, nella prospettiva di individuare complici e mandanti esterni all'associazione mafiosa. Si individua un cospicuo raggio di attività investigative aventi oggetto organismi e persone che potevano contare sulla disponibilità dei locali di Castello di Uvteggio, sede del Sisde, controllato a Palermo dal dottor Contrada”.

Quella sede del Sisde smantellata pochi giorni dopo la strage perché evidentemente aveva esaurito il suo compito.

Basterebbero questi sospetti e l'esistenza di queste indagini per rendere inopportuna anche solo l'ipotesi della concessione della grazia a un individuo sul quale pesano sospetti di questo genere ma per di più anche dal punto di vista tecnico mi risulta che per reati di mafia (compresi nell'elenco di cui all'art. 41 bis ord.pen.) non sono possibili né la sospensione della pena né le misure alternative tra cui la detenzione domiciliare, salvo che collaborino con la giustizia.

Non mi risulta che Bruno Contrada abbia mai mostrato l'intenzione di collaborare con la Giustizia; anzi ha sempre dichiarato sprezzantemente che mai e poi mai avrebbe presentato domanda di grazia e a questo punto risulta inverosimile la celerità senza precedenti con la quale il nostro custode della Costituzione ha appoggiato la richiesta di grazia e inoltrato la pratica al cosiddetto ministro di giustizia per un rapido espletamento dei passaggi necessari.

In quanto alle pretese esigenze umanitarie è bene ricordare che il Giudice di Sorveglianza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere si è pronunciato il 12 dicembre 2007 in maniera contraria alla possibilità di differimento della pena detentiva del Contrada poiché le patologie dello stesso potrebbero essere curate in carcere o in apposite strutture esterne.

Se peraltro tutti gli affetti di patologie come il diabete dovessero avanzare domanda di grazia per gli stessi motivi del sig. Contrada e ottenerla in tempi cosi rapidi il problema del sovraffolamento delle carceri italiane sarebbe rapidamente risolto.

Le attuali condizioni di salute del sig. Contrada (o meglio del Dottor Contrada, come lo hanno sempre chiamato con rispetto molti affiliati a Cosa Nostra) sono peraltro determinate da uno sciopero della fame attuato da qualche giorno dallo stesso, e i suoi numerosi fratelli, piuttosto che accusare mia sorella Rita di scarsa umanità perché si oppone alla concessione della grazia farebbero bene a impiegare le loro energie a convincere il proprio fratello a ricominciare a nutrirsi, per i prossimi anni, di quello che il regime carcerario, a spese dei contribuenti italiani, gli passa.

Per sapere quello che mio fratello Paolo pensava di Bruno Contrada basta ricordare l'episodio, riportato in atti processuali, nel quale avendo Paolo sentito fare quel nome a tavola da un funzionario di polizia amico della figlia, era sobbalzato dicendo “chi ti ha fatto quel nome, guarda che può bastare pronunciarlo a sproposito per morire”.

In quanto al cosiddetto ministro della giustizia non poteva che essere affidata a un uomo come lui, che ha cosi bene portato a compimento i compiti di sottrarre inchieste scottanti ai loro giudici naturali (…) di portare a termine questo compito.

Risulta così chiara la missione storica che lo stesso Mastella dichiara essergli stata affidata da Giulio Andreotti nel momento in cui, prima riluttante, fu convinto dallo stesso Andreotti, oltre che da Cossiga, ad accettare questo incarico.



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Buon Natale a quelli che …


di Andrea Falcetta
(Avvocato del Foro di Roma)


Buon Natale a tutti i giornalisti che conoscono il congiuntivo e a quelli tra loro che, occupandosi di cronaca giudiziaria, conoscono inoltre la differenza tra giudice e pubblico ministero, tra perizia e consulenza di parte, tra segreto d’ufficio e segreto professionale, che hanno una sia pur vaga idea di cosa sia la presunzione d’innocenza e non prendono lucciole per lanterne, né plastici per scene del crimine.

Buon Natale a tutti gli avvocati che non confondono il rispetto verso il giudice con l’indecoroso servilismo degli smidollati, perché meritare ed esigere il rispetto non significa sottrarne all’interlocutore; buon Natale a quegli avvocati che si comportano lealemente verso il cliente, verso il tribunale, verso i colleghi e verso i propri doveri, perché è soltanto grazie a loro che la parola avvocato qui in Italia ancora non è diventata, come in altri paesi, sinonimo di “affarista” e dunque se qui da noi ancora non esistono barzellette tipo «come fai a capire che un avvocato sta mentendo? Semplice ... gli si muovono le labbra» lo dobbiamo soprattutto a coloro che giorno dopo giorno onorano a fatica e spesso nell’indifferenza collettiva il proprio giuramento di fedeltà alla legge.

Buon Natale a tutti quei giudici che riconoscono un solo e unico sovrano cui rendere conto, che non è una corrente né un comunicato stampa, ma la Legge, quella UGUALE PER TUTTI; buon Natale a quelli tra i giudici che, mentre un avvocato illustra argomenti tecnici diversi da quelli consueti e consolidati, hanno il coraggio e la grandezza di mettersi in gioco dubitando, e riguardando, e approfondendo, perché soltanto in questo modo un giudice è realmente tale, cioè vincendo ogni pre-giudizio, a cominciare dal proprio.

Buon Natale a tutti quei pubblici ministeri che in ogni inchiesta si muovono e indagano senza riserve né preconcetti, per trovare una ragione nei comportamenti peggiori dell’essere umano pur senza farne una missione etica, e che quando trovano prove nuove sanno avare il coraggio di valutarle e, se del caso, farne tesoro per ritornare sui propri passi.

Buon Natale a chi in Corte di Cassazione continua a leggere con attenzione, sempre e comunque, tutti i ricorsi che giungono al suo esame, e soprattutto buon Natale a chi, sempre nella Suprema Corte, ritiene utile ridiscutere ogni volta anche una questione già risolta, perché soltanto così il diritto vive e si adegua alla realtà, misurandosi ad essa continuamente, anche qui senza pre-giudizio.

Buon Natale a tutti i servitori dello Stato che rischiano ogni giorno per la nostra incolumità, e che quando arrestano qualcuno lo vedono poi ricomparire in televisione pagato e coccolato per assecondare quella galleria degli orrori che è diventata ormai la nostra televisione, il panem et circensem del terzo millennio.

Buon Natale a tutti i cittadini che partecipano a questo blog, perché è soltanto leggendo nei vostri commenti tanta inesauribile sete e passione di Giustizia, che ciascuno di noi trova ancora un senso lungo questo percorso a ostacoli che è diventato il perseguire un valore di uguaglianza nel sistema italiano, disseminato di insufficienze strutturali e di qualche evidente imperfezione culturale.

Buon Natale a tutti coloro che ho sopra citato, perché essi sono ancora, e per fortuna, la maggioranza del Paese.

E buon Natale anche e soprattutto, in questi giorni, a Forleo e de Magistris, che di questa preziosa maggioranza sono parte essenziale.

Auguri di cuore.


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martedì 25 dicembre 2007

E' Natale!


E’ Natale!

La festa che celebra l’unica vera novità della storia: Dio che si fa incontro agli uomini, che li cerca.

Dice Dio nell’Apocalisse (3, 20): «Ecco, sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui e lui con me».

Un Dio che si fa uomo e che ci dice: «imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (Mt, 11, 29)

Gesù Cristo, «scandalo per i Giudei e follia per i Greci» (San Paolo, I Lettera ai Corinzi, 1, 23).

Follia per chi non riusciva a credere in nulla di trascendente, scandalo per chi si aspettava un Dio vincitore, un Dio che distruggeva i nemici ed entrava glorioso a Gerusalemme alla guida dei suoi eserciti.

Con questo ci dobbiamo confrontare – e noi per primi – per almeno tre ragioni.

1. Per essere davvero noi per primi miti e umili di cuore. Noi per primi, perché, come è scritto nel “biglietto da visita” del nostro blog, “nessuna riforma può essere efficace se non comincia da noi stessi”. Umili di cuore, perché solo nell’umiltà ci può essere l’uguaglianza che fa da fondamento della legge e da titolo del nostro blog.

2. Per saperci spendere con generosità: solo chi non pensa essere folle il darsi, può mettersi al servizio del bene comune (vale la pena farlo).

3. Per sapere convivere con la fatica e la sconfitta. L’abbandono di tante battaglie, ma soprattutto e peggio ancora lo sconforto e la rabbia di tanti sono conseguenza di una idea della vita e del mondo nella quale c’è solo “il fuori” e non anche “il dentro”.

Sicché sarà andata bene solo quando si sarà vinto, solo quando il mondo sarà diventato perfetto (peraltro, “perfetto secondo noi”), solo quando finalmente “i cattivi” saranno stati umiliati e sconfitti. E siccome, purtroppo, questa vittoria totale non arriva mai, ci si ritiene in diritto di cercarla con mezzi sempre più aggressivi e violenti (sono di questi anni le guerre intitolate “giustizia infinita” e altre follie simili), dando luogo alle ingiustizie che sul nostro blog abbiamo illustrato con due scritti del prof. Zagrebleski che si possono leggere qui e qui. E nel frattempo si coltivano nel cuore l’insoddisfazione a la rabbia.

Ma il cuore dell’uomo ha bisogno e diritto alla pace e alla gioia.

E li può avere, perché oltre al “fuori” c’è anche il “dentro”.

Oltre alla battaglia “globale” per cambiare il mondo, c’è quella personale, per cambiare il nostro cuore e aiutare gli altri a cambiare il loro.

Questo è l’augurio che ci facciamo e che facciamo a tutti coloro che leggeranno queste pagine.

Non sappiamo a che servirà e che sarà del nostro blog, ma noi saremo gioiosi se ci avrà impegnati e resi migliori, se sarà stato “bene per noi”, e se sarà stato occasione perché altri, tanti o anche uno solo, siano stati aiutati a ritrovare meglio se stessi e a impegnarsi, ovunque il Signore e la vita li abbiano messi e li cerchino.

Nelle nostre convinzioni e nelle nostre intenzioni tutto questo è pienamente rispettoso anche di chi non crede e di chi crede in un modo diverso: il blog è “fatto” e letto da persone di convinzioni diverse, la cui varietà non divide, ma arricchisce.

Auguri di cuore a tutti!

Permetteteci anche degli auguri speciali a delle persone che ci sono care, perché in questi tre mesi di vita e di impegno del blog lo hanno fatto vivere, lo hanno arricchito, lo hanno fatto proprio con la loro presenza, la loro attenzione, i loro commenti, la loro disponibilità, il loro affetto. I nostri lettori.

Grazie a tutti i lettori che non conosciamo, a tutti gli Anonimi (nel nome, ma non nell'impengo che hanno messo nel dare il loro prezioso contributo) e grazie in maniera speciale a quelli che ormai ci sono familiari. Grazie a Gennaro (a cui portiamo un affetto e un'amicizia speciali), a Cinzia, a Francesca, ad Alessandra, a Valentina, a Salvatore, a “Catone”, a Bartolo, a "Sil Lan", a Maria Teresa, a ...



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lunedì 24 dicembre 2007

Ma dove vanno i Magistrati


di Marco Travaglio
(Giornalista)


da L’Unità del 24 dicembre 2007

Questo non è un attacco alla magistratura, all’A.N.M., al C.S.M..

È un tentativo di riflettere criticamente, a cuore aperto, magari con l’aiuto degli stessi magistrati sull’evoluzione (o involuzione) che sta subendo, quotidianamente e silenziosamente, il rapporto fra magistratura, potere e società civile.

Parto da alcuni dati di fatto.

Nel 2006, alle ultime elezioni per il C.S.M., il 28,7 per cento delle toghe non ha espresso alcun voto valido (tra astenuti, bianche e nulle).

Significa che ben 2600 magistrati non si riconoscono più in alcuna corrente.

Due mesi fa, alle ultime elezioni per l’A.N.M., le due componenti più dinamiche, Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia, hanno subìto una dura batosta a vantaggio dei conservatori di M.I. e dei centristi di Unicost.

Ora l’A..N.M. è retta da una giunta monocolore di minoranza in mano alla corrente maggioritaria, Unicost (che, conscia delle difficoltà del momento, ha scelto come presidente e segretario nazionale due quarantenni: Simone Luerti e Luca Palamara).

Intanto sulle mailing list delle correnti si accende un focoso dibattito intorno ai cosiddetti «casi De Magistris e Forleo».

In estate lo scontro aveva riguardato lo sciopero prima annunciato e poi revocato in extremis contro la legge Mastella sull’ordinamento giudiziario che assorbe gran parte della Berlusconi-Castelli e, per certi versi, la peggiora.

Da una parte i fautori della «riduzione del danno», dall’altra gli intransigenti a ricordare i quattro scioperi indetti dell’A.N.M. sulla controriforma dei giudici quando al governo c’era Berlusconi e a criticare gli eccessi di prudenza (o di collateralismo) col centrosinistra attualmente al potere.

Sullo sfondo, gli imbarazzi per la «pax mastelliana» furbescamente conquistata dal Guardasigilli con la distribuzione (o lottizzazione) di poltrone ministeriali tra esponenti di tutte e quattro le correnti, progressiste e conservatrici.

E, in parallelo, il successo di alcuni libri e blog molto critici su questo andazzo, una sorta di «effetto casta» (per esempio, «Toghe rotte» del procuratore aggiunto di Torino Bruno Tinti o i siti del giudice catanese Felice Lima e di altri «cani sciolti» della magistratura).

Quando la politica imbocca la strada delle «larghe intese», di solito a farne le spese sono i poteri di controllo: a cominciare dalla magistratura e dalla stampa.

Fu così nel 1997-98, ai tempi della Bicamerale, ma allora proprio la libera stampa e la magistratura indipendente, pesantemente attaccate, tennero dritta la schiena in difesa dei princìpi costituzionali minacciati dalla controriforma bipartisan. Che alla fine saltò.

Questa volta invece la normalizzazione sembra avvenire non più «contro», ma «con» la magistratura organizzata e ufficiale, chiamata a collaborare al «taglio delle ali», allo spegnimento delle voci dissonanti, all’emarginazione di chi crede troppo in una «giustizia uguale per tutti» e dunque disturba i manovratori.

Il che, se fosse vero, sarebbe gravissimo, perché la magistratura non può rispondere a criteri di opportunità politica, graduando la sua autonomia e la sua indipendenza (interna ed esterna) a seconda delle «esigenze superiori» del momento.

Attenzione: qui non si tratta di oscuri complotti, di turpi «intelligenze col nemico». Ma semplicemente di un clima generale che va nella direzione della normalizzazione, della corsa al centro, della prudenza a ogni costo, del «sopire e troncare», del «chi te lo fa fare in questo momento?».

Un clima che si respira dappertutto, nei palazzi della politica, dell’alta finanza, dei grandi giornali, e che il singolo magistrato può scegliere se assecondare o contrastare.

Ben sapendo quali saranno le conseguenze: se asseconda, viene applaudito e fa carriera; se contrasta, magari perché si sta occupando di dossier delicati e non intende voltarsi dall’altra parte, viene attaccato, ispezionato, malvisto dagli stessi colleghi, sanzionato o sabotato dai superiori, trascinato dinanzi al C.S.M. nel silenzio generale, anche del suo sindacato.

Appena insediata, il 5 dicembre, la nuova giunta dell’A.N.M. s’è presentata con uno sconcertante comunicato che invitava i magistrati alla «prudenza» e la politica a «non strumentalizzare» le vicende Forleo e De Magistris, dalle quali l’A.N.M. prima si chiamava fuori («non spetta a noi dire chi ha ragione e chi ha torto né fare il tifo»), ma poi interveniva a piedi giunti criticando i due reprobi senza nominarli: «Non si può dare il messaggio che solo un singolo magistrato è in grado di combattere il potente di turno perché così non si rassicura l’opinione pubblica».

Vero, se non fosse che a Catanzaro il procuratore capo ha tolto a De Magistris l’indagine «Poseidone» appena questa ha investito il forzista Pittelli, socio in affari del figliastro dello stesso procuratore; se non fosse che il procuratore generale reggente ha avocato a De Magistris l’inchiesta «Why Not» appena questa ha investito il ministro Mastella; se non fosse che Letizia Vacca, vicepresidente della I commissione del C.S.M. che deve decidere sul trasferimento di Forleo e De Magistris, ha già sentenziato che «è necessario che emerga che sono due cattivi magistrati» e che «non sarà colpita soltanto la Forleo», ma anche altri.

Contro questa gravissima violazione del riserbo e anticipazione del giudizio (per molto meno il giudice è ricusabile), l’A.N.M. non ha speso una parola.

E non è vero - come invece sostiene - che «l’A.N.M. non è mai intervenuta nel merito delle questioni sottoposte a inchieste disciplinari»: basti pensare ai durissimi comunicati emessi a suo tempo in difesa del pool di Milano contro le azioni disciplinari avviate dai governi Prodi e Berlusconi.

La stessa A.N.M., retta dai quarantenni Luerti e Palamara, è tornata di recente a farsi viva per difendere giustamente la Procura di Napoli, accusata di far parte dell’«armata rossa delle toghe» a proposito dell’inchiesta Berlusconi-Saccà, peraltro perforata da una fuga di notizie prima della fine delle indagini.

Se l’A.N.M. avesse speso le stesse parole in difesa del gip Forleo, attaccata e insultata per tutta l’estate da sinistra e destra per l’ordinanza sulle scalate bancarie, avrebbe dissipato i sospetti di usare due pesi e due misure a seconda del colore degl’interessi in gioco.

E avrebbe dato serenità della Forleo che invece, sentendosi assediata e lasciata sola, ha denunciato in tv e agli organi competenti il proprio isolamento.

Una parola chiara contro gli attacchi alla Forleo, magari accompagnata da una «pratica a tutela» da parte del C.S.M. (com’è appena avvenuto in difesa dei pm di Napoli), avrebbe evitato tanti sospetti e guai successivi.

Invece sulla Forleo l’A.N.M. ha taciuto, salvo accorgersi improvvisamente di lei l’altro giorno, quando Anno Zero s’è occupato del suo caso e della telefonata Berlusconi-Saccà.

La nota del 21 dicembre è stupefacente: «Mentre il presidente della Repubblica autorevolmente si appella al principio di leale collaborazione tra tutte le istituzioni e al recupero del senso del limite e del rispetto reciproco, alcuni media pubblicano i files audio di intercettazioni telefoniche interne a una indagine penale ancora in corso e altri trasmettono versioni sceneggiate di note vicende oggetto di procedimenti penali e disciplinari che coinvolgono magistrati. La magistratura associata raccoglie il preoccupato appello del Capo dello Stato a che non si accenda una nuova e deleteria spirale, dannosa per le istituzioni politiche, per la magistratura e quindi ultimamente per i cittadini e stigmatizza operazioni mediatiche e spettacolari che possano alimentare il pericolo (...). Solo la prudente e responsabile applicazione delle norme e delle garanzie, in vista di un autentico fine di giustizia a cui sono tenuti tutti i magistrati è il vero segno di indipendenza che qualifica positivamente il doveroso controllo di legalità».

A parte le gravi inesattezze (l’intercettazione Berlusconi-Saccà non è affatto «interna a un’indagine ancora in corso», ma contenuta nell’atto di chiusura indagini notificato agli indagati), stupisce il continuo invito alla «prudenza» a magistrati e giornalisti: ma chi l’ha detto che, per indagare e per scrivere, si debba essere «prudenti»?

Lo scopo del magistrato e del giornalista è la verità, non la prudenza e il quieto vivere.

A meno che non si voglia affidare il controllo del potere a migliaia di Brunivespa.

Stupisce poi l’attacco a una trasmissione che, con un esperto del calibro del professor Franco Cordero, ha cercato di fare luce su una vicenda oscura come quella che coinvolge il gip Forleo, dando la parola a tutte le parti in causa.

È vero che la magistratura associata ne è uscita maluccio.

Ma l’informazione non è l’ufficio stampa dell’A.N.M. o del C.S.M. E comunque non spetta all’A.N.M. «stigmatizzare» programmi o commenti sgraditi.

A meno che, si capisce, l’A.N.M. non si senta parte di una missione normalizzatrice, cioè tutta politica, nell’ambito delle «larghe intese».

Ma questo non vogliamo nemmeno ipotizzarlo.

Se però qualcuno ci aiutasse a non pensarlo mai, saremmo tutti più tranquilli.

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Sulla reazione dell'A.N.M. alla trasmissione Anno Zero del 20 dicembre, abbiamo scritto in questo blog qui e qui.



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sabato 22 dicembre 2007

L'A.N.M. al servizio del potere



di Uguale per Tutti

L'Associazione Nazionale Magistrati ha diffuso ieri un comunicato stampa davvero sorprendente, con il quale, contro ogni logica e contro l'evidenza delle cose, tenta di criminalizzare la ricostruzione della vicenda della collega Forleo fatta nella trasmissione Anno Zero andata in onda l'altroieri su Rai 2.

"La Magistratura" ha fatto di tutto per biasimare e punire la partecipazione della collega Forleo alla trasmissione Anno Zero.

Adesso intende biasimare anche la trasmissione fatta senza la collega Forleo, utilizzando degli attori per ricostruire la vicenda.

Insomma, sembra che "la Magistratura" non voglia che l'opinione pubblica conosca e capisca cosa succede in questa vicenda.

L'uso di attori per ricostruire fatti di interesse pubblico, anche relativi a processi, penali e non, è fatto abituale per la televisione ed è sempre avvenuto senza che mai "la Magistratura" ritenesse di trovarlo biasimevole.

Tutte le più importanti e autorevoli trasmissioni televisive di informazione e approfondimento fanno ricorso alla ricostruzione sceneggiata di fatti e processi. Fra le tante, ci limitiamo a citare qui Report e Blu Notte.

L'altroieri vi hanno fatto ricorso anche Michele Santoro e Sandro Ruotolo ad Anno Zero, in una trasmissione di altissima qualità tecnica, con interventi dell'autorevolezza di Franco Cordero e Antonio Tabucchi.

La ricostruzione sceneggiata dei fatti è stata rispettosa di tutte le versioni degli stessi. Sono state esposte le versioni dei fatti di tutti i protagonisti della storia, nel massimo rispetto dei doveri deontologici e professionali dei giornalisti che, così, hanno fatto informazione. Cioè ciò di cui il Paese e la democrazia hanno oggi un bisogno disperato.

Resta del tutto incomprensibile come questo possa apparire all'Associazione Nazionale Magistrati come un fatto che "accende una nuova e deleteria spirale, dannosa per le istituzioni politiche, per la magistratura e quindi ultimamente per i cittadini" e ancora di più lascia esterrefatti che l'A.N.M. associ suggestivamente questo fatto a una asserita violazione del segreto investigativo.

Il comunicato dell'A.N.M. su quest'ultimo punto, oltre a essere intenzionalmente suggestivo e fuorviante, perché l'eventuale violazione del segreto investigativo nella vicenda Saccà/Berlusconi non ha proprio niente a che fare con la ricostruzione della vicenda Forleo fatta da Sandro Ruotolo ad Anno Zero, è anche errato in fatto, perché non è vero che, come sostiene l'A.N.M., l'indagine penale alla quale si riferisce l'intercettazione Saccà/Berlusconi sia ancora in corso.

Come ha scritto il prof. Vittorio Grevi sul Corriere della Sera di oggi (ed era dovere dell'A.N.M. informarsi prima di lanciare accuse gravi e infondate), in quell'indagine i pubblici ministeri hanno già dato ai difensori l'avviso di conclusione delle indagini e hanno depositato gli atti a loro disposizione, con ciò facendo cessare il segreto investigativo.

Riportiamo qui di seguito il comunicato del'Associazione Nazionale Magistrati e due mail inviate alle mailing list "riservate" delle correnti dell'A.N.M. da parte dei colleghi Felice Lima e Nicola Saracino per contestare la "linea politica" dell'A.N.M..

Le mail dei colleghi sono scritte in un linguaggio diretto, senza particolari preoccupazioni per le forme, perchè pensate per una mailing list "interna". Abbiamo ritenuto, però, di riportarle così come sono, senza chiedere ai colleghi di apportare modifiche funzionali alla pubblicazione qui.

La puntata di Anno Zero di cui si è detto può essere vista per intero sul sito della trasmissione a questo link, cliccando su "guarda il video".

Nel blog di Sandro Ruotolo, a questo link, c'è una presentazione della "docufiction".

Il video della "docufiction" che ha fatto arrabbiare l'A.N.M. può essere visto cliccando qui.


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Il comunicato dell'A.N.M.:

Associazione Nazionale Magistrati

COMUNICATO STAMPA

Lo stesso giorno in cui il Presidente della Repubblica autorevolmente si appella al principio di leale collaborazione tra tutte le istituzioni ed al recupero del senso del limite e del rispetto reciproco, alcuni media pubblicano i files audio di intercettazioni telefoniche interne ad una indagine penale ancora in corso e altri trasmettono versioni sceneggiate di note vicende oggetto di procedimenti penali e disciplinari che coinvolgono attualmente magistrati.

La magistratura associata raccoglie il preoccupato appello del Capo dello Stato a che non si accenda una nuova e deleteria spirale, dannosa per le istituzioni politiche, per la magistratura e quindi ultimamente per i cittadini e stigmatizza operazioni mediatiche e spettacolari che possano alimentare il pericolo così autorevolmente segnalato.

Al contrario, per quanto le compete, l’ANM riafferma che solo la prudente e responsabile applicazione delle norme e delle garanzie - in vista di un autentico fine di giustizia a cui sono tenuti tutti i magistrati - sia il vero segno di indipendenza che qualifica positivamente il doveroso controllo di legalità.

Roma, 21 dicembre 2007

Il Presidente, Simone Luerti
Il Segretario, Luca Palamara


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La mail di Felice Lima:

L'Associazione Nazionale Magistrati ha diffuso oggi il comunicato che riporto qui sotto.

Io vorrei rivolgere ai colleghi che ne sono autori e a tutti gli altri che come me sono iscritti a questa associazione un paio di domande:

1. Me lo potete spiegare, per favore, perchè davvero non lo capisco, in cosa la narrazione sceneggiata di alcuni fatti di notevolissimo interesse pubblico accenderebbe - nella greve prosa dei nostri colleghi che ci rappresentano - "una nuova e deleteria spirale, dannosa per le istituzioni politiche, per la magistratura e quindi ultimamente per i cittadini", tale da dovere indurre la nostra associazione di categoria a "stigmatizzare operazioni mediatiche e spettacolari che possano alimentare il pericolo così autorevolmente segnalato"?

2. Vi sembra una cosa "normale", "accettabile" e "decente" mettere sullo stesso piano una violazione di segreti d'ufficio, che costituisce reato, con il pieno e del tutto legittimo esercizio del diritto di cronaca, quale è stata la narrazione sceneggiata che ha turbato il sonno dei "nostri"? La narrazione sceneggiata per la quale a nostro nome i nostri colleghi della Giunta si indignano è stata del tutto rispettosa di tutte le versioni dei fatti date da tutti i protagonisti. Essa non risulta violare nessuna regola né giuridica né deontologica e, purtroppo, l'unico motivo che io riesco a trovare per questa "uscita" della "nostra" associazione è che quella narrazione mette in evidenza alcuni evidenti paradossi della versione dei fatti data da alcuni autorevoli rappresentanti della magistratura, associata e non.

3. Ma l'A.N.M., così pronta a indignarsi per cose di cui nessuno che sia disinteressato avrebbe alcuna ragione di indignarsi, dov'era quando la prof. Vacca ha leso la credibilità del C.S.M., ivi compresi i magistrati Consiglieri, dando luogo a una incontenibile esternazione giornalistica di cui vanno discussi (e ancora nessuno sembra volerli discutere) i contenuti, i tempi e i modi?

4. L'A.N.M. pensa di difendere le buone ragioni della magistratura contro comportamenti come quello della porf. Vacca o non vuole farlo?

5. Già che ci sono, la stessa A.N.M. dov'è tutte le volte che, anche alla presenza di magistrati tronfi e compiaciuti, vengono "sceneggiate" ricostruzioni a dir poco pittoresche di villette valdostane, sottoscala romani, eccetera?

6. Nel programma della nuova Giunta c'è anche qualcosa contro "Blu notte", il celebre programma di Carlo Lucarelli che sceneggia di tutto? Se si, approfitto di questa mail per denunciare alla nostra Giunta che ho visto tempo fa una puntata di "Blu notte" nella quale è stato sceneggiato sia l'assassinio sul treno di un agente di Polizia da parte di Nadia Desdemona Lioce sia alcuni interrogatori della Lioce medesima. Ovviamente, come tutti i magistrati, mi sono indignato :-( . Allora non ho avuto il coraggio di fare denuncia della cosa, ma ora voglio liberarmi la coscienza con questa mail :-(.

7. Potreste dirmi cosa c'è che va biasimato nella narrazione sceneggiata di "note vicende" (come le chiamano i "nostri") "oggetto di procedimenti penali e disciplinari che coinvolgono attualmente magistrati"? Cos'è che la magistratura associata vorrebbe vietare? Le narrazioni sceneggiate? Le narrazioni che riguardano magistrati? Le narrazioni che riguardano "note vicende"? Così, tanto per sapere quale idea di democrazia e libertà di informazione abbiamo.

Vi confesso che, come più volte ho scritto, trovo triste che l'A.N.M. sappia fare solo comunicati e di solito penso che, così facendo, è normale che nessuno ci presti ascolto.

Oggi, dopo avere letto questo comunicato, ho pensato: meno male che tanto 'ste cose non se le legge nessuno. Altrimenti tutti avrebbero l'ennesima conferma che la magistratura associata vive con l'unica ambizione di essere "omologa".

Spero di ricevere risposte alle domande che ho posto.

Un caro saluto.

Felice Lima

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La mail di Nicola Saracino:

E' forse prudente il pre-giudizio espresso da un componente del C.S.M. che si accinge a provvedere su una pratica di incompatibilità di un magistrato, vale a dire sul valore costituzionale dell'inamovibilità?

E' prudente che continui a fare il Consigliere in quella stessa commissione?

E' forse prudente l'esercizio del potere di avocazione non sottoposto ad alcun controllo di legalità?

E' forse prudente che l'accusa disciplinare per fatti noti e stranoti venga esercitata a distanza di molti mesi prendendo spunto da episodi del tutto diversi?

E' forse prudente tollerare che gli ispettori di un Ministro della Giustizia stazionino per anni negli uffici giudiziari impegnati in indagini piuttosto delicate che interessano lo stesso politico?

E' forse prudente far finta di ignorare che il Ministro non ha più il potere di compiere inchieste mirate?

E' forse prudente tacere che il CSM considera il trasferimento disciplinare cautelare di un magistrato "irrevocabile", così vulnerando a sua volta l'art. 107 Cost.?

E' forse prudente tollerare che si censuri il merito di provvedimenti giudiziari che, a detta di Franco Cordero, non hanno nulla di abnorme?

E' forse prudente aprire una pratica a tutela se indagato è il capo dell'opposizione ed appellarsi alle libere prerogative del politico se è il Ministro della Giusitizia a definire ridicole le indagini che lo riguardano?

Mi dispiace ma io dissento da questa linea e intendo esercitare le libertà costituzionali di critica e di manifestazione del pensiero almeno fino a quando non sia decretata legalmente la sospensione di quelle garanzie.

Probabilmente il vero problema dell'A.N.M. è che essa esprime direttamente il C.S.M. e i suoi dirigenti giungono ai vertici del Minisero della Giustizia; ecco perché ha le "mani legate" quando sono posti in discussione i valori della indipendenza interna del magistrato.

Ma la colpa di ciò non è certo del Presidente o del Segretario.

Nicola Saracino


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La ricostruzione dei fatti che fa arrabbiare l'A.N.M.


L'Associazione Nazionale Magistrati, con un sorprendente comunicato, che abbiamo pubblicato qui, ha biasimato il fatto che nella puntata di Anno Zero dell'altroieri sia stata ricostruita la vicenda che riguarda la collega Clementina Forleo, ricorrendo per farlo a una ricostruzione sceneggiata.

Nel post che si può leggere qui abbiamo già commentato il comunicato dell'A.N.M..

Mettiamo adesso qui i link al video, diviso in tre parti, della ricostruzione sceneggiata della vicenda Forleo che sorprendentemente ha fatto arrabbiare l'Associazione Nazionale Magistrati.

Come sempre, vedendo il video oggetto della "discordia" ognuno si potrà fare un'idea della fondatezza o meno del comunicato dell'A.N.M..

L'intera puntata di Anno Zero del 20 dicembre 2007 da cui è tratto il video può essere vista sul sito della trasmissione a questo link, cliccando su "guarda il video".


Prima parte:




Seconda parte:




Terza parte:




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venerdì 21 dicembre 2007

Il giudice e le intercettazioni



Riportiamo un articolo del prof. Franco Cordero, pubblicato su La Repubblica di oggi.

L’autorevolezza scientifica e morale del prof. Cordero è massima, come sa chiunque ne conosca la storia personale e gli scritti. Gli siamo profondamente grati, come cittadini prima che come magistrati e avvocati, per avere speso, come sempre, con il coraggio e la rettitudine che gli sono propri, il suo impegno nel dire la verità sulle vicende che ci occupano in questi mesi.

Nel merito delle accuse alla collega Clementina Forleo, ieri, nella trasmissione Anno Zero, il prof. Cordero ha definito tecnicamente inconsistente l'atto di accusa del Procuratore Generale Delli Priscoli.



di Franco Cordero

In famose satire, vedi Rabelais, le dispute legali sono dialettica artefatta e coscienza volatile («Iuristen bose Christen», imprecava Lutero, cattivi cristiani) ma ogni tanto toccano i nervi sollevando questioni d’alto interesse etico e politico.

Consideriamo l’anatema disciplinare sull’ordinanza con cui un giudice delle indagini preliminari chiedeva a Montecitorio il permesso d’usare colloqui intercettati dove mettono becco dei parlamentari.

Sappiamo quanti privilegi abbiano.

Ad esempio, l’immunità dalla sonda istruttoria regolata negli artt. 266 ss.c.p.p.: ricorrendo dati presupposti, è ascoltabile chi parla sul filo o nell’etere, loro no; l’indagante supplichi la Camera; se ne discute nella relativa giunta e l’assemblea vota; a quel punto l’ascolto è inutile, salvo che l’onorevole sia un temerario demente.

Talvolta cade nella rete sebbene nessuno lo spiasse: chiama persone poco raccomandabili i cui apparecchi un pubblico ministero sorveglia, o chiamato, risponde incriminandosi; colpa sua, direbbe ogni ragionatore; sia più cauto, ma la legge 20 giugno 2003 n. 140 offre uno scudo, vero-similmente illegittimo, sia detto eufemisticamente; i segni vocali esistono solo dall’istante in cui Camera o Senato permettano d’usarli; altrimenti i reperti vanno al diavolo, tamquam non essent, beneficiandone i conversanti profani e persone nominate nel colloquio; norma manifestamente invalida, quest’ultima, e tale dichiarata poche settimane fa.

Nella fattispecie vari scorridori arrembano le prede: Unipol, rossa, vuoi inghiottire Bnl, tre volte più larga; e siccome la finanza non ha anima, corrono intese trasversali; esponenti del mondo politico tengono bordone ai pirati.

Volano discorsi sui quali è caritatevole stendere spessi veli.

L’indagante sottopone i materiali al giudice affinché scelga i rilevanti e invochi l’assenso della Camera.

Vi provvede un’ordinanza.

Inde ira, anzi irae: finché inveiscano gl’interessati, il fenomeno attesta costumi poco lodevoli; nessuno se ne stupisce; erompono fiotti d’una retorica a buon mercato, violenta quanto elusiva; né varrebbe la pena discutervi se qualche paralogismo non rifluisse nel procedimento disciplinare.

L’affare diventa grave.

Enumeriamo i capi.

Primo, quel magistrato non esercitava giurisdizione né accusa.

Bella scoperta: seguiva la procedura delle intercettazioni applicando l’art. 6 della legge predetta, ad unguem, dicono i vecchi dottori; ha vagliato una massa verbale lutulenta individuando i frammenti secondo lui rilevanti nel procedimento contro i raiders; e spiega perché li ritenga tali; se no, il consesso griderebbe al fumus persecutionis.

Secondo: chiedendo alla Camera il permesso d’usarli contro persone su cui il pubblico ministero non indaga, ha compiuto un atto abusivo: «ultroneo», scrive il requirente, latinismo molto usato nel gergo avvocatesco; l’equivalente italiano è «gratuito», «fuori tema», «insinuato furtivamente».

Nossignori: lavorava sul clou; è affare suo la diagnostica penale (stabilire quali fatti siano rilevanti); donde l’ipotesi che le frasi enucleate configurino un insider trading, consumato dall’arrembante, e un concorso del collocutore nell’aggiotaggio.

Eccome doveva dirlo: non conia imputazioni e tanto meno condanne; la scelta se agire spetta al pubblico ministero; l’eventuale udienza preliminare dirà se vi sia materia d’accusa e dibattimento. La norma allora vigente (poi dichiarata invalida) equipara gl’inquisiti ai parlamentari interlocutori incauti: le considerazioni che il gip sviluppa in proposito ventilano dei futuribili; ecco cosa potrebbe accadere se il materiale fosse adoperabile (tale previsione è tecnicamente definibile denuncia).

Insomma, en garde. Siamo sul terreno del fair play.

I destinatari non possono schermirsi: dicano sì su tutta la linea; oppure concedano il permesso solo contro i non parlamentari; tacendo sull’onorevole pericolante, il giudice rischia un no tout court, nel qual caso la prova svanisce.

Terzo: straripa dalle funzioni tirando in ballo persone che il pubblico ministero non aveva iscritto nel registro delle notitiae criminis; argomento simile al paradosso del cretese quando afferma che tutti i cretesi mentano (è vero o falso?: impossibile dirlo).

Non figurano nel registro perché, rebus sic stantibus, il dato a carico emerge dalle voci captate: ed è valutabile solo quando gli unti dal popolo abbiano degnato l’ufficio instante d’un benevolo assenso; qualcuno deve chiederlo; se non può nessuno, l’affare resta sur place all’infinito, ma non pare decorosamente sostenibile che codici evoluti generino perversi circoli chiusi.

Ripetiamolo: l’asserito aggressore non usurpa niente, fa coscienziosamente il suo lavoro; il pastiche è opera degli artt. 268 ss. c.p.p. e 6 legge 20 giugno 2003, dove riappare il giudice istruttore, sepolto 18 anni fa.

Nelle indagini preliminari esiste solo l’embrione d’una possibile imputazione: l’organo chiamato a valutare la rilevanza penale dei reperti violerebbe i doveri d’ufficio chiudendo gli occhi su possibili quasi imputati ancora assenti dalla scena; poi agisca il pubblico ministero, se ritiene d’esservi tenuto.

Quarto, emette «un giudizio anticipato»: argomento non spendibile nelle discussioni dans les règles; se lo fosse, quanti atti dovremmo inibire, ad esempio ogni richiesta d’una misura cautelare e relativa decisione positiva.

E’ anche colpevole d’avere usato «termini suggestivi».

Mah, nessuna regola scritta od orale impone un eloquio pallido: «le style c’est l’homme» o «la femme»; ognuno scrive come l’organismo psichico gli detta.

L’ordinanza vituperatasta nel consueto modello stilistico: non vi trova niente d’enfatico chi legga avendo sotto gli occhi i testi che accompagna; erano più cariche le parole verso i raiders senza sangue blu.

Quinto, offende l’immagine d’alcuni uomini politici senza che possano difendersi, povere anime.

Altro argomento dal pregio tecnico molto esiguo, anzi impercettibile.

Doveva lodarli o glisser riguardosamente? O improvvisare un contraddittorio fuori programma?

Figurano piuttosto male, vero, ma è un autoritratto: i guasti non dipendono da pretesa malignità dello scrivente; se li infliggono parlando così, né li nobilita la tortuosa gestione forense-mediatica del caso.

A proposito d’enfasi, l’iperbole sta nel chiamare «abnorme», ecc., un provvedimento in regola: i rilievi negativi sull’ipotetico fatto sono motivati dal materiale; i colpi di clava disciplinare contro l’ordinanza, no.

Abbiamo visto quanto poco valgano gli argomenti.

Non sarebbe successo in materie meno infestate: ancora mezzo secolo fa la procedura penale stava alle discipline nobili come l’arte del barbiere cerusico sta alla scienza medica; molte cose sono cambiate in meglio ma persistono furberie ataviche, nonché sacche d’ignoranza; e così gli chicaneurs profittano d’apparati normativi che li favoriscono. Qualcuno addirittura se li allestiva in veste da legumlator.



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