Come nelle migliori
tradizioni del Bel Paese, all’insediamento di un nuovo esecutivo corrisponde
una annunciata riforma “epocale” della giustizia.
Non ha fatto
eccezione il governo dalle larghe intese
guidato da Mario Draghi, che vede come ministra della Giustizia la
professoressa Marta Cartabia.
Il piano nazionale
di ripresa e resilienza, che costituisce il cosiddetto Recovery plan,
necessario per ottenere i cospicui fondi europei (oltre 220 miliardi di euro),
ha addirittura messo le ali agli annunciati, consueti, proclami e ha reso
tangibile e concreta l’attuazione di quella che qualcuno ha ribattezzato, in
modo non particolarmente benevolo, la “schiforma”.
In materia penale,
infatti, per accelerare i tempi si è assistito all’innesto del disegno di legge
elaborato dal governo in quello presentato dal predecessore, Alfonso Bonafede,
dando vita ad un sostanziale ibrido, che ha preso, purtroppo, le sembianze di
un Minotauro (giusto per evocare esseri appartenenti alla mitologia greca,
tanto cara alla ministra).
Molti temono, però,
che questa entità possa avere la forza di distruggere le speranze di quei
cittadini che nella giurisdizione ripongono l’ultimo barlume di speranza.
Specialmente alla
luce della fiducia con la quale il governo ha deciso di far approvare in
parlamento i disegni di legge in materia di riforma della giustizia civile e
penale, in meno di 48 ore, impedendo alla commissione Giustizia di discutere e
votare gli emendamenti delle minoranze.
Se alcuni
interventi sul processo penale possono sembrare convincenti, come quello
sull’udienza preliminare, altri dimostrano tutta la loro fallacia. E,
purtroppo, sono quelli determinanti per la antiquata e farraginosa macchina
della giustizia.
L’Unione Europea ha
chiesto all’Italia di rendere competitiva la giustizia penale – diminuendo la
durata dei processi, soprattutto nelle fasi dell’impugnazione - e di rafforzare
il contrasto alla corruzione.
Rispetto a questi
due obiettivi la riforma della giustizia penale appare una vera e propria
“truffa”, in senso politico.
Essa induce in
errore la Commissione Europea con l’artificio di promettere tempi rapidissimi
in appello e in Cassazione, così ottenendo il profitto dei fondi strutturali
assicurati, in danno della UE.
Gli strumenti
adottati, infatti, non solo si rivelano del tutto abnormi e inefficaci, ma
appaiono palesemente in contrasto con la Costituzione.
L’introduzione
della nuova categoria della improcedibilità nelle fasi di Appello e Cassazione (con termine di due anni per il
secondo grado e di uno per quello di legittimità), invero, non mira a diminuire
la durata dei processi, ma stabilisce soltanto la loro “morte” a data certa,
così rendendo vano lo sforzo della celebrazione dei giudizi in primo grado,
potendo mandare impuniti gli autori di reati gravissimi, trasformando le
sentenze assolutorie in “non condanne”, frustrando le speranze di una statuizione
risarcitoria e restitutoria delle vittime.
Con l’effetto
perverso di moltiplicare ineluttabilmente il numero di impugnazioni inutili o
chiaramente inammissibili, soltanto al fine di lucrare, allo scoccare dell’ora
X, una sentenza di non luogo a procedere.
E con l’ulteriore
aggravante di fare ricadere sui magistrati, in assenza di interventi
strutturali (aumento dell’organico e del personale amministrativo,
digitalizzazione e informatizzazione
degli uffici) la responsabilità delle pronunzie “ammazzaprocessi”.
Per di più i
crimini dei colletti bianchi (tra i quali
abuso d’ufficio, traffico di influenze, corruzione, peculato e
concussione, tanto per dire i più gravi) sono clamorosamente rimasti fuori
dall’elenco di quelli per i quali si prevede un automatico aumento della durata
del termine di fase.
Altro elemento
esiziale per la Dike della riforma Cartabia è dato dalla previsione che i
criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale siano indicati dal
Parlamento.
Ciò conculca il
dettato normativo dell’articolo 112 della Costituzione (obbligatorietà
dell’azione penale) ma, soprattutto,
rende il pubblico ministero soggetto non alla legge ma ai volubili desiderata dei rappresentanti
parlamentari di maggioranza. Si violano contemporaneamente i fondamentali principi
della separazione dei poteri e dell’apoliticità della giurisdizione, entrambi
cardine del nostro ordinamento giuridico.
La detestata
politicizzazione della funzione inquirente (di fatto troppe volte manifestatasi
già nell’attuale assetto costituzionale, come emerso dalle testimonianze di ex rappresentanti
dell’autogoverno e dell’Anm, oltre che dal collateralismo politico delle
correnti), diventerebbe ordinaria e conclamata, annichilendo l’esercizio
imparziale e egualitario della azione
penale.
L’autonomia e
l’indipendenza dell’ordine giudiziario si vedranno definitivamente sconfitte
dal Minotauro creato dal governo della agognata ripresa e resilienza.
Il mostro divorerà
nel Labirinto di Cnosso (così diventeranno le aule dei Tribunali penali italiani) soltanto le vittime
sacrificali offertegli in pasto dal Parlamento tramite la longa manus delle
Procure della Repubblica.
Altro che fare un servizio alla Giustizia e ai suoi
fruitori: le distorsioni denunciate contribuiranno, al contrario, a rendere
sempre più dipendente la stessa da altri Poteri dello Stato e si neutralizzerà,
inoltre, l’efficacia sostanziale del processo, ponendo una tagliola
procedimentale capace di surrogare la prescrizione (anche prima del tempo
previsto per l’estinzione del reato) e di lasciare senza colpevoli -e senza vittime- crimini che destabilizzano
l’intera società, oppure frustrando le esigenze di verità degli imputati
innocenti.
Nel sostanziale
silenzio, forse persino complice, della magistratura associata e del mainstream
mediatico, fortunatamente con qualche lodevole eccezione.
In assenza,
all’orizzonte, di una Arianna e di un Teseo capaci rispettivamente di tessere il filo e di
affondare la spada nel corpo dell’orrenda Bestia.
(Articolo pubblicato su Domani del 24 settembre)
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