di Nicola Saracino - Magistrato
Proposta come un’assoluta novità compare, tra le altre, l’idea di registrare l’attività del magistrato secondo l’esito dei processi che ha curato e quindi si propone di rilevare analiticamente i casi nei quali le sue decisioni hanno retto al vaglio dei successivi gradi di giudizio (o, per i pubblici ministeri, i casi nei quali le loro richieste siano state accolte) per trarne conseguenze sulle sue capacità e preparazione.
Come per tutte le cose, la trovata non è né buona né cattiva in sé, tutto dipende dall’uso che se ne vorrà fare.
Si parta da un dato: nel processo (civile o penale, poco importa) non si praticano scienze esatte.
Si ricostruiscono fatti e vicende umane in base alle prove la valutazione delle quali può non collimare tra una testa ed un’altra. Si applicano norme giuridiche che richiedono, previamente, d’essere interpretate ed il margine di opinabilità di moltissime questioni è, tradizionalmente, piuttosto ampio (quot capita, tot sententiae).
Del resto a questo tipo di scrutinio sfuggirebbero tutti i giudici che oggi accedono alla Corte di cassazione in età giovanile: le decisioni che concorrono a prendere collegialmente non potranno essere modificate da nessuno, non perché corrette in assoluto ma perché, appunto, non contestabili davanti ad altra autorità giudiziaria.
Per giunta è fenomeno comune, quasi quotidiano, il contrasto di decisioni tra le diverse sezioni della stessa corte di cassazione su identiche questioni di diritto.
Si aggiunga che spesso le innovazioni giurisprudenziali (prendetele un po’ come delle “scoperte” scientifiche) vedono la luce come errori, se non addirittura come veri e propri “sgorbi” giuridici, i cd. atti abnormi.
Salvo a diventare dei cigni quando quelle tesi, nate come bizzarre, riescano ad insinuarsi nella stessa giurisprudenza della Cassazione che, rimeditando precedenti indirizzi, avvalori la nuova soluzione.
Certo è, però, che se le sentenze di un giudice fossero oggetto di sistematica correzione nei gradi di impugnazione potrebbe dubitarsi del contributo di quel magistrato all’efficienza della giustizia.
Così come, del resto, sarebbe incauto affidarsi ad un avvocato che non abbia mai vinto una causa.
Così inquadrato il tema, deve osservarsi che, a dispetto della pretesa d’originalità dell'ideatore, esso non è affatto nuovo in quanto già correntemente nelle valutazioni periodiche della professionalità dei magistrati uno dei parametri da scrutinare è proprio quello dell’anomalia nel rapporto tra decisioni impugnate e riformate (o annullate).
Sin qui, pertanto, nessuna novità degna di nota e soprattutto tale da destare stupore.
A meno che non s'ipotizzi un mero automatismo che dalla percentuale di “correzioni” delle decisioni nei gradi di impugnazione tragga conclusioni negative sulle qualità professionali del togato.
Sarà sempre necessario, a fronte di anomalie del tipo segnalato, verificare se esse dipendano da impreparazione o scarso impegno o se, invece, ci si trovi al cospetto di un novello, ma incompreso, Carnelutti (un grande e versatile giurista, n.d.r.).
Sorprende, pertanto, che la reazione - a quella che non è affatto una novità, ma una prassi già da tempo invalsa per valutare, ogni quadriennio, la professionalità dei magistrati - sia stata una levata di scudi dai toni piuttosto accesi, evocandosi da taluni addirittura l’idea di una “schedatura” delle toghe.
Schedatura che, almeno in parte, già deve essere praticata se ha un senso il parametro, attualmente in voga, dell’anomalia nella percentuale di correzione delle decisioni del magistrato.
Di schedatura si può parlare solo quando la raccolta dei dati avvenga con modalità incontrollate ed essi non siano conoscibili dall’interessato e soprattutto quando di quei dati non sia noto, perché non regolato dalla legge, l’uso che vuol farsene.
Ed allora tanto l’ANM che la politica dovrebbero farsi carico della sistematica schedatura dei magistrati che avviene per via di una circolare del CSM, maldestra e di stampo poliziesco.
Quella che, in contrasto con lo stesso codice di procedura penale, obbliga i pubblici ministeri a comunicare al CSM (ed al Ministro della Giustizia) notizie segrete in ordine ad indagini penali riguardanti magistrati.
Una pratica che, in modo sinistro, fa somigliare il Palazzo dei Marescialli (sede del CSM) al suo stesso nome, perché vi confluiscono dati spuri, non verificati né sottoposti al contraddittorio degli interessati impossibilitati a difendersi, il cui uso è per tutti, ancor oggi, avvolto in un alone di mistero.
Che un qualche uso debba esserci lo impone la logica: se si pretende di conoscere un dato, per giunta segreto, e si ordina alle procure di comunicarlo al CSM è per farne impiego al di fuori del procedimento penale nel quale esso è stato raccolto.
Di tale impiego, però, manca ogni regolamentazione.
Non risulta che l’ANM si sia mai preoccupata di questi archivi segreti e dell’uso che se ne fa, sia al CSM che al Ministero della Giustizia, contro i magistrati.
2 commenti:
Lei è troppo buono, Signor Giudice?
Solo contro i magistrati?: già da decenni, con le mie ossessioni, osservo che tutti i politici che hanno avuto incarichi di governo presso il ministero degli “Affari” interni possono essere anche i più chiacchierati e accusati del mondo, ma di indagini nei loro confronti per carità di Dio… guai soltanto a parlarne. Si esercitano, i pm delle dda, e si arricchiscono i curricula, solo e soltanto contro i paralitici-disadattati-cialtroni.
Questo è il paese dei grandi misteri a causa dei grandissimi depistaggi. Assai difficile appare trovare chi può valutare correttamente l'attività dei magistrati. Per poi dire, che è proprio dall'attività della Suprema Corte che bisogna partire. Sono le sentenze gravemente abnormi, quelle che non possono passare in giudicato, che bisogna individuare. Con una Cassazione ineccepibile tutto si aggiusta da se!!! Bisogna fondare una Società giuridica di altissimo livello con vasto numero di giuristi, con una Rivista che individua le sentenze gravemente abnormi, e quelle di altissimo profilo da inserire in una pagina d'oro. Analizzare tutti i motivi che caratterizzano il fenomeno che si intende studiare e correggere, e solo poi individuare la terapia.
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