mercoledì 3 dicembre 2025

A domanda rispondo




Pubblichiamo  l'intervista apparsa nei giorni scorsi sulle pagine de Il Riformista. 

Dottor Saracino, esiste – e se esiste qual è secondo lei – il punto cruciale di questa riforma?

Il sorteggio dei componenti togati destinati a comporre il CSM (anzi i due CSM separati). Ne sono a tal punto convinto da ritenere che questa sola riforma sarebbe di per sé sufficiente ad assicurare anche gli obiettivi collegati alle altre due, vala a dire la separazione tra giudici e pubblici ministeri e la costituzione dell’Alta Corte disciplinare, esterna ai CSM. 

Studi giuridici ne attestano la razionalità, mentre la storia anche contemporanea racconta che è un sistema percorribile e, in alcuni casi, l’unica soluzione per i problemi generati dalla cattiva gestione delle fasi di formazione degli organi assembleari. 
a. Qual è secondo lei la ragione dell’avversione così viscerale di ANM contro questo aspetto della riforma?
b. Sortirà gli sperati effetti di spazzare via la correntocrazia che governa il CSM?
c. Esiste davvero un problema di rappresentanza dell’organo di governo della magistratura? 

Il “voto” oggi previsto per l’elezione dei componenti togati del CSM è il grimaldello per affermare la natura “politica” della scelta degli elettori e la conseguente legittimazione politica del CSM. Col paradosso che il Costituente avrebbe reso indipendenti i magistrati dalla politica generale lasciandoli tuttavia liberi di auto-assoggettarsi ad una politica propria, tutta interna alla corporazione.   
Di qui il sistema “correntizio”, denominazione che serve, da un lato, a non palesare il più veritiero termine “partitico” e dall’altro a presentare all’esterno  -  solo formalmente -  l’associazione (privata) dei magistrati (ANM)  come unitaria sebbene sia divisa in distinti ed autonomi “gruppi associativi”, veri e propri partitini con proprie ideologie di fondo ma con il comune scopo, agevolmente realizzato, di occupare l’istituzione (il CSM) e attraverso di essa dominare la distribuzione degli incarichi apicali degli uffici e, forse, controllare lo stesso esercizio della giurisdizione. 
Il “forse” dispensa dalla necessità di fornire le “prove” dell’affermazione, in sé grave.   
Quello che conta è se lo schema sopra delineato possa dirsi il più idoneo ad escludere che l’attività dei magistrati (dei singoli magistrati) risulti condizionata da direttive latamente politiche, quando non settarie. 
Non lo è, all’evidenza. 
Il sorteggio, del resto, non è uno strumento contro le correnti, quali libere e legittime associazioni di magistrati, se realmente dedite all’elaborazione culturale (scopo nobile brandito a difesa del diritto di associazione); è, semmai, demolitivo del “correntismo” vale a dire della patologica mutazione di una libertà (di associazione) in un sistema volto a condizionare la vita professionale dei togati e la stessa giurisdizione. 
Una volta eliminato quel pernicioso fenomeno nessuna Procura della Repubblica conterà sulla copertura “politica” in seno al CSM delle proprie inchieste, così come non dovrà temerne lo sbarramento “politico” in seno all’organo di autogoverno, magari attraverso la pronta rimozione dei magistrati titolari delle inchieste; evenienze che la cronaca ha rivelato tutt’altro che inimmaginabili. 
Allo stesso modo la materia disciplinare, finalmente sottratta ad un organo elettivo reso “giudice” (a questo punto: politico?), dismetterebbe quel carattere, addomesticato più che domestico, che ne rappresenta il principale limite all’effettivo funzionamento. 
Quanto agli argomenti derisori del sorteggio essi trascurano che la platea di sorteggiabili è composta da togati abilitati a dispensare condanne penali, affidare minori,  decretare il fallimento di grandi imprese. I compiti di un consigliere superiore non sono più gravosi di quelli di un giudice. 
Diverso è il discorso solo se si ammette la pretesa (ingiustificata) di voler essere “rappresentati” dall’Organo di autogoverno, non a caso ridotto a centro di lottizzazione e di potere. Privo per giunta di ogni legittimazione “democratica” se a votare sono solo i magistrati e non i cittadini. Che a presiederlo sia chiamato il Capo dello Stato dovrebbe sgombrare ogni possibilità di equivoco sulla natura non politica del CSM. 

Perché, a suo modo di vedere, la magistratura associata ha alzato barricate così alte? 

La barricata si manifesta, all’esterno, soprattutto sul tema della separazione delle carriere sebbene sia il sorteggio il vero spauracchio della riforma. 
Quello della separazione tra PM e Giudici è l’argomento più spendibile e non costringe alla improponibile difesa del correntismo che non farebbe presa sui cittadini, agevolmente eccitabili contro la “casta”.  
Se si considera che l’Associazione Nazionale Magistrati è composta in netta prevalenza da giudici (sebbene siano i pubblici ministeri ad assumerne più spesso la direzione) se ne ricava un’immagine alquanto eccentrica: i giudici aspirano a conservare nel loro stesso ordine una parte processuale, quella deputata all’esercizio dell’accusa. Della quale, evidentemente e rebus sic stantibus, si fidano di più. 
Proprio il principale argomento dei fautori della separazione che invocano l’effettiva parità delle parti (accusa e difesa) nel processo penale, a loro dire compromessa da questa “colleganza” tra il giudice e l’accusatore.  

Leggendo le norme, ravvisa davvero il rischio che esse pregiudichino l’autonomia del pubblico ministero o, peggio ancora, dell’ordine giudiziario nel suo complesso?

La lettura delle norme, come lei domanda, non suggerisce il rischio di una compromissione dell’autonomia del pubblico ministero; paradossalmente sarà più autonomo, anche dai giudici. 
Va sgombrato il campo da un dogma, una sorta di totem tuttavia privo di sostrato: quello della “comune cultura della giurisdizione”, dalla quale dovrebbero essere esclusi i soli Avvocati.     
Si afferma che un pubblico ministero collega del giudice ne assimili il modo di pensare e si trascura il rischio dell’opposto, vale a dire che il giudice (penale) sia propenso a fidarsi maggiormente della tesi propugnata da un “collega”, piuttosto che di quella sostenuta dalla difesa.  
L’ulteriore argomento contrario alla separazione che fa leva sulla già realizzata diversificazione dei rispettivi percorsi professionali è doppiamente fallace: la formalizzazione della separazione delle carriere si limiterebbe alla presa d’atto di un sistema che, a questo punto, nemmeno consente di avvalorare quello stesso il totem della “comune cultura della giurisdizione”. 
In definitiva, le norme scaturenti dalla riforma sottoposta a referendum non sottraggono un centesimo di autonomia al pubblico ministero. Per farlo servirebbero altre norme, di rango costituzionale.  
Concordo in pieno, del resto, con un suo recente articolo apparso su queste pagine nel quale spronava ad evitare il cd argumentum ad personam, che peraltro ha dato ingresso a più di uno strafalcione; esso può riassumersi nell’assioma secondo il quale una cosa è “giusta” se detta da un “giusto”.  
Magari trascurando del tutto i contesti. 

La separazione delle carriere è il naturale completamento dei principi contenuti nell’art. 111 e, in termini generali, del sistema processuale di tipo accusatorio. È immaginabile mantenere le carriere unitarie e continuare a parlare di terzietà del giudice e di processo accusatorio?

Le propongo una provocazione a chiusura di questa chiacchierata: sono stati i Padri Costituenti a volere il pubblico ministero nello stesso ordine dei giudici e questo dovrebbe chiudere   ogni discussione al riguardo. 
Ma quale pubblico ministero conoscevano i Costituenti? 
Era una figura totalmente diversa da quella scaturita dalla riforma Vassalli del Codice di Procedura Penale che ha affrancato il pubblico ministero dal ruolo meramente “ancillare” fino ad allora assegnatogli dal codice Rocco per farlo diventare vera e propria parte processuale che gestisce in piena autonomia lo strumentario dell’accusatore, dalle indagini all’imputazione. 
Che debba   svolgere anche indagini “a favore” dell’indagato non significa che sia “imparziale”, ma solo che deve essere efficiente: ogni avvocato che si rispetti considera le ragioni e gli argomenti che potrebbe spendere il suo avversario se non vuole assumere iniziative avventate. 
Attribuire troppe virtù ad una delle parti del processo genera il rischio di renderlo inutile, il processo. 


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