mercoledì 10 dicembre 2025

L'Alta Corte disciplinare pone a rischio l'indipendenza della magistratura?

di Giovanni Genovese
Magistrato


Uno dei timori espressi da chi avversa la riforma costituzionale della magistratura approvata dal DDL costituzionale A.S. 1353-B, sulla quale l’elettorato verrà chiamato a pronunziarsi in primavera con referendum confermativo, è il rischio che l’Alta Corte disciplinare, di nuova istituzione, rappresenti una sorta di “cavallo di Troia”, attraverso il quale una maggioranza politica potrà assumere il controllo del potere di disciplinare sui magistrati e condizionarne perciò indirettamente l’attività.

Si tratta di un rischio effettivo?

La risposta non può dipendere dalla maggiore o minore fiducia in chi ha proposto la riforma, o nella classe politica, o nella magistratura in generale; tanto meno si possono trarre indicazioni dalle dichiarazioni più o meno improvvide di questo o quell’esponente politico, o dalle sue intenzioni soggettive, vere o presunte.

Simili argomentazioni (c.d. argumentum ad hominem), che già non dovrebbero appartenere per cultura e per principio a chi si proponga di valutare obiettivamente un qualunque fatto, risultano particolarmente deplorevoli ove provengano da giuristi (in genere) o da magistrati (in particolare), ben consapevoli della loro assoluta irrilevanza quando si tratti di interpretare una qualsiasi norma, e diventano persino grottesche allorché si tratti di valutare una riforma costituzionale. L’utilizzo di tale espediente costituisce, anzi, un indice estremamente affidabile per svelare l’esistenza di motivazioni reali (favorevoli o contrarie) ben diverse da quelle dichiarate, nascoste e spesso inconfessabili, e può consentire all’opinione pubblica di distinguere le argomentazioni genuine da quelle interessate.

Le uniche opinioni che meritano di essere prese in considerazione, da parte di chi voglia formarsi un convincimento non “di pancia” (in un senso o nell’altro), sono quelle frutto di un’analisi obiettiva che metta a confronto il sistema attuale e quello che risulterebbe nel caso in cui la riforma venisse approvata, per verificare in concreto punti di forza e criticità di ciascuno.

Questa è la via che si proverà a seguire.

Attualmente, l’esercizio del potere disciplinare nei confronti dei magistrati è disciplinato dalla Costituzione unicamente con la lapidaria affermazione contenuta nell’articolo 105, il quale prevede che Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”.

Tale articolo verrebbe riscritto nel modo seguente: “1. Spettano a ciascun Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le valutazioni di professionalità e i conferimenti di funzioni nei riguardi dei magistrati. 2. La giurisdizione disciplinare nei riguardi dei magistrati ordinari, giudicanti e requirenti, è attribuita all’Alta Corte disciplinare. 3. L’Alta Corte è composta da quindici giudici, tre dei quali nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio e tre estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione, nonché da sei magistrati giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità. 4. L’Alta Corte elegge il presidente tra i giudici nominati dal Presidente della Repubblica o estratti a sorte dall’elenco compilato dal Parlamento in seduta comune. 5. I giudici dell’Alta Corte durano in carica quattro anni. L’incarico non può essere rinnovato. 6. L’ufficio di giudice dell’Alta Corte è incompatibile con quelli di membro del Parlamento, del Parlamento europeo, di un Consiglio regionale e del Governo, con l’esercizio della professione di avvocato e con ogni altra carica e ufficio indicati dalla legge. 7. Contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata. 8. La legge determina gli illeciti disciplinari e le relative sanzioni, indica la composizione dei collegi, stabilisce le forme del procedimento disciplinare e le norme necessarie per il funzionamento dell’Alta Corte e assicura che i magistrati giudicanti o requirenti siano rappresentati nel collegio”.

Per capire la portata delle innovazioni, occorre partire dal sistema disciplinare attualmente vigente.

La Legge n. 195/1958 ha istituito all’interno del CSM la sezione disciplinare. Gli illeciti disciplinari, le sanzioni ed il relativo procedimento sono invece oggi codificati dal Decreto Legislativo n. 109/2006.

Va subito osservato che, nonostante la lettera dell’art. 105 della Costituzione attribuisca al CSM la competenza ad adottare i “provvedimenti” disciplinari nei confronti dei magistrati, la legge ordinaria ha invece previsto un vero e proprio “processo” dinanzi alla sezione disciplinare, istituendo un giudice speciale non previsto dalla Costituzione, e della cui legittimità sarebbe lecito dubitare, stante l’espresso divieto dell’art. 102 comma 2. Oltretutto, l’attribuzione al CSM di un potere disciplinare di tipo amministrativo risultava pienamente in linea con la sua natura di organo di alta amministrazione, più volte ribadita dalla Corte Costituzionale, ed i suoi  provvedimenti dovrebbero perciò essere sempre impugnabili dinanzi al “giudice naturale precostituito per legge”, dal quale nessuno può essere “distolto” ai sensi dell’art. 25 della Costituzione.

La sezione disciplinare del CSM decide inoltre in grado unico di merito, in quanto l’art. 24 del D.Lgs. 109/2006 prevede quale unico mezzo di impugnazione delle sue sentenze il ricorso per cassazione. In quella sede, come sempre accade nei giudizi dinanzi alla Corte di Cassazione, si possono però far valere soltanto vizi c.d. di legittimità (violazione di legge, adeguatezza della motivazione della sentenza ecc..); il che significa che, per quanto riguarda la valutazione dei fatti, il giudizio espresso dalla sezione disciplinare del CSM risulta insindacabile.

Con la proposta di riforma in discussione, la “giurisdizione disciplinare” nei riguardi dei magistrati ordinari verrebbe invece attribuita all’Alta Corte. Si può subito notare la diversa formulazione rispetto al testo attualmente vigente: l’art. 105 non si riferisce più ai “provvedimenti disciplinari”, ma alla “giurisdizione disciplinare”.

L’Alta Corte sarebbe composta da quindici membri, di cui nove “togati” (cioè magistrati) e sei “laici” (cioè giuristi esterni alla magistratura): la proporzione complessiva sarebbe quindi di 3/5 e 2/5, a fronte, rispettivamente, di 2/3 ed 1/3 dell’attuale sezione disciplinare del CSM.

I membri togati verrebbero sorteggiati fra giudici (sei) e pubblici ministeri (tre); dei membri laici, invece, tre sarebbero sorteggiati da un elenco predisposto dal Parlamento, altri tre nominati direttamente dal Presidente della Repubblica.

A questo punto possiamo chiederci: se una maggioranza politica intendesse esercitare una forma di controllo sui magistrati facendo leva sullo spauracchio disciplinare, quali strumenti potrebbe cercare di sfruttare oggi, e quali in caso di approvazione della riforma?

Nel verificare le varie ipotesi, è opportuno mettere subito bene in chiaro un concetto: i limiti che la Costituzione pone al legislatore ordinario non sono soltanto quelli che risultano dal tenore letterale delle norme che si occupano, in dettaglio, di quell’argomento, ma anche quelli che si traggono da principi più generali – ma non per questo meno vincolanti – che la Corte Costituzionale è chiamata a far rispettare nel diritto vivente. Per attuare questo (poco encomiabile) proposito, il legislatore dovrebbe perciò non soltanto aggirare i primi, ma eludere anche i secondi, che però costituiscono (fortunatamente!) un ostacolo ben più impegnativo.

Appare subito evidente che, per ottenere lo scopo, sarebbe necessario assicurarsi il controllo del giudice disciplinare di ultimo grado, quello a cui spetta l’ultima parola sul punto. Ma come?

Iniziando dalla Costituzione vigente, possiamo subito chiederci se, all’interno dell’attuale sezione disciplinare del CSM, il legislatore potrebbe cercare di imporre una maggioranza laica, ovvero di componenti eletti dal Parlamento.

La risposta è negativa.

La Corte Costituzionale si è già occupata della questione con la sentenza n. 12/1971, nella quale ha ritenuto legittima l’istituzione di una sezione disciplinare, stabilendo però che, al suo interno, “tutte le categorie elettive che compongono il consesso unitario concorrono - e, almeno tendenzialmente, in modo proporzionale - a formare la Sezione”. Sulla scorta dei principi che si ricavano dalla Costituzione, e pur in mancanza di una disposizione espressa, la Corte ha quindi ritenuto che all’interno delle varie sezioni del CSM (ed in particolar modo della sezione disciplinare) debba esserci una tendenziale proporzionalità fra le categorie che compongono l’organo nel suo complesso (il plenum), escludendo quindi la possibilità di “colpi di mano” attraverso la legge ordinaria.

Si deve inoltre tenere presente che, almeno in punto di diritto, l’ultima parola spetterebbe comunque alla Corte di Cassazione.

Il malevolo legislatore dovrebbe quindi cercare un’altra strada.

Il possibile escamotage alternativo non è però difficile da individuare. A Costituzione vigente, un legislatore “malizioso” potrebbe dichiarare di voler dare piena attuazione al dettato dell’art. 105 della Costituzione (magari proprio facendo leva sulla sua rinnovata “vitalità”, derivante dalla mancata approvazione della riforma), attribuendo alla sezione disciplinare del CSM il potere di adottare “provvedimenti” disciplinari di natura amministrativa, impugnabili (come già avviene per gli altri provvedimenti del CSM) davanti al giudice amministrativo.

La fase amministrativa sarebbe quindi separata da quella giurisdizionale, e quest’ultima verrebbe devoluta al TAR, con possibilità di ricorrere, in ultimo grado (di legittimità e di merito insieme), al Consiglio di Stato.

Qui si potrebbe cercare di sfruttare un dettaglio non secondario, e potenzialmente “diabolico”: la composizione del Consiglio di Stato non è infatti disciplinata direttamente dalla Costituzione, che si limita a prevedere, al terzo comma dell’art. 100, che “La legge assicura l'indipendenza dei due Istituti (il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti) e dei loro componenti di fronte al Governo”, nonché, al secondo comma dell’art. 108, che “La legge assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali”. Ciò, tuttavia, non ha impedito al legislatore di riservare al governo, con l’art. 19 della Legge n. 186/1982, la nomina di un quarto dei suoi componenti.

Questa proporzione fra membri di nomina governativa e membri nominati per concorso non gode di alcuna espressa copertura costituzionale, per cui, teoricamente, potrebbe anche essere mutata in favore dei primi. In alternativa, e più subdolamente, potrebbe essere istituita una sezione specializzata in materia di giustizia disciplinare dei magistrati, facendo in modo di assicurare al suo interno (per espressa previsione, o attraverso requisiti preferenziali “mirati”) una prevalenza di consiglieri di nomina governativa.

Il tutto senza violare, almeno formalmente, nessuna norma costituzionale esplicita.

Vediamo adesso come si potrebbe conseguire il medesimo obiettivo dopo l’istituzione dell’Alta Corte.

Innanzi tutto, bisognerebbe chiedersi verso quale tipo di procedimento disciplinare si andrebbe incontro: un procedimento di tipo accusatorio, in cui l’incolpato viene tratto a giudizio direttamente davanti all’Alta Corte, oppure uno di tipo impugnatorio, in cui il competente organo di autogoverno adotta un provvedimento di natura amministrativa, contro il quale è possibile ricorrere all’Alta Corte? Il dubbio non è peregrino: il nuovo art. 105 non indica più fra le attribuzioni dei due Consigli Superiori “i provvedimenti disciplinari”, ma non pone neppure alcun ostacolo esplicito; ed in presenza di una formulazione del primo comma che conteneva già un’elencazione apparentemente fissa delle quattro materie fondamentali riservate al CSM, nessuno ha mai dubitato della possibilità di conferirgli anche funzioni ulteriori (che infatti sono state abbondantemente conferite).

In secondo luogo, occorrerebbe capire quale sarebbe il giudice di ultima istanza. Ad una prima, immediata lettura del nuovo comma 7 (che ammette l’impugnazione delle sentenze di primo grado “soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte”), contro le sentenze pronunziate in grado d’appello sembrerebbe non esserci rimedio. Tale conclusione, tuttavia, non è affatto scontata, e potrebbe anzi risultare meno convincente di quella opposta alla luce di un’interpretazione sistematica del sistema complessivo (a questo link ne parla Giuliano Castiglia, magistrato tributario, già magistrato ordinario), che sembrerebbe ammettere in ogni caso uno scrutinio di legittimità dinanzi alla Corte di Cassazione.

Ad ogni modo, anche ammettendo che l’Alta Corte debba infine essere considerata giudice disciplinare di ultima istanza, una maggioranza politica dovrebbe comunque assicurarsi il controllo del collegio (o dei collegi) d’appello.

La domanda successiva è dunque la seguente: su quanti “fedelissimi” potrebbe contare all’interno dell’Alta Corte?

Abbiamo già visto che i componenti laici sarebbero complessivamente sei su quindici, di cui tre sorteggiati da un elenco predisposto dal Parlamento e tre nominati dal Presidente della Repubblica. Considerarli tutti come potenziale braccio armato della politica pare quanto meno azzardato: la designazione presidenziale, al contrario, dovrebbe teoricamente garantire a quei tre componenti non soltanto un elevatissimo livello qualitativo, ma soprattutto un notevole grado di indipendenza, paragonabile a quello dei componenti togati. Questo porterebbe la proporzione fra membri “autonomi” e membri in qualche modo collegati al potere politico, rispettivamente, a 4/5 e 1/5, quindi addirittura più favorevole di quella di 2/3 e 1/3 dell’attuale CSM (e della sua sezione disciplinare).

A chi paventa che la qualità dei nominati dipenderebbe dalla sensibilità istituzionale dei futuri Presidenti della Repubblica, che potrebbero anche uniformarsi ai desiderata della maggioranza, è agevole obiettare che si tratta dello stesso meccanismo con il quale vengono designati i componenti della Corte Costituzionale. La Consulta è infatti formata anch’essa da quindici giudici costituzionali, cinque dei quali eletti dal Parlamento, cinque dalle magistrature (ordinaria e speciali) e cinque nominati, per l’appunto, dal Presidente della Repubblica. Ciò non ha mai comportato un allineamento fra i membri di nomina parlamentare e quelli di nomina presidenziale a danno degli altri, né uno scadimento del grado di indipendenza di questo fondamentale organo tale da intaccarne il prestigio e l’autorevolezza o, ancor più importante, da minarne la capacità di sconfessare scelte legislative non in linea con i principi della Costituzione, seppur operate da una maggioranza in carica.

Anche con riferimento agli altri tre componenti laici, a ben vedere, un giudizio preventivo di riconducibilità alla volontà della maggioranza appare affrettato, al punto da rivelarsi in realtà un pre-giudizio. Il nuovo art. 105 prevede infatti (al terzo comma) che essi vengano sorteggiati da un elenco di giuristi eletti dal Parlamento in seduta comune all’inizio della legislatura.

Si dirà (anzi, si è detto): non viene specificato come deve essere formato questo elenco, quindi la maggioranza potrà infilarci dentro i suoi fedelissimi.

L’obiezione sembra però debolissima. La Costituzione, se è per questo, nulla dice espressamente (e qui si rimanda alla precisazione iniziale sulla distinzione fra regole esplicite e principi generali) neppure con riferimento all’elezione degli attuali membri laici del CSM, che però, da sempre e senza eccezioni, ha costantemente rispettato criteri di proporzionalità rispetto alla composizione del Parlamento stesso. E che dire dei cinque giudici della Corte Costituzionale di nomina parlamentare? Anche in questo caso non esiste alcuna previsione esplicita di una necessaria pluralità politico-culturale, ma a nessuno è mai venuto in mente che questi potessero essere appannaggio della sola maggioranza, neppure nei momenti di più aspra contrapposizione politica.

In breve, ci sono validissime ragioni per ritenere che la Corte Costituzionale non consentirebbe, oggi, delle modalità di elezione dei componenti laici del CSM e dei giudici della Corte stessa che escludessero dal gioco le opposizioni; esattamente come non consentirebbe, domani, la formazione di elenchi di sorteggiabili per l’Alta Corte (e per i due Consigli Superiori, che seguirebbero una procedura analoga) predisposti unilateralmente dalla sola maggioranza.

Dunque, per i giudici dell’Alta Corte ci sarà un elenco di sorteggiabili di varie estrazioni politiche, nel solco di una tradizione consolidatissima e costituzionalmente obbligata; e poiché la designazione finale avverrà mediante sorteggio, nessuna forza politica potrà fare affidamento sulla sicura presenza anche di un solo membro a lei riferibile.

Emerge, pertanto, la seguente risposta alla domanda sul numero di “fedelissimi” che la maggioranza può essere certa di avere all’interno dell’Alta Corte, prima che si proceda al sorteggio: zero.

E qui si pone un problema: poiché le regole sulla composizione dei collegi vanno fatte in anticipo, qualunque tentativo di codificare una prevalenza dei laici rispetto ai togati rischierebbe di trasformarsi in un clamoroso boomerang, in quanto rischierebbe di consegnare il controllo dell’Alta Corte a forze politiche diversa da quelle di maggioranza. Già questa considerazione, da sola, basterebbe a sconsigliare iniziative in tal senso.

Ipotizziamo però che una classe politica amante dell’azzardo intenda correre questo rischio, e che la dea bendata risulti benevola con la maggioranza (e malevola verso l’autonomia della magistratura), regalandole tutti e tre i componenti di provenienza parlamentare. Ipotizziamo anche che ci si metta pure il Presidente della Repubblica, il quale, tradendo il senso della sua funzione, decida di assecondarla. Ci sarebbero quindi sei giudici laici “fidati” su quindici complessivi, ai quali andrebbe assicurata l’ultima parola.

Su questo aspetto, alcuni commentatori hanno subito puntato il dito contro il possibile “veleno in coda” rappresentato dall’ultimo inciso dell’ultimo comma del nuovo articolo 105: La legge … indica la composizione dei collegi … e assicura che i magistrati giudicanti o requirenti siano rappresentati nel collegio.

Si tratta di una formulazione quanto meno infelice, che può legittimamente suscitare inquietudine: rimettere alla legge i criteri di formazione dei collegi, e stabilire una mera “riserva di rappresentanza” dei togati, potrebbe aprire la via ad indebite interferenze.

A questo punto bisogna però chiedersi: il principio di “tendenziale proporzionalità” della sezione disciplinare del CSM, stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 12/1971, varrebbe ancora anche per l’Alta Corte?

Alcuni commentatori ritengono che la risposta sia negativa (in questo senso si è espresso, a questo link, Francesco Lupia, magistrato ordinario).

Esistono però solidi argomenti di segno contrario.

In quella sentenza, la Corte Costituzionale ha scritto: “il Consiglio superiore è stato voluto dalla Costituzione in diretta attuazione del principio secondo il quale " la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere" (art. 104) … in funzione di siffatta garanzia, ad esso é stato riservato (art. 105) ogni provvedimento concernente lo stato dei magistrati: sicché l'effetto proprio del conferimento di tali attribuzioni al Consiglio è quello di escludere, in materia, la competenza di altri pubblici poteri e di impedire che l'esercizio di esse (salvo il caso dell'azione disciplinare) possa essere condizionato ad iniziative esterne”.

Il nuovo articolo 104 recita: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. L’interrogativo, quindi, si traduce nel seguente: la Costituzione, nella nuova versione, vuole ancora che la magistratura sia “un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”? La domanda suona quasi retorica. E allora: “in funzione di siffatta garanzia”, l’art. 105, attribuendo la giurisdizione disciplinare all’Alta Corte, vuole ancora “escludere, in materia, la competenza di altri pubblici poteri”, ed impedire che il suo esercizio “possa essere condizionato da iniziative esterne”?

(Si badi bene: la Costituzione, non quel politico, quel ministro, quel sottosegretario, quel commentatore... La premessa iniziale va tenuta presente ora più che mai, pena il venir meno di un’analisi intellettualmente onesta).

Se si affronta l’argomento senza pregiudizi, le risposte positive ai due interrogativi paiono scontate. Ove ce ne fosse bisogno, la stessa relazione di accompagnamento al DDL afferma a chiare lettere che l’Alta Corte “deve essere organizzata in modo tale da evitare di compromettere l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati, prevenendo ogni possibile rischio di condizionamenti esercitabili attraverso l’uso strumentale del controllo disciplinare”

Nella sentenza n. 12/1971, la Corte Costituzionale ha anche motivato la sua decisione “in considerazione del fatto che le linee strutturali segnate nell'art. 104 Cost., ispirate all'esigenza che all'esercizio dei delicati compiti inerenti al governo della magistratura contribuiscano le diverse esperienze di cui le singole categorie sono portatrici, devono trovare ragionevole corrispondenza nelle singole sezioni, quando a queste siano commessi poteri deliberanti”. Mutatis mutandis, anche queste considerazioni si attagliano perfettamente all’Alta Corte. Anche qui ci si trova infatti in presenza: - di un organismo composto da diverse categorie; - di collegi dotati di autonomia deliberante; - di un delicato compito inerente il governo della magistratura. A quest’ultimo proposito, è utile precisare che il termine “governo” è stato utilizzato dalla Corte riferendosi anche al processo disciplinare, nella medesima prospettiva espressa dalla relazione di accompagnamento al DDL, che ritiene “la funzione disciplinare … espressione massima dell’autogoverno”.

Si potrebbero anche aggiungere due ulteriori considerazioni, derivanti da due articoli della Costituzione che restano immutati.

Il primo è l’articolo 101, secondo cui “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”; e questo implica che non è consentito nessun legame improprio con altri poteri, diretto o indiretto. Una norma che rispettasse formalmente una certa indicazione numerica, ma che ponesse di fatto le premesse di un controllo politico, si porrebbe irrimediabilmente in contrasto con questo principio, ben potendo perciò essere censurata anche sotto tale, distinto profilo.

Il secondo è l’articolo 108, in base al quale “Le norme sull'ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge. La legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all'amministrazione della giustizia”. Questo articolo è sicuramente applicabile anche all’Alta Corte, alla quale, come si è visto, è attribuita la “giurisdizione disciplinare”; non vi sono quindi dubbi sul fatto che si tratti di una delle giurisdizioni speciali la cui indipendenza deve necessariamente essere assicurata. Essa, peraltro, è stata collocata all’interno della sezione I del titolo IV della Costituzione, rubricata “ordinamento giurisdizionale”; ed è proprio in questa sezione che si trovano tutti gli articoli che stiamo esaminando.

Il tema dell’indipendenza della magistratura ordinaria si somma quindi, uscendone rafforzato, a quello dell’indipendenza di quel giudice speciale che è la nuova Alta Corte. Invero, non soltanto essa deve godere di guarentigie analoghe a quelle delle altre magistrature speciali, ma, quale “giudice dei giudici” ordinari, deve a sua volta assicurare l’indipendenza di questi ultimi.

Una norma che tentasse una forzatura a favore di membri di estrazione politica finirebbe inevitabilmente per colliderebbe anche con questo principio, del quale appare un corollario indefettibile l’impossibilità per il legislatore di preferire, fra componenti delle magistrature speciali di diversa estrazione, quelli appartenenti alla categoria più vicina alla politica. E se questo vale per il Consiglio di Stato, a maggior ragione deve dirsi per l’Alta Corte, ove la problematica dell’indipendenza dell’organo in quanto tale è strettamente connessa a quella dell’indipendenza della magistratura ordinaria. Né varrebbe obiettare che l’art. 108 andrebbe inteso con esclusivo riferimento allo status del singolo giudice speciale, rimanendo estranei alla sua vis attractiva sia il momento genetico (i criteri di nomina di quei giudici) sia quello funzionale (le modalità di assegnazione degli affari e di composizione dei collegi), perché ciò significherebbe ritenere che la Costituzione si disinteresserebbe totalmente di tali aspetti, la cui strettissima connessione con il tema complessivo dell’indipendenza del giudice speciale risulta invece lampante.

Tirando le fila del discorso, alla luce dei principi desumibili dagli articoli 101, 104, 105 e 108 della Costituzione, tutti peraltro consolidatissimi e ribaditi anche dal nuovo testo, appare quindi legittimo chiedersi; cosa intende davvero l’ultimo inciso dell’ultimo comma dell’articolo 105, quando afferma che “la legge … assicura che i magistrati giudicanti o requirenti siano rappresentati nel collegio”? possibile una lettura di questo inciso che lo renda coerente con l’impianto complessivo non soltanto della riforma, ma del testo costituzionale in cui si inserisce?

Un’auspicabile risposta positiva – che il ragionamento svolto rende però, a questo punto, pressoché obbligata – potrebbe nascere dalla corretta interpretazione del termine “rappresentati”: quella più immediata, ovvero “basta che nel collegio ce ne sia uno”, potrebbe infatti non essere quella corretta.

Questa soluzione dà infatti per scontato che la norma intenda fare riferimento al concetto di “rappresentanza”, che però, in un simile contesto, risulterebbe un fuor d’opera.

I concetti di “rappresentanza” e “rappresentatività” sono infatti ben distinti sia in diritto che nel lessico comune: il primo è un concetto giuridico, in virtù del quale il rappresentante può compiere determinati atti in nome e nell’interesse del rappresentato, il secondo è invece un concetto prima di tutto statistico, che rimanda a quella nozione di proporzionalità che, come abbiamo visto, è stata già accolta dalla Corte Costituzionale con riferimento alla composizione delle sezioni del CSM (e qui il riferimento è alle categorie), oltre a risultare immanente all’elezione dei componenti laici del CSM ed a quella dei giudici costituzionali di nomina parlamentare (sotto il diverso profilo politico-culturale).

Orbene, il riferimento al concetto di “rappresentanza”, nel contesto in cui la disposizione è collocata, sarebbe del tutto privo di senso. Il singolo (o i singoli) componenti togati, che vengano  designati a far parte di un collegio, non potrebbero in alcun modo essere considerati “rappresentanti” degli altri giudici togati, non essendo ad essi legati da nessun vincolo giuridico o politico: non sono stati eletti, non sono portatori di interessi comuni, non hanno alcun collegamento fra loro, non possono compiere atti nel nome o nell’interesse degli altri.

Ciascuno di essi è giudice indipendente di una giurisdizione speciale.

Se quindi non è questo il concetto a cui fare riferimento, la disposizione va declinata nel senso della “rappresentatività”: la legge dovrà dunque assicurare, all’interno dei collegi una composizione tendenzialmente proporzionale delle categorie. In quest’ottica, l’inciso in argomento assume un significato ben diverso: poiché dev’essere assicurata la rappresentatività dei magistrati giudicanti “o” requirenti, la disgiunzione va intesa nel senso che questi possono essere ricompresi in un’unica categoria, quella dei togati, riducendo così a due soltanto le categorie da rappresentare nei collegi (togati e laici) rispetto alla quattro che concorrono invece alla composizione dell’Alta Corte (giudici, pubblici ministeri, componenti di estrazione parlamentare e componenti di nomina presidenziale).

L’interpretazione che appare preferibile, in definitiva, è quella per cui il legislatore può comporre i collegi giudicanti come crede, assicurando però, all’interno di ciascuno, la tendenziale rappresentatività delle categorie, e, perciò, la necessaria maggioranza della componente togata, senza distinguere al suo interno fra giudici e pubblici ministeri. Cosa, peraltro, del tutto coerente con un sistema che, pur prevedendo carriere separate, accomuna tutti i magistrati in un unico ordine “autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104 primo comma), ed unitariamente può pertanto considerarli ai fini della loro garanzia di indipendenza.

Questa soluzione appare l’unica coerente con il sistema complessivo, che vuole: - i giudici “soggetti soltanto alla legge” (art. 101); - la magistratura quale “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104); - la giurisdizione disciplinare attribuita ad un giudice speciale, con una strutturazione interna che prevede componenti di varia provenienza, circondati da particolari garanzie di indipendenza interna ed esterna (il sorteggio, la nomina presidenziale, le incompatibilità) ed a maggioranza togata (art. 105); - l’indefettibile indipendenza delle magistrature speciali (art. 108).

Se ne trova conforto anche nella relazione di accompagnamento al DDL, ed in particolar modo nel passaggio in cui si afferma che “si è prestata particolare cura nel delineare una composizione dell’Alta Corte idonea a garantire all’organo l’indispensabile autonomia e indipendenza da altri poteri e la prevalenza della componente «togata», assurta expressis verbis a modalità idonea a garantire il valore primario dell’indipendenza dei magistrati, e che non può pertanto non trovare rispondenza nella composizione dei collegi.

A questo punto, possiamo finalmente provare a rispondere alle domande iniziali.

A Costituzione vigente, il legislatore potrebbe tentare di condizionare il processo disciplinare dei magistrati?

Formalmente potrebbe farlo, ed il primo passo (quello di devolvere alla giurisdizione amministrativa l’impugnazione dei provvedimenti disciplinari emessi dal CSM) sarebbe anzi una piena attuazione del dettato costituzionale, e non un suo stravolgimento. Tuttavia, laddove dovesse tentare delle manovre per influenzare il Consiglio di Stato (o una sua sezione specializzata) quale giudice disciplinare di ultimo grado, rischierebbe seriamente di venire censurato dalla Corte Costituzionale.

E con l’Alta Corte?

Gli ostacoli che il legislatore dovrebbe dribblare, come si è visto, sono parecchi: la composizione unilaterale dell’elenco predisposto dal Parlamento, la mancata previsione del ricorso per cassazione (ove prevalesse la tesi affermativa), la composizione dei collegi. Su tutti questi argomenti, la Corte Costituzionale avrebbe fondatissime ragioni per bloccare eventuali tentativi di “colpi di mano”.

Siamo certi che la Corte lo farebbe? No, non lo si può essere del tutto. Ed in quest’ottica, quell’inciso finale, così come formulato, è davvero un peccato, perché rischia di gettare un cono d’ombra su una riforma che invece, sotto altri aspetti, recide diversi nodi gordiani.

Possiamo esserne certi a costituzione invariata? Neppure. Soprattutto se una bocciatura della riforma facesse infine esplodere il tema, rimasto finora sotto traccia, della terzietà dell’attuale giudice disciplinare: elettivo, di grado unico di merito, e da molti percepito come “cecuziente” dopo le vicende di cronaca degli ultimi anni.

 


0 commenti: