Uno dei timori espressi da chi
avversa la riforma costituzionale della magistratura approvata dal DDL
costituzionale A.S. 1353-B, sulla quale l’elettorato verrà chiamato a pronunziarsi
in primavera con referendum confermativo, è il rischio che l’Alta Corte
disciplinare, di nuova istituzione, rappresenti una sorta di “cavallo di Troia”,
attraverso il quale una maggioranza politica potrà assumere il controllo del
potere di disciplinare sui magistrati e condizionarne perciò indirettamente l’attività.
Si tratta di un rischio
effettivo?
La risposta non può dipendere dalla maggiore o minore fiducia in chi ha proposto la riforma, o nella classe politica, o nella magistratura in generale; tanto meno si possono trarre indicazioni dalle dichiarazioni più o meno improvvide di questo o quell’esponente politico, o dalle sue intenzioni soggettive, vere o presunte.
Simili argomentazioni (c.d. argumentum ad hominem), che già non dovrebbero appartenere per cultura e per principio a chi si proponga di valutare obiettivamente un qualunque fatto, risultano particolarmente deplorevoli ove provengano da giuristi (in genere) o da magistrati (in particolare), ben consapevoli della loro assoluta irrilevanza quando si tratti di interpretare una qualsiasi norma, e diventano persino grottesche allorché si tratti di valutare una riforma costituzionale. L’utilizzo di tale espediente costituisce, anzi, un indice estremamente affidabile per svelare l’esistenza di motivazioni reali (favorevoli o contrarie) ben diverse da quelle dichiarate, nascoste e spesso inconfessabili, e può consentire all’opinione pubblica di distinguere le argomentazioni genuine da quelle interessate.
Le uniche opinioni che meritano
di essere prese in considerazione, da parte di chi voglia formarsi un
convincimento non “di pancia” (in un senso o nell’altro), sono quelle frutto di
un’analisi obiettiva che metta a confronto il sistema attuale e quello che
risulterebbe nel caso in cui la riforma venisse approvata, per verificare in
concreto punti di forza e criticità di ciascuno.
Questa è la via che si proverà a
seguire.
Attualmente, l’esercizio del
potere disciplinare nei confronti dei magistrati è disciplinato dalla
Costituzione unicamente con la lapidaria affermazione contenuta nell’articolo
105, il quale prevede che “Spettano al Consiglio superiore della
magistratura, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni,
le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti
disciplinari nei riguardi dei magistrati”.
Tale articolo verrebbe riscritto
nel modo seguente: “1. Spettano a ciascun Consiglio superiore della
magistratura, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le
assegnazioni, i trasferimenti, le valutazioni di professionalità e i
conferimenti di funzioni nei riguardi dei magistrati. 2. La giurisdizione
disciplinare nei riguardi dei magistrati ordinari, giudicanti e requirenti, è
attribuita all’Alta Corte disciplinare. 3. L’Alta Corte è composta da
quindici giudici, tre dei quali nominati dal Presidente della Repubblica tra
professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno
venti anni di esercizio e tre estratti a sorte da un elenco di soggetti in
possesso dei medesimi requisiti, che il Parlamento in seduta comune, entro sei
mesi dall’insediamento, compila mediante elezione, nonché da sei magistrati
giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte tra gli appartenenti alle
rispettive categorie con almeno venti anni di esercizio delle funzioni
giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità. 4. L’Alta
Corte elegge il presidente tra i giudici nominati dal Presidente della
Repubblica o estratti a sorte dall’elenco compilato dal Parlamento in seduta
comune. 5. I giudici dell’Alta Corte durano in carica quattro anni. L’incarico
non può essere rinnovato. 6. L’ufficio di giudice dell’Alta Corte è
incompatibile con quelli di membro del Parlamento, del Parlamento europeo, di
un Consiglio regionale e del Governo, con l’esercizio della professione di
avvocato e con ogni altra carica e ufficio indicati dalla legge. 7. Contro le
sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche
per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica
senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la
decisione impugnata. 8. La legge determina gli illeciti disciplinari e le
relative sanzioni, indica la composizione dei collegi, stabilisce le forme del
procedimento disciplinare e le norme necessarie per il funzionamento dell’Alta
Corte e assicura che i magistrati giudicanti o requirenti siano rappresentati
nel collegio”.
Per capire la portata delle
innovazioni, occorre partire dal sistema disciplinare attualmente vigente.
La Legge n. 195/1958 ha istituito
all’interno del CSM la sezione disciplinare. Gli illeciti disciplinari, le
sanzioni ed il relativo procedimento sono invece oggi codificati dal Decreto Legislativo
n. 109/2006.
Va subito osservato che,
nonostante la lettera dell’art. 105 della Costituzione attribuisca al CSM la
competenza ad adottare i “provvedimenti” disciplinari nei confronti dei
magistrati, la legge ordinaria ha invece previsto un vero e proprio “processo”
dinanzi alla sezione disciplinare, istituendo un giudice speciale non previsto
dalla Costituzione, e della cui legittimità sarebbe lecito dubitare, stante
l’espresso divieto dell’art. 102 comma 2. Oltretutto, l’attribuzione al CSM di
un potere disciplinare di tipo amministrativo risultava pienamente in linea con
la sua natura di organo di alta amministrazione, più volte ribadita dalla Corte
Costituzionale, ed i suoi provvedimenti
dovrebbero perciò essere sempre impugnabili dinanzi al “giudice naturale
precostituito per legge”, dal quale nessuno può essere “distolto” ai
sensi dell’art. 25 della Costituzione.
La sezione disciplinare del CSM decide
inoltre in grado unico di merito, in quanto l’art. 24 del D.Lgs. 109/2006 prevede
quale unico mezzo di impugnazione delle sue sentenze il ricorso per cassazione.
In quella sede, come sempre accade nei giudizi dinanzi alla Corte di
Cassazione, si possono però far valere soltanto vizi c.d. di legittimità (violazione
di legge, adeguatezza della motivazione della sentenza ecc..); il che significa
che, per quanto riguarda la valutazione dei fatti, il giudizio espresso dalla
sezione disciplinare del CSM risulta insindacabile.
Con la proposta di riforma in
discussione, la “giurisdizione disciplinare” nei riguardi dei magistrati
ordinari verrebbe invece attribuita all’Alta Corte. Si può subito notare la
diversa formulazione rispetto al testo attualmente vigente: l’art. 105 non si
riferisce più ai “provvedimenti disciplinari”, ma alla “giurisdizione
disciplinare”.
L’Alta Corte sarebbe composta da
quindici membri, di cui nove “togati” (cioè magistrati) e sei “laici” (cioè
giuristi esterni alla magistratura): la proporzione complessiva sarebbe quindi di
3/5 e 2/5, a fronte, rispettivamente, di 2/3 ed 1/3 dell’attuale sezione
disciplinare del CSM.
I membri togati verrebbero
sorteggiati fra giudici (sei) e pubblici ministeri (tre); dei membri laici,
invece, tre sarebbero sorteggiati da un elenco predisposto dal Parlamento, altri
tre nominati direttamente dal Presidente della Repubblica.
A questo punto possiamo
chiederci: se una maggioranza politica intendesse esercitare una forma di
controllo sui magistrati facendo leva sullo spauracchio disciplinare, quali
strumenti potrebbe cercare di sfruttare oggi, e quali in caso di approvazione
della riforma?
Nel verificare le varie ipotesi,
è opportuno mettere subito bene in chiaro un concetto: i limiti che la
Costituzione pone al legislatore ordinario non sono soltanto quelli che
risultano dal tenore letterale delle norme che si occupano, in dettaglio, di
quell’argomento, ma anche quelli che si traggono da principi più generali – ma
non per questo meno vincolanti – che la Corte Costituzionale è chiamata a far
rispettare nel diritto vivente. Per attuare questo (poco encomiabile)
proposito, il legislatore dovrebbe perciò non soltanto aggirare i primi, ma
eludere anche i secondi, che però costituiscono (fortunatamente!) un ostacolo
ben più impegnativo.
Appare subito evidente che, per
ottenere lo scopo, sarebbe necessario assicurarsi il controllo del giudice
disciplinare di ultimo grado, quello a cui spetta l’ultima parola sul punto. Ma
come?
Iniziando dalla Costituzione
vigente, possiamo subito chiederci se, all’interno dell’attuale sezione
disciplinare del CSM, il legislatore potrebbe cercare di imporre una
maggioranza laica, ovvero di componenti eletti dal Parlamento.
La risposta è negativa.
La Corte Costituzionale si è già
occupata della questione con la sentenza n. 12/1971, nella quale ha ritenuto
legittima l’istituzione di una sezione disciplinare, stabilendo però che, al
suo interno, “tutte le categorie elettive che compongono il consesso
unitario concorrono - e, almeno tendenzialmente, in modo proporzionale - a
formare la Sezione”. Sulla scorta dei principi che si ricavano dalla
Costituzione, e pur in mancanza di una disposizione espressa, la Corte ha
quindi ritenuto che all’interno delle varie sezioni del CSM (ed in particolar
modo della sezione disciplinare) debba esserci una tendenziale proporzionalità
fra le categorie che compongono l’organo nel suo complesso (il plenum),
escludendo quindi la possibilità di “colpi di mano” attraverso la legge
ordinaria.
Si deve inoltre tenere presente
che, almeno in punto di diritto, l’ultima parola spetterebbe comunque alla
Corte di Cassazione.
Il malevolo legislatore dovrebbe
quindi cercare un’altra strada.
Il possibile escamotage alternativo
non è però difficile da individuare. A Costituzione vigente, un legislatore
“malizioso” potrebbe dichiarare di voler dare piena attuazione al dettato
dell’art. 105 della Costituzione (magari proprio facendo leva sulla sua
rinnovata “vitalità”, derivante dalla mancata approvazione della riforma),
attribuendo alla sezione disciplinare del CSM il potere di adottare
“provvedimenti” disciplinari di natura amministrativa, impugnabili (come già
avviene per gli altri provvedimenti del CSM) davanti al giudice amministrativo.
La fase amministrativa sarebbe
quindi separata da quella giurisdizionale, e quest’ultima verrebbe devoluta al
TAR, con possibilità di ricorrere, in ultimo grado (di legittimità e di merito
insieme), al Consiglio di Stato.
Qui si potrebbe cercare di
sfruttare un dettaglio non secondario, e potenzialmente “diabolico”: la
composizione del Consiglio di Stato non è infatti disciplinata direttamente
dalla Costituzione, che si limita a prevedere, al terzo comma dell’art. 100,
che “La legge assicura l'indipendenza dei due Istituti (il Consiglio di
Stato e la Corte dei Conti) e dei loro componenti di fronte al Governo”,
nonché, al secondo comma dell’art. 108, che “La legge assicura
l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali”. Ciò, tuttavia,
non ha impedito al legislatore di riservare al governo, con l’art. 19 della
Legge n. 186/1982, la nomina di un quarto dei suoi componenti.
Questa proporzione fra membri di
nomina governativa e membri nominati per concorso non gode di alcuna espressa
copertura costituzionale, per cui, teoricamente, potrebbe anche essere mutata
in favore dei primi. In alternativa, e più subdolamente, potrebbe essere
istituita una sezione specializzata in materia di giustizia disciplinare dei
magistrati, facendo in modo di assicurare al suo interno (per espressa
previsione, o attraverso requisiti preferenziali “mirati”) una prevalenza di consiglieri
di nomina governativa.
Il tutto senza violare, almeno
formalmente, nessuna norma costituzionale esplicita.
Vediamo adesso come si potrebbe
conseguire il medesimo obiettivo dopo l’istituzione dell’Alta Corte.
Innanzi tutto, bisognerebbe
chiedersi verso quale tipo di procedimento disciplinare si andrebbe incontro:
un procedimento di tipo accusatorio, in cui l’incolpato viene tratto a giudizio
direttamente davanti all’Alta Corte, oppure uno di tipo impugnatorio, in cui il
competente organo di autogoverno adotta un provvedimento di natura
amministrativa, contro il quale è possibile ricorrere all’Alta Corte? Il dubbio
non è peregrino: il nuovo art. 105 non indica più fra le attribuzioni dei due
Consigli Superiori “i provvedimenti disciplinari”, ma non pone neppure alcun
ostacolo esplicito; ed in presenza di una formulazione del primo comma che
conteneva già un’elencazione apparentemente fissa delle quattro materie
fondamentali riservate al CSM, nessuno ha mai dubitato della possibilità di
conferirgli anche funzioni ulteriori (che infatti sono state abbondantemente
conferite).
In secondo luogo, occorrerebbe
capire quale sarebbe il giudice di ultima istanza. Ad una prima, immediata
lettura del nuovo comma 7 (che ammette l’impugnazione delle sentenze di primo
grado “soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte”), contro le sentenze
pronunziate in grado d’appello sembrerebbe non esserci rimedio. Tale
conclusione, tuttavia, non è affatto scontata, e potrebbe anzi risultare meno
convincente di quella opposta alla luce di un’interpretazione sistematica del
sistema complessivo (a questo
link ne parla Giuliano Castiglia, magistrato tributario, già magistrato
ordinario), che sembrerebbe ammettere in ogni caso uno scrutinio di legittimità
dinanzi alla Corte di Cassazione.
Ad ogni modo, anche ammettendo che
l’Alta Corte debba infine essere considerata giudice disciplinare di ultima
istanza, una maggioranza politica dovrebbe comunque assicurarsi il controllo
del collegio (o dei collegi) d’appello.
La domanda successiva è dunque la
seguente: su quanti “fedelissimi” potrebbe contare all’interno dell’Alta Corte?
Abbiamo già visto che i
componenti laici sarebbero complessivamente sei su quindici, di cui tre
sorteggiati da un elenco predisposto dal Parlamento e tre nominati dal
Presidente della Repubblica. Considerarli tutti come potenziale braccio armato
della politica pare quanto meno azzardato: la designazione presidenziale, al
contrario, dovrebbe teoricamente garantire a quei tre componenti non soltanto
un elevatissimo livello qualitativo, ma soprattutto un notevole grado di
indipendenza, paragonabile a quello dei componenti togati. Questo porterebbe la
proporzione fra membri “autonomi” e membri in qualche modo collegati al potere
politico, rispettivamente, a 4/5 e 1/5, quindi addirittura più favorevole di
quella di 2/3 e 1/3 dell’attuale CSM (e della sua sezione disciplinare).
A chi paventa che la qualità dei
nominati dipenderebbe dalla sensibilità istituzionale dei futuri Presidenti
della Repubblica, che potrebbero anche uniformarsi ai desiderata della
maggioranza, è agevole obiettare che si tratta dello stesso meccanismo con il
quale vengono designati i componenti della Corte Costituzionale. La Consulta è
infatti formata anch’essa da quindici giudici costituzionali, cinque dei quali eletti
dal Parlamento, cinque dalle magistrature (ordinaria e speciali) e cinque nominati,
per l’appunto, dal Presidente della Repubblica. Ciò non ha mai comportato un
allineamento fra i membri di nomina parlamentare e quelli di nomina
presidenziale a danno degli altri, né uno scadimento del grado di indipendenza
di questo fondamentale organo tale da intaccarne il prestigio e l’autorevolezza
o, ancor più importante, da minarne la capacità di sconfessare scelte
legislative non in linea con i principi della Costituzione, seppur operate da
una maggioranza in carica.
Anche con riferimento agli altri
tre componenti laici, a ben vedere, un giudizio preventivo di riconducibilità
alla volontà della maggioranza appare affrettato, al punto da rivelarsi in
realtà un pre-giudizio. Il nuovo art. 105 prevede infatti (al terzo comma) che
essi vengano sorteggiati da un elenco di giuristi eletti dal Parlamento in
seduta comune all’inizio della legislatura.
Si dirà (anzi, si è detto): non
viene specificato come deve essere formato questo elenco, quindi la maggioranza
potrà infilarci dentro i suoi fedelissimi.
L’obiezione sembra però
debolissima. La Costituzione, se è per questo, nulla dice espressamente
(e qui si rimanda alla precisazione iniziale sulla distinzione fra regole
esplicite e principi generali) neppure con riferimento all’elezione degli
attuali membri laici del CSM, che però, da sempre e senza eccezioni, ha
costantemente rispettato criteri di proporzionalità rispetto alla composizione
del Parlamento stesso. E che dire dei cinque giudici della Corte Costituzionale
di nomina parlamentare? Anche in questo caso non esiste alcuna previsione
esplicita di una necessaria pluralità politico-culturale, ma a nessuno è mai
venuto in mente che questi potessero essere appannaggio della sola maggioranza,
neppure nei momenti di più aspra contrapposizione politica.
In breve, ci sono validissime
ragioni per ritenere che la Corte Costituzionale non consentirebbe, oggi, delle
modalità di elezione dei componenti laici del CSM e dei giudici della Corte
stessa che escludessero dal gioco le opposizioni; esattamente come non
consentirebbe, domani, la formazione di elenchi di sorteggiabili per l’Alta
Corte (e per i due Consigli Superiori, che seguirebbero una procedura analoga)
predisposti unilateralmente dalla sola maggioranza.
Dunque, per i giudici dell’Alta
Corte ci sarà un elenco di sorteggiabili di varie estrazioni politiche, nel
solco di una tradizione consolidatissima e costituzionalmente obbligata; e
poiché la designazione finale avverrà mediante sorteggio, nessuna forza
politica potrà fare affidamento sulla sicura presenza anche di un solo membro a
lei riferibile.
Emerge, pertanto, la seguente risposta
alla domanda sul numero di “fedelissimi” che la maggioranza può essere certa di
avere all’interno dell’Alta Corte, prima che si proceda al sorteggio: zero.
E qui si pone un problema: poiché
le regole sulla composizione dei collegi vanno fatte in anticipo, qualunque
tentativo di codificare una prevalenza dei laici rispetto ai togati
rischierebbe di trasformarsi in un clamoroso boomerang, in quanto rischierebbe
di consegnare il controllo dell’Alta Corte a forze politiche diversa da quelle
di maggioranza. Già questa considerazione, da sola, basterebbe a sconsigliare iniziative
in tal senso.
Ipotizziamo però che una classe
politica amante dell’azzardo intenda correre questo rischio, e che la dea
bendata risulti benevola con la maggioranza (e malevola verso l’autonomia della
magistratura), regalandole tutti e tre i componenti di provenienza
parlamentare. Ipotizziamo anche che ci si metta pure il Presidente della
Repubblica, il quale, tradendo il senso della sua funzione, decida di
assecondarla. Ci sarebbero quindi sei giudici laici “fidati” su quindici
complessivi, ai quali andrebbe assicurata l’ultima parola.
Su questo aspetto, alcuni
commentatori hanno subito puntato il dito contro il possibile “veleno in coda”
rappresentato dall’ultimo inciso dell’ultimo comma del nuovo articolo 105: “La
legge … indica la composizione dei collegi … e assicura che i
magistrati giudicanti o requirenti siano rappresentati nel collegio”.
Si tratta di una formulazione
quanto meno infelice, che può legittimamente suscitare inquietudine: rimettere
alla legge i criteri di formazione dei collegi, e stabilire una mera “riserva
di rappresentanza” dei togati, potrebbe aprire la via ad indebite interferenze.
A questo punto bisogna però
chiedersi: il principio di “tendenziale proporzionalità” della sezione
disciplinare del CSM, stabilito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.
12/1971, varrebbe ancora anche per l’Alta Corte?
Alcuni commentatori ritengono che
la risposta sia negativa (in questo senso si è espresso, a
questo link, Francesco Lupia, magistrato ordinario).
Esistono però solidi
argomenti di segno contrario.
In quella sentenza, la Corte
Costituzionale ha scritto: “il Consiglio superiore è stato voluto dalla
Costituzione in diretta attuazione del principio secondo il quale " la
magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro
potere" (art. 104) … in funzione di siffatta garanzia, ad esso é stato
riservato (art. 105) ogni provvedimento concernente lo stato dei magistrati:
sicché l'effetto proprio del conferimento di tali attribuzioni al Consiglio è
quello di escludere, in materia, la competenza di altri pubblici poteri e di
impedire che l'esercizio di esse (salvo il caso dell'azione disciplinare) possa
essere condizionato ad iniziative esterne”.
Il nuovo articolo 104 recita: “La
magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere
ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera
requirente”. L’interrogativo, quindi, si traduce nel seguente: la
Costituzione, nella nuova versione, vuole ancora che la magistratura sia “un
ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”? La domanda suona
quasi retorica. E allora: “in funzione di siffatta garanzia”, l’art.
105, attribuendo la giurisdizione disciplinare all’Alta Corte, vuole ancora “escludere,
in materia, la competenza di altri pubblici poteri”, ed impedire che il suo
esercizio “possa essere condizionato da iniziative esterne”?
(Si badi bene: la
Costituzione, non quel politico, quel ministro, quel sottosegretario,
quel commentatore... La premessa iniziale va tenuta presente ora più che mai,
pena il venir meno di un’analisi intellettualmente onesta).
Se si affronta l’argomento senza
pregiudizi, le risposte positive ai due interrogativi paiono scontate. Ove ce
ne fosse bisogno, la stessa relazione di accompagnamento al DDL afferma a
chiare lettere che l’Alta Corte “deve essere organizzata in modo tale da
evitare di compromettere l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati,
prevenendo ogni possibile rischio di condizionamenti esercitabili attraverso
l’uso strumentale del controllo disciplinare”
Nella sentenza n. 12/1971, la
Corte Costituzionale ha anche motivato la sua decisione “in considerazione
del fatto che le linee strutturali segnate nell'art. 104 Cost., ispirate
all'esigenza che all'esercizio dei delicati compiti inerenti al governo della
magistratura contribuiscano le diverse esperienze di cui le singole categorie
sono portatrici, devono trovare ragionevole corrispondenza nelle singole
sezioni, quando a queste siano commessi poteri deliberanti”. Mutatis
mutandis, anche queste considerazioni si attagliano perfettamente all’Alta
Corte. Anche qui ci si trova infatti in presenza: - di un organismo composto da
diverse categorie; - di collegi dotati di autonomia deliberante; - di un
delicato compito inerente il governo della magistratura. A quest’ultimo
proposito, è utile precisare che il termine “governo” è stato utilizzato dalla
Corte riferendosi anche al processo disciplinare, nella medesima prospettiva
espressa dalla relazione di accompagnamento al DDL, che ritiene “la funzione
disciplinare … espressione massima dell’autogoverno”.
Si potrebbero anche aggiungere
due ulteriori considerazioni, derivanti da due articoli della Costituzione che
restano immutati.
Il primo è l’articolo 101,
secondo cui “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”; e questo
implica che non è consentito nessun legame improprio con altri poteri, diretto
o indiretto. Una norma che rispettasse formalmente una certa indicazione
numerica, ma che ponesse di fatto le premesse di un controllo politico, si
porrebbe irrimediabilmente in contrasto con questo principio, ben potendo
perciò essere censurata anche sotto tale, distinto profilo.
Il secondo è l’articolo 108, in
base al quale “Le norme sull'ordinamento giudiziario e su ogni magistratura
sono stabilite con legge. La legge assicura l'indipendenza dei giudici delle
giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei
che partecipano all'amministrazione della giustizia”. Questo articolo è
sicuramente applicabile anche all’Alta Corte, alla quale, come si è visto, è
attribuita la “giurisdizione disciplinare”; non vi sono quindi dubbi sul fatto
che si tratti di una delle giurisdizioni speciali la cui indipendenza deve
necessariamente essere assicurata. Essa, peraltro, è stata collocata
all’interno della sezione I del titolo IV della Costituzione, rubricata
“ordinamento giurisdizionale”; ed è proprio in questa sezione che si trovano
tutti gli articoli che stiamo esaminando.
Il tema dell’indipendenza della
magistratura ordinaria si somma quindi, uscendone rafforzato, a quello
dell’indipendenza di quel giudice speciale che è la nuova Alta Corte. Invero,
non soltanto essa deve godere di guarentigie analoghe a quelle delle altre
magistrature speciali, ma, quale “giudice dei giudici” ordinari, deve a sua
volta assicurare l’indipendenza di questi ultimi.
Una norma che tentasse una
forzatura a favore di membri di estrazione politica finirebbe inevitabilmente
per colliderebbe anche con questo principio, del quale appare un corollario
indefettibile l’impossibilità per il legislatore di preferire, fra componenti
delle magistrature speciali di diversa estrazione, quelli appartenenti alla
categoria più vicina alla politica. E se questo vale per il Consiglio di Stato,
a maggior ragione deve dirsi per l’Alta Corte, ove la problematica
dell’indipendenza dell’organo in quanto tale è strettamente connessa a quella
dell’indipendenza della magistratura ordinaria. Né varrebbe obiettare che
l’art. 108 andrebbe inteso con esclusivo riferimento allo status del
singolo giudice speciale, rimanendo estranei alla sua vis attractiva sia
il momento genetico (i criteri di nomina di quei giudici) sia quello funzionale
(le modalità di assegnazione degli affari e di composizione dei collegi),
perché ciò significherebbe ritenere che la Costituzione si disinteresserebbe totalmente
di tali aspetti, la cui strettissima connessione con il tema complessivo
dell’indipendenza del giudice speciale risulta invece lampante.
Tirando le fila del discorso,
alla luce dei principi desumibili dagli articoli 101, 104, 105 e 108 della
Costituzione, tutti peraltro consolidatissimi e ribaditi anche dal nuovo testo,
appare quindi legittimo chiedersi; cosa intende davvero l’ultimo inciso
dell’ultimo comma dell’articolo 105, quando afferma che “la legge … assicura
che i magistrati giudicanti o requirenti siano rappresentati nel collegio”?
Ḗ possibile una
lettura di questo inciso che lo renda coerente con l’impianto complessivo non
soltanto della riforma, ma del testo costituzionale in cui si inserisce?
Un’auspicabile risposta positiva
– che il ragionamento svolto rende però, a questo punto, pressoché obbligata –
potrebbe nascere dalla corretta interpretazione del termine “rappresentati”:
quella più immediata, ovvero “basta che nel collegio ce ne sia uno”, potrebbe infatti
non essere quella corretta.
Questa soluzione dà infatti per
scontato che la norma intenda fare riferimento al concetto di “rappresentanza”,
che però, in un simile contesto, risulterebbe un fuor d’opera.
I concetti di “rappresentanza” e
“rappresentatività” sono infatti ben distinti sia in diritto che nel lessico
comune: il primo è un concetto giuridico, in virtù del quale il rappresentante
può compiere determinati atti in nome e nell’interesse del rappresentato, il
secondo è invece un concetto prima di tutto statistico, che rimanda a quella
nozione di proporzionalità che, come abbiamo visto, è stata già accolta dalla
Corte Costituzionale con riferimento alla composizione delle sezioni del CSM (e
qui il riferimento è alle categorie), oltre a risultare immanente all’elezione
dei componenti laici del CSM ed a quella dei giudici costituzionali di nomina
parlamentare (sotto il diverso profilo politico-culturale).
Orbene, il riferimento al
concetto di “rappresentanza”, nel contesto in cui la disposizione è collocata,
sarebbe del tutto privo di senso. Il singolo (o i singoli) componenti togati,
che vengano designati a far parte di un
collegio, non potrebbero in alcun modo essere considerati “rappresentanti”
degli altri giudici togati, non essendo ad essi legati da nessun vincolo
giuridico o politico: non sono stati eletti, non sono portatori di interessi
comuni, non hanno alcun collegamento fra loro, non possono compiere atti nel
nome o nell’interesse degli altri.
Ciascuno di essi è giudice
indipendente di una giurisdizione speciale.
Se quindi non è questo il
concetto a cui fare riferimento, la disposizione va declinata nel senso della
“rappresentatività”: la legge dovrà dunque assicurare, all’interno dei collegi una
composizione tendenzialmente proporzionale delle categorie. In quest’ottica, l’inciso
in argomento assume un significato ben diverso: poiché dev’essere assicurata la
rappresentatività dei magistrati giudicanti “o” requirenti, la
disgiunzione va intesa nel senso che questi possono essere ricompresi in
un’unica categoria, quella dei togati, riducendo così a due soltanto le
categorie da rappresentare nei collegi (togati e laici) rispetto alla quattro
che concorrono invece alla composizione dell’Alta Corte (giudici, pubblici
ministeri, componenti di estrazione parlamentare e componenti di nomina
presidenziale).
L’interpretazione che appare
preferibile, in definitiva, è quella per cui il legislatore può comporre i
collegi giudicanti come crede, assicurando però, all’interno di ciascuno, la
tendenziale rappresentatività delle categorie, e, perciò, la necessaria maggioranza
della componente togata, senza distinguere al suo interno fra giudici e
pubblici ministeri. Cosa, peraltro, del tutto coerente con un sistema che, pur
prevedendo carriere separate, accomuna tutti i magistrati in un unico ordine “autonomo
e indipendente da ogni altro potere” (art. 104 primo comma), ed
unitariamente può pertanto considerarli ai fini della loro garanzia di
indipendenza.
Questa soluzione appare l’unica
coerente con il sistema complessivo, che vuole: - i giudici “soggetti soltanto
alla legge” (art. 101); - la magistratura quale “ordine autonomo e indipendente
da ogni altro potere” (art. 104); - la giurisdizione disciplinare attribuita ad
un giudice speciale, con una strutturazione interna che prevede componenti di
varia provenienza, circondati da particolari garanzie di indipendenza interna
ed esterna (il sorteggio, la nomina presidenziale, le incompatibilità) ed a
maggioranza togata (art. 105); - l’indefettibile indipendenza delle
magistrature speciali (art. 108).
Se ne trova conforto anche nella
relazione di accompagnamento al DDL, ed in particolar modo nel passaggio in cui
si afferma che “si è prestata particolare cura nel delineare una
composizione dell’Alta Corte idonea a garantire all’organo l’indispensabile
autonomia e indipendenza da altri poteri e la prevalenza della componente
«togata»”, assurta expressis verbis a modalità idonea a
garantire il valore primario dell’indipendenza dei magistrati, e che non può
pertanto non trovare rispondenza nella composizione dei collegi.
A questo punto, possiamo
finalmente provare a rispondere alle domande iniziali.
A Costituzione vigente, il
legislatore potrebbe tentare di condizionare il processo disciplinare dei
magistrati?
Formalmente potrebbe farlo, ed il
primo passo (quello di devolvere alla giurisdizione amministrativa
l’impugnazione dei provvedimenti disciplinari emessi dal CSM) sarebbe anzi una
piena attuazione del dettato costituzionale, e non un suo stravolgimento.
Tuttavia, laddove dovesse tentare delle manovre per influenzare il Consiglio di
Stato (o una sua sezione specializzata) quale giudice disciplinare di ultimo
grado, rischierebbe seriamente di venire censurato dalla Corte Costituzionale.
E con l’Alta Corte?
Gli ostacoli che il legislatore
dovrebbe dribblare, come si è visto, sono parecchi: la composizione unilaterale
dell’elenco predisposto dal Parlamento, la mancata previsione del ricorso per
cassazione (ove prevalesse la tesi affermativa), la composizione dei collegi.
Su tutti questi argomenti, la Corte Costituzionale avrebbe fondatissime ragioni
per bloccare eventuali tentativi di “colpi di mano”.
Siamo certi che la Corte lo
farebbe? No, non lo si può essere del tutto. Ed in quest’ottica, quell’inciso
finale, così come formulato, è davvero un peccato, perché rischia di gettare un
cono d’ombra su una riforma che invece, sotto altri aspetti, recide diversi
nodi gordiani.
Possiamo esserne certi a
costituzione invariata? Neppure. Soprattutto se una bocciatura della riforma
facesse infine esplodere il tema, rimasto finora sotto traccia, della terzietà
dell’attuale giudice disciplinare: elettivo, di grado unico di merito, e da
molti percepito come “cecuziente” dopo le vicende di cronaca degli ultimi anni.
















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