giovedì 28 maggio 2020

La separazione tra politica e magistratura, gli incarichi extra giudiziari, l’indipendenza, il ruolo ed i doveri del magistrato: l’attualità del pensiero di Rosario Livatino.

di Mario Fiorentino - Magistrato 


La separazione tra la politica e l’esercizio delle funzioni giudiziarie è un necessario ed indefettibile corollario del principio della separazione dei poteri.

Questo implica che il “controllore” deve non solo godere di una posizione di autonomia rispetto al “controllato”, ma anche evitare, sotto il profilo comportamentale, ogni possibile contatto, interferenza, sì da far sorgere anche solo il sospetto che la sua azione possa non essere imparziale.
Rosario Livatino, nella sua celebre relazione, ancora attualissima, “Il ruolo del giudice nella società che cambia” (1984), magistralmente affermava che “L'indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della stia condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza”.
Sempre  Livatino evidenziava la regola secondo cui “il giudice, oltre che essere deve anche apparire indipendente”, e che questo implica che “ accanto ad un problema di sostanza, certo preminente, ve n'è un altro, ineliminabile, di forma” , a conferma di quanto previsto già dall’art. 18 della legge sulle guarentigie, secondo cui “il magistrato non deve tenere in ufficio e fuori una condotta che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere".

Si delinea, dunque, la necessità che, non solo il magistrato goda di guarentigie volte a preservare la sua autonomia e la sua indipendenza, ma che, inoltre, egli non abbia contatti e rapporti, ivi compresi quelli con in mondo politico, tali da comprometterne anche la sua imparzialità “apparente”, affinché, nei limiti del possibile, non si possa dubitare che la sua azione possa essere condizionata o condizionabile, in specie quando è chiamato ed esercitare i suoi poteri su settori sensibili e rilevanti, come quello della politica e della pubblica amministrazione.

Richiamando ancora le parole di Livatino, occorre quindi che il magistrato sia indisponibile “ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi”, rinunzi  “ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza”, e ciò poiché è nelle cose che ogni rapporto di tal fatta, indipendentemente dalla mala fede del magistrato, possa creare relazioni o legami (ancor solo di natura psicologica) tali da minarne appunto quella condizione di indipendenza e neutralità -  dalle cose, dalle persone, dagli ambienti -, e dunque quella “separazione” dagli altri “poteri”,  che lo deve assistere nel momento in cui amministra la Giustizia.

Questi principi, con riguardo al mondo politico, hanno giustamente portato a ritenere che debbano essere introdotti accurati rimedi per impedire che vi siano inopportune commistioni tra politica e magistratura, così come debba essere evitato che un magistrato, dopo aver intrattenuto determinati rapporti con il mondo politico, continui a svolgere funzioni giudiziarie ovvero possa essere destinatario di incarichi di rilievo, tanto più se questi implicano l’esercizio del controllo di legalità.

L’avere frequentato certi ambienti, l’aver intrattenuto rapporti con determinati esponenti del mondo politico o amministrativo, l’aver maturato anche un normalissimo senso di riconoscimento per gli incarichi politici o di nomina politica, ricevuti ed evidentemente graditi perché non rifiutati o addirittura richiesti, sono tutti elementi che possono influenzare le scelte del magistrato, laddove questi ritorni ad esercitare le proprie funzioni, poiché possono appunto compromettere quella condizione di necessaria neutralità di carattere psicologico che lo deve accompagnare, indipendentemente dalla sua volontà o dalle sue capacità.
Un giudice che si trovasse in tali condizioni, invero, potrebbe essere incline a valutare più favorevolmente certe condotte e, dunque, a giustificarle (ritenendole lecite) ovvero, al fine di fugare nei consociati ogni dubbio sulla sua imparzialità, a reprimerle più rigorosamente di quanto sia giusto, in entrambi i casi disvelando un deficit di imparzialità e di equilibrio nelle scelte (oltre le normali soglie fisiologiche) che solo una condizione di neutralità, di indifferenza, di “non contaminazione”,  potrebbe assicurargli. 

Un altro versante che andrebbe pure valutato è il pericolo dell’eccessiva valorizzazione delle esperienze extra giudiziarie (c.d. fuori ruolo) dei magistrati, a scapito di chi ha invece continuato a svolgere il proprio lavoro ed accrescere esperienze e conoscenze nel settore giudiziario.
Talora di ciò si è parlato allorquando sono stati conferiti incarichi direttivi o semi-direttivi (ad es., Procuratore della Repubblica, Presidente di Tribunale, etc.) preferendosi candidati che avevano maturato un apprezzabile periodo di servizio fuori dai ruoli giudiziari su altri che, al contrario, avevano sempre continuato ad esercitare la giurisdizione.

Questo, al di là di ogni ulteriore implicazione, appare un fenomeno pericoloso, perché rischia di trasmettere un messaggio diseducativo, in specie alle giovani generazioni di magistrati, le quali potrebbero essere portate a pensare che fare bene e umilmente il proprio mestiere, accrescere le proprie competenze sul campo, lavorare senza la ricerca della pubblica ribalta (come è doveroso che sia), sia meno importante del ricoprire incarichi di altra natura, di nomina addirittura politica o fiduciaria, svolti senza una selezione pubblica e, dunque, conferiti senza un concorso.

Quanto detto potrebbe peraltro alimentare un connesso fenomeno, talora a tratti già visibile, e cioè quello di un esasperato carrierismo, fatto attraverso la spasmodica ricerca di esperienze extra giudiziarie per la precostituzione di titoli utili ai fini di successivi incarichi apicali; fenomeno che, oltre a distrarre il magistrato dal proprio lavoro e dalla serenità che lo deve circondare, oltre a fargli disperdere il senso del proprio ruolo e dei propri doveri nei confronti della collettività (al cui esclusivo servizio dovrebbe dedicare tutte le proprie energie lavorative), ne minerebbe a tal punto anche la sua indipendenza, poiché lo potrebbe portare alla ricerca anche di quegli incarichi, di cui parlava Rosario Livatino, che ancorché leciti sono potenzialmente idonei a “produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza”.

Servono, dunque, regole, incompatibilità e divieti, che solo il legislatore e il C.S.M., ciascuno per quanto di competenza, possono introdurre, per assicurare sempre più una maggiore separazione tra la politica e la magistratura, per garantire la piena dignità del lavoro giudiziario e tutelare quindi l’indipendenza (anche apparente) della giurisdizione.

Ma un ruolo fondamentale spetta anche a ciascun giudice-persona fisica; allo sforzo quotidiano con il quale egli assicura a sé stesso, prima ancora che alla collettività, l’onestà intellettuale delle proprie decisioni, delle proprie scelte, delle proprie posizioni.

L’indipendenza non è, infatti, una prerogativa o un privilegio di chi riveste l’ufficio di magistrato, ma un istituto a tutela dell’imparzialità della funzione giudiziaria e, dunque, del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.).

Rientra, quindi, nei doveri professionali ed etici di ciascun membro dell’ordine giudiziario quello di fare quanto è nelle sue umane possibilità per assicurare, in ogni momento della sua attività (dentro e fuori le mura del suo ufficio), il rispetto di tale canone, così come che le sue decisioni, come rimarcava il dott. Livatino, nascano sempre “da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato della autocollocazione nell'area di questo o di quel gruppo politico o sindacale, così da apparire come in tutto od in parte dipendente da quella collocazione”.

Ed è sicuramente per questo che, per concludere con le parole di Rosario Livatino, “il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato”.


2 commenti:

roberto ferrari ha detto...

Tutto condivisibile.
Ma sarebbe il caso di ridurre l' attenzione all' apparenza. Si suol dire che sacerdoti e magistrati debbano soprattutto apparire dotati delle qualità essenziali rispettivamente ad essi richieste. Richiamando il ogni occasione il principio ho il sospetto che si finisca per ridurre tutto all' apparenza. Poi l' apparenza viene (periodicamente) svelata e il destinatario di essa ha buon gioco a diffidare di ogni apparenza.
Capisco l' utilità del principio e a cosa serve, ma perchè l' apparenza funzioni, occorre astenersi rigorosamente dall' invocarla.
C'è poi un altro aspetto. L' apparenza la si può creare e ci riesce meglio chi ha più strumenti per crearla. Si può quindi attentare alla credibilità di un magistrato imparziale, in modo da toglierne di mezzo alcuni e ammonire gli altri.

Se poi la questione è il ripristino dell' apparenza, mediante la rimozione di coloro la cui credibilità è irrimediabilmente compromessa ... beh, buon lavoro!

francesco Grasso ha detto...

Per apparenza si intende un quid pluris. Un comportamento assolutamente ineccepibile.