sabato 29 settembre 2007

Le ragioni dell’astensione alle elezioni del C.D.C. dell’Associazione Nazionale Magistrati


di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)


Vorrete scusare l’insistenza, ma il punto mi sembra cruciale. Ho cercato più volte di spiegare perché e per come l’astensione dal voto alle prossime elezioni di novembre del C.D.C. [Comitato Direttivo Centrale] dell’A.N.M. [Associazione Nazionale Magistrati] sia, a mio avviso, l’unico mezzo per scuotere il sistema. Molti colleghi, però, mi hanno manifestato una certa perplessità, sembrando loro che un atteggiamento meramente “passivo” potesse, alla fine, risultare perdente nei confronti di un comportamento più fattivo e partecipativo.

L’obiezione non solo non è peregrina, ma, al contrario, è molto seria e dunque doverosamente mi sono fatto carico di approfondire la questione. Sono giunto alla conclusione che l’astensione – molto più che essere uno mero strumento-idoneo-al fine (fungibile con altri strumenti analoghi) – è il volto necessario (e dunque infungibile) di chi – apparendo (sconsolatamente) destinato a essere minoranza (perdente) a vita – si interroghi su quali possano essere gli strumenti per “contare”.

Sperando di non essere considerato un testardo, passo a dare conto di siffatta affermazione.

Parto dall’evidente necessità – a fronte del collasso del sistema-giustizia – di compiere qualcosa che concretamente produca bene, come si propongono tutti i bene-intenzionati: un qualcosa che non abbia solo valenza di nobile ma sterile protesta.

Insomma, venendo al quesito di fondo, è possibile “cambiare il mondo senza prendere il potere”?

Ho rifatto le bucce a me stesso e – mi scuserete la pervicacia – sono giunto alla conclusione che il non-voto, quale rifiuto di condividere il potere, è molto più che una protesta, un porre sul tappeto una questione di fondo: l’organizzazione dell’associazionismo.

I valori di civiltà insiti nella giurisdizione sembra – a sentire gli attivisti dell’A.N.M. – possano essere tutelati solo militando in una “corrente” (o simili).

Esistono invece altre forme – esse pure collettive – altrettanto incisive di quelle note.

Una è quella di promuovere un movimento paritario che rifiuti di considerare “bene” ciò che piove dall’alto, ma voglia proporre innanzitutto il “bene” che sorge dal basso.

Non cerchiamo di distruggere gli apparati per proporre, al loro posto, il nostro “bene”, ma lo proponiamo hic et nunc per ciò solo che rifiutiamo le regole degli apparati.

Un percorso – il nostro – che per sua natura non può essere irreggimentato nelle forme usuali (ché in tal caso approderebbe inevitabilmente al “già visto”), ma, come un fiume che scorre fuori dell’alveo usuale, rischia sì di arenarsi, ma con ciò paga il prezzo dovuto al nuovo, all’inventiva, al libero esercizio della critica, all’azione che sia autenticamente frutto di impegno corale e non agire di un’élitte (oligarchia?) che si arroghi il diritto di parlare per tutti. Le decisioni “in nome della gente” non sono affatto una garanzia e la quotidianità sta lì a dimostrarlo.

Un “movimento” che voglia minare mali antichi e incancreniti non può essere “moderato”: deve chiamare i fatti con il loro nome e cognome, senza edulcorare e senza mediare.

Non che la politica debba essere solo “movimento”, ma essa ha bisogno (anche) di “movimento” se non vuole scadere a stracca ripetizione di slogans dietro cui nascondere interessi affatto particolari, per non dire egoistici.

Noi non ci limitiamo a rifiutare di votare oggi per condividere questo potere, ma poniamo sul tavolo un quesito di ben più vasta portata: è più importante (e coerente) marciare verso la presa del potere o verso la crescita della nostra influenza sul potere (quello di oggi o di domani, poco importa)?

Il rifiuto di votare è dunque l’affermazione di un nuovo modo di fare politica: un “muoversi contro-e-oltre" che, per sua natura, è anti-istituzionale (nel senso, sia chiaro, che ripudia di cristallizzarsi in forme date) e si muove continuamente “oltre ogni cosa che possa contenere o fermare il flusso creativo della ribellione”.

E’ per questo, soprattutto, che non abbiamo un programma: perchè il nostro “programma” è di criticare – continuamente e spietatamente – i programmi fatti dall’“istituzione”.

Dunque la nostra posizione, se pur assume le fattezze di un “no”, è assai feconda e per nulla improduttiva. Il “no” infatti è dirompente perché contesta che ci sia necessaria continuità nelle forme di difesa dei valori della costituzione (e dunque prospetta come non necessarie le “correnti”); il “no” non è digeribile da parte degli apparati, in quanto sfugge alle regole della loro organizzazione del potere e anzi, al contrario, postula forme organizzative affatto diverse; il “no” non imita le forme in cui si esercita il potere attuale, ma costituisce epifania di uno spostamento radicale del potere: dalla sede istituzionalizzata a quella della dialettica, della partecipazione diffusa, del confronto reale e paritario. Il “no” apre un nuovo mondo concettuale, apre crepe negli assetti del potere esistente (e dunque spazi autonomi), si muove, sperimenta e crea.

Ma c’è di più.

Il “no” non si preoccupa di creare nel sistema le condizioni per il superamento del sistema (rimanendovi dentro fino al detto superamento): il “no” è la rivoluzione adesso: come è stato detto, la finalità non è costruire una forza all’interno del sistema che poi (quando?) produrrà una “rivoluzione”, ma dar vita a una forza dirompente che spinga oltre-e-contro adesso.

Siamo dunque, a ben vedere, nel cuore della critica (talora implicita) che ci viene mossa secondo cui la pretesa di cambiare lo stato delle cose senza prendere il potere (il potere di questo sistema, in questo sistema, con gli strumenti di questo sistema) sia del tutto irreale.

Credo, al contrario, che la pratica del “no” – per gli effetti che le conseguono – sia il massimo di ciò che oggi, hic et nunc, sia realisticamente praticabile a voler cambiare le cose.

Non trovo di meglio, per chiarire il mio pensiero, che rubare le parole a J. Holloway (con avviso che il suo pensiero si radica e si muove in tutt’altro contesto): “Non si tratta di definire questi no, di concentrarli in un partito o in un movimento, ma di aiutarli a rompere le definizioni, a svilupparsi, a estendersi e moltiplicarsi. Non stiamo vivendo in una casa solida e resistente. Viviamo in un edificio vecchio, decrepito, pericoloso e pieno di crepe nascoste da cartelloni pubblicitari: dobbiamo fare di tutto per scoprirle e farle estendere, moltiplicare e unire, qui e ora, fino a far crollare l’edificio”.

Come ebbe a dire un “rivoluzionario” del nostro tempo, “siamo donne e uomini e anziani abbastanza normali, cioè ribelli, scontenti, scomodi, sognatori”.

Credo che tutti i magistrati “abbastanza normali”
siano, al fondo, ribelli, scontenti, scomodi, sognatori: si tratta di fare emergere questa loro natura che il sistema cerca in tutti i modi di reprimere e nascondere.

Il sistema sembra sappia sempre dove andare, propaganda questa sua sicurezza e cerca di spacciare anche gli insuccessi più evidenti come sue conquiste.

Noi, “rivoluzionari”, non pretendiamo di sapere sin d’ora, di qui sino alla consumazione dei secoli, il da-farsi: sappiamo però benissimo ciò che non va ora e vogliamo dire in libertà i nostri “no” (soprattutto quelli che nessuno dice).

Non ci interessa (come interessa al sistema) celebrare il passato, perché la storia narrata dagli apparati è pervasa dalle categorie utili al sistema: è una storia solo di grandi imprese e grandi uomini.

La storia, in sé così bella, può tramutarsi in un grande alibi e in un’ottima scusa per non pensare al presente.

Non ci interessa precorre il futuro perchè ancora non sappiamo quali forme prenderà.
Ci interessa il presente, quello che può essere vulnerato dai nostri “no”.

Con avviso (essenziale) che uno spirito in tanto è “rivoluzionario” in quanto vuole stravolgere il sistema eliminando ciò che lo appesantisce e lo perverte.

Non dunque, sic et simpliciter, una battaglia contro questo sistema, ma più precisamente contro la gravissime disfunzioni che lo permeano. La puntualizzazione è d’obbligo, al fine di evidenziare come nessuna contraddizione di principio ci sia tra chi tali disfunzioni vuol combattere nelle correnti e chi, invece, fuori.

Neppure c’è contraddittorietà in chi decide di assumere, come dire?, una doppia cittadinanza, essendo compatibile, sempre in linea di principio, un doppio impegno.

Dunque, concludendo, non mi sentirò, non andando a votare, un disilluso che ha dismesso le armi, appendendo al chiodo la spada e le speranze.

Mi sentirò nel bel mezzo della battaglia, armato di bei “no”, in movimento verso fuori, percorrendo strade che meglio si delineeranno cammin facendo, confortato dalle mie utopiche aspirazioni, ma sorretto dal contributo di pensiero di tanti.

Camminare al buio – lo so – è pericoloso, ma è assai meglio che camminare su una bella strada illuminata che non porta da nessuna parte o, peggio, conduce diritta diritta nel precipizio.


3 commenti:

Anonimo ha detto...

Apprezzo questa iniziativa: è dura lasciare la torre ed esporre apertamente le proprie tesi.
Con l'invito ad essere più sintetici.
Avv. Carlo Villari del foro di Napoli

Anonimo ha detto...

Apprezzo molto l’intento lucidamente autocritico di questo blog. Alla domanda se anche quella dei magistrati sia una casta, risponderei di no: non lo sono almeno fin quando hanno il coraggio di interrogarsi sul loro ruolo.

Se non una casta, però, sono certamente una corporazione, che, come tutte, tende naturalmente alla sua conservazione. La corporazione ha il problema di regolarsi al suo interno, di governare le aspirazioni dei suoi membri, le loro carriere.
Il modo in cui viene formato il vertice dell’ANM ha rilevanza in quanto sono gli equilibri all’interno dell’associazione che poi determinano la composizione del CSM. E il CSM governa a sua volta le carriere dei magistrati, e la composizione degli uffici giudiziari.

Proviamo allora ad essere ancora più coraggiosi: e chiediamoci se e quanto tutto questo sistema favorisca l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, e quanto invece la condizioni.
Ho detto “dei giudici”, non della magistratura. Perché non è affatto automatico che l’autonomia della magistratura si traduca in autonomia dei singoli magistrati.
Nei paesi di antica democrazia liberale, è l’indipendenza del giudice il valore da difendere, mentre spesso un “ordine giudiziario” nemmeno esiste: ci sono solo singoli giudici.

I nostri magistrati sono indipendenti dal potere politico. Ma – mi domando - sono indipendenti anche dagli altri magistrati? E soprattutto, sono indipendenti da sé stessi e dalle loro umane aspirazioni?
Selezionati in giovane età e con tutta una vita davanti a loro, essi hanno normali ambizioni di carriera. In altri paesi, l’indipendenza di un giudice è garantita dalla sua inamovibilità, ma anche dall’assenza di un percorso di carriera.
Domandiamoci allora: questo sistema favorisce l’indipendenza del giudice?

Già nel 1903 uno dei più alti gradi della magistratura dell'epoca, il conte Eduardo Piola Caselli ammoniva che «i gradi e le promozioni suscitano gare ed ambizioni che contraddicono quello che dovrebbe essere l’atteggiamento mentale appropriato ad un magistrato e spingono i magistrati a dedicarsi a quelle poche cause e processi dove possono farsi onore trascurando i minuti affari di ogni giorno, nel disimpegno dei quali invece sta in massima parte l'importanza sociale della giustizia».

Un ultimo punto, sul quale proporrei che ci si soffermasse, è il gran numero di magistrati che ricevono incarichi dal potere politico, in posizioni di alta amministrazione, soprattutto al Ministero della Giustizia. Un recente dossier dei radicali (http://www.radicali.it/view.php?id=104716) denuncia che tutti gli incarichi di vertice del ministero della Giustizia (non solo incarichi tecnici di studio, ma di amministrazione attiva) sarebbero stati assegnati a magistrati in base a un criterio lottizzatorio volto a cooptare esponenti di tutte le correnti.

Dunque, mentre esiste una carriera dei magistrati all’interno della magistratura, bene o male governata dal CSM, esiste una carriera parallela all’interno del Ministero – favorita dall’impegno correntizio - sul quale il CSM non ha alcun controllo.
L’atto di incarico di un direttore generale o di un capo dipartimento comporta una fiducia politica, non meramente tecnica. Domandiamoci allora: quanto sono compatibili gli incarichi ministeriali, che presuppongono la fiducia della politica, con l'autonomia e l'indipendenza del magistrato e della magistratura?

Sono temi, credo, su cui varrebbe la pena riflettere ed interrogarsi.

Anonimo ha detto...

Gentilissimo Dario (Quintavalle), grazie del Suo commento molto interessante. Le segnalo che il tema che ci suggerisce (e che cercheremo di approfondire ancora) è trattato nel mio intervento "Le responsbailità dei magistrati nella crisi della giustizia" pubblicato nel blog il 25.9.2007.
Un cordiale saluto.
Felice Lima