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lunedì 1 giugno 2009

Il “doppio stato” e i casi De Magistris, Forleo, Genchi, Salerno


Vi segnaliamo, sul sito di MicroMega, a questo link, l’audio di un intervento di Marco Travaglio alla Fiera del Libro di Torino il 16 maggio 2009, nel quale affronta il tema della teoria c.d. del “doppio stato” e vi inserisce i casi De Magistris, Forleo, Genchi, Salerno.






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venerdì 29 maggio 2009

Il C.S.M. e la corruzione delle parole. A margine dell’impugnazione della sentenza del T.A.R. che ha dato ragione a Clementina Forleo.






di Giuliano Castiglia
(Giudice del Tribunale di Termini Imerese)






Avantieri il C.S.M., con la delibera che si può leggere a questo link, ha deciso di proporre appello al Consiglio di Stato contro la sentenza del T.A.R. Lazio che ha annullato il trasferimento d’ufficio della collega Clementina Forleo e di chiedere altresì al Consiglio di Stato di sospendere l’esecuzione di detta sentenza.

Leggendo la delibera, ognuno potrà farsi la sua idea.

Io penso, per le tante ragioni che sono state esposte qui e altrove, che quella adottata dal C.S.M. sia una decisione profondamente sbagliata in diritto e penso altresì che, se dovessero essere accolte le ragioni del C.S.M., si determinerebbe un grave vulnus alla garanzia costituzionale dell’inamovibilità dei magistrati, condizione imprescindibile dell’indipendente, imparziale e corretto esercizio della funzione giurisdizionale – che è costituzionalmente attribuita ai magistrati ordinari soggetti solo alla legge (artt. 101 e 102 Cost.) –, essenziale presidio del fondamentale principio di uguaglianza di tutti davanti alla legge e principale garanzia di effettività dei diritti di tutti.

Infatti, mentre per l’art. 107 della Costituzione “i magistrati sono inamovibili” e, in mancanza del loro consenso, possono essere destinati ad altre sedi o funzioni con decisione del Consiglio superiore della magistratura adottata con le garanzie di difesa stabilite dalla legge e solo per i motivi (pre)stabiliti dalla legge, seguendo l’interpretazione del Consiglio i magistrati potrebbero essere trasferiti per tutti i motivi di volta in volta discrezionalmente (post)ritenuti dal C.S.M..

Sorprendono molte cose nella delibera del Consiglio.

Ci sono delle vere chicche.

Così, il parallelo tra il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale dei magistrati e quello dei militari lascia davvero senza parole. Il C.S.M. sembra dimenticare che la Costituzione ha previsto l’inamovibilità dei magistrati e non quella dei militari e, evidentemente, omette di interrogarsi sulle ragioni del diverso trattamento riservato agli uni e agli altri.

Lo stesso dicasi per l’esemplificazione della categoria di ipotesi da far tremare i polsi di fronte alle quali il C.S.M. resterebbe disarmato se non si accogliesse la sua tesi.

Il CSM dice che la categoria è “certamente ampia” ma non va oltre due esempi. E, a sentirli, si comprende perché: si va dall’arcifrequente caso del Procuratore della Repubblica di un piccolo centro che si prostituisce [una specie di novello Ermenegildo Morelli] al magistrato sfigato che non paga i suoi debiti di gioco – tassativamente “cospicui” – nei confronti di soggetti estranei agli affari giudiziari di tutto il distretto in cui presta servizio.

Ma, nel fondo del pozzo, c’è che il Consiglio corrompe e annulla le parole.

Ante riforma, l’art. 2 della c.d. legge della guarentigie prevedeva la trasferibilità d’ufficio dei magistrati “quando, per qualsiasi causa anche indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario”; dopo la riforma, invece, solo “quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità”.

Il Consiglio tramuta “qualsiasi causa indipendente da loro colpa” in “qualsiasi causa, indipendentemente da loro colpa”, cioè “qualsiasi causa, a prescindere da loro colpa”, cioè, in definitiva, “qualsiasi causa, anche indipendente da loro colpa”.

Così, nella sostanza, reintroduce d’imperio quell’anche che – come i lettori di questo blog ben sanno – il legislatore aveva espunto per precise ragioni; altrimenti detto, il testo nuovo non gli aggrada e, dunque, opera come se fosse ancora in vigore il vecchio.

Le parole, corrotte, perdono ogni valore, sono annullate. Se “qualsiasi causa indipendente da loro colpa”, infatti, deve leggersi come “qualsiasi causa, anche indipendente da loro colpa”, resta, nella sostanza, solo (si fa per dire) l’onnicomprensiva formula “qualsiasi causa”.

E ciò - ammessa e non concessa l’equivocità del testo vigente - ad onta del fatto che la direttiva della delega (art. 2 co. 6 lett. n della legge 150/05, ) in forza della quale il legislatore delegato ha modificato l’art. 2 legge delle guarentigi fosse quella di “modificar[lo] ... stabilendo che [...] il trasferimento ad altra sede o la destinazione ad altre funzioni possano essere disposti con procedimento amministrativo dal Consiglio superiore della magistratura solo per una CAUSA INCOLPEVOLE tale da impedire al magistrato di svolgere le sue funzioni, nella sede occupata, con piena indipendenza e imparzialità”.

Nell’articolo “Le parole della democrazia”, riportato nel post qui sotto, Gustavo Zagrebelsky scrive: «Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti, il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. Impariamo da Socrate: “Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito”; “il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi”, il che significa innanzitutto saper riconoscere e poi saper combattere ogni fenomeno di neolingua, nel senso spiegato da George Orwell, la lingua che, attraverso propaganda e bombardamento dei cervelli, fa sì che la guerra diventi pace, la libertà schiavitù, l’ignoranza forza. Il tradimento della parola deve essere stata una pratica di sempre, se già il profeta Isaia, nelle sue “maledizioni” (Is 5, 20), ammoniva: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro”. I luoghi del potere sono per l’appunto quelli in cui questo tradimento si consuma più che altrove ...».

Spero che l’antico ammonimento di Isaia, in questi tempi in cui si parla anche di modifiche nella composizione del C.S.M. e nei rapporti numerici tra le diverse componenti, possa spingerci tutti a restare più legati al senso proprio delle parole.





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Il C.S.M. impugna la sentenza del T.A.R. che ha dato ragione a Clementina Forleo

Il 27 maggio, il C.S.M. ha deliberato di ricorrere al Consiglio di Stato avverso la sentenza del T.A.R. del Lazio che ha dato ragione a Clementina Forleo, dichiarando illegittima la delibera con la quale è stata trasferita da Milano a Cremona.


Pubblichiamo – a questo link - il testo integrale della delibera del C.S.M.






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venerdì 15 maggio 2009

Complotto Superiore della Magistratura






di Marco Travaglio
(Giornalista)




da L’Espresso del 15 maggio 2009


Il mancato trasferimento di Clementina Forleo da Milano a Cremona, deciso da una sentenza del Tar del Lazio, è il segno evidente dello stato di confusione attraversato dal Csm.

La sentenza del Tar Lazio che annulla il trasferimento di Clementina Forleo da Milano a Cremona disposto un anno fa dal Csm per “incompatibilità ambientale” è l’ultima (per ora) casella di un tragico gioco dell’oca iniziato a Catanzaro nell’ottobre 2007.

Allora l’avvocato generale Dolcino Favi, facente funzioni di procuratore generale, avocò l’indagine “Why Not” al pm Luigi De Magistris, all’indomani dell’iscrizione nel registro degl’indagati del ministro della Giustizia Clemente Mastella.

In difesa di De Magistris parlò la Forleo ad “Annozero”.

Il Csm trasferì su due piedi sia De Magistris sia la Forleo.

Intanto i superiori e alcuni indagati di De Magistris lo denunciarono a Salerno, e De Magistris li controdenunciò.

Salerno scoprì che aveva ragione lui e indagò i suoi capi e indagati per corruzione giudiziaria, ipotizzando che si fossero comprati e venduti le sue inchieste, grazie anche alle testimonianze del consulente Gioacchino Genchi e del pm crotonese Pierpaolo Bruni, applicato a Catanzaro.

Siccome Catanzaro negava a Salerno le carte di “Why Not”, Salerno andò a prendersele con la perquisizione del 2 dicembre scorso.

Apriti cielo: putiferio di polemiche, dal capo dello Stato al Csm, dai partiti di destra e di sinistra all’Anm, con la stampa al seguito (“guerra fra procure”).

Risultato: con un processo sommario di pochi giorni, il Csm cacciò pure i tre pm di Salerno che si erano macchiati di cotanta perquisizione, oltre al Pg di Catanzaro, Vincenzo Iannelli. Il quale aveva appena fatto in tempo a revocare l’incarico a Genchi, ultima memoria storica del lavoro di De Magistris, attaccato da Mastella, da Berlusconi e dal presidente del Copasir, Francesco Rutelli.

Il resto lo fece la Procura di Roma, incriminando Genchi per una caterva di reati e facendogli sequestrare dal Ros tutti i computer.

Negli ultimi due mesi, una raffica di provvedimenti giudiziari hanno stabilito che: De Magistris non ha commesso reati (archiviazione a Salerno delle indagini a suo carico) e l’indagine Why Not era tutt’altro che infondata (è pronta la richiesta di rinvio a giudizio per 98 indagati); la perquisizione di Salerno a Catanzaro era legittima (il Riesame ha rigettato i ricorsi dei perquisiti), mentre quella di Roma a Genchi era illegittima e i reati contestati sono inesistenti (accolto il suo ricorso contro il blitz del Ros); la Forleo non doveva essere trasferita (sentenza del Tar).

Ma ormai il danno è fatto.

Anzi, col trasferimento di Iannelli, Favi è tornato Pg ad interim.

È indagato a Salerno per corruzione giudiziaria, ma il Csm s’è “dimenticato” di trasferirlo.

E lui ne ha subito combinata un’altra delle sue: ha negato il rinnovo dell’applicazione a Catanzaro del pm Bruni, minacciato dalle cosche per le sue delicate indagini su ‘ndrangheta e politica.

Ora, il Csm è quello che è. Ma il capo dello Stato che lo presiede non ha nulla da dichiarare?




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giovedì 14 maggio 2009

Il berlusconismo dell’Associazione Nazionale Magistrati


Versione stampabile



di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)



Ci sono cose che sai, ma che sono talmente gravi e clamorose che a volte, sotto sotto, è come se non ci volessi credere nonostante la loro evidenza.

Ho scritto tante volte che il potere interno alla magistratura, gestito dalle correnti, disgraziatamente è diventato identico al potere esterno, gestito dai politici, e ho illustrato in molti modi questa convinzione.

Ho scritto anche in diverse occasioni come i gestori del potere interno della magistratura difendano ormai solo il loro personale potere usando la asserita difesa dell’indipendenza della magistratura (e, si badi, NON dei magistrati) solo come alibi di facciata.

Ho scritto queste cose, che appaiono del tutto evidenti, ma probabilmente, da qualche parte dentro di me, speravo in una qualche smentita, in un cambio di atteggiamento, in una presa di coscienza.

Per questo le reazioni del “potere interno” alla sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio ha dichiarato illegittimo e annullato il trasferimento di Clementina Forleo disposto dal C.S.M. sono riuscite a stupire anche me.

Di quella sentenza, della sua fondatezza in diritto e della irragionevolezza della reazione dei consiglieri del C.S.M. iscritti al Movimento per la Giustizia (una delle correnti dell’A.N.M.) ho scritto in due articoli ai quali rinvio: “Il C.S.M. e Clementina Forleo: ovvero dei pessimi rapporti fra il potere e la legge” e “Il Movimento per la Giustizia il potere e la legge”.

Ieri l’Associazione Nazionale Magistrati ha emesso un comunicato su quella sentenza che offre la prova evidente che i capi dell’A.N.M. pensano esattamente come il Silvio Berlusconi al quale dicono di volersi contrapporre.

Nel citare qui Silvio Berlusconi non intendo riferirmi solo alla persona del Presidente del Consiglio, ma alla cultura politica che egli esprime e che – bisogna prenderne atto – risulta nei fatti condivisa da ampia parte del panorama politico italiano di qualunque colore politico. La vicenda Forleo riguarda proprio un caso – la vicenda delle c.d. scalate bancarie – che coinvolge esponenti di primo piano della sinistra, le cui linee di condotta sono state del tutto identiche a quelle che in altre occasioni hanno criticato alla destra.

Il comunicato dell’A.N.M. sulla sentenza del T.A.R. può essere letto a questo link.

Esso si connota per le seguenti caratteristiche, che, dopo avere elencato, illustrerò analiticamente, punto per punto:

1. Si finge che quella del T.A.R. sia una interpretazione della legge, mentre, invece, è pacifico – ed emerge dallo stesso comunicato dell’A.N.M. – che ciò che ha affermato il T.A.R. è puramente e semplicemente ciò che dice la legge.

2. Non si contesta al T.A.R. di avere violato la legge, ma si adducono argomentazioni secondo le quali ciò che dice la legge non starebbe bene e si dà ad intendere che il T.A.R. avrebbe dovuto violare la legge – come già aveva fatto il C.S.M. – perché questo starebbe meglio.

3. Manca qualsiasi riferimento, foss’anche minimo, al fatto che risulta ormai giuridicamente certo che il C.S.M. ha agito illegalmente e che Clementina Forleo è stata vittima di una grave ingiustizia commessa dall’organo che avrebbe dovuto tutelarne l’indipendenza.

4. Si dà l’ennesima prova del fatto che il potere interno alla magistratura è un blocco unico e che vi è una intollerabile commistione di ruoli fra A.N.M. (e dietro l’apparenza di essa, le correnti) e il C.S.M..

5. Ci si lamenta del «sistema disciplinare» tacendo del tutto sul fatto che esso è nelle mani della magistratura e non di imprecisati enti esterni.

6. Si reclama per il C.S.M. un tipo di potere che è ESATTAMENTE quello che vogliono Berlusconi e i politici di potere (di destra e di sinistra).


PRIMO.

Nel comunicato, dopo avere premesso che «la sentenza del giudice amministrativo è fondata prevalentemente su ragioni di diritto» - sicché ci si aspetterebbe che poi venissero addotti contro di essa argomenti giuridici - l’A.N.M. si sottrae al confronto sul tema posto – le questioni di diritto – parlando di «interpretazione» della legge da parte del T.A.R., ma non offrendo alcun argomento a favore di una qualche possibile interpretazione diversa.

Si sostiene soltanto che l’«interpretazione» del T.A.R. determinerebbe «una drastica, se non radicale, riduzione dell’ambito applicativo della norma in esame» (l’art. 2 della legge sulle guarentigie).

Ognuno potrà considerare se sia accettabile che dei magistrati che sostengono ad ogni piè sospinto di volere difendere le leggi e la costituzione possano addurre come argomento contro una sentenza non che essa violi la legge, ma che applicandola dia luogo a un inconveniente politico: l’impossibilità del C.S.M. di cacciare i magistrati che non gli piacciono.

E ognuno potrà considerare cosa ci sia di costituzionale in un C.S.M. che vuole essere padrone dei magistrati e libero di cacciarli al di fuori di specifiche previsioni di legge solo perché non gli piacciono.

Che l’A.N.M. non tenga in alcuna considerazione il tenore oggettivo della legge emerge peraltro clamorosamente dal brano del comunicato nel quale si dice: «Inoltre, secondo il TAR la norma sarebbe applicabile solo nei casi in cui sia venuta meno l’imparzialità o l’indipendenza del magistrato e non nelle fattispecie di effettiva lesione del prestigio».

I capi dell’A.N.M. scrivono che «secondo il T.A.R.» - e dunque non secondo la legge – l’art. 2 sarebbe applicabile «solo nei casi in cui sia venuta meno l’imparzialità o l’indipendenza del magistrato e non nelle fattispecie di effettiva lesione del prestigio».

Ma ognuno potrà verificare se questo sia «secondo il T.A.R.» o secondo la legge semplicemente leggendo la norma in discussione (art. 2 del R.D.L.vo 31 maggio 1946, n. 511), che recita testualmente:

«I magistrati (…) non possono essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, se non col loro consenso.
Essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni (…) quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialita»
.

Come si vede, la legge e chiarissima nel fare riferimento solo alla «indipendenza e imparzialità» e non c’entra proprio nulla l’asserita «interpretazione» del T.A.R. della quale si parla pretestuosamente nel comunicato dell’A.N.M..

Per di più che il riferimento alla «lesione del prestigio» che il C.S.M. e l’A.N.M. vorrebbero utilizzare come alibi per cacciare i magistrati sgraditi al potere non solo non ci sia nella norma, ma sia espressamente non voluto dalla legge è provato dal fatto che quel riferimento era contenuto nella versione precedente della norma, che è stata modificata dal legislatore.

Sicché “interpretare” (???!!!) la norma come vorrebbe il potere interno significa con ogni evidenza violare la legge, facendo finta che la modifica fatta dal legislatore nel 2006 non ci sia stata.

Il testo precedente della norma diceva che i magistrati potevano essere trasferiti «quando, per qualsiasi causa anche indipendente da loro colpa, non possono, nella sede che occupano, amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario».

Ora il riferimento al «prestigio dell’ordine giudiziario» non c’è più. Sarebbe bello che i magistrati che governano l’A.N.M., invece di fare equivoci riferimenti alle «interpretazioni» del T.A.R., dicessero come deve essere intesa questa modifica.

Nello stesso comunicato si sostiene che sarebbe sbagliata l’«interpretazione» del T.A.R., «in base alla quale la nuova disciplina dell’art. 2 della legge sulle guarentigie non consentirebbe il trasferimento di ufficio di un magistrato per condotte “colpevoli”, anche nelle ipotesi in cui tali comportamenti non costituiscano illecito disciplinare».

Dunque, secondo i magistrati che governano l’A.N.M. e il C.S.M. si dovrebbe ritenere che l’art. 2 consenta il trasferimento dei magistrati anche per condotte “colpevoli”, ma che non costituiscono illecito disciplinare.

Al di là di quanto ho già scritto nell’articolo “Il Movimento per la Giustizia il potere e la legge” per dimostrare l’illogicità e l’incostituzionalità di un tale assunto, bisogna chiedere a questi magistrati come dovrebbe essere interpretata, secondo loro, la modifica dell’art. 2 fatta dal legislatore nei termini che seguono:

- testo anteriore alla riforma del 2006: «Essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni (…) quando, per qualsiasi causa anche indipendente da loro colpa …»

- testo successivo alla riforma del 2006 e attualmente in vigore: «Essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni (…) quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa».

Come può constatare chiunque non eserciti il potere interno nell’A.N.M. e nel C.S.M., il legislatore ha tolto un “anche”. Prima era «anche indipendentemente da loro colpa» oggi è solo «indipendentemente da loro colpa». E sembra abbastanza incontrovertivile che i casi in cui c'è colpa non possono essere ritenuti «indipendenti da loro colpa».

Dunque, chiunque non eserciti il potere interno all’A.N.M. e al C.S.M., anche se non esperto di cose di legge, può comprendere come sia certo che quello che i capi dell’A.N.M. pretendono è ciò che la legge CERTAMENTE VIETA e che quello che i capi dell’A.N.M. vogliono fare passare come opinabile “interpretazione” della legge è, invece, il chiaro e univoco testo della legge.


SECONDO.

A fronte di queste evidenze di diritto, i capi dell’A.N.M. non offrono alcun contrario argomento di diritto, ma adducono soltanto che così loro e i loro compagni di corrente al C.S.M. non potranno esercitare il potere di cacciare i magistrati sgraditi.

Applicano, in sostanza, categorie tipiche del potere politico contemporaneo: non importa cosa dice la legge, importa ciò che noi vogliamo fare. Se la legge ce lo impedisce, si tratta di cambiarla (i politici) o di violarla (i magistrati, che non hanno il potere di cambiarla).

Inutile chiedersi se questo modo di ragionare abbia anche solo qualcosa di accettabile da parte di chi fa il magistrato.


TERZO.

Nonostante risulti ormai clamorosamente evidente che la cacciata di Clementina Forleo, fatta con ogni strepito sui giornali, propagandandola come atto in difesa della legge, è stato un atto illegale, gravemente ingiusto nei confronti della collega, manca nel comunicato dell’A.N.M. qualunque riferimento autocritico.

Risulta provato, in sostanza, che il C.S.M. ha agito illegalmente. E l’unica cosa che fa l’A.N.M. è rivendicargli poteri che non ha.

Si tratta anche in questo caso di una condotta esattamente identica a quella dei politici che, messi dinanzi all’illegalità delle loro condotte, ne rivendicano le ragioni politiche: “E’ vero che abbiamo violato la legge, ma non lo avessimo fatto non avremmo potuto …”.

Fa una notevole impressione dovere prendere atto che, come ho detto, il potere interno alla magistratura ha la stessa anima di quello esterno del quale si finge, al bisogno elettorale, antagonista.


QUARTO.

L’assoluto silenzio e la totale indifferenza sulla illegalità commessa dal C.S.M. e la rivendicazione contro la legge di un potere che il C.S.M. non ha danno l’ennesima prova del fatto che il potere interno alla magistratura è un blocco unico e che vi è una intollerabile commistione di ruoli fra A.N.M. (e dietro l’apparenza di essa, le correnti) e il C.S.M..

Il potere interno alla magistratura è un potere monolitico e non dialettico. Per tante ragioni e anche per questa, per niente democratico.


QUINTO.

Scrivono i capi dell’A.N.M. che saremmo «in presenza di un sistema disciplinare che continua a sanzionare prevalentemente condotte di scarso rilievo e registra, invece, inaccettabili ritardi di iniziativa in relazione a comportamenti e situazioni di rilevante gravità».

Fingendo di ignorare che il “sistema disciplinare” è in mano ai magistrati, sia per la parte relativa al promuovimento dell’azione (che compete al Procuratore Generale della Cassazione), sia per la parte relativa al giudizio (che compete al C.S.M.).

Surreale è il brano: «Si è discusso spesso in questi mesi, anche all’interno della magistratura, della necessità di un intervento da parte del C.S.M. su situazioni di opacità, su quelle “zone grigie” che appannano l’immagine e il prestigio della magistratura. E su tale questione la Giunta Esecutiva Centrale è sempre [???!!!] stata ferma nel richiedere a gran voce, al Consiglio Superiore e ai titolari dell’azione disciplinare, interventi tempestivi».

Evidentemente le discussioni di cui parlano i vertici dell’A.N.M. devono essere state segretissime, perché è sotto gli occhi di tutti che le uniche vere richieste di intervento fatte dalla G.E.C. al C.S.M. e ai titolari dell’azione disciplinare hanno riguardato i colleghi scomodi, cacciati nei noti modi.

Non risultano, per esempio, fra le tante possibili, accorate richieste di intervento in ordine alla illegittima avocazione di “Why not” o alle decine di situazioni molto incresciose che sono sotto gli occhi di tutti e vengono denunciate da tanti, rispetto alle quali della G.E.C. si nota solo l’ostinato silenzio.


SESTO.

Sostengono i capi dell’A.N.M.:
«In definitiva, noi riteniamo che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non siano salvaguardate allorché il Consiglio Superiore della Magistratura venga privato di un fondamentale strumento di iniziativa autonoma».

E’ del tutto incomprensibile perché il fatto che il C.S.M. non possa cacciare quando e come gli pare i magistrati scomodi e/o sgraditi lederebbe «l’autonomia e l’indipendenza della magistratura».

C’è qui la prova più evidente della mistificazione del concetto di indipendenza della magistratura portata avanti da anni dai responsabili del potere interno.

L’indipendenza difesa dalla Costituzione è quella dei singoli magistrati, che devono potere giudicare con indipendenza i singoli casi a loro sottoposti.

Dunque, viola l’indipendenza dei magistrati la pretesa dei politici al potere di impedire a questo o quello di loro di giudicare in maniera giusta questo o quel caso.

L’indipendenza difesa dai capi del potere interno non è l’indipendenza dei singoli magistrati, ma l’indipendenza della corporazione. L’indipendenza del loro personale potere dagli altri poteri.

Dunque, secondo i capi del potere interno, loro devono potere cacciare questo o quel magistrato sgradito e/o scomodo.

Proprio come farebbe il potere politico esterno.

Ciò che i capi del potere interno rivendicano è in sostanza la pretesa di fare loro ciò che vorrebbero fare gli altri.

I capi dell’A.N.M. e i loco compagni di corrente al C.S.M. vogliono un potere come quello che vuole Berlusconi e un C.S.M. come lo vuole Berlusconi. Solo che Berlusconi (ma anche D’Alema e gli altri) vorrebbe essere lui a capo di quel potere e di quel C.S.M. e i capi del potere interno ci vogliono restare loro.

Ma la natura intrinseca del potere e le sue concrete conseguenze – esiziali – per l’indipendenza dei magistrati sono assolutamente identiche per entrambi i blocchi di potere.

Scrivono i capi dell’A.N.M. nel comunicato:
«Si è discusso spesso in questi mesi, anche all’interno della magistratura, della necessità di un intervento da parte del CSM su situazioni di opacità, su quelle “zone grigie” che appannano l’immagine e il prestigio della magistratura».

Ognuno può constatare quanto sia fumosa, indeterminata e pericolosamente arbitraria la pretesa dei vertici del potere interno di potere cacciare chiunque – A LORO INSINDACABILE GIUDIZIO, mancando una predeterminazione legale delle fattispecie – «appanna l’immagine e il prestigio della magistratura».

E come questa sia la stessa cosa che predicano da sempre i capi del potere esterno, che continuano a sostenere di avere “stima e rispetto incondizionato per la stragrande maggioranza dei magistrati che fanno il loro dovere in silenzio” (id est: senza rompere le scatole ai potenti) e di volere cacciare solo “singoli facinorosi che danneggiano l’immagine di tutta la magistratura”.



Alla fine di queste considerazioni, a un magistrato restano solo tre domande:

1. Quali differenze culturali, etiche, operative ci sono fra i capi del potere interno alla magistratura e i politici – di destra e di sinistra – che sono portatori di quella cultura dello stato e della legge che si suole chiamare “berlusconismo” (non il potere al servizio della legge, ma la legge al servizio del potere)?

2. Perché dovremmo temere che i “berlusconisti” si impadroniscano definitivamente della giustizia se essi farebbero solo le stesse cose che già fanno i magistrati che stanno ai vertici del potere interno?

3. Perché se le stesse cose che quando le fanno i “berlusconisti” sono ritenute “cattive”, se le fanno i capicorrente dovrebbero essere ritenute buone, se non per quello schema proprio di tutti i regimi, per il quale, essendo il “padrone” buono per definizione e dicendo egli di volere tutto ciò che fa per il bene del popolo, qualunque cosa egli faccia è buona “per definizione”?

C’è una cosa che i capi del potere interno sanno molto bene, perché gli è stata detta in tanti modi: che è molto importante definire esattamente i poteri del C.S.M., perché è possibile che un giorno il potere politico modifichi la composizione del C.S.M. medesimo e se ne impadronisca totalmente.

Ma per delimitare adeguatamente il potere di un eventuale futuro padrone esterno è necessario delimitare il potere anche del padrone interno.

I magistrati al potere interno hanno una tale brama del loro potere, da non accettare questa cosa e, pur di non perdere oggi il loro potere assoluto, sono disposti a lasciare che domani esso cada così com’è nelle mani del padrone esterno.

Se ciò accadesse, chi difenderebbe i magistrati da un potere assoluto e legibus soluto del C.S.M.?

In sostanza, com’è nella logica della questione democratica, si contrappongono due modelli di potere.

Uno è quello disegnato dalla Costituzione, nel quale non è importante “CHI” governa, ma secondo quali regole lo fa.

L’altro è quello proprio dei regimi, nel quale è importante solo chi governa, comunque governi.

Il modello di potere disegnato dalla Costituzione vuole un C.S.M. con regole di condotta ben precise, così che chiunque lo “occupi” (i politici o i capicorrente dell’A.N.M.) esso possa agire solo in difesa della legge.

Il modello di potere rivendicato dai capi dell’A.N.M. e del C.S.M. vuole un C.S.M. con la stessa onnipotenza senza regole dei politici.

Ovviamente, perché i politici lascino i capi del potere interno al comando di una cosa del genere è indispensabile che questi ultimi possano rassicurare i politici sul fatto che provvederanno loro a cacciare i magistrati scomodi.

La battaglia che si sta combattendo è, dunque, una battaglia per il potere fine a se stesso.

Come emerge chiaramente dal comunicato dei consiglieri del Movimento per la Giustizia che ho commentato nell’articolo “Il Movimento per la Giustizia il potere e la legge”, la minaccia che i capi del potere interno fanno ormai esplicitamente è: “Se non accettate di farvi cacciare da noi, verranno a cacciarvi quelli da fuori”.

La risposta banalmente ovvia è: chissenefrega!

Il sogno dei costituenti era che l’art. 107 della Costituzione venisse rispettato: «I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso». E potessero così giudicare con imparzialità quelli di destra e quelli di sinistra, quelli di sopra e quelli di sotto.

Se l’art. 107 deve essere nei fatti abrogato e i magistrati scomodi cacciati, che li caccino Berlusconi o D’Alema, invece che i consiglieri del Movimento per la Giustizia o quelli di Magistratura Democratica o di Unità per la Costituzione o di Magistratura Indipendente è francamente irrilevante, se non per i consiglieri delle varie correnti che potranno oppure no continuare a esercitare il loro potere e passare, magari, un domani, come capitato di recente, dal C.S.M. al ministero ombra del P.D. o dall’A.N.M. a una presidenza di regione o da una Procura Generale alla vicepresidenza di una autority.

E’ notte fonda. Non solo perché queste cose accadono, ma perché vengono addirittura scritte in un comunicato dell’A.N.M. dal tono paradossalmente supponente.





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domenica 10 maggio 2009

Il “Movimento per la Giustizia”, il potere e la legge


Versione stampabile



di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)





Ho scritto qualche giorno fa un articolo – “Il C.S.M. e Clementina Forleo: ovvero dei pessimi rapporti fra il potere e la legge” – per illustrare la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio ha dichiarato illegittimo e annullato il provvedimento con il quale il Consiglio Superiore della Magistratura ha trasferito Clementina Forleo dal suo ufficio di G.I.P. del Tribunale, utilizzando illegittimamente per farlo la procedura di cui all’art. 2 della Legge sulle guarentigie della magistratura (R.D.L.vo 31 maggio 1946, n. 511).

Quella sentenza (che può essere letta a questo link) fa fare, per molte evidenti ragioni, una pessima figura al C.S.M. e ai consiglieri che hanno votato la delibera illegittima.

L’annullamento della delibera è stato accolto – come sempre, negli ultimi anni, in questi casi – dal più ostinato silenzio in tutti i luoghi di comunicazione interni alla magistratura.

Unica lodevole e preziosa eccezione un importante comunicato di Magistratura Indipendente, che si può leggere a questo link. I consiglieri di Magistratura Indipendente, peraltro, e gliene va dato merito, furono gli unici a votare, al C.S.M., contro la delibera illegittima (preciso, per quelli che cercano appartenenze dapperutto, che io non sono iscritto ad alcuna corrente e non ho alcun rapporto con Magistratura Indipendente).

A fronte di questo “assordante silenzio” (come lo chiama opportunamente Magistratura Indipendente), la corrente Movimento per la Giustizia pubblica sul suo sito un comunicato a firma dei suoi consiglieri al C.S.M. Ciro Riviezzo, Mario Fresa e Dino Petralia, con il quale si tenta di dare una giustificazione formale/legale alla decisione illegittimamente adottata in danno di Clementina e si annuncia il ricorso al Consiglio di Stato (sull’abitudine del C.S.M. di ricorrere quasi sempre avverso le sentenze che dichiarano illegittimi i suoi provvedimenti ho scritto nel già citato articolo “Il C.S.M. e Clementina Forleo: ovvero dei pessimi rapporti fra il potere e la legge”).

Questo comunicato merita un commento, per farne emergere la palese infondatezza tecnico giuridica. Cosa che fa una certa impressione, se si considera che gli aderenti alla corrente Movimento per la Giustizia (corrente alla quale sono stato vicino per tantissimi anni prima che diventasse quello che è oggi) si sono sempre fatti vanto di avere come valore fondante una cultura del rispetto della legge e delle regole, che evidentemente con il passare degli anni sembra essersi molto appannata.

Il comunicato dei consiglieri del Movimento può essere letto a questo link, sul sito della corrente, o a quest’altro su Google Documenti. Per brevità, non lo riporto e rinvio i lettori ai siti testé indicati.

Per comodità di esposizione, articolerò per punti separati l’analisi delle opinioni dei consiglieri Riviezzo, Fresa e Petralia.


PRIMO.

La prima cosa da osservare è che i tre consiglieri del Movimento elencano in tre punti le ragioni poste dal T.A.R. a fondamento della decisione di annullamento, ma quello che loro indicano come punto 2 è, nella sentenza del T.A.R., cosa assai diversa da come la sintetizzano loro.

Scrivono i cons. Riviezzo, Fresa e Petralia con riferimento a questo aspetto della vicenda che «l’annullamento della delibera del C.S.M. si basa su tre motivi: (…) 2) l’interpretazione della locuzione “piena indipendenza ed imparzialità” contenuta nella medesima norma».

Ma la sentenza del T.A.R. non contesta al C.S.M. l’interpretazione della locuzione «piena indipendenza ed imparzialità» del magistrato, ma lo specifico vizio di difetto di motivazione sul punto e, per di più, la violazione della legge e non sotto il profilo della interpretazione del testo (come vorrebbe il Movimento per la Giustizia), ma sotto quello della applicazione sostanziale di un testo precedente e ormai abrogato.

In sostanza, non “interpretazione”, ma puramente e semplicemente “violazione” di legge.

La cosa appare di tutta evidenza semplicemente leggendo il paragrafo della sentenza del T.A.R., che dice testualmente (alle pagg. 20 e 21):

«2.2 Il Collegio ritiene che non sussista nemmeno l’altro presupposto della fattispecie, vale a dire l’impossibilità per il magistrato di svolgere, nella sede occupata, le proprie funzioni con piena indipendenza ed imparzialità, per cui anche la relativa censura si rivela fondata.
Il complesso degli elementi a base del provvedimento adottato, infatti, non fornisce un’esauriente spiegazione sulla plausibilità del verificarsi di un tale effetto.
I rilievi contestati alla dott.ssa Forleo, secondo il C.S.M., “dimostrano un rapporto con l’ufficio di Procura caratterizzato da eccessiva disinvoltura e contrario ai più comuni canoni deontologici nonché potenzialmente indicativo di un pregiudizio accusatorio all’evidenza incompatibile con l’imparzialità richiesta al giudice nell’esercizio delle sue funzioni”.
Purtuttavia, tale conclusione non appare coerente con le premesse, in quanto non sono comprensibili le ragioni per le quali - dalle dichiarazioni rese in trasmissioni televisive o alla stampa concernenti l’esistenza di poteri forti che, anche per il tramite di soggetti istituzionali, avrebbero interferito (o tentato di interferire) sull’esercizio delle funzioni giurisdizionali del magistrato, ovvero dai rilievi mossi ai pubblici ministeri preposti alle indagini relative alla cosiddetta “scalata BNL” - dovrebbe evincersi l’impossibilità di svolgere le funzioni magistratuali con indipendenza ed imparzialità nella sede di Milano.
Diversamente, atteso che nella proposta di trasferimento approvata dal Plenum, è stato precisato che “l’interpretazione di tali vicende da parte della dott.ssa Forleo e - ciò che qui interessa - le dichiarazioni pubbliche da lei rese al riguardo sono tuttavia, all’evidenza, gravemente sproporzionate rispetto ai fatti emersi così da procurare un allarme nei colleghi e un discredito anche della magistratura milanese obiettivamente infondati” e che gli atteggiamenti della dott.ssa Forleo sono “tali da determinare contrasti, conflitti e sospetti nei confronti dei magistrati di uffici con lei in contatto anche nella sede giudiziaria milanese”, sembra che nella valutazione dei presupposti sia stata data rilevanza alla possibilità di amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario, interesse tutelato nella precedente formulazione della norma, piuttosto che alla possibilità di svolgere le funzioni con piena indipendenza ed imparzialità, interesse tutelato nella vigente formulazione della norma.
Ne consegue che, anche con riferimento a tale aspetto, in assenza di una plausibile ragione per la quale i fatti indicati nel provvedimento in esame possano far ritenere pregiudicata, nella sede occupata, la possibilità di svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza ed imparzialità, risulta violato il principio di legalità e di tipicità degli atti amministrativi, in quanto l’amministrazione ha applicato l’art. 2 R.D.Lgs. 511/1946 in carenza degli elementi costitutivi della relativa fattispecie»
.

Appare chiarissimo, insomma, che, diversamente da quanto sostenuto dai consiglieri del Movimento per la Giustizia, il T.A.R. non ha dissentito dal C.S.M. su «l’interpretazione della locuzione “piena indipendenza ed imparzialità” contenuta nella medesima norma», ma ha rilevato come, anche se si volesse seguire la tesi – ritenuta dallo stesso T.A.R. illegittima – della applicabilità al caso della collega Forleo della procedura di cui all’art. 2 L.G., il C.S.M. non avrebbe comunque offerto alcuna «plausibile ragione per la quale i fatti indicati nel provvedimento in esame possano far ritenere pregiudicata, nella sede occupata, la possibilità di svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza ed imparzialità» e per questo, dunque, risulterebbe violato sotto altro ulteriore profilo – rispetto a quello della inapplicabilità della procedura ex art. 2 L.G. – «il principio di legalità e di tipicità degli atti amministrativi».

Stupisce non poco che consiglieri del C.S.M. e iscritti al Movimento per la Giustizia convertano una censura di illegittimità tanto precisa e grave da parte del T.A.R. in un semplice dissenso sulla interpretazione da dare a questa parte della norma in discussione. E così facendo finiscano con il tacere del tutto su questo rilevante e da sé solo decisivo profilo di illegittimità della loro delibera, motivo che da sé solo imporrebbe il riconoscimento da parte loro del proprio torto e non certamente il ricorso al Consiglio di Stato.

La grande confusione fatta nel comunicato dei consiglieri del Movimento su questo aspetto della questione emerge chiaramente dal seguente brano dello stesso: «Per quanto riguarda la nozione di “indipendenza ed imparzialità”, se è vero che essa è più ristretta di quella precedente che si riferiva al “prestigio”, tuttavia deve necessariamente comprendere tutte quelle conseguenze dei fatti accertati che impediscono al magistrato di esercitare, in un determinato luogo o in una determinata funzione, in modo adeguato la funzione giudiziaria, che ha - appunto - nel suo nucleo essenziale l’indipendenza e l’imparzialità. Si noti che non è richiesto che sia provato che il magistrato sia non “indipendente o imparziale”, ma solo che non possa esercitare le funzioni con piena indipendenza o imparzialità. Un concetto, quindi, diverso, che comprende in sé anche quelle ipotesi - certo gravi - di incapacità o di comportamenti discutibili, anche se non disciplinarmente rilevanti, che generano sconcerto in un determinato ambiente giudiziario e sociale e pongono il magistrato in condizioni di non poter più esercitare in quella sede e/o in quelle funzioni con “piena indipendenza e imparzialità”».

Nonostante lo sforzo del T.A.R. di spiegarlo e la chiarezza della motivazione che ho riportato sopra, i consiglieri del C.S.M. continuano a non chiarire per quale ragione comportamenti «non disciplinarmente rilevanti, che generano sconcerto in un determinato ambiente giudiziario e sociale» dovrebbero porre – senza altra ragione addotta che questa – «il magistrato in condizioni di non poter più esercitare in quella sede e/o in quelle funzioni con “piena indipendenza e imparzialità”».

Detto ai consiglieri del Movimento in parole ancora più semplici: per quale ragione il fatto che Tizio dica o faccia qualcosa che «genera sconcerto» (??!!) (concetto del tutto fumoso e imprecisato) nonostante non sia disciplinarmente censurabile dovrebbe significare che Tizio non è in grado di svolgere le funzioni «con “piena indipendenza e imparzialità”»?

Domanda che resta senza risposta e la mancanza di risposta alla quale sembra avere unico fondamento nel fatto che il C.S.M., per trasferire Clementina ex art. 2, ha “deciso”, senza saperne o volerne dare – né prima né dopo la sentenza del T.A.R. – «una plausibile spiegazione», che quello che “sconcerta” alcuni lede l’indipendenza per definizione, così che si può usare l’art. 2, che, a leggerlo con attenzione anche superficiale, non dice che può essere trasferito “il magistrato che sconcerta” o, detto più chiaramente, il magistrato che “non piace” a questo o a quello.


SECONDO.

Ma questa attitudine a tacere sulle questioni in campo riguarda anche un altro passo del comunicato che sto commentando.

Quello in cui i consiglieri del Movimento, dopo avere indicato come terzo motivo di annullamento del T.A.R. «la partecipazione al processo decisionale della consigliera Vacca, che era stata ricusata, e la cui ricusazione era stata dichiarata inammissibile», tacciono rigorosamente su questo aspetto della questione, archiviandolo con un «Prescindendo dal terzo punto, che pone un problema procedurale, ma che è più legato alla vicenda concreta, gli altri due punti inducono a riflessioni che hanno valenza generale, e che pertanto meritano di essere approfondite».

Ora, è particolarmente imbarazzante che, anticipando il ricorso al Consiglio di Stato contro la sentenza del T.A.R. che tanto gravemente stigmatizza il comportamento del C.S.M., si “prescinda” da uno dei punti decisivi – come ciascuno degli altri due – della controversia.

Sarebbe stato bello, infatti, e forse anche doveroso, che i consiglieri del Movimento per la Giustizia che si fanno carico di commentare la sentenza del T.A.R. dicessero qualcosa anche di questa parte della sua motivazione, che da sé sola, se fondata, come appare, imponeva l’annullamento della delibera. E prima ancora imponeva ai cons. Riviezzo, Fresa e Petralia di votare contro di essa.

Invece, tocca accontentarsi. Non sapremo cosa pensa il Movimento per la Giustizia di questo aspetto increscioso della vicenda, perché si tratta solo (sic!) di «un problema procedurale, ma che è più legato alla vicenda concreta».

In sostanza, secondo i cons. Riviezzo, Fresa e Petralia il fatto:

- che la vicepresidente della commissione del C.S.M. che doveva giudicare la collega Forleo ha fatto dichiarazioni palesemente ostili contro la stessa, anticipando il giudizio suo e di tutta la commissione sul caso (rinvio sul punto al mio scritto “Clementina Forleo e tutti noi avremmo diritto a un “giudice” imparziale”);

- che poi la stessa vicepresidente ha ugualmente partecipato alla decisione dello stesso caso;

- che poi il C.S.M. ha dichiarato tranquillamente inammissibile la ricusazione che invece il T.A.R. dichiara legittima;

è solo «un problema procedurale, … legato alla vicenda concreta»!!!

Dunque, non è necessario che loro ne parlino!!??

E va aggiunto anche che, purtroppo, con riferimento a questo aspetto della controversia NON E’ VERO PER NIENTE quello che dicono i consiglieri Riviezzo, Fresa e Petralia quando affermano testualmente nel loro comunicato che questa parte della sentenza del T.A.R. «pone un problema procedurale, ma che è più legato alla vicenda concreta».

Perché, invece, proprio al contrario, il T.A.R. pone un problema NON PROCEDURALE ma SOSTANZIALE e pone un problema nient’affatto legato – come sostiene il Movimento per la Giustizia – alla vicenda concreta, ma di carattere generale.

La cosa è spiegata in maniera chiarissima nel punto 3 della sentenza del T.A.R., alle pagg. 21-23 della motivazione.

Ciò che è accaduto, dal punto di vista dei principi generali e del rispetto della legge, è che il C.S.M. ha affermato che l’istituto della ricusazione non sarebbe applicabile ai procedimenti amministrativi e che può decidere di essi anche chi, come la prof. Vacca, abbia dimostrato in maniera clamorosa i propri pregiudizi sul caso sottoposto alla sua responsabilità.

Il T.A.R. si è dovuto fare carico di chiarire al C.S.M., in diritto (ed è l’ennesima lezione di diritto che il T.A.R. è costretto a dare a chi il diritto dovrebbe, invece, conoscerlo molto bene), che:

«… l’obbligo di astensione nei procedimenti amministrativi va verificato con riferimento alle fattispecie circostanziate e tipizzate dall’art. 51 c.p.c. e deve essere comunque riferibile ai fatti specifici destinati a formare oggetto del successivo apprezzamento imparziale (Cons. Stato, IV, 3 marzo 2006 n. 1035).
In particolare, l’imparzialità dell’organo deliberante è garantita dall’applicazione dei criteri desumibili dall’art. 49 T.U. n. 311957 e, prima ancora, dall’art. 51 c.p.c., i quali impongono l’astensione al componente dell’organo collegiale che versi in situazione di inimicizia personale nei confronti del destinatario del provvedimento finale o abbia manifestato il suo parere sull’oggetto di questo al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni procedimentali (Cons. Stato, IV, 7 marzo 2005, n. 867).
Ne consegue che l’istanza di astensione/ricusazione non poteva essere legittimamente dichiarata inammissibile, tanto più che gli apprezzamenti diffusi a mezzo stampa sul magistrato interessato nel corso del procedimento sono stati resi dal Vicepresidente della Prima Commissione, la Commissione che, in quanto competente sulle procedure di trasferimento ai sensi dell’art. 2 R.D.Lgs. 511/1946, ha formulato la proposta di trasferimento della dott.ssa Forleo, per cui appare arduo ipotizzare che l’inosservanza dell’eventuale obbligo di astensione da parte del componente del Consiglio non abbia potuto produrre un’alterazione del procedimento, traducendosi in un vizio di legittimità del provvedimento finale»
.

E la cosa ha valenza generale non solo perché si tratta di principi di diritto, ma perché anche in altre occasioni il C.S.M. – questo C.S.M. e anche, fra gli altri, proprio il consigliere Fresa – ha dichiarato inammissibili istanze di ricusazione: da ultimo nel procedimento – NON amministrativo ma addirittura GIURISDIZIONALE – a carico dei colleghi di Salerno.

Dunque, davvero appare clamoroso il tentativo dei consiglieri del Movimento di glissare su una cosa tanto rilevante e tanto grave, sostenendo contro ogni evidenza che si tratti solo «un problema procedurale, … legato alla vicenda concreta».

Laddove i componenti del C.S.M. e, fra loro, anche quelli del Movimento della Giustizia che si fanno carico di commentare la sentenza del T.A.R. che ha dichiarato illegittimo il loro provvedimento, dovrebbero provare a prendere atto che non dovrebbe accadere ciò che più volte invece è accaduto. Ossia che membri del C.S.M. facciano dichiarazioni alla stampa nelle quali esprimono i più diversi e violenti giudizi su questo o quel magistrato e poi lo giudichino.

Dovrebbero provare, in sostanza, a ritenersi anch’essi soggetti alla legge e applicare a sé quei principi deontologici e addirittura giuridici che dicono di volere insegnare ai magistrati. Chi deve giudicare di qualcosa, deve mantenere rispetto ad essa una serenità, un distacco, una imparzialità, una indipendenza che sono l’esatto opposto di quello che tutti abbiamo visto accadere nella vicenda Forleo – e non solo (basti pensare alle dichiarazioni rese alla stampa da membri del C.S.M. sulla vicenda di Salerno e su quella di Luigi De Magistris) - e che il T.A.R. ha indicato come illegittimo.


TERZO.

La tesi giuridica relativa all’ambito di applicabilità dell’art. 2 della legge sulle guarentigie sostenuta dal Movimento per la Giustizia è palesemente priva di fondamento.

Sarò breve e, per necessità, più sintetico possibile.

La storia dell’art. 2 ai fini che qui interessano è la seguente.

Prima della riforma introdotta dal D.L.vo 23 febbraio 2006, n. 109, la responsabilità disciplinare dei magistrati non era tipizzata.

Era illecito disciplinare genericamente tutto quello che arrecava pregiudizio al prestigio dell’ordine giudiziario.

Dunque, era il C.S.M. che volta per volta decideva – con molta, troppa libertà – cosa arrecava pregiudizio al prestigio dell’ordine giudiziario e cosa no.

In tempi passati, per esempio, è stato ritenuto arrecare pregiudizio al prestigio dell'ordine giudiziario anche avere una relazione sentimentale extraconiugale o altre cose simili. Perché era una cosa che “sconcertava”, come direbbe il C.S.M. di oggi.

Con la recente riforma, il legislatore ha indicato espressamente cosa è disciplinarmente punibile.

Dunque, oggi le condotte dei magistrati o rientrano nella previsione della legge come disciplinarmente censurabili oppure no.

Nel primo caso, i magistrati potranno essere puniti e, se del caso, anche trasferiti.

Nel secondo caso no.

Parallelamente è stato modificato l’art. 2 della legge sulle guarentigie.

La versione precedente diceva che i magistrati potevano essere trasferiti in via amministrativa «quando, per qualsiasi causa anche indipendente da loro colpa, non possono, nella sede che occupano, amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario».

La versione attuale dice che i magistrati possono essere trasferiti «quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialita».

Dunque:

1. non più “anche” indipendentemente da colpa, ma solo indipendentemente da colpa;

2. non più con riferimento al tema del prestigio dell’ordine giudiziario, che veniva in discussione per la valutazione di censurabilità disciplinare o no della condotta del magistrato, ma con riferimento alla «piena indipendenza e imparzialità».

Per avere una idea pratica di quando, oggi, può essere utilizzata la procedura di cui all’art. 2 (a parte il caso delle incompatibilità di cui agli artt. 16, 18 e 19 dell’ordinamento giudiziario, espressamente citato dalla norma), si pensi all’ipotesi di un Procuratore della Repubblica il cui figlio sia incriminato per gravi fatti penalmente rilevanti che coinvolgono vicende di una certa eco nel circondario.

Le colpe del figlio non possono essere fatte ricadere sul genitore, che, dunque, è incolpevole, ma può essere trasferito se il coinvolgimento di questo figlio lo mette in una condizione nella quale la sua indipendenza e imparzialità non sono o non appaiono più garantite.

I consiglieri del Movimento per la Giustizia vogliono invece utilizzare l’art. 2 per trasferire magistrati che abbiano fatto cose disciplinarmente NON censurabili, ma che, a insindacabile modo di vedere del C.S.M. – nel caso di Clementina Forleo del tutto senza motivazione, dice il T.A.R. –, creino dubbi sulla loro indipendenza e imparzialità.

L’infondatezza di questa pretesa emerge, anzitutto, dal fatto che è proprio lo stesso C.S.M. a smentire sé stesso e i cons. Riviezzo, Fresa e Petralia perché è proprio lo stesso C.S.M. che ha scritto, nella sua risoluzione del 24 gennaio 2007, che invito a rileggere a questo link, afferma testualmente che: «L’istituto [dell’art. 2] è stato, peraltro, significativamente modificato dall’art. 26, primo comma, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 e attualmente, in forza di tale modifica, il trasferimento di ufficio dei magistrati può essere disposto solo «quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa (essi) non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità», mentre è stato previsto il trasferimento ad altra sede o la destinazione ad altre funzioni del magistrato come misura cautelare e provvisoria applicabile nel procedimento disciplinare, su istanza del Procuratore generale della Corte di cassazione o del Ministro della giustizia, dalla Sezione disciplinare del Consiglio (art. 13, secondo comma, decreto legislativo n. 109 cit.). L’area di operatività del trasferimento di ufficio in via amministrativa è stata in tal modo ampiamente ridotta e ricorre ora - come chiarito dal Consiglio con la risoluzione 6 dicembre 2006 - esclusivamente quando la situazione presa in esame: «a1) non risulti sussumibile in alcuna delle fattispecie disciplinari delineate dal decreto legislativo n. 109/2006 ovvero a2) non risulti riconducibile a comportamenti del magistrato».

E tanto il C.S.M. lo ha capito bene che non può più fare quello che i cons. Riviezzo, Fresa e Petralia voglio continuare a fare che quella risoluzione del 24 gennaio 2007 serviva proprio a chiedere al Ministro della Giustizia di promuovere un cambiamento (!!!) della legge che permettesse di fare quello che ora è vietato e che il C.S.M. fa lo stesso.

Tentano di sostenere i consiglieri del Movimento per la Giustizia che questa richiesta del C.S.M. al Ministro sarebbe stata fatta solo «per maggiore chiarezza» della norma. Ma questo NON E’ PER NIENTE VERO e ciò emerge in tutta evidenza dalla semplice lettura della risoluzione del C.S.M. testé citata, nella quale viene chiesto al Ministro non un chiarimento ma una RIFORMA e la riforma normativa viene chiesta spiegando molto chiaramente che senza di essa ciò che il C.S.M. ha fatto e i consiglieri del Movimento vorrebbero continuare a fare è vietato dalla legge.

E’ scritto, fra l’altro, nella risoluzione del C.S.M.: «Di qui l’urgenza di segnalare al Ministro della giustizia, per le sue valutazioni (anche nell’ambito delle proposte di modifica dell’Ordinamento giudiziario in corso di definizione) l’opportunità di reintrodurre strumenti attivabili d’ufficio idonei ad attribuire al Consiglio, in sede di amministrazione della giurisdizione, un potere di intervento su situazioni oggettivamente pregiudizievoli della «fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa» (secondo l’espressione della Corte costituzionale nella sentenza n. 100 del 1981) più incisivo e di maggiore portata di quello configurato dall’attuale art. 2 legge guarentigie. Tale esigenza, da cui non si può prescindere per assicurare all’organo di governo autonomo adeguati meccanismi di intervento in contesti di rilevante compromissione dei valori connessi alla funzione giudiziaria, può, evidentemente, essere concretizzata secondo una pluralità di modelli».

E qui è il succo di tutta la storia e il cuore nevralgico della partita che si è giocata dal C.S.M.!

Il legislatore ha deciso che deve essere stabilito per legge cosa i magistrati possono fare e cosa no.

E’ conseguenza logicamente inevitabile che quello che la legge non prevede come disciplinarmente censurabile è DEL TUTTO LEGITTIMO.

E dunque il magistrato non può subirne conseguenze negative che intacchino la sua prerogativa di inamovibilità prevista dall’art. 107 della Costituzione.

Io magistrato, quindi, ho una legge che mi dice cosa posso fare e cosa no.

Rispetto quella legge e sto tranquillo.

Il C.S.M. pretende, invece, di potermi ancora trasferire adducendo come motivo condotte da me mantenute che non violano le norme disciplinari, ma, secondo l’insindacabile giudizio del C.S.M., che, infatti, neppure lo motiva, farebbero venire meno la mia indipendenza e la mia imparzialità.

Questa pretesa incostituzionale (dal combinato disposto degli artt. 107 della Costituzione e 2 della legge sulle guarentigie) del C.S.M. va contrastata per due ottime ragioni.

La prima relativa al fatto che è bene che i poteri del C.S.M. restino chiari e definiti in maniera sicura.

Se, infatti, un domani la composizione del C.S.M. venisse cambiata e in esso aumentati i membri di nomina politica – come chiesto da tanti al potere, di destra e di sinistra – sarà importante che il C.S.M., da chiunque composto, debba agire nel rispetto della legge e della Costituzione e non si arroghi poteri che non ha.

La seconda relativa al fatto che anche oggi, nella composizione attuale, non è bello per nulla e, per usare la stessa espressione contenuta nel comunicato del Movimento per la Giustizia, “sconcerta” moltissimi, che il C.S.M., facendo dell’art. 2 l’abuso denunciato dal T.A.R., si attribuisca nella sostanza il potere – che, né la legge né la Costituzione gli attribuiscono – di “cacciare” i magistrati che non gli piacciono o che fanno cose che non gli piacciono (benché disciplinarmente ineccepibili) o che non piacciono alla cons. Vacca o a chissà chi.

La partita è quindi quella per un C.S.M. che esercita un potere definito dalla legge e nel rispetto della Costituzione e non un potere assoluto e padronale, come lo vogliono coloro che hanno oggi importanti responsabilità nel potere interno alla magistratura.

Quello che, purtroppo, è accaduto nel “potere interno” della magistratura è una cosa speculare a quanto accaduto nel “potere esterno”: la pretesa di chi lo detiene di esercitarlo come assoluto e non soggetto a regole precise, ma solo a generiche e imprecisate dichiarazioni di intenti, da adattare alle esigenze politiche contingenti del momento.

Il comunicato dei consiglieri del Movimento per la Giustizia, come la loro condotta nella procedura a carico di Clementina Forleo, ne sono l’ulteriore riprova.

E d’altra parte appare evidente come sia illogico e paradossale quello che pretendono i consiglieri del Movimento per la Giustizia.

Il paradosso sta nella situazione a cui darebbe luogo un sistema come quello da loro propugnato.

La legge consente il trasferimento dei magistrati come pena disciplinare accessoria solo in presenza di certi presupposti.

Dunque, perché il C.S.M. possa trasferire un magistrato che ha commesso fatti disciplinarmente censurabili, è necessario:

a) che il Procuratore Generale promuova l’azione disciplinare (che il C.S.M. non può promuovere da sé);

b) che si celebri un processo disciplinare con le garanzie difensive proprie dello stesso;

c) che ricorrano i presupposti previsti dalla legge perché il trasferimento sia consentito.

Se quello che sostengono il Movimento per la Giustizia e i suoi consiglieri avesse una qualche fondamento, il C.S.M. potrebbe, invece, trasferire un magistrato che non ha commesso nulla di disciplinarmente censurabile:

a) di propria iniziativa;

b) senza le garanzie di un processo disciplinare;

c) per condotte che sono disciplinarmente incensurabili;

d) al di fuori di qualunque altro presupposto che non sia che al C.S.M. sembra che quella condotta che il legislatore ritiene non censurabile fa venir meno l’indipendenza e imparzialità del magistrato.

In sostanza, fra un magistrato che ha messo in atto condotte disciplinarmente censurabili e un altro che ha messo in atto condotte disciplinarmente NON censurabili, ma che non piacciono alla prof. Vacca o che “sconcertano” non si sa bene chi, si troverebbe MEGLIO e con più garanzie e avrebbe meno probabilità di essere trasferito quello che ha commesso i fatti disciplinarmente censurabili.

Un assurdo assoluto!

E bisogna chiedersi, d’altra parte: quando a qualcuno del C.S.M. non piacesse questo o quel magistrato, il C.S.M. che linea di condotta sceglierebbe fra attendere che il Procuratore Generale promuova l’azione disciplinare, celebrare il relativo processo, rispettare le dovute garanzie difensive, ecc., e trasferire, invece, in quattro e quattr’otto il magistrato senza tutte queste formalità, dicendo solo che si è creata una situazione che “sconcerta”?

E per avere un’idea di quanto il C.S.M. sia incline alla seconda opzione, basti pensare che pratiche ex art. 2 sono state immediatamente aperte a carico di Clementina Forleo, Luigi De Magistris, Gabriella Nuzzi, Dionigio Verasani e Luigi Apicella, nonostante fossero già pendenti nei loro confronti i processi disciplinari e, dunque, in violazione ancora più clamorosa dell’art. 2.

Un sistema come quello appena delineato sarebbe veramente del tutto illogico e non si comprende come si possa avere la pretesa di invocarlo da parte del Movimento per la Giustizia.

Messo in chiaro questo, sorprende che i consiglieri del Movimento, non avendo evidentemente proprio nient’altro altro a cui appigliarsi, finiscano con l’invocare, a sostegno delle loro tesi, l’art. 97 della Costituzione.

I “non addetti ai lavori” sappiano, infatti, che l’art. 97 della Costituzione dispone che «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge».

Giudichino i non addetti ai lavori (che gli addetti già lo sanno benissimo) se questa norma dia più fondamento alle tesi che ho esposto qui io, che ha affermato il T.A.R. con la sua sentenza e che ha confessato lo stesso C.S.M. con la risoluzione del 24 gennaio 2007 richiamata sopra, oppure alle tesi dei consiglieri del Movimento per la Giustizia.

Giudichino se l’organizzazione «secondo disposizioni di legge», «il buon andamento e l’imparzialità» della giustizia, di cui all’art. 97, siano assicurati meglio da un sistema nel quale le ragioni per le quali si può cacciare un magistrato siano previste in maniera specifica dalla legge o quello voluto dal Movimento per la Giustizia, nel quale se Massimo D’Alema si secca perché le sue telefonate imbarazzanti finiscono in un processo, è sufficiente che la prof. Vacca convochi i giornalisti e dica loro che sei “cattivo” e che l’apposita commissione del C.S.M. ha già deciso che sarai “colpito” (parole testuali quelle fra virgolette!) e, senza troppe formalità, senza neppure le garanzie di un processo disciplinare, con quello che i cons. Riviezzo, Fresa e Petralia reputano (bontà loro) solo un piccolo «problema procedurale» (sic!) e senza una motivazione che non sia il ricorso a una formuletta di stile (il T.A.R. ha parlato di assenza nel provvedimento annullato di una qualche «plausibile ragione») il C.S.M. ti sbatte da un’altra parte (francamente viene quasi da dubitare dell’autenticità del comunicato pubblicato dai consiglieri del Movimento, tanto è paradossale).

Giudichino, insomma, i non addetti ai lavori se l’art. 97 della Costituzione non sia vulnerato di più proprio dalla delibera illegittima del C.S.M. che dalla sentenza del T.A.R..

E giudichino, infine, i non addetti ai lavori a quale delle due tesi in contrapposizione dia conforto l’art. 107 della Costituzione, che dispone che «I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso».

I consiglieri del Movimento per la Giustizia ricorrano pure al Consiglio di Stato, ma si rassegnino al fatto che il diritto e la Costituzione non gli riconoscono – per fortuna – il potere che pretendono e che purtroppo si sono illegittimamente arrogati in danno di Clementina Forleo, concorrendo ad adottare la delibera annullata dal T.A.R..

Sarebbe bello, comunque, se, nell’attesa delle modifiche legislative che hanno chiesto al Ministro, rispettassero la legge vigente.

E’ vero che è cosa non frequente in questo Paese, ma dal C.S.M. lo si dovrebbe potere ragionevolmente pretendere. Tanto più da un C.S.M. che trasferisce i magistrati scomodi dicendo che lo fa per dare lezioni di rispetto della legge e di professionalità.


QUARTO.

Tutto ciò detto sulle questioni tecniche, c’è, nel comunicato dei consiglieri del Movimento per la Giustizia, un passaggio “politico” davvero sorprendente nella sua gravità.

Scrivono, infatti, i cons. Riviezzo, Fresa e Petralia:
«Se sarà confermata la tesi del TAR, i dirigenti, seppure palesemente incapaci, dovranno restare al loro posto fino alla scadenza del quadriennio. Non ci sono altri strumenti legislativi per intervenire. Ma, ancor più, viene a cessare a monte la competenza del Consiglio a interessarsi delle vicende problematiche degli uffici in sofferenza (si pensi ai recenti casi Reggio Calabria, Potenza, per citare solo i più noti), che hanno come presupposto, al di là degli esiti, proprio la competenza ex art. 2 l.g.. E’ un vulnus alle competenze consiliari di enorme rilevanza, e, oggettivamente ed al là delle intenzioni, si inscrive in quel processo di marginalizzazione della posizione istituzionale del CSM, al quale, per la verità, anche alcuni colleghi stanno fornendo corposi contributi. Senza comprendere che al di là del Consiglio, democraticamente eletto, c’è solo la dipendenza dei magistrati dal potere politico. Quindi, chi oggi plaude alla decisione del TAR si assume la responsabilità politica delle conseguenze, dirette e soprattutto indirette, che derivano da questa interpretazione».

Quanto alla prima parte di questo brano, laddove si dice che «Se sarà confermata la tesi del TAR, i dirigenti, seppure palesemente incapaci, dovranno restare al loro posto fino alla scadenza del quadriennio», va osservato che, dunque, i consiglieri del Movimento “confessano” di utilizzare l’art. 2 della legge sulle guarentigie come strumento per rimuovere i “dirigenti palesemente incapaci”; mentre è indiscutibile che nessun riferimento alla “incapacità” c’è nell’art. 2 e, dunque, un’applicazione della norma come quella prospettata da loro e puramente e semplicemente illegittima (espressione che dovrebbe avere anche per il C.S.M. un significato univoco). E ciò senza dire che ciò di cui si sta parlando qui non è affatto la rimozione di “dirigenti palesemente incapaci”, ma quella di una collega – Clementina Forleo – non dirigente e palesemente capace.

Per di più, se il C.S.M. si impegnasse a scegliere più spesso i capi degli uffici giudiziari secondo criteri conformi all’art. 97 della Costituzione invece che secondo quello dell’appartenenza correntizia non avremmo, come dicono i consiglieri Riviezzo, Fresa e Petralia, «dirigenti palesemente [!!??] incapaci». Dunque, si deve auspicare che i consiglieri del C.S.M., invece di pretendere poteri che non hanno, esercitino bene quelli che hanno, nominando capi degli uffici capaci o almeno non «palesemente incapaci» (come vengono qualificati non da me ma nel comunicato del Movimento).

Quanto alla parte in cui si dice che «Ma, ancor più, viene a cessare a monte la competenza del Consiglio a interessarsi delle vicende problematiche degli uffici in sofferenza (si pensi ai recenti casi Reggio Calabria, Potenza, per citare solo i più noti), che hanno come presupposto, al di là degli esiti, proprio la competenza ex art. 2 l.g..», tante cose andrebbero dette, ma vale la pena di limitarsi a richiamare l’attenzione su ciò che i consiglieri del Movimento vorrebbero fosse tralasciato: proprio gli “esiti” dell’attività che rimpiangono, citando, peraltro, paradossalmente, proprio la situazione di Potenza. Se gli esiti sono quelli sotto gli occhi di tutti, non c’è da dispiacersi proprio di nulla, essendo al momento il bilancio se non totalmente almeno fortemente negativo.

L’ultima parte del brano appena citato, quella nella quale si sostiene che l’affermazione di diritto fatta dal T.A.R. sarebbe «un vulnus alle competenze consiliari di enorme rilevanza, e, oggettivamente ed al là delle intenzioni, si inscrive in quel processo di marginalizzazione della posizione istituzionale del CSM, al quale, per la verità, anche alcuni colleghi stanno fornendo corposi contributi. Senza comprendere che al di là del Consiglio, democraticamente eletto, c’è solo la dipendenza dei magistrati dal potere politico. Quindi, chi oggi plaude alla decisione del TAR si assume la responsabilità politica delle conseguenze, dirette e soprattutto indirette, che derivano da questa interpretazione», appare francamente illogica.

Infatti:

1. Non si tratta di alcuna «marginalizzazione della posizione istituzionale del C.S.M.», ma solo dell’affermazione che anche il C.S.M. dovrebbe rispettare la legge.

2. Il riferimento al C.S.M. «democraticamente eletto» è, sul punto, fuorviante. Perché, per un verso, anche il potere politico è «democraticamente eletto» e, per altro verso, come sempre i magistrati ricordano ai politici, il problema non è farsi eleggere, ma esercitare il potere ottenuto con l’elezione in maniera conforme alla legge. In sostanza è del tutto irrilevante che il C.S.M. sia «democraticamente eletto» se gli eletti non rispettano le leggi ed esercitano il loro potere al di fuori di esse.

3. Non si riesce a comprendere perché ciò dovrebbe farci andare «al di là del Consiglio», verso «la dipendenza dei magistrati dal potere politico», posto che ciò che appare è, invece, che al di là della dipendenza da un C.S.M. legibus soluto c’è puramente e semplicemente l’indipendenza dei magistrati voluta dalla Costituzione.

4. Ammesso che avesse un senso ciò che scrivono i consiglieri iscritti al Movimento per la Giustizia e che si prospetti all’orizzonte una dipendenza dal potere politico non già perchè questa è da anni la irriducibile volontà del potere politico ma per colpa di chi non accetta di farsi cacciare in silenzio, non si comprende perché dovrebbe essere considerata alternativa valida lo sfuggire a quella dipendenza accettando in cambio una identica dipendenza dal C.S.M., posto che la Costituzione non ha istituito il C.S.M. come padrone dei magistrati, ma come custode della loro indipendenza. Sicché delle due l’una: o il C.S.M. vuole ed è in grado di garantire l’indipendenza dei magistrati e allora ha un senso la sua esistenza o, invece, non vuole o non sa farlo e allora la sua esistenza è perfettamente inutile. Un C.S.M. che, per non farlo fare ai politici, caccia lui i magistrati sgraditi ai politici non serve a nulla se non a far gestire potere ai suoi consiglieri.

5. In ogni caso, come ho già detto sopra, se il C.S.M. verrà riformato e in esso avrà più potere la politica, è assolutamente indispensabile che il suo potere sia chiaramente definito dalla legge.

6. Ai consiglieri Riviezzo, Fresa a Petralia che dicono che chi difende l’affermazione di legalità contenuta nella sentenza del T.A.R. «assume la responsabilità politica delle conseguenze, dirette e soprattutto indirette» faccio notare rispettosamente che, in questo momento, se c’è qualcuno che dovrebbe assumersi le proprie responsabilità è puramente e semplicemente chi si è prestato a delegittimare il C.S.M., facendogli adottare provvedimenti illegittimi che ne hanno danneggiato l’immagine di organo tutore della legalità e che hanno gravemente vulnerato, invece di difenderla, l’indipendenza dei magistrati, facendo oggettivamente – non sta a me dire se in buona o cattiva fede – gli interessi di chi voleva fermate delle inchieste e nei fatti ha visto soddisfatti i suoi desideri.




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sabato 9 maggio 2009

Il caso Forleo, ovvero l’assordante silenzio dell’A.N.M..



Riportiamo un comunicato emesso da Magistratura Indipendente, una delle correnti dell’A.N.M., sul “caso Forleo”.



Il caso Forleo, ovvero l’assordante silenzio della G.E.C..


Il T.A.R. Lazio ha annullato il trasferimento d’ufficio del GIP Forleo, deliberato dal C.S.M. lo scorso luglio a maggioranza “bulgara” con il solo voto contrario dei tre Consiglieri di Magistratura Indipendente e l’astensione del Procuratore Generale.

La vicenda riveste grandissima importanza su un piano generale.

Era la prima – e sinora unica – applicazione da parte dell’attuale C.S.M. dell’art. 2 L.G. dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario.

Era il primo – e sinora unico – trasferimento d’ufficio conseguente a dichiarazioni di un magistrato rilasciate a organi di stampa e televisione.

Era il primo – e sinora unico – caso di trasferimento d’ufficio scaturito da una pratica aperta dal C.S.M. a tutela di quello stesso magistrato poi rimosso dal suo ufficio.

Il T.A.R. Lazio ha scritto testualmente che il provvedimento del C.S.M. “si pone al di fuori del parametro normativo e risulta quindi adottato in violazione del principio di legalità e tipicità degli atti amministrativi”.

Ha poi censurato l’assenza di una motivazione adeguata circa la dichiarata incapacità sopravvenuta del GIP Forleo di continuare a svolgere le sue funzionai a Milano in piena autonomia e indipendenza.

Infine, il T.A.R. Lazio ha definito “illegittima l’azione amministrativa” del C.S.M. anche per essersi esso sottratto al dovere di rispondere nel merito ad una richiesta di ricusazione nei confronti del vice presidente della prima commissione che aveva – prima ancora della formale apertura della procedura ex art. 2 – pubblicamente anticipato gli orientamenti della commissione, nonché il suo personale giudizio fortemente contrario sul magistrato.

Non servono altre parole per dimostrare che la G.E.C. [Giunta Esecutiva Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati] aveva il dovere di esprimere sulla vicenda la posizione della maggioranza al Governo dell’A.N.M., ovviamente sui profili di carattere generale messi in luce da questo caso.

Quando sono sul tappeto questioni essenziali come il rispetto dovuto anche dal C.S.M. a regole fissate dalla legge, oppure la tutela per ogni magistrato della garanzia di autonomia e indipendenza anche nei confronti del C.S.M. e non solo di soggetti istituzionali esterni, una giunta non può scegliere il silenzio.

A maggior ragione, una giunta come l’attuale che, diligentemente supportata dal novello Ufficio Stampa creato al suo esclusivo servizio, esterna con molta frequenza.

Le notizie ed i commenti sull’annullamento da parte del T.A.R. Lazio hanno avuto ampia eco su giornali e televisioni sin dal 30 aprile u.s..

Ci aspettavamo che la G.E.C. intervenisse in qualche modo nel dibattito ma evidentemente essa ha scelto il silenzio: scelta politicamente grave.

Scelta che induce, per trovarne possibili motivazioni, a domande certo maliziose ma legittime.

Ha influito sul silenzio della G.E.C. la notoria non appartenenza del GIP Forleo a nessun gruppo associativo, anzi una reiterata manifestazione di sfiducia del magistrato sull’attività della nostra associazione nazionale?

Ha influito un imbarazzo per la G.E.C. derivante da una votazione al C.S.M. che aveva visto i soli componenti di Magistratura Indipendente segnalare quell’illegittimità dell’azione amministrativa ora proclamata con parole perentorie da un Tribunale dello Stato?

Attendiamo sul punto delle risposte, non per intenti di polemica, ma per il desiderio di comprendere come sia possibile che il Governo dell’Associazione non sia intervenuto su questioni così rilevanti, che attengono alla garanzia dell’inamovibilità dei magistrati.

E’ difficile francamente pensare a questioni più importanti di questa.

Dobbiamo al tempo stesso però ammettere, per amor di verità, che il silenzio nella circostanza della G.E.C. non sorprende completamente chi, come noi di Magistratura Indipendente, da tempo denunciamo una non condivisibile timidezza di questa maggioranza della A.N.M. rispetto a molte delibere consiliari, ed anzi un incondizionato elogio su pretese nuove prassi virtuose dell’attuale CSM – ad esempio per la nomina dei capi degli uffici – che ci pare francamente esagerato alla luce dei numerosi e talora clamorosi annullamenti da parte del giudice amministrativo.

Anche per M.I. la difesa delle prerogative costituzionali del C.S.M. rappresenta un impegno fondamentale, pienamente condiviso con gli altri gruppi.

Ma questa difesa è tanto più forte quanto più è vivificata anche da critiche argomentate.

Altrimenti diventa una forma di ossequio ad un totem potente ed intangibile: e l’ossequio non fa parte del patrimonio di Magistratura Indipendente.


La Segreteria Nazionale di Magistratura Indipendente




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martedì 5 maggio 2009

Il C.S.M. e Clementina Forleo: ovvero dei pessimi rapporti fra il potere e la legge.


Versione stampabile



di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)






Con sentenza n. 4454/09 dell’8/29.4.2009, il T.A.R. del Lazio ha annullato il provvedimento con il quale il C.S.M. ha trasferito Clementina Forleo dal suo ufficio di G.I.P. del Tribunale di Milano.

La sentenza può essere scaricata e letta per intero a questo link del blog di Marco Travaglio (a proposito: cosa sarebbe l’informazione in questo Paese senza Marco Travaglio?).

E’ molto difficile commentarla perché è come un epitaffio o meglio, più banalmente, un necrologio della legalità.

Spesso, ma negli ultimi anni in maniera particolarmente clamorosa, il C.S.M. ha interferito con indagini e procedimenti in corso, condizionandone gli esiti – nel senso di fermarli – con provvedimenti a carico dei magistrati che se ne stavano occupando.

La motivazione ufficiale è stata sempre quella di punire asserite colpe dei magistrati in questione.

Molte volte il lavoro di quei magistrati è stato impedito trasferendoli.

Ormai è uno stereotipo: appena un’indagine “disturba” qualche potente, leggiamo sui giornali che “arrivano gli ispettori”. In queste settimane sono stati a Bari, perché al ministro Fitto non piace essere trattato come gli altri cittadini.

Con questo sistema, indagare sui potenti è, per i magistrati onesti, puro autolesionismo.

L’art. 107 della Costituzione dispone che «i magistrati sono inamovibili» e assoggetta a limitazioni precise il loro trasferimento da parte del C.S.M..

L’importanza di questa norma è di tutta evidenza e lo è massimamente di questi tempi, nei quali è sotto gli occhi di tutti come il trasferimento dei magistrati sia utile a fermare l’opera di quelli sgraditi al potere.

Ovviamente, le attività di “punizione” e “trasferimento” sono precedute e accompagnate da campagne di stampa con le quali si esprime indignazione per i “clamorosi abusi” che questo e quel politicante inquisito o sodale di inquisiti indicano come evidenti nell’opera dell’inquirente di turno.

A seguire, capita che alcuni consiglieri – politici e magistrati – del C.S.M. intervengano prima a mezzo stampa e poi con provvedimenti di rapida e dura repressione.

A fronte di tanto strepito e di tanto straparlare, ci si aspetta che i provvedimenti del C.S.M. siano di solare evidenza e di sicura legittimità.

Si pensa, in sostanza: “Capperi, se questo magistrato si è reso colpevole di tante nefandezze come dicono sui giornali, allora adesso arriverà una sentenza che indicherà chiaramente quali siano queste nefandezze. Se l’onorevole Tizio, il ministro Caio, il consigliere del C.S.M. Filano, il Presidente dell’A.N.M. Sempronio stigmatizzano, le colpe di questo magistrato saranno certe ed evidenti”.

Se qualcuno all’interno della magistratura si permette di avanzare dubbi su questo modo di procedere della Procura Generale e del C.S.M., pronti intervengono i capicorrente e i loro emissari a raccomandare, con tono sussiegoso, che “bisogna attendere l’esito della procedura prima di parlare”. Un po’ come se a un avvocato che facesse notare che il suo cliente è detenuto da due mesi per un fatto che non è previsto dalla legge come reato si rispondesse: “Avvocato, attenda l’esito del procedimento!”

Poi, passato un po’ di tempo, arrivano provvedimenti del C.S.M. che si avventurano in sofismi giuridici e bizantine ricostruzioni. Nei quali non c’è traccia alcuna delle “nefandezze” ipotizzate sui giornali, ma solo di “azzeccagarbuglismi” mai sentiti prima e dal fondamento giuridico che potremmo eufemisticamente definire molto incerto.

E a volte, come nel caso di quello annullato dal T.A.R. nei giorni scorsi, arrivano addirittura provvedimenti palesemente e clamorosamente illegittimi.

Il caso di Clementina Forleo è emblematico sotto tanti punti di vista.

Clementina si è permessa di dispiacere Massimo D’Alema e i suoi amici.

Violante è subito insorto, esprimendo giudizi pesanti su di lei.

E poi Bertinotti (che allora era Presidente della Camera) e Cirino Pomicino (?!) e financo Casson.

Carlo Vulpio fa una ricostruzione dei retroscena di questo coro di indignati in un articolo che è a questo link (1).

La Procura Generale della Cassazione le ha subito avviato un procedimento disciplinare, sostenendo che l’ordinanza che non era piaciuta a D’Alema e i suoi era “abnorme”.

Ma il C.S.M. è stato costretto ad assolverla da questo addebito, perché palesemente infondato.

A questo link si può leggere la relativa notizia di stampa.

Nel frattempo Luigi De Magistris veniva assolto dagli addebiti relativi alla partecipazione alla trasmissione televisiva Annozero, dato che, se avesse punito Luigi per quella trasmissione, il C.S.M. si sarebbe trovato in qualche imbarazzo con riferimento ad altre decine di esternazioni televisive dei più vari magistrati sui più vari fatti. “Porta a Porta” ha addirittura un magistrato che, vista la costanza delle sue partecipazioni, potremmo definire “d’ufficio”. Così, per le stesse ragioni, neppure Clementina poteva essere punita per le cose dette in quella trasmissione.

Il C.S.M., allora, ha avviato “contro” Clementina un procedimento ex art. 2 della legge sulle guarentigie (R.D.L.vo 31 maggio 1946, n. 511).

Uso significativamente l’espressione “contro”, perché la legge prevede la possibilità di ricorrere a quella procedura solo nei casi in cui nessuna “colpa” si possa ipotizzare a carico del magistrato. Sicché la procedura ex art. 2 non dovrebbe mai essere “contro”. E infatti è priva delle garanzie proprie del procedimento disciplinare.

Che in questo caso, invece, la procedura fosse “contro” era talmente evidente e clamoroso che la consigliera Letizia Vacca (si noti: addirittura Vicepresidente della Commissione del C.S.M. incaricata della pratica), se ne va davanti a un bel po’ di giornalisti e (stando a quanto riportato sui giornali e mai smentito) si abbandona a esternazioni fra le quali: «Questi giudici che in tv si presentano come eroi, sono dei cattivi giudici che fanno soltanto male alla magistratura»; «Dobbiamo solo precisare i capi di contestazione [si badi: “i capi di contestazione” ??!!] e votare», «è necessario che emerga che Forleo e De magistris sono cattivi magistrati, e non perché fanno i nomi dei politici»; «Questa non è una magistratura seria e questi comportamenti sono devastanti. I magistrati devono fare le inchieste e non gli eroi».

Ho approfondito questo aspetto della vicenda in un articolo dal titolo “Clementina Forleo e tutti noi avremmo diritto a un ‘giudice’ imparziale”, al quale mi permetto, per brevità, di rinviare.

Dopo di che, anche con il voto di questo imparziale Vicepresidente, Clementina è stata cacciata da Milano.

Oggi la sentenza del T.A.R. spiega ai profani le semplici ragioni per le quali quel provvedimento è illegittimo.

Dico “spiega ai profani”, perché gli addetti ai lavori lo sapevano benissimo da subito.

La sentenza del T.A.R. è breve e chiara e il mio consiglio a tutti e di leggerla.

I motivi su cui si fonda sono sostanzialmente due (ve ne è un terzo che spiega perché il provvedimento del C.S.M. sia anche affetto dal vizio di mancanza di motivazione, ma, per brevità, non approfondirò questa parte della sentenza, pur molto rilevante).

Il primo dei due motivi che esaminerò riguarda il fatto, cui ho già accennato, che la riforma dell’ordinamento giudiziario puramente e semplicemente vieta al C.S.M. di fare quello che ha fatto.

La riforma in questione ha infatti tipizzato gli illeciti disciplinari.

Adesso è illecito disciplinare solo quello che la legge indica come tale.

Dunque, le condotte volontarie dei magistrati possono solo rientrare o no nel novero dei fatti disciplinarmente censurabili.

Se ci rientrano, il magistrato sarà punito e, se del caso, trasferito.

Se non ci rientrano, non gli si potrà fare nulla e lo si dovrà lasciare in pace.

L’art. 2 della legge sulle guarentigie resta applicabile solo nel caso di situazioni di incompatibilità che non dipendano da condotte volontarie del magistrato: si tratta di casi come la presenza nella stessa città di un parente che, per esempio, fa l’avvocato, o di un figlio magari arrestato per qualche grave reato.

Quella procedura, invece, non può più assolutamente essere utilizzata (come purtroppo si è fatto altre volte) per cacciare un magistrato che “non piace” – al C.S.M. o a D’Alema o a Berlusconi o al cugino del nipote di un assessore o alla professoressa Vacca – ma che non si è riusciti a punire per mancanza dei presupposti.

Tutto qui.

Il C.S.M. ha utilizzato una procedura che non poteva utilizzare.

Il suo provvedimento è illegittimo, perché adottato in palese violazione della legge.

La condotta di chi lo ha votato è stata illegittima.

Conseguentemente, dal punto di vista logico, ci sono due sole alternative: o i consiglieri del C.S.M. che hanno votato il provvedimento lo hanno fatto con clamorosa ignoranza della legge, o lo hanno fatto in malafede.

Certo è che, se un provvedimento così lo avessero adottato Clementina Forleo o Luigi De Magistris o Gabriella Nuzzi, sarebbero già senza stipendio. Mentre al C.S.M. tutto procede come sempre.

Sulla gravità di una eventuale malafede dei Consiglieri non c’è bisogno di spendere parole.

Ma anche l’ignoranza della legge non è cosa da poco, se si considera che essa caratterizzerebbe membri di un consesso come il C.S.M., composto in maggioranza da magistrati e deputato a supervedere all’amministrazione della giustizia.

Purtroppo, però, in questo caso l’ignoranza va esclusa, come si dice nel nostro ambiente per tabulas.

E’ accaduto, infatti, che il C.S.M. il 24 gennaio 2007 ha adottato una delibera che si può leggere per intero a questo link, con la quale dà espressamente atto di quanto fin qui detto e chiede al Ministro della Giustizia di adoperarsi per far cambiare la legge.

E’ scritto fra l’altro testualmente in quella delibera che “L’area di operatività del trasferimento di ufficio in via amministrativa è stata in tal modo ampiamente ridotta e ricorre ora – come chiarito dal Consiglio con la risoluzione 6 dicembre 2006 – esclusivamente quando la situazione presa in esame: «a1) non risulti sussumibile in alcuna delle fattispecie disciplinari delineate dal decreto legislativo n. 109/2006 ovvero a2) non risulti riconducibile a comportamenti del magistrato»”.

Dunque, quello che il T.A.R. ha scritto la settimana scorsa nella sua sentenza al C.S.M. lo sapevano benissimo, almeno dal 6 dicembre 2006, data di una risoluzione (citata come si è visto nella delibera del 24 gennaio 2007), che si può leggere per intero a quest’altro link.

E non solo lo sapevano benissimo, ma ne avevano compreso tanto bene le conseguenze da scrivere che «l’esperienza del primo periodo di applicazione della nuova normativa ha dimostrato che tale ridimensionamento dei poteri di ufficio del Consiglio priva, di fatto, l’autogoverno di strumenti incisivi di intervento proprio nelle situazioni più delicate e nelle “zone grigie” (caratterizzate dalla compresenza di comportamenti di diversa rilevanza), il cui permanere mina (o rischia di minare) la credibilità della giurisdizione, e che a tale carenza non pongono sufficiente rimedio le nuove disposizioni relative alle misure cautelari adottabili in sede di procedimento disciplinare, sia per la diversità dei relativi presupposti che per la più ristretta area di applicazione di queste ultime» e da chiedere accoratamente al Ministro di fare cambiare la legge.

Dunque, ci si deve chiedere: perché questi consiglieri del C.S.M. hanno fatto ciò che sapevano così bene di non potere fare?

Le risposte sono molte e nessuna è bella.

Resta da dire sul punto che, diversamente da quanto sostenuto dal C.S.M. nei due provvedimenti da ultimo citati e dallo stesso T.A.R. nella sua sentenza, quella che ho fin qui esposto non è affatto una “lacuna” del sistema, ma una precisa e del tutto condivisibile scelta tecnica.

Il legislatore, in sostanza, come ho già detto, ha stabilito che le condotte dei magistrati o sono disciplinarmente censurabili o sono legittime. Punto e basta.

Non è più previsto che qualcuno possa cacciare un magistrato solo perché gli sembra “cattivo” (espressione testuale tratta dalle dichiarazioni della prof.ssa Vacca).

Ed è di tutta evidenza quanto questa norma sia preziosa di questi tempi. O meglio, quanto sarebbe preziosa se i componenti del C.S.M. avessero la grazia di rispettarla dopo che, come dimostrano le loro delibere appena citate, ne hanno pienamente compreso il significato.

Ma purtroppo bisogna prendere atto che lo stesso C.S.M. che (ogni tanto e con molta mitezza) “insorge” contro il Berlusconi di turno quanto attenta alla indipendenza dei magistrati, ritiene che l’attentato a quella stessa indipendenza possa essere posto in atto se lo decide lui (il C.S.M.). I consiglieri del C.S.M., in sostanza, pensano che essere custodi dell’indipendenza dei magistrati significhi esserene “padroni”, così da poterne disporre a piacimento.

Il secondo profilo di illegittimità denunciato dal T.A.R. è il rigetto della ricusazione della cons. Vacca.

E’ accaduto che, ovviamente, il difensore di Clementina Forleo ha chiesto al C.S.M. di non fare partecipare alla procedura la cons. Vacca che ci aveva tenuto così tanto a esternare a giornali unificati la sua ostilità al magistrato del cui trasferimento si doveva occupare.

Il C.S.M. ha dichiarato inammissibile l’istanza, sostenendo che la ricusazione è istituto che opera nei procedimenti giurisdizionali ma non anche in quelli amministrativi.

Il T.A.R. si fa carico di smentire il C.S.M., dandogli una breve ma efficace lezione di diritto (anche in questo caso, nella migliore ipotesi, ci sarebbe un serio problema di ignorantia legis proprio nel tempio della difesa della legge).

Ma sotto questo secondo profilo c’è una cosa che mi colpisce più della violazione di legge.

Mi chiedo, infatti: ma, anche a volere ammettere per ipotesi che la cons. Vacca non potesse essere ricusata per qualche sofisticata ragione di diritto, è davvero mai possibile che nessuno al C.S.M. abbia ritenuto DOVEROSO imporre alla professoressa di farsi sostituire nella trattazione della pratica in questione?

Come giudicherebbe il C.S.M. il Vicepresidente, per esempio, di una commissione sanitaria che deve decidere se un tale abbia diritto o no alla pensione di invalidità che, prima di riunirsi con la commissione, convochi i giornalisti e spieghi loro perché reputa l’invalido un impostore e come adesso provvederà a “fargliela vedere” con gli altri della commissione?

Ed è mai possibile che un organo che, come il C.S.M., si erge in continuazione a giudice dei buoni costumi, della deontologia, della moralità costituzionale e chi più ne ha più ne metta, abbia l’arroganza di fare decidere il trasferimento di Clementina Forleo a una persona che ha fatto e detto le cose che, sul punto, ha fatto e detto la cons. Vacca (detto – si badi bene – prima di essere chiamata a decidere della sorte di Clementina)?

Sembra impossibile e paradossale.

Eppure è accaduto, costringendo così il TA.R. a spiegare al C.S.M.: «In particolare, l’imparzialità dell’organo deliberante è garantita dall’applicazione dei criteri desumibili dall’art. 49 T.U. n. 311957 e, prima ancora, dall’art. 51 c.p.c., i quali impongono l’astensione al componente dell’organo collegiale che versi in situazione di inimicizia personale nei confronti del destinatario del provvedimento finale o abbia manifestato il suo parere sull’oggetto di questo al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni procedimentali (Cons. Stato, IV, 7 marzo 2005, n. 867). Ne consegue che l’istanza di astensione/ricusazione non poteva essere legittimamente dichiarata inammissibile, tanto più che gli apprezzamenti diffusi a mezzo stampa sul magistrato interessato nel corso del procedimento sono stati resi dal Vicepresidente della Prima Commissione, la Commissione che, in quanto competente sulle procedure di trasferimento ai sensi dell’art. 2 R.D.Lgs. 511/1946, ha formulato la proposta di trasferimento della dott.ssa Forleo, per cui appare arduo ipotizzare che l’inosservanza dell’eventuale obbligo di astensione da parte del componente del Consiglio non abbia potuto produrre un’alterazione del procedimento, traducendosi in un vizio di legittimità del provvedimento finale».

Questa l’analisi degli aspetti tecnici della questione.

Molto più complessa è l’analisi per così dire “politica”.

Va detto, intanto, che non è ancora finita, perché il C.S.M. fa un’altra cosa che lascia stupefatti: impugna per principio e “a prescindere” i provvedimenti del T.A.R. che gli danno torto.

Qualunque funzionario pubblico sa di avere l’obbligo di rispettare il 1° comma dell’art. 97 della Costituzione, per il quale devono essere assicurati il buon andamento e l’imparzialità della amministrazione.

Dunque, qualunque funzionario pubblico sa che, se la sentenza del T.A.R. appare corretta e il suo ufficio in torto, egli non deve impugnarla, ma eseguirla immediatamente.

Il C.S.M., invece, questo non lo sa.

E così in tantissime occasioni impugna comunque. Tanto che da un verbale del C.S.M. risulta che un consigliere ha dichiarato che questo costituirebbe una “prassi” intenzionale dell’organo di autogoverno che “difenderebbe” per principio (ma quale principio?!) i propri provvedimenti.

Gli esempi sono tantissimi e alcuni davvero clamorosi.

Fra i tanti, mi limito qui a citarne una paio emblematici: quello di questo Consiglio in carica, relativo alla nomina di un Presidente di Sezione della Corte di Appello di Genova, di cui si dà notizia a questo link e quello di alcuni anni fa nel quale il C.S.M. giunse addirittura a sostenere di non essere soggetto alla giurisdizione esecutiva del giudice amministrativo.

Quest’ultima vicenda può essere ricostruita leggendo la sentenza della Corte Costuzionale n. 419 dell’8 settembre 1995, che dichiarò inammissibile il conflitto di attribuzioni sollevato dal C.S.M. facendo fare a quest’ultimo una figura veramente orribile.

La nota pittoresca è che il C.S.M., per promuovere quell’inammissibile ricorso, non è stato assistito dall’Avvocatura dello Stato, che ha preferito difendere il T.A.R., ma da un avvocato del libero foro. In sostanza, pur di sostenere l’insostenibile, il C.S.M. ha assunto un avvocato libero professionista!

Ed è ovvio che non mi riferisco qui all’impugnazione delle sentenze adottate dal T.A.R. con motivazioni che fanno riferimento all’esercizio illegittimo di poteri discrezionali, con riferimento alle quali potrebbe essere meno facile, a volte, decidere dei torti e delle ragioni, ma a quelle nelle quali viene stigmatizzata puramente e semplicemente la violazione di legge, molto agevole da riconoscere da persone molto esperte di legge come i membri del C.S.M..

E non è finita per Clementina anche per un’altra ragione: tentata la via del primo processo disciplinare e fallita come si è detto, praticata quella illegittima del trasferimento ex art. 2 e fallita pure quella, chi vuole Clementina “punita” a tutti i costi non si arrenderà di certo.

Dunque, c’è da aspettarsi che sperimentino qualcos’altro: un parcheggio in divieto di sosta, qualche sentenza depositata in ritardo, … Qualcosa, insomma, che faccia accadere a lei quello che un ex alto magistrato ora passato ad altro importante incarico pronosticò per Luigi De Magistris: farle passare il resto della vita a difendersi. Così impara. Lei e tutti quelli come lei. A dare fastidio alle persone potenti, che hanno amici potenti.

Ma bisogna chiedersi anche: poiché è di tutta evidenza che violazioni di legge tanto gravi e reiterate da parte del C.S.M. e condotte complessive come quelle più volte stigmatizzate dai giudici amministrativi distruggono irrimediabilmente ogni possibile credibilità di quell’organo che dovrebbe assicurare un autogoverno indipendente della magistratura, cosa induce i suoi consiglieri a perseverare nelle loro condotte ad onta di sentenze del T.A.R. sempre più umilianti?

L’unica risposta logicamente possibile è che la credibilità del C.S.M. non è il valore principale e di riferimento dei suoi componenti.

Accade a loro qualcosa si simile a ciò che accade al potere politico.

Abbiamo assistito molte volte negli ultimi anni ad atti del potere politico palesemente viziati di illegittimità, posti in essere nella piena consapevolezza di ciò, in considerazione del fatto che per sancire quella illegittimità ci vuole un certo tempo e quando essa viene dichiarata il vantaggio politico che si aveva di mira è stato comunque conseguito.

Con riferimento a vicende come quella di Clementina Forleo ciò che appare è che i motivi per i quali si intende “colpire” il magistrato sgradito prevalgano su tutto e inducano a raggiungere comunque per intanto quel risultato, rinviando a tempi successivi la gestione delle conseguenze della sua illegittimità. Tanto più che accade sempre in questi casi che la notizia della dichiarata illegittimità venga data con molto minore zelo di quella della “cacciata”. E così, infatti, sta accadendo anche per la sentenza del T.A.R. che dà ragione a Clementina, sulla quale vige, nei circuiti di comunicazione interni alla magistratura associata, il più tenace e accanito silenzio.

Il valore assoluto è “colpire” il magistrato sgradito. La legalità o no della cosa e del modo con cui la si fa risulta meno rilevante se non del tutto irrilevante.

In questo – e purtroppo anche in altro – il C.S.M. è assolutamente simile a quel potere politico dal quale sostiene di essere diverso e dal quale per dettato costituzionale dovrebbe essere indipendente.

Il dramma di questo Paese, la crisi profonda della sua democrazia sta nel rapporto malato fra il potere e la legge.

Il potere distrae i cittadini, tenendoli impegnati in una inutile faida fra tifoserie sedicenti di destra e sedicenti di sinistra.

La magistratura associata distrae i cittadini, parlando loro di “politici cattivi” e “magistratura buona”.

Ma il cuore del problema non è nel colore politico di questo o di quello e neppure nell’appartenere questo o quello alla schiera dei politici (che non sono tutti “cattivi”) o dei magistrati (che non sono tutti “buoni”), ma nel rapporto di tutti – finti di destra e finti di sinistra, deputati in Parlamento o consiglieri del C.S.M. – con la legge.

Perché si possa parlare di democrazia, devono essere lo Stato e il potere al servizio della legge.

In Italia oggi il potere non si ritiene al servizio della legge, ma ritiene la legge al suo servizio.

E’ un ritorno a un’idea della legge prerivoluzionaria.

Non più la legge come valore da difendere, non più la legge come imperativo al quale anche il potere (C.S.M. compreso) è soggetto, come tutti i cittadini, ma la legge come strumento di potere e del potere, da usare e spesso anche abusare.

Che questo accada in una U.S.L. è grave. Che una amministrazione periferica sforni delibere illegittime dà la misura di quanto grave è la crisi del nostro Paese. Ma che questo avvenga al C.S.M. è davvero esiziale.

E riconoscerlo è insieme doveroso e indispensabile.

Alcuni miei colleghi deprecano che io esponga considerazioni critiche nei confronti del C.S.M. e sostengono che questo “farebbe il gioco” di chi vuole modificato l’assetto dell’autogoverno.

Ma io credo, invece, che sia assolutamente doveroso e indispensabile dire la verità sull’autogoverno della magistratura.

Perché:

1. ciò che serve alla magistratura e al Paese è un autogoverno conforme alla Costituzione e non un autogoverno che agisce illegalmente;

2. la difesa corporativa è un paravento che serve da alibi all’esercizio di un potere “interno” che non giova all’indipendenza dei giudici, ma vi attenta;

3. c’è una soglia di illegalità sopra la quale chi tace è solo complice e non c’è nessun opportunistico calcolo corporativo che possa rendere legittima ed eticamente accettabile quella complicità.

Io credo che sia doveroso dire la verità sul nostro autogoverno, perché credo che prima o poi in questo Paese si debba prendere atto che la frontiera della battaglia per la democrazia non è più (ove lo fosse mai stata) quella del colore politico di appartenenza né quella della difesa corporativa di questo o quello solo perché “è dei nostri” e si debba riconoscere che, perché qualcosa incominci a cambiare e ci possa essere anche solo una fioca speranza della democrazia che non abbiamo, non è importante che uno sia seduto in Parlamento o al C.S.M., che sia magistrato o falegname, che sia capogruppo di un partito o vicepresidente di una commissione del C.S.M. o capo di una corrente dell’A.N.M., ma che rispetti la legge e che renda conto se non lo fa.


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(1) La storia della riunione alla quale si fa riferimento nell’articolo di Carlo Vulpio è ricostruita testualmente come segue da Ferdinando Imposimato, nel corso di una deposizione riportata a pag. 302 del bellissimo e documentatissimo libro di Antonio Massari “Clementina Forleo un giudice contro”, Aliberti Editore 2008: «IMPOSIMATO: Ribadisco di aver parlato alla Forleo delle pressioni esercitate dai politici coinvolti nelle intercettazioni (...). Il realtà mi riferivo a fatti accaduti fin dal 6 giugno 2007, di cui non avevo parlato con la Forleo, quando ci fu una riunione nella stanza del capogruppo Anna Finocchiaro dell'Unione, nel corso della quale era sopraggiunto anche il ministro Mastella, sollecitato dagli altri convenuti (Calvi, Latorre e altri) a un’ispezione ministeriale presso il Tribunale di Milano. Il ministro, inizialmente, aveva rifiutato di disporre l’ispezione, perché pensava di dover attendere le determinazioni dei presidenti delle Camere. Successivamente ci furono reiterate accuse, prima di illegittimità, poi di abnormità, soprattutto da parte dei legali degli esponenti dei Ds (...)».



I consiglieri del C.S.M. iscritti alla corrente Movimento per la Giustizia hanno emesso un comunicato a commento della sentenza del T.A.R.. In relazione a quanto sostenuto in quel comunicato, ho scritto un seguito a questo articolo, dal titolo “Il Movimento per la Giustizia, il potere e la legge”, che può essere letto cliccando sul titolo.




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