domenica 26 ottobre 2008

Imputato, avvocato, giustizia




di Gioacchino Bàrbera
(Avvocato del Foro di Bari)




Un mio articolo – “Il cantiere per la giustizia: in Sardegna. Ovvero, del ruolo dell’Avvocatura” – ha dato luogo a un ricco e interessante dibattito sui doveri dell’avvocato.

Riconsiderando alcune delle osservazioni che mi sono state rivolte, ho elaborato altre riflessioni, che mi permetto di offrire ancora al dibattito.

Premetto a tutto che:

A) sono un avvocato civilista (nei miei 31 anni di professione avrò partecipato a 6/7 processi penali);

B) esprimo mie opinioni che si basano, ovviamente, su ciò che conosco (sempre poco) del diritto, senza pensare nemmeno lontanamente che siano incontrovertibili.

Aggiungo che lo spazio di un articolo pubblicato su un blog è limitato e questo provoca spesso la compressione di concetti e passaggi vari, l’uso di termini impropri (perché quelli appropriati richiederebbero ingombranti chiarimenti) e plurime semplificazioni.

1) Uno dei problemi sollevati nei commenti al mio precedente post e, direi, maggiormente sentito è quello se l’avvocato che è a conoscenza della colpevolezza del proprio cliente deve rifiutare l’incarico o, se lo accetta, è tenuto ad informarne i giudici.

L’argomento che intendo affrontare è questo e deve essere ben chiaro che non prendo in considerazione il rapporto cliente-avvocato perché ritengo abbia prevalentemente caratteri privatistici, mentre quello oggetto di questo mio articolo ha indubbiamente connotati pubblicistici, quanto meno allorquando l’avvocato partecipa ad un processo.

Non mi soffermerò nemmeno su questioni concernenti solamente l’avvocatura e la c.d. “zona grigia” in cui si ritiene sia caduta. Finirei inevitabilmente col provocare ulteriori confusioni. Di tutto questo si potrà eventualmente discutere in separata sede.

È opportuno in primo luogo sgombrare il campo da un equivoco di fondo. Ci dobbiamo domandare se il comportamento dell’avvocato che difende un imputato “colpevole” del reato contestatogli è lecito o illecito alla stregua del diritto vigente, non se è moralmente riprovevole.

La diversità di questi due piani appare evidente già per il fatto che nel campo della morale non esistono imputati, difensori e giudici.

In secondo luogo, occorre tener presente che il processo non mira a stabilire se un soggetto è un delinquente. Anche il delinquente “abituale” può non aver commesso lo specifico reato per cui è stato rinviato a giudizio.

2) Ciò premesso, sintetizzo in poche parole quello che mi sembra sia il principale punto debole della stragrande maggioranza dei commenti che ho letto: la manifesta tendenza a dimenticare che i procedimenti giudiziari sono governati da regole dettate da norme costituzionali, codici, leggi, regolamenti ecc.

Si può ritenere che queste regole siano sbagliate, ma fin quando ci sono devono essere rispettate.
Il potere di modificare o capovolgere le regole vigenti in un certo momento storico spetta soltanto al legislatore; non ai magistrati e, tanto meno, agli avvocati.

3) Il modello di processo penale introdotto nel 1989 è quello c.d. accusatorio che ha sostituito quello c.d. inquisitorio previgente.

Nel processo coesistono tre figure: la pubblica accusa (rappresentata dal pubblico ministero), la difesa e il giudice.

Nel modello accusatorio la pubblica accusa non ha alcun privilegio rispetto alla difesa. La “lotta” si svolge ad armi pari.

Il P.M. deve provare che l’imputato è colpevole del reato addebitatogli; l’avvocato ha il dovere di difenderlo.

Il giudice (terzo rispetto a queste due parti processuali) pronuncerà alla fine del processo la sentenza che non può essere il frutto di suoi personali convincimenti di qualunque tipo, ma deve anch’essa rispettare precetti legislativi, sostanziali e processuali.

Il P.M. è un magistrato, ma non per questo deve essere sempre creduto. Non può sicuramente limitarsi ad affermare che l’imputato è colpevole ed a chiedere che gli sia comminata una sanzione. Deve provarlo facendo uso dei mezzi e strumenti vari indicati nelle norme processuali. Può benissimo accadere (ed accade spesso) che con le “carte processuali” a disposizione il P.M. non riesca a dimostrare che l’imputato è colpevole.

In moltissimi commenti al mio precedente articolo questa eventualità non viene nemmeno lontanamente presa in considerazione. Per quale motivo? Perché si ritiene che l’avvocato che difende un cliente che sa essere colpevole deve fare soltanto una cosa. Indossare la toga, mettersi in piedi e dire: “giudice l’imputato mi ha confessato di essere colpevole e chiedo perciò che, tenendo conto delle possibili attenuanti; sia condannato alla pena di ……”.

Se questo accadesse a cosa servirebbe il P.M.? A cosa servirebbe il processo che comporta l’esame dei documenti prodotti, l’assunzione di testimonianze, lo studio delle relazioni dei periti, ecc.) A nulla. Per giungere alla condanna basterebbero dieci minuti.

Ad esempio, il reato di omicidio volontario è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno e la pena applicabile può salire sino all’ergastolo se ricorrono le circostanze di cui all’art. 576 c.p. L’avvocato dichiara che il suo assistito è colpevole del reato. Al momento della pronuncia della sentenza, i giudici non dimenticano che sono stati aiutati dal difensore dell’imputato e contraccambiano il favore ricevuto condannandolo (anche se probabilmente avrebbe meritato l’ergastolo) al minimo della pena: 21 anni di reclusione.

Esaurito questo processo, i giudici si accingono a chiamare quelli successivi, ma prima di farlo si consultano un minuto e convengono sulla opportunità che nell’aula siano si presentino soltanto i difensori dei vari imputati negli altri processi per porre questa semplice domanda: “scusi avvocato, per caso lei sa che il suo assistito è colpevole?”. Se l’avvocato risponde affermativamente, fanno redigere al cancelliere un verbale di quattro parole: “dinanzi a noi giudici della prima sezione penale del tribunale di … sono comparsi il P.M. ed il difensore dell’imputato. Quest’ultimo ci informa che il suo assistito è colpevole e lo conferma sottoscrivendo l’apposita dichiarazione. Ciò premesso, visto che per il reato contestato è prevista la pena della reclusione da un minimo di 5 ad un massimo di 10 anni, considerato che l’avvocato XY non ci ha fatto perdere tempo a celebrare il processo infliggiamo all’imputato il minimo della pena”.

Che bello! Abbiamo scoperto il modo per risolvere il gravissimo problema della mostruosa lentezza dei processi. Coloro che hanno affermato che l’avvocato cui è nota la colpevolezza del suo cliente è tenuto a riferirlo ai giudici saranno di sicuro soddisfatti.

Superfluo dire che ho volutamente esagerato. Ma è questo – nella sostanza – il risultato cui si giungerebbe se si dovesse dare ascolto ai sostenitori della tesi che l’avvocato consapevole della colpevolezza del suo cliente è tenuto a comunicarlo ai giudici.

4) Passiamo alle cose serie.

L’art. 111 della Costituzione stabilisce, nel primo comma, che “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.

Non mi pare che possa ritenersi “giusto” un processo in cui il difensore dell’imputato si arroga il diritto di far condannare il proprio cliente.

Nessuna disposizione di legge impone ad un avvocato di non assumere la difesa di un imputato che sa essere colpevole.

Salvo sempre possibili errori, nel nostro ordinamento esiste soltanto una norma (di legge) che disciplina il comportamento del difensore nel processo. È l’art. 88 del c.p.c. che così stabilisce: “Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità”.

Lealtà e probità non significano verità. Oltre alle tante sentenze che l’hanno affermato, una (ennesima) conferma si può trarre dalla constatazione che nel disegno di legge governativo che contiene il progetto di riforma del codice di procedura civile era prevista l’aggiunta all’art. 88 di un terzo comma così formulato: “Le parti costituite debbono chiarire le circostanze di fatto in modo leale e veritiero”.

Il testo approvato dalla Camera ha eliminato questo comma e l’art. 88 c.p.c. è rimasto immutato.

La legge non impone, dunque, al difensore di dire la verità. Non gli vieta — ad esempio — di astenersi dal depositare un documento da cui scaturisce la prova della colpevolezza dell’imputato.

La Corte di cassazione ha costantemente affermato (si vedano, fra le tante, Cass. pen 14 febbraio 2006, n. 12182; Cass. penale 30 settembre 2003, n. 44743; Cass. pen. 26 marzo 2003, n. 23916) e l’ha ribadito anche la Corte Costituzionale (da ultimo nella decisione del 26 novembre 2002, n. 485) che nel processo penale vige il principio “nemo tenetur se detegere” in virtù del quale si esclude che l’imputato sia obbligato a compiere atti che possano danneggiarlo.

Mi sembra del tutto ovvio che se l’imputato non ha questo obbligo, a maggior ragione non lo ha il suo difensore che non può sicuramente trasformarsi in accusatore. A tacer d’altro, incorrerebbe nel reato di infedele patrocinio, severamente punito dall’art. 380 cod. pen..

Per concludere sul punto, il difensore dell’imputato colpevole del reato addebitatogli non commette alcun illecito se sostiene che (alla luce degli elementi probatori esistenti) è innocente.

5) In alcuni dei commenti al mio precedente post si osserva, esplicitamente o implicitamente, che il suddetto dovere del difensore discende dalla funzione del processo di accertare la verità (storica) di un determinato fatto.

Nessuno lo nega, ma occorre intendersi. Il giudice non può pronunciare una sentenza dicendo “secondo me la verità è questa”.

La legge gli impone l’obbligo di motivare la decisione presa e per tener fede a quest’obbligo deve prendere in considerazione soltanto gli elementi probatori che emergono dalle “carte processuali”.

Non può — ad esempio — dire nella sentenza “l’imputato non ha fornito alcun alibi della sua assenza dal luogo del delitto, ma cionostante io sono convinto che l’aveva e perciò lo assolvo”.

Non può scrivere — sempre ad esempio — che “ricorre il reato di truffa sebbene non sia stata dimostrata l’esistenza degli artifizi o raggiri che l’art. 640 c.p. considera essenziali per configurare il reato in questione. Sono certo che questi elementi ricorrevano; anche se il P.M. ha dimenticato di provarne l’esistenza”.

L’accertamento della verità (storica) cui tende il processo penale deve essere sempre compiuto tenendo presente soltanto ciò che risulta dagli elementi probatori acquisiti. Se così non fosse si cadrebbe inevitabilmente nell’arbitrio.

6) Un’ultima osservazione in merito a ciò che dice (non solo) Maria Cristina (14 ottobre 2008 20.48): «… il fatto che “nel processo non si tenda alla ricerca della verità” ma all’applicazione di regole astratte “che tengono il posto della verità …”».

Le regole di diritto sono necessariamente “astratte”. Non è pensabile che l’ordinamento detti regole che prendano in considerazione miliardi di fatti specifici. Spetta al giudice valutare se la concreta fattispecie oggetto del processo rientra in questa o quella regola “astratta”.

Vi chiedo una sola cortesia: non ammazzatemi.

25 commenti:

Anonimo ha detto...

E perché dovremmo dopo una così bella lezione?
Grazie!

Anonimo ha detto...

Nessuno desidera ammazzarla, caro Avvocato :)

Sappia, però, che esiste anche un'altra alternativa, oltre a quella che ha riportato ove afferma: "si ritiene che l’avvocato che difende un cliente che sa essere colpevole deve fare soltanto una cosa. Indossare la toga, mettersi in piedi e dire: - giudice l’imputato mi ha confessato di essere colpevole e chiedo perciò che, tenendo conto delle possibili attenuanti; sia condannato alla pena di ……".

E tale alternativa è chiarissima, evidente, lampante, ma assai poco "remunerativa": non denunciare nessuno ma, semplicemente, RIFIUTARE L'INCARICO !

PERCHE' NESSUNO PUO' OBBLIGARE UN AVVOCATO AD ACCETTARE UNA DIFESA PENALE, salvo che si tratti di difesa d'ufficio.

Il problema è tutto lì. E' SOLO un problema di SOLDI, spesso di TANTI soldi, purtroppo !

Poi, una volta intascati i soldi, una valida SCUSA per la propria COSCIENZA la si trova sempre ... ammesso che qualcuno la cerchi ancora, ormai.

Anonimo ha detto...

Non ho ben capito dove vuole andare a parare l'autore del post. O_o

Se a lui sembra giusto che un avvocato difenda il proprio cliente malgrado sia a conoscenza della sua colpevolezza, a me no.

A me sembra una cosa senza morale.
Una cosa veramente disgustosa.

La strenua difesa di un delinquente va sempre a discapito di un innocente (a meno che non si difenda un delinquente citato da un altro delinquente).
Già questo basta e avanza per chiudere il discorso sul nascere e per impedire a chiunque di arrampicarsi sugli specchi insaponati nel tentativo di mascherare un classico caso di avidità forense.

Il diritto alla difesa...il giusto processo...
Ma cosa c'è di giusto nel sapere che uno è colpevole e fare di tutto per non farlo andare in galera?

Luciana

Anonimo ha detto...

Gentile dott. Barbera,
innanzitutto la ringrazio per aver mantenuto la promessa e dato avvio ad una profonda riflessione su un caso che ritengo profondamente rilevante per l'efficienza del sistema giustizia, io ero infatti tra i maggiori richiedenti di intervento, e proprio sul punto da lei affrontato (l'obbligo di dire la verità da parte dell'imputato e del suo difensore, non il rapporto cliente-avvocato, su cui si può aprire eventualmente una discussione in altri post).

Mi preme sottolineare (come avevo già fatto di là) che sono una profana completa, di quelle che non solo non fanno parte degli "addetti ai lavori", ma addirittura che non hanno mai avuto finora (per fortuna) problemi con la giustizia.
Lungi da me, dunque, pretendere di avere ragione e di contestare le vostre (di tutti) esperienze giuridiche.

Tuttavia la mia condizione di essere pensante mi impedisce di assorbire ogni cosa senza elaborarla e -pur con tutti i miei limiti- ritengo (forse sono troppo presuntuosa?) di essere in grado di fare ragionamenti abbastanza lineari, basandomi su elementi certi (altrimenti a poco varrebbe essere lineari, no?).
Pertanto la prego, non se la prenda, ma non riesco a non rispondere che no, ho paura che non ci siamo. Non con il risultato dell'analisi, quanto con il metodo e il contenuto.
Io non la voglio ammazzare (lungi da me, non ne avrei il coraggio e nemmeno mi permetterei se l'avessi), prego lei in ogni caso di non ammazzare me se dovessi risultare fuori dai suoi parametri.

Nello specifico:

1- lei scrive "È opportuno in primo luogo sgombrare il campo da un equivoco di fondo. Ci dobbiamo domandare se il comportamento dell’avvocato che difende un imputato “colpevole” del reato contestatogli è lecito o illecito alla stregua del diritto vigente, non se è moralmente riprovevole".
Mi spiace ma non sono d'accordo. Infatti alla stregua del diritto vigente tutti i suoi ragionamenti filano lisci come l'olio, e in effetti applicando le norme non potrebbe essere diversamente. Se ricorda bene però nell'altro post si richiedevano interventi in materia proprio alla luce di "norme, regole o leggi, diritto vigente insomma" che non appaiono né giusti né utili alla giustizia. Le leggi vengono fatte dagli uomini e, come tra l'altro questi tempi illustrano bene, non sempre si tratta di uomini giusti, onesti e capaci. Per tanto non si può pretendere che lo siano le leggi.
Appurato il fatto che una volta esistenti le leggi devono essere applicate (su questo siamo tutti d'accordo, e lo sottolineo), ci si chiedeva infatti se non fosse il caso di cambiarla questa regola, perché non sembra (ai miei occhi quantomeno) né giusta né utile.

2- appurato il contenuto di cui si stava parlando, veniamo ai dettagli.
Il fatto che l'imputato e il suo avvocato difensore abbiano il divieto di mentire, financo sulla stessa colpevolezza in questione, non mina il principio del giusto processo, anzi lo rafforza. In effetti per essere davvero ad armi pari, così come è fatto divieto al PM di mentire consapevolmente e di produrre prove false non capisco perché si consideri paritario un processo in cui questo sia consentito alla controparte.
Inoltre la scena da macchietta del giudice che convoca solo i difensori i quali ammettono la colpevolezza dei propri assistiti è inverosimile poiché nessuno ha proposto di cambiare le regole sulla produzione delle prove (che restano necessarie, e ci mancherebbe), ma solo sulla possibilità di mentire sapendo di mentire, dopo che (nel caso in questione) si è anche commesso un reato (caspita: ma non dovrebbe configurarsi un depistaggio delle indagini????). Per tanto i processi non finirebbero in due minuti, poiché il giudice avrebbe comunque l'obbligo di accertare le prove dell'accusa e quelle della difesa (se non sbaglio esistono già delle misure da adottare per verificare che le confessioni e le "soffiate" siano veritiere e non indotte, o no?). L'unica differenza che si avrebbe sarebbe quella di avere anche avvocati difensori ONESTI, poiché se si dovesse scoprire che sapevano della colpevolezza del proprio assistito pagherebbero per complicità (in fin dei conti all'assistito non si tolgono tutte le armi -e badiamo bene, non sono armi di difesa ma d'attacco quelle che gli consentono di mentire sulla propria EFFETTIVA colpevolezza-, basterebbe che continuasse a mentire all'avvocato difensore...).
Infine lei scrive "non mi pare che possa ritenersi “giusto” un processo in cui il difensore dell’imputato si arroga il diritto di far condannare il proprio cliente". Scusi ma qui nessuno si arroga nulla. Non si tratta di far condannare nessuno ma di DIRE LA VERITà, PER LO MENO QUELLA DI CUI SI è A CONOSCENZA! Se questo poi comporta una condanna beh, è una conseguenza, ma non è la causa dell'atteggiamento dell'avvocato difensore. In fine dei conti chi commette un reato lo fa sapendo di farlo, e poteva benissimo pensarci prima se non voleva essere condannato. Altrimenti il sistema giustizia non cerca più la giustizia vera, cioè la tendenza al rispetto delle regole, ma porta ad un sistema in cui i più furbi possono violarle, gli altri no. Si obietterà: è così che va il mondo. Beh ma le regole non vengono scritte per cambiarlo il mondo, per disciplinarlo? Perché se devono costituire una semplice istantanea dell'andamento assodato delle cose a che servono? Tanto vale abolirle tutte e tornare alla legge della giungla (ognuno fa quel che vuole).
Da ultimo tutte le sentenze che lei cita non sono altro che l'espressione di norme esisteti applicate correttamente, ma nessuna di loro si pronuncia su ciò che è l'oggetto in questione qui: cioè se siano giuste o meno quelle leggi, e se cambiarle non contribuirebbe ad avere una giustizia più efficiente e più giusta, corretta. Cosa che non comporterebbe affatto (coem lei fa credere) a scrivere nelle motivazioni "non abbiamo le prove ma crediamo che sia così".

Per concludere: che le regole debbano essere astratte è ovvio e pacifico, ma ciò che intendeva Maria Cristina (e altri di noi con lei) non è che non lo dovrebbero essere, bensì che dovrebbero essere indirizzate verso una ricerca della verità reale dei fatti attraverso la produzione di prove, non verso una ricerca "astratta" di prove che poi porti alla realtà, poiché questa non è e non può essere la logica conseguenza di quelle.

Sempre cordialmente, lieta della discussione, sperando di aver contribuito e non stancato.
Silvia.

Anonimo ha detto...

"...reato di infedele patrocinio, severamente punito dall’art. 380 cod. pen.."
In tal senso non credo che esista un solo caso.
E nel caso di inadempienza sia contrattuale che deontologica denunciata non mi risulta che ci siano state "severe punizioni", io penso che siano semplici messe in scena da archiviare.
S'immagini poi nel caso si tratti d'avvocato d'ufficio! Grazie comunque per il forbito contributo, istruttivo e chiarificante. Cordiali saluti Mauro C.

Anonimo ha detto...

Aggiungo altre due brevi considerazioni, per chiarire ogni possibile equivoco:

1) L'avvocato è un LIBERO PROFESSIONISTA, che NON HA - a priori - il "DOVERE" di assumere alcuna difesa !

2) Soltanto DOPO aver accettato l'incarico conferitogli dal cliente nasce per l'avvocato il dovere di difenderlo, sempre, però, nel rispetto della VERITA' e SEMPRE con la facoltà di RINUNCIARE, in qualsiasi momento, all'incarico ricevuto.

E' evidente, pertanto, che se l'avvocato SA che il proprio cliente è colpevole e collabora per sottrarlo alla giustizia e alla pena, si aprono due ipotesi:

1) O l'avvocato commette anche degli illeciti disciplinari (cfr. l'art. 14 del Codice Deontologico) e financo penali, nel qual caso sarà un avvocato indegno di indossare la toga,

2) Oppure l'avvocato non commette alcun illecito, nel qual caso sarà "tollerato" dall'ordinamento per la pura e SUPERIORE NECESSITA' di garantire la LIBERTA' della difesa. Ma esser "tollerato" dall'ordinamento non vuol dire esser nel giusto o, peggio ancora, costituire un esempio da seguire, qualunque morale l'avvocato abbia.

E solo SE NON HA MORALE ALCUNA, come purtroppo molti soggetti al giorno d'oggi, potrà farsi beffe di questa e "cavillare" sul fatto che "la legge lo permette", per intascare tanti bei soldini ...

Si potrebbe anche discutere su quale valore abbia una società che consente a persone senza alcuna morale di intraprendere con successo la carriera forense, ma questo sarebbe un discorso troppo ampio. Meglio restare in argomento e fermarsi qui.

P.S. - Onde prevenire scontate obiezioni è opportuno chiarire che ricordo ancora bene la prima lezione di diritto privato e la distinzione fra morale e diritto; solo che quelli che ho esposto non sono argomenti strettamente "giuridici" ... norme civili, penali e deontologiche a parte !

Anonimo ha detto...

Una cosa cui non avevo fatto caso (né cenno nella mia lunga risposta) ma che giustamente è stata sollevata: l'avvocato ha la facoltà di rinunciare alla difesa.

A parte il fatto che gli avvocati d'ufficio no, e se tutti gli avvocati "professionisti" rinunciassero in presenza di colpevole conclamato agli avvocati d'ufficio che diciamo? Siccome tu non puoi rifiutarti ti è permesso dire bugie e sostenere l'innocenza del tuo assistito anche se sai che è colpevole?

Qui si passa da un estremo all'altro.

Proprio per quanto ho detto nel mio commento delle 23.59 il processo non si chiude con la confessione. Occorre provare comunque che l'imputato è colpevole (ad esempio che la confessione non sia "forzata", "viziata").
Prove ne occorrono lo stesso. Poi il PM potrebbe avere un'idea del delitto più grave di quello che è stato in realtà e che al'imputato è concesso confessare secondo verità (PM: "l'ha ucciso volontariamente e ne ha martoriato il corpo!", difesa: "l'ho ucciso per errore e ho cercato di soccorrerlo ma in quel momento passava un tir e non ho fatto in tempo a spostarne il corpo!").
Anche i colpevoli hanno diritto ad una difesa, a che il giudice non dia pene "troppo pesanti" ma giuste ed equilibrate rispetto ai reati, perché non venga trattato in maniera discriminatoria, ecc.

Quindi la soluzione -a mio parere- NON E' "rifiutino gli incarichi se sanno che è colpevole". Questa non è morale, ma giustizialismo.
La soluzione è "accettino gli incarichi e difendano da ingiustizie di ogni tipo i loro assistiti, garantendo loro un giusto processo, non appiattito sull'accusa, ma siano costretti anche legalmente e deontologicamente a dire la verità, a produrre prove vere, non veritiere".

Spero si sia capita la differenza, Silvia.

Anonimo ha detto...

Scusate, ho commesso un errore nell'ultima riga del mio precdente post: intendevo "verosimili" con quell'ultimo veritiere. Cioé: "siano costretti anche legalmente e deontologicamente a dire la verità, a produrre prove VERITIERE, non VEROSIMILI".

Silvia.

wberlino ha detto...

Consentitemi una ipotesi estrema: il difensore di un uomo accusato di avere rapito qualcuno, continua a proclamare l'innocenza del suo cliente, pur sapendo che l'ostaggio sta morendo di fame e di sete in una grotta di cui conosce l'ubicazione. Questo avvocato, certamente non responsabile del rapimento, diventa complice dell’omicidio?
Non si tratta poi di eventi così rari: ci sono casi di operazioni criminali (truffe di banche non proprio “etiche”, e cose simili) che per realizzarsi pienamente hanno bisogno di una decisione della magistratura. Se si può documentare (dopo la sentenza definitiva, e troppo tardi per la vittima) che l’avvocato del truffatore aveva da sempre la prova della colpevolezza del suo assistito, questo avvocato meriterebbe essere considerato “bravo e da imitare” o “corresponsabile del reato?”.
E cosa dovrebbe fare, se ne venisse a conoscenza, l’Ordine professionale competente?

Anonimo ha detto...

A Silvia vorrei brevemente dire che GIA'ORA gli avvocati sono OBBLIGATI anche dal Codice Deontologico, ed espressamente, a non fare "carte false".

E per quanto riguarda l'avvocato di ufficio, anche lui, come gli avvocati di fiducia, è soggetto a questo principio.

Anonimo ha detto...

E che differenza c'è tra "non fare carte false" e "non dire il falso" (o ancora "non nascondere carte vere")?

Se non c'è differenza non capisco in cosa dovrebbe aver ragione chi ha sostenuto (lo stesso Barbera autore dell'articolo) che per legge imputato e difensore possono dire il falso, se c'è differenza, di grazia, spiegatemela...

Grazie, Silvia.

Anonimo ha detto...

Per la gentile Silvia riporto un estratto del Codice Deontologico, Principi Generali, art. 14:

"Art. 14 – Dovere di verità.

Le dichiarazioni in giudizio relative alla esistenza o inesistenza di fatti obiettivi, che siano presupposto specifico per un provvedimento del magistrato, e di cui l’avvocato abbia diretta conoscenza, devono essere vere e comunque tali da non indurre il giudice in errore.
I. L’avvocato non può introdurre intenzionalmente nel processo prove false. In particolare, il difensore non può assumere a verbale né introdurre dichiarazioni di persone informate sui fatti che sappia essere false".

Ne segue che il difensore NON PUO', volontariamente, dire il falso !

E anche se in concreto molti possano scientemente e spudoratamente mentire, come si vede nei telefilm americani, ciò non vale, comunque, a rendere lecito tale comportamento.

Anonimo ha detto...

@ Anonimo delle 19.22

Ottimo: il che significa che l'avvocato non può dire che il proprio assistito è innocente sapendo che è colpevole.
Questa è la soluzione di tutto?
Allora tutto quanto scritto sopra (sulla non obbligatorietà della dichiarazione di colpevolezza) da dove viene? Sono delle norme in contrasto tra loro o è stata una cattiva interpretazione del diritto da parte del dott. Barbera?

Nel suo post il dott. Barbera afferma che:
"Salvo sempre possibili errori, nel nostro ordinamento esiste soltanto una norma (di legge) che disciplina il comportamento del difensore nel processo. È l’art. 88 del c.p.c. che così stabilisce: “Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità”. [...] La legge non impone, dunque, al difensore di dire la verità. Non gli vieta — ad esempio — di astenersi dal depositare un documento da cui scaturisce la prova della colpevolezza dell’imputato."

E poi:
"La Corte di cassazione ha costantemente affermato [...] che nel processo penale vige il principio “nemo tenetur se detegere” in virtù del quale si esclude che l’imputato sia obbligato a compiere atti che possano danneggiarlo."

A parte il fatto che non capisco in cosa consiste "comportarsi con lealtà e probità" se da tale definizione si elimina l'obbligo di dire la verità... (un po' come dire a chi entra in un determinato luogo: "è fatto obbligo di non sporcare, quindi non c'è nessuna imposizione di togliersi le scarpe sporche di fango prima di entrare. Nessuno vieta -ad esempio- di fare un salto lungo tutta la profondità della stanza per andare a quella successiva, o di camminare sulle mani se si dovesse svolgere qualcosa all'interno della stanza da non sporcare")...
Ma poi se la Corte di Cassazione (e non solo) ha costantemente affermato il principio "nemo tenetur se detegere" (a proposito: il senso l'ho capito ma qualcuno gentilmente potrebbe tradurmelo anche letteralmente, così imparo man mano anche un po' di latino? grazie di cuore) mi sembra che qualche contraddizione ci sia, nel diritto stesso e nella sua interpretazione ufficiale.

Ecco perché ritengo che sia utile un cambiamento a livello normativo, sulla questione.

Silvia.

Ps: mi scuso con la Redazione, dopo aver letto dell'addio (o arrivederci) penso che ogni post in più che scrivo possa essere letto come una mancanza di rispetto verso la posizione presa. Cerco anche di trattenermi... ma magari con calma, quando avete tempo, inserire ancora i commenti di chi vi scrive potrebbe essere un modo per non far morire il blog, anche senza nuovi post. Spero di non essere troppo fastidiosa... non voglio costringervi a fare ciò che non potete, solo che certe cose (specie su un argomento così forte) mi sento ancora di scriverle... spero possiate perdonarmi.

"Uguale per tutti" ha detto...

Per Silvia (commnto delle 2.11)

Gentilissima Silvia,

scriva pure liberamente tutto ciò che vuole. Non abbiamo detto che "chiuderemo qui", ma che non assicuriamo la continuità di prima.

Dunque, scrivete pure ciò che volete - e grazie per quetsa Vostra presenza e pazienza -; noi faremo di tutto per "starVi dietro", scusandoci per quando non ci riusciremo.

Un caro saluto.

La Redazione

Cinzia ha detto...

I codici deontologici fanno ridere fino alle lacrime.

Io per formazione ad esempio conosco quello dei pubblicitari di cui il primo articolo recita così:

La pubblicità deve essere onesta, veritiera e correta.

Non si può neanche commentare tanto è ridicolo...

quindi...che dire...che...
galbani vuol dire fiducia
(coi vermi!!!)

Anonimo ha detto...

Caro avv.La Barbera,ho esitato molto prima di decidermi ad intervenire in merito al suo articolo scritto in risposta al quesito posto principalmente da Silvia . Mi sono decisa alla fine perchè il "non farlo " mi stava procurando sofferenza ed insoddisfazione( Come vede la sto prendendo fin troppo seriamente).
Dei tre quesiti in sospeso lei ha scelto di rispondere subito a quello che potrebbe sembrare il più fortemente suggestivo e coinvolgente.
L'angolo visuale da lei scelto (comprensibilmente)non è quello del giurista ma dell'avvocato come tecnico del diritto.
Voglio essere molto sincera con lei e con tutti i frequentatori del Blog:non solo sono pienmente d'accordo con Silvia quando scrive che "non ci siamo"ma vorrei aggiungere che a "non esserci" sono proprio gli elementi fondanti del processo penale.
Lei scrive che il processo non serve a stabilire se il soggetto è un delinquente . Questo è indubbiamente vero:mira infatti a stabilire se i reati per cui tizio è stato imputato dal PM sono stati da lui commessi e se tizio imputato era nella piena volontà di commetterli .Infatti lei mi insegna che "l'elemento soggettivo del reato"è determinante per la misura della pena inflitta dal giudice. Ma se nel dibattimento emerge che il reato è stato intenzionalmente commesso dall'imputato-e qui parliamo di reati gravi come l'omicidio-il colpevole nel linguaggio del popolo si chiama "delinquente "e "assassino".

Il processo dovrebbe essere appunto quel luogo istituzionale in cui attraverso l'utilizzo di regole astratte di valore universalistico si mira ad accertare la verità sui fatti accaduti nella vita reale ,gli stessi che hanno condotto in tribunale l'imputato . Se così non fosse sarebbe una burletta :un teatrino in cui si finge che esista una verità processuale a sè stante, che può essere opposta alla verità extra-processuale ,quella che riguarda i fatti realmente accaduti che per poter dar luogo al giudizio e alla sentenza devono neccessariamente essere conosciuti e correttamente interpretati ,se si vuole che giudizio e sentenza siano anche "giusti".
Ora è indubbiamente vero che un tizio può aver ammazzato qualcuno e nella realtà processuale essere assolto . Ma in questo caso si dice che "l'ha fatta franca ",non che la realtà processuale gli ha fatto perdere la colpa in quanto omicida.
Lei scrive che nel processo ci sono tre figure :il PM (pubblica accusa),la difesa e il giudice. E' un caso che si sia dimenticato della parte offesa dal reato ,che nel processo può costituirsi "parte civile"?
Non credo sia un caso (non me ne voglia per questo). Infatti in questo disgraziato paese, la parte più debole ,poco tutelata ed esposta del processo è certamente la "parte offesa", che lei infatti neppure menziona(perdoni il tono polemico)
Le figure del processo in realtà non sono tre, ma quattro ,la quarta è la vittima del reato.
L'art. 111 della Costituzione dovrebbe garantire un "giusto processo",giusto non solo per l'imputato ma anche per la "Parte Offesa":questa è la vera e più importante ragione per cui il legislatore dovrebbe limitare l'utilizzo di mezzi fraudolenti che ,messi in campo dal difensore dell'imputato ,col "nobile intento" di patrocinare l'interesse del cliente danneggiano peròl'esigenza di Giustizia della "Parte Offesa".
Nessuno pone in discussione il principio (che è sancito dalla dichiarazione universale dei diritti dell'uomo)"nemo tenetur se detegere", ma il diritto della parte offesa dal reato nel nostro sistema giuridico e giudiziario non è così ben tutelato come invece quello dell'imputato.
Nel nostro sistema giudiziario chi ,per aver subito un'azione criminale , si trova ad essere Parte Offesa può facilmente trovarsi in una posizione di estrema debolezza economica (con tutte le sue conseguenze)proprio in virtù del reato di cui è stata vittima : Al contrario l'imputato ,sempre in virtù dello stesso reato per cui si procede al suo giudizio ,può trovarsi in una posizione di forza economica .
A questo punto vorrei "reintrodurre dalla finestra "il quesito relativo al rapporto contrattualistico cliente -avvocato "cacciato dalla porta ".
La Parte Offesa può costituirsi Parte Civile solo tramite un avvocato .Lei,caro avv.La Barbera ,sa meglio di me che c'è un punto molto critico dell'iter dibattimentale che attiene proprio al momento della richiesta del risarcimento dei danni , il momento delle"Conclusioni",-in linguaggio tecnico-.
Che succede se ,proprio in quel momento decisivo ,-che per il difensore comporta l'obbligo di redigere per iscritto le richieste risarcitorie ,motivandole -,l'avvocato della "Parte Offesa ",viene colto da una "crisi di bilancio "o coinvolto da "accordi sottobanco e rinuncia al mandato?
Si è mai chiesto in coscienza ,caro avvocato ,quanti casi di "infedele patrocinio"mascherati da rinuncia alla difesa della parte offesa, economicamente più debole ,sono stati consumati all'insaputa o semi-coscienza della vittima?
Lei sa meglio di me che se la parte offesa perde la possibilità di "resistere in giudizio"fino alla pronuncia dei danni quantificati dal giudice penale,deve sobbarcarsi l'onere di una causa civile anche se l'imputato viene condannato!
In assenza di una seria disciplina di obblighi contrattuali che impegnino l'avvocato di parte civile ,sanzionandone i comportamenti scorretti ,le colpe professionali e le inadempienze colpevoli,l'avvocato di parte civile può palleggiare come meglio gli aggrada la sua "prestazione professionale"nel processo senza mai pagare lo scotto di un comportamento colpevole( nella sostanza ).
Questa "falla" aperta dal codice di procedura penale proprio nel momento decisivo per il riconoscimento dei danni materiali,consente un gioco sottobanco sulla pelle ,ancora una volta ,della parte offesa.
Se l'attuale processo "Non E'"quel giusto processo voluto dall'art. 111 della Costituzione ,il vero motivo sta nella carenza di tutela reale dei diritti e della dignità della persona offesa. Solo con un serio riequilibrio dei diritti garantiti nel processo alla parte offesa si potrebbe addivenire al "Giusto Processo". Questa possibilità è ovviamente nelle mani del legislatore:non depotenziando il diritto dell'imputato ma rafforzando i diritti di tutela della vittima si può avere un Giusto Processo.
La via maestra sarebbe consentire alla parte civile di resistere in giudizio anche senza difensore.
Qui mi fermo per stasera .....
Mi consenta ,caro avvocato di riprendere domani le mie considerazioni che sono sul momento obbligata a sospendere...Maria Cristina

Anonimo ha detto...

Riprendo il filo del discorso interrotto ieri 3 novembre.
Vorrei concludere questo breve "schizzo" sui problemi tanto più gravi quanto più "nascosti" della Giustizia .Tornando un'ultima volta sulle "Regole del Diritto",lei ,caro avv. La Barbera,scrive che" Le regole del diritto sono neccessariamente astratte". Poi aggiunge "Non è pensabile che l'ordinamento detti regole che prendono in considerazione milioni di fatti specifici". E ancora :" Spetta al giudice stabilire se la concreta fattispecie oggetto del processo rientra in questa o quella regola astratta".La sua prima affermazione è di un'evidenza assoluta: non esiste un diritto senza regole e le regole sono neccessariamente "astratte".
il secondo momento del suo ragionamento sembra invece incomprensibile:è proprio dell'ordinamento del diritto dettare regole che prendono in considerazione "migliaia di fatti specifici",infatti la funzione del giudice è proprio "valutare se le concrete fattispecie oggetto del processo rientrano in questa o quella regola astratta".
Le prime regola astratte prese in esame dal giudice sono però gli articoli del codice penale e civile . Se mi rivolgo ad un Tribunale ,invece di farmi giustizia da solo, è perchè credo e spero che il Tribunale eserciti quella "funzione" o "servizio" che si chiama Giustizia ,mediante l'applicazione di quelle regole "astratte" che consentono a "fatti speficici"di essere giudicati secondo Legge e Giustizia.
Chi mai si rivolgerebbe ad un tribunale per consentire al giudice di valutare se il reato commesso e l'ingiustizia subita rientra in una delle" regole astratte "con cui vengono applicate norme riferite a qualcosa che non sia il Diritto come esplicitato dagli articoli del Codice Penale e Civile( sulla base del quale ha sporto denuncia o iniziato una causa)?
Non mi prenda ,caro avv.La Barbera ,per insolente, ma un diritto che non abbia come cardini la Costituzione Italiana e gli articoli del Codice non esiste .
Nel famoso "Elogio dei Giudici scritto da un avvocato"di P. Calamandrei scrive " Mi convinco sempre di più che tra rito giudiziario e rito religioso esistono parentele storiche molto più strette di quanto indichi la ugualianza nelle parole. Chi conducesse uno studio comparativo del cerimoniale liturgico e delle forme processuali ,rileverebbe nella storia un certo parallelismo di evoluzione:quasi si direbbe che con egual curva ,nelle aule giudiziarie e nelle chiese la religione sia degenerata in conformismo". rimane questo ,fuori da ogni conformismo e meschineria ,il senso più profondo e specifico del rito giudiziario che trae la sua origine dai primordi della civiltà umanità:ripristinare la Giustizia che è stata lesa nella vita reale . Questo è il motivo per cui è non solo giusto ma doveroso processare i criminali nazisti e condannarli, processare i criminali franchisti e condannarli. La giustizia non è materia inerte nella storia dell'umanità ,ma rivela il volto che la società vuole dare al suo stesso futuro. Maria Cristina

Anonimo ha detto...

Caro avvocato La Barbera, il silenzio calato sui due ultimi post di novembre ,può significare che forse l'ho messa in imbarazzo . Ma il fatto che nessuno sia intervenuto, mi fa pensare che gli argomenti addotti e il modo con con cui sono stati affrontati sia stato demotivante o tale da creare difficoltà di risposta.
in tal caso ,mi piacerebbe che qualcuno esprimesse qualche valutazione,di qualunque genere. Maria Cristina

Gioacchino Bàrbera ha detto...

Ho inviato stamattina alcune osservazioni su tutti i commenti al mio post. Per motivi di lavoro ho potuto farlo soltanto oggi.

Anonimo ha detto...

Gentile Maria Cristina,

Le rispondo io, e spero vorrà perdonarmi se mantengo la forma anonima consentita da questo blog.

In breve, vorrei assicurarle che condivido in toto i suoi argomenti, salvo il punto sulla necessità del difensore per la parte civile. Mi creda, è indispensabile: troppi tecnicismi giuridici da affrontare per un profano.

Ritengo anche che lei abbia subito direttamente o indirettamente quello che ritiene un infedele patrocinio. Nel qual caso la inviterei a sceglier meglio i suoi prossimi difensori, anche se mi rendo perfettamente conto che nell'Italia di oggi, dove anche il più ignorante degli ignoranti è diventato avvocato, l'impresa è veramente ardua ...

Cordiali saluti.

Anonimo ha detto...

Caro anonimo del 14 novembre ore 22,50 circa, grazie per avermi risposto . Non so chi lei sia , ma vedo che conosce molto bene la situazione in cui versa l'avvocatura in questa degradata penisola . C'è qualcosa che però lei sottovaluta : l'aver prodotto una tale massa di avvocati-asini ,consente a quelli intelligenti e criminali (o sempliemente in malafede )di manovrare a proprio vantaggio le cordate e cordatine di legali- asini ,sì, ma solo nel diritto e nella correttezza deontologica non certo nel perseguire i propri "affari" , come dimostrano le cronache e ,più spesso la realtà quotidiana . Quanto a me, giunta a questo punto ,credo che definire "ardua " la ricerca di un professionista decente sia inappropriato .. Qui sembra di essere nel "deserto dei tartari"...
Tanto che a questo punto non so neppure se sia appropriato parlare di "infedele patrocinio". Mi chiedo se non sia una strategia da "Piano di rinascita democratica 2":Trasformare medici , avvocati, ingegneri in faccendieri al soldo dei noti signorotti rappresentanti in carica di poteri e poteruculi di vario grado e de-grado.Sta succedendo all'avvocatura quello che è già successo ai medici del Santa Rita di Milano: vengono selezionati sulla base della capacità di eseguire bene gli ordini di fatturato dei "datori di lavoro" che, questo è certo ,non sono i clienti-pazienti dello studio. Ecco perchè mi stò rassegnando all'idea che siano in realtà estinti gli avvocati generosi ed umani ,di cui parla Calamandrei nel suo (per quanto settario e criticabile libro) " elogio dei giudici fatto da un avvocato". Oggi in circolazione troviamo solo quelli che -" se taroccare la verità paga " -riproducono su scala geometrica il "trucco" che ha dato buoni risultati.
La cosa più triste ,almeno per me che subisco le coneguenze di tale situazione è che se uno fa tanto di prospettare la possibilità ,in determinati casi di costituirsi in giudizio senza il "custode" del diritto, cioè l'avvocato,tutti gli addetti ai lavori storcono il naso perchè vai a rompere un tabù che compatta il corporativismo delle categorie . Ma se questo passo, con i dovuti accorgimenti potesse essere compiuto ,sono sicura che qualcosa davvero cambierebbe nel "sistema giustizia "e lo schoc che i maneggioni attuali proverebbero farebbe un gran bene a questo paese così rassegnato ad avvilito. Qualcuno mi dovrebbe spiegare perchè se uno non stà bene di salute può anche decidere di curarsi da sè(magari con le erbe) ,mentre se uno ha dei problemi legali - che possono anche incidere negativamente sulla sua salute-, se non trova "la cura "legale appropriata, deve per forza accettare " la" schifosa zuppa "che passa l'attuale convento dell'ordine e soccombere in ogni caso?
Chiedo scusa se qualcuno potrebbe risentirsi della mio sfogo-riflessione ma mi mi si creda è ben meditato. Maria Cristina

Anonimo ha detto...

@ Maria Cristina. La capisco, profondamente, nella sua ricerca affannosa di trovare una soluzione, o di voler uscire da un circolo vizioso che innesca ricorsi su ricorsi nel vano tentativo di uno sbocco soddisfacente.

"troppi tecnicismi giuridici da affrontare per un profano."
come dice l'anonimo (avvocato, credo) del 14/11/ 22.59.
Infatti, proprio oggi sono stato in tribunale per tentare di rimediare ad un guasto da mancata comunicazione o notificazione, prevista sulla carta.
Il cancelliere addossa la colpa all'avvocato (stavolta d'ufficio, non certo da me scelto, che almeno mi dovrebbe evitare di sentirmi dire che "ho scelto male", in questo caso: e se io l'avessi fatto apposta per testare, da masochista, l'attendibilità di questo istituto del diritto, tanto enfatizzato?)...però poi non ha voluto scrivere l'istanza di "rimessione in termini"...si cerchi un'avvocato (?)...; alle 12,30 non c'era nessuno in giro...il pm anziano usciva, il Pc non era disponibile, una delle 2 seg. del civile mostrava insofferenza (alle 13 si chiude il servizio, "dobbiamo sistemare le carte..."; quali?), stavano immobili, poi arriva un'altro e si siede su tavolo, la prima scocciata esce a farsi una fumata; in un'altra segreteria..."non so, venga lunedì quando c'è l'atra, domani (sabato) facciamo solo l'emergenza...
Circa 8 anni fa per un centinaio di facciate fotocopiate dal fascicolo mi chiesero £ 20.000; alcune illeggibili, altre di uno-due righe… e ci si lamenta della carta e del toner carenti. Ma non è questo –come osava dire Montanelli- “lo scandalo che non fa scandalo nella giustizia”, sono i 18 anni di una causa “civile” con sentenza esecutiva (appellabile: con quale spirito?) di 1° grado: per 2-3.000.000 di lire che per “la moltiplicazione di pene” alla fine di un elenco di 30 voci con a fianco cifre tonde fanno 13.000.000 ai quali vanno aggiunti quelli pagati dalla controparte;
cito 2 delle voci: “versamento bancario (di ché?) 300.000+20.000 più iva”; “richiesta di copie di sentenza esec. (di 6 fogli!) 104.000+40.000 più iva”. Si badi che a distanza di 10 anni (??) l’uno dall’altro 2 giudici (g.i.) avevano ammonito – i 2 avvocati "latitanti" - di cancellare la causa dal ruolo.
È questa la “tecnica” che vantava il giudice Visca (Corr. 22 agosto 2005) che si rifà a Montesquieu?
Quindi non aveva ragione il pres. del Consiglio naz. forense Guido Alpa che, avverso a Tito Boeri, su La Stampa del 24 agosto 2005 dice: “sono i giudici che hanno il potere di scandire i tempi dei processi…”.
O sono gli avvocati – per Tito Boeri - per aumentare le “loro presenze” (spesso fantasme: dico io) per cui “le lungaggini gravano proporzionalmente di più sulle cause di basso valore e su chi ha redditi più bassi”.
Infatti, la mia è costata di più che a Milano (Strehler contro Montanelli circa 7.000.000) o a Roma (Accame contro Caracciolo circa 7.000.000) o a Napoli (Cono Lancuba contro alcuni giornalisti circa 7.000.000) e per 2-3 gradi di giudizio, e trattasi di personaggi di spicco.
Boeri inoltre invitava a facilitare le transazioni, appunto: tre giovani con un assegno in bianco si recano allo studio del vetero avv. fuori distretto (?) e ritornano con una ricevuta (scritta male, in termini e forma: la firma sul bordo inferiore , quasi tagliata!) dalla quale si evince che “transazione” significa l’intera somma arrotondata per eccesso?; è questo “il codice deontologico forense” che il prof. Alpa ostentava nella sua debole “difesa d’ufficio”?
Quei 3 giovani (100 anni in totale), cui è stata carpita la buona fede, mai più varcheranno la soglia di certi ambiti screditati.
Putin prese seri provvedimenti sugli Ordini professionali (e l'"amico" Berlusconi?)...non graditi all’avv. Alfredo Guarino che invitava ad insorgere; in quanto li declassati a testimoni a conoscenza dei fatti.
In Svizzera, un mio amico ha risolto il caso di un cliente insolvente in 15 giorni, e davanti al giudice, con gli avvocati; per lo stesso caso a me non bastati 15 anni; lui ha pagato solo il suo avvocato e ha recuperato l’intera somma, io ho perso tutto e ho pagato il “mio” avv. 10 volte lo svizzero, nonostante che il giudice, che ha esaminato il ricorso, gli abbia dimezzata la parcella: che io, dopo aver anche scritto al pres. dell' "ordine" (2 volte), non ho mai vista!
Stia bene, nonostante.
L'ex pres. delle Camere Penali, Ettore Randazzo, nel suo libretto "La giustizia nonostante" (appunto), confessa dell'imbarazzo di fronte al cliente nel dare risposte convincenti e adeguate a legittime aspettative.

"All'avvocato bisogna contare le cose chiare; a lui poi tocca di imbrogliarle". [Alessandro Manzoni
Mauro C.

Anonimo ha detto...

Mi sembra opportuno tirare le fila del dibattito che si è svolto. E spero che nessuno si senta offeso: la mia intenzione non è assolutamente questa.
Una premessa di carattere, per così dire, generale: il mio intervento prende in considerazione la normativa vigente e, perciò, non quella che si ritiene sia giusta o auspicabile. Il che vale a maggior ragione per un giudice che nel pronunciare un qualsiasi provvedimento è tenuto ad applicare le leggi esistenti: questo giura quando entra nella magistratura.
01) a coloro che ritengono che un avvocato non deve assumere la difesa di una persona che sa essere colpevole e che, qualora lo faccia, il motivo è uno solo: “l'amore per i soldi”.
Proviamo a "ribaltare" il discorso, prendendo in esame il reato di omicidio che tanto colpisce l'immaginario collettivo, come risulta anche da molteplici commenti.
Una persona viene colta "sul fatto", ossia in flagranza, mentre uccide un poveraccio. Questa persona si rivolge ad un avvocato per farsi difendere. Se si dovesse condividere il suddetto modo di vedere, quell'avvocato e tutti gli avvocati italiani dovrebbero rinunciare all'incarico perché è scontato che "l'aspirante cliente" ha commesso il reato. Ne discenderebbe che l'omicida sarebbe costretto a ricorrere ad un difensore d'ufficio. Il che piace a molti soltanto perché è diffusa l’opinione che i difensori d’ufficio sono “simulacri di difensori”. In altri termini, vi piace che un imputato colpevole non sia difeso. Un ragionamento di questo tipo non è soltanto già a prima vista assurdo, ma contrasta apertamente con l'art. 24 della Costituzione.
Dovete inoltre tener presente per un verso che chiunque commette un qualsiasi reato non deve essere necessariamente condannato perché, ad es., può essere non imputabile (v., ad es., artt. 85, 88, 91, 96, 97 c.p.), dall’altro che ogni reato (e quindi anche l’omicidio) prevede una pena massima ed una pena minima. Il difensore dell’imputato che sa essere colpevole può dimostrare che il suo cliente ha commesso il reato, ma non è imputabile; ovvero può mettere a frutto le sue capacità professionali per far sì che, qualora sia ritenuto colpevole, gli sia comminata la pena minima o una quanto più possibile prossima al minimo.
Mi fermo qui. Vi sarebbe molto altro da dire, ma lo spazio è limitato. Aggiungo soltanto una considerazione extra-giuridica. Mi auguro che nessuno insegni ai propri figli, nipoti, ecc. che tutto è governato dai soldi. Verrebbe distrutto il loro futuro.
02) A Silvia 26 ottobre 2008 23.59.
Stiamo parlando di diritto vigente. In questa prospettiva non ci si può chiedere, se è o meno il caso di cambiare le regole esistenti.
Analoga risposta devo dare a Luciana 26 ottobre 2008 23.59. Non stiamo discutendo se sia o meno giusto o sia moralmente riprovevole che un avvocato difenda una persona che sa essere colpevole di un reato, ma se la legge lo vieta.
03) Sempre a Silvia 26 ottobre 2008 23.59. Quando afferma che "per essere davvero ad armi pari, così come è fatto divieto al PM di mentire consapevolmente e di produrre prove false non capisco perché si consideri paritario un processo in cui questo sia consentito alla controparte".
La "piccola differenza" sta nel fatto che il PM è un magistrato. Non si deve inoltre dimenticare che nel nostro processo può definirsi mentitore soltanto chi giura (ad es. il testimone) di dire la verità e non lo fa. L'avvocato non giura di dire la verità.
Quanto al depistaggio di indagini (che si inquadra nel reato di favoreggiamento – art. 378 c.p.) mi limito a riportare la massima tratta dalla sentenza Cass. pen. 21 marzo 2000, n. 7270: "Il difensore di persona imputata nel processo penale può essere responsabile del reato di favoreggiamento a vantaggio del cliente, ipotesi che si verifica in ogni caso in cui l'attività posta in essere dall'avvocato costituisca comportamento estraneo alla difesa tecnica dell'assistito e si identifichi, quindi, in attività che può compiere qualsiasi altro favoreggiatore". L'avvocato che difende un imputato che sa essere colpevole non mente e non depista le indagini.
04) Tralasciando ogni altro rilievo, l'avvocato che non "dichiara" che il proprio assistito è colpevole non può essere accusato di complicità (ossia di concorso nel reato), posto che il suo assistito non è colpevole di alcun reato nemmeno se afferma di essere innocente benché non lo sia.
05) Silvia afferma inoltre che "Chi commette un reato lo fa sapendo di farlo, e poteva benissimo pensarci prima se non voleva essere condannato". Al di là della considerazione che non tutti i reati sono volontari, il "sistema giustizia" (penale) non svolge la funzione di insegnare il rispetto delle regole, ma di condannare chi viene ritenuto (a séguito di un regolare processo) colpevole di un reato. L'insegnamento al rispetto delle regole compete ad altri (genitori, scuola, ecc.).
06) E' impensabile che una sentenza si pronunci sulla "giustizia o ingiustizia delle leggi". I giudici devono applicare le leggi esistenti. L'unico "controllo" su di esse è demandato alla Corte Costituzionale che, peraltro, non può decidere se una legge è "giusta o ingiusta", ma soltanto se è o meno in contrasto con i principi dettati dalla nostra Costituzione. Il potere di cambiare le leggi spetta unicamente al Legislatore.
07) Le regole sono "astratte", non le prove che sono sempre concrete perché attengono agli specifici fatti oggetto di un determinato processo che deve tendere ad accertare la verità, ma non quella assoluta, bensì quella che si può trarre dalle prove acquisite.
09) A Mauro 27 ottobre 2008 1.17
"...reato di infedele patrocinio, severamente punito dall’art. 380 cod. pen.."
In tal senso non credo che esista un solo caso.
Cassazione penale , sez. II, 20 maggio 2008, n. 22702
Cassazione penale , sez. VI, 09 novembre 2006, n. 41370
Cassazione penale , sez. V, 08 febbraio 2005, n. 11951
Cassazione penale , sez. VI, 19 novembre 1998, n. 1410
Cassazione penale , sez. VI, 19 dicembre 1995, n. 2689
10) A wberlino - 27 ottobre 2008 10.20.
Non comprendo. Una cosa è difendere un imputato colpevole, altra è quella di non rendere noto che l'ostaggio sta morendo di fame in una grotta. Quest'ultimo è certamente un suo obbligo. Se non lo fa commetterà un reato. L'avvocato "teme" che andando a raccontarlo il suo assistito sarebbe sicuramente condannato? Quell'avvocato sa benissimo che vi sono modi e strumenti per far giungere la notizia alle autorità competenti.
Riguardo alla corresponsabilità (o complicità o correità) del difensore rinvio a quanto ho detto innanzi.
Quanto alla domanda se quell'avvocato meriterebbe di essere considerato “bravo e da imitare”, mi sembra evidente che questo tipo di valutazione non ha nulla a che vedere con la liceità/illiceità del comportamento dell'avvocato che difende un imputato pur sapendo che è colpevole.
Sul cosa deve fare l’Ordine professionale competente rinvio al punto successivo.
11) Ad Anonimo 27 ottobre 2008 17.22, a Silvia 28 ot-tobre 2008 12.43 e ad Anonimo 28 ottobre 2008 19.22.
Il Codice deontologico detta regole che attengono ai rapporti INTERNI all'ordinamento professionale. L'avvocato che le viola è assoggettabile soltanto a sanzioni disciplinari.
Ma il Codice deontologico non ha lo stesso valore della legge. Un determinato comportamento può essere vietato o imposto da questo Codice, ma a ciò non consegue automaticamente che sia contrario a norme di legge.
12) Fare "carte false" è un modo di dire che appartiene al linguaggio comune. Se si volesse tradurlo in fattispecie giuridiche potrebbe consistere, ad esempio, nella falsificazione di documenti, nel sottrarli al fascicolo d’ufficio o a quello del PM o di una altra parte processuale o agli atti acquisiti dalla polizia giudiziaria. Questo è vietato innanzitutto da norme di diritto (con tutte le relative conseguenze) e poi anche ed eventualmente dal Codice deontologico (con conseguenze differenti).
Completamente diverso è il concetto di «nascondere “carte vere”». La legge non vieta all’avvocato di astenersi dal produrre in giudizio un documento che potrebbe recare pregiudizio al proprio cliente. Il còmpito di dimostrare la colpevolezza dell’imputato spetta al PM che non può di certo pretendere di essere aiutato dal difensore dell’imputato.
Questi concetti non possono confondersi con quello di “dire il falso”, come si deduce da ciò che ho detto al punto 03).
13) A Maria Cristina 3 novembre 2008 21.42 e 4 no-vembre 2008 20.14.
Lei ritiene che a <<"non esserci" sono proprio gli elementi fondanti del processo penale>>. Può anche essere, ma mi sembra inutile ripetere ciò che ho detto in precedenza sulla differenza fra l’essere ed il dover essere.
Il processo penale è il luogo in cui si accerta se l’imputato ha commesso il (i) reato per cui è stato rinviato a giudizio e in questo senso si può dire che è finalizzato a stabilire la verità. Peraltro, il processo non si svolge in forme libere, ma è disciplinato dal codice di diritto processuale che deve essere, ovviamente, rispettato. Se non fosse così, sarebbe del tutto inutile e potremmo tranquillamente gettarlo alle ortiche. La “verità processuale” può non coincidere con quella “extraprocessuale”, ma non per questo il processo si può definire “un teatrino in cui si finge che esista una verità processuale a sè stante”. Nel processo non si finge nulla e non si può pretendere che i fatti siano “necessariamente conosciuti”. I fatti “conosciuti” sono soltanto quelli che emergono dagli elementi acquisiti al processo. E’ ovvio che i fatti accertati devono essere “correttamente interpretati”, più propriamente valutati, ed essi costituiscono il necessario presupposto dell’applicazione di questa o quella norma di legge. Ma non esiste una sentenza “giusta”, a meno che con questo termine non si intenda quello che “il popolo” (nulla di spregiativo) si attende a livello puramente emotivo, senza essere peraltro a conoscenza né delle “carte processuali”, né di tutte le norme che in ciascuna singola decisione vengono applicate.
Altrettanto vale a proposito del comune modo di dire che, ad esempio, l’omicida “l’ha fatta franca”. Art. 27, comma 2°, Costituzione: “L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” e la condanna può essere contenuta soltanto in una sentenza che può essere pronunciata solamente da un giudice.
14) In tutti i processi penali devono necessariamente esservi il PM e l’imputato. La persona offesa dal reato diviene parte del processo non in quanto tale, ma soltanto se si costituisce parte civile.
Questo vale non soltanto nel nostro “disgraziato paese”, ma nella stragrande maggioranza dei Paesi esteri.
Il principio "nemo tenetur se detegere" ossia (a Silvia 29 ottobre 2008 2.11) nessuno è tenuto ad autoaccusarsi, non incide assolutamente sulla posizione della parte offesa che può trovarsi in uno stato di estrema debolezza economica. Tanto è vero che questo principio vale anche se parte offesa è l’uomo più ricco del mondo.
15) Il tema rapporto cliente-avvocato non è stato "cacciato dalla porta". Non l’ho trattato nell’àmbito del mio post soltanto perché le regole che lo disciplinano sono pressoché totalmente diverse da quelle su cui (sollecitato in tal senso da precedenti dibattiti) mi sono soffermato. Se avessi messo insieme i due argomenti si sarebbe creato un vero e proprio caos che non giova a nessuno.
16) Non è sostenibile che le prime regole astratte che il giudice deve prendere in esame devono essere necessariamente quelle contenute nel codice penale e civile. Esistono moltissime leggi speciali che prevedono numerosissimi reati (si è calcolato che sono all’incirca 2000).

Gioacchino Bàrbera

Anonimo ha detto...

Ringrazio l'avvocato Barbera per questo sunto, molto chiaro e preciso. E per aver risposto a noi e aver intavolato con noi un discorso che ritengo oltremodo interessante e utile.

Naturalmente io non mi sono sentita offesa da nulal di quanto è stato scritto qui sopra, e spero di non aver offeso mai nessuno a mia volta, né di farlo ora.

La prego comunque di non volermene, non voglio assolutamente fare polemica né pretendere di avere l'ultima parola o cose simili. Ma nel tirare le conclusioni del discorso non posso non sottolineare quello che ritengo un errore di fondo che ha in qualche modo "viziato" anche il suo ultimo intervento. Prometto che poi non risponderò più, le lascerò (come ritengo sia giusto, almeno in questo caso) il diritto di replica.
Ma lei ha scritto (di nuovo): "Una premessa di carattere, per così dire, generale: il mio intervento prende in considerazione la normativa vigente e, perciò, non quella che si ritiene sia giusta o auspicabile. Il che vale a maggior ragione per un giudice che nel pronunciare un qualsiasi provvedimento è tenuto ad applicare le leggi esistenti: questo giura quando entra nella magistratura."

Sappiamo che questo giurano (e ci mancherebbe!) i magistrati, ma qui (sul blog) non tutti lo siamo, e perfino i magistrati preenti qui non sono tenuti a tener fede a detto giuramento, perché non si sta celebrando un processo, ma discutendo tra liberi cittadini comuni.
E il post che lei ha scritto, che ha dato il via a questa bella e articolata discussione, era in origine la risposta ad una richiesta mia e di altri, nata in seno ad un'altra discussione ancora. E la nostra domanda non era "sulla base del diritto vigente, come si considerano i difensori degli imputati colpevoli?". Bensì "da privati cittadini ed elettori di coloro che detengono il potere legislativo, dati gli aspetti che riteniamo sbagliati del nostro sistema di giustizia perché sia davvero efficace, cosa vorremmo chiedere al Parlamento di cambiare nel diritto vigente perché il sistema giustizia funzioni a dovere?".

E' un po' come chiedere "che ora è?" e sentirsi rispondere "fra poco è ora di cena". Magari è vero, fra poco è davvero ora di cena, sacrosanto. Ma io non so comunque che ora è adesso.

Cordialmente (davvero!), Silvia.

Gioacchino Bàrbera ha detto...

Non perché pretenda di aver diritto a replicare. Ma perchè temo che alla domanda che lei pone, ossia: "da privati cittadini ed elettori di coloro che detengono il potere legislativo, dati gli aspetti che riteniamo sbagliati del nostro sistema di giustizia perché sia davvero efficace, cosa vorremmo chiedere al Parlamento di cambiare nel diritto vigente perché il sistema giustizia funzioni a dovere?" sia pressoché impossibile dare una risposta. E' così ampia che, ammesso - e assolutamnte non concesso - che qualcuno conosca l'intero "mondo della giurisdizione" (penale, civile, amministrativo, lavoro, fiscale, ed altro, nonché i tanti aspetti correlati, ad esempio - il sistema dei controlli, i meccanismi di funzionamento del personale amministrativo, il ruolo dell'avvocatura, l'informatizzazione, ecc.) che una risposta seria potrebbe (forse) darsi scrivendo un volume di almeno 1.000 pagine. Ed allora, o si apre un dibattito su singoli, specifici e delimitatissimi aspetti oppure si discute di "politica legislativa", ma con un taglio che tenga conto degli spazi angusti di un blog. Con pari cordialità. gioacchino bàrbera